antimperialismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

]]>
Preludio ad una più ampia riflessione sulla disfatta afgana e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2021/09/15/prolegomeni-ad-una-piu-approfondita-e-meditata-riflessione-sugli-attuali-fatti-afghani/ Wed, 15 Sep 2021 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68172 di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi [...]]]> di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi insediatosi nella primavera di quello stesso anno, avrebbe decretato il ritiro delle truppe spagnole dal quadrante iracheno.
L’articolo che segue risulta dunque dall’unione dei due testi appena citati, intitolati rispettivamente “Ciò che non si può dire” e “Ancora su ciò che non può essere detto”, con alcuni necessari tagli e minime variazioni oltre all’aggiunta di due note di aggiornamento. Pur riferendosi a fatti correlati alla guerra irachena è parso utile sottoporli all’attenzione dei lettori di Carmilla, anche ad anni di distanza, per riportare l’attenzione sull’autentica trasformazione antropologica e politico-culturale intervenuta in Occidente nella percezione degli avvenimenti bellici e dei conflitti sociali successivamente all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. S.M.]

Di fronte ai fatti più recenti occorre dire l’indicibile, uscire dagli schemi, guardare alla storia futura.
Le immagini tragiche delle vittime, lavoratori e studenti, devono farci riflettere, così come quelle delle manifestazioni contro la violenza e il terrorismo, il cui significato reale potrà essere soltanto quello della difesa e del mantenimento dello status quo mondiale basato sulla supremazia dell’Occidente sul resto del mondo.

Il disordine regna oggi a Madrid e, forse, domani regnerà in Europa1.
Tutti chiedono ordine e democrazia. Indistintamente. Il solco è stato scavato. La strada senza ritorno imboccata.
Non solo, come sarebbe facile pensare, da coloro che hanno colpito le stazioni di Madrid, bensì dallo stesso proletariato europeo ed occidentale più in generale.

Il proletariato o lotta o non è diceva Marx. Oggi non solo non è, non solo spera di ricavare dalla repressione degli altri popoli un proprio miserabile vantaggio, ma è soprattutto vittima del proprio essere imbelle, della assoluta mancanza della propria coscienza di sé, dell’esser venuto meno qui, in Europa, a quelli che, forse un po’ troppo retoricamente, un tempo si ritenevano i suoi compiti storici. Per questo, come le immagini tragiche dei treni carichi di pendolari dimostrano, sarà come al solito il soggetto sociale destinato a pagare il prezzo più pesante della guerra che s’è iniziata e che non ha saputo contrastare. Pagherà di più in termini di vite umane, di crisi economica, di tagli a qualsiasi tipo di libertà d’espressione, opinione, di azione sindacale.

In compenso parteciperà incosciente e gioioso alla nuova Union Sacrée, senza contare che nel disastro infinito che ci attende sarà sempre più facile colpire un treno, un supermercato, un cinema che non la sede di una multinazionale o una base militare.
Ad ogni colpo in compenso si sentirà più offeso dai desperados della terra e più vicino ai suoi reali aguzzini. Ma tant’è, anche la plebe di Roma cadde sotto le spade dei barbari invasori ancora rimpiangendo il pane e il circo che gli venivano offerti dagli imperatori.

E da quando la nobiltà
Iniziò il servilismo ad amare
Iniziò la nobiltà
Con i servi a degenerare

Parafrasando i “Carmina Burana” si potrebbe dire che “da quando il proletariato / iniziò il capitalismo ad amare / iniziò il proletariato / con il capitale a degenerare”.
Quando si afferma, però, che il proletariato occidentale è degenerato non si intende parlare di un processo irreversibile, from here to eternity, ma solamente ed opportunamente segnalare l’enorme distanza che separa ormai una buona parte dei lavoratori salariati non solo dalle teoria rivoluzionaria, ma anche da un modello di riferimento antimperialistico ed anti-capitalistico.

Tale distanza, prevalentemente di carattere culturale più ancor che politico, è dovuta ad una miriade di fattori che sono da individuare in una serie di apparenti garanzie che il capitale sembra aver concesso ai più; alle speranze di gioia e ricchezza che questo ha saputo alimentare anche al di fuori delle promesse riformistiche; alle illusioni basate sulla proprietà privata e sulle sue magnifiche sorti e progressive, che sono state instillate in quella che dovrebbe essere la classe nemica, un tempo per antonomasia, attraverso ogni strumento e mezzo di propaganda politica e mediatica.

Certo ciò che ha funzionato di più è stato l’aver garantito ai più la panza piena e la capa coperta, apparentemente anche alle generazioni future. Che poi si sappia che le cose non stanno esattamente così, non vuol dire che sia facilmente comprensibile dalla maggioranza dei lavoratori e dei giovani occidentali. Gli ultimi trent’anni non sono passati in maniera indolore. Le idee socialdemocratiche e la propaganda del sempre pimpante (quando si tratta di cantare le proprie lodi) capitale hanno lasciato il segno.

E’ questo un fenomeno né raro né sconosciuto: basti pensare allo sciovinismo e al conservatorismo della classe operaia americana bianca nei contesto della guerra del Vietnam. Solo che ora tale fenomeno, grazie ad un trend economico che tra scosse e riprese ha tenuto fino ad oggi lo spettro della fame lontano dalle porte della maggioranza delle famiglie, coinvolge i lavoratori di tutti i paesi più ricchi (USA, Europa Occidentale, Giappone).
Tra ferie, TV, casetta di proprietà e welfare la classe s’è ulteriormente abbruttita, ma senza percepire più quella spinta che dal dramma o dalla festa può derivare: il dramma è lontano ed è festa tutti i giorni (soprattutto in TV).

Ora alcune cose stanno sicuramente cambiando, un’era di guerra e di crisi si è aperta, ma tutto ciò è percepito ancora come un pericolo che deriva dall’esterno della compagine nazionale ed istituzionale.
Non vi è comprensione per i moti degli altri popoli, se non come timore del pericolo rappresentato dalle loro migrazioni o dal loro terrorismo.
Non vi è più contestazione dei governi esistenti che non passi attraverso la prassi democratico-parlamentare o la denuncia del mal funzionamento delle istituzioni e dei governi.

La protesta è troppo spesso forcaiola, dettata da esigenze egoistiche, per di più accecata dal timore di perdere qualche privilegio o diritto, fosse pure quello di schiacciare la maggioranza dell’umanità altra pur di mantenere macchinetta, casetta, partitella, biciclettata salutista e lavoretto.
La scomparsa di un comune linguaggio di riferimento (magari anche solo vagamente classista), di prospettive anche parzialmente collettive, di idee di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, che non si basino soltanto sulla beneficenza e sulla solidarietà di stampo cattolico, e di qualsiasi riferimento alla possibilità, anche remota, di sostituire questo modo di produzione con un altro ha fatto sì che la situazione abbia subito un processo di reale imbarbarimento.

La violenza permea la vita della maggioranza delle famiglie, trasuda nei comportamenti sociali, nei rapporti tra individui e trionfa in quelli tra istituzioni e cittadini2, ma è vietato parlarne in termini politici: tutti sono diventati pacifisti e non violenti.
La sinistra democratica e quella sedicente antagonistica fanno poi a gara nel rimuovere il discorso sulla violenza, nel denunciarlo come il peggiore degli obbrobri, relegandolo tutt’al più ad un passato mitizzato, mistificato e neutralizzato (più o meno lontano: la resistenza, gli anni settanta) come un’icona da esporre durante la settimana santa.
In compenso i valori borghesi della tranquillità, della sicurezza, dell’ordine diventano autentici imperativi categorici.

Le stesse manifestazioni contro la guerra, lo stesso voto (di protesta?) spagnolo degli ultimi giorni avvengono non in difesa del diritto degli altri popoli di giungere ad una propria autodeterminazione nazionale né, tanto meno, per affermare che l’unico nemico che si ha è quello che ogni proletariato ha in casa propria, bensì piuttosto che la guerra e il disordine tocchino anche noi, ledano il nostro diritto alla vita e al benessere. Si protesta non per le sofferenze degli altri, ma soltanto per salvare i nostri ragazzi, a scuola o in divisa.

Tutto ciò pesa come un macigno non sui rivoluzionari, che di fatto non possono nemmeno accampare il diritto ad esistere, ma sulla possibilità di una ripresa classista delle lotte a carattere sindacale e/o internazionale. Non del tutto e per sempre, ma certo per un lungo periodo che solo un tracollo violento della potenza dominante potrebbe abbreviare.

Anche questo però senza reali certezze di sviluppo delle tematiche classiste nel seno del proletariato internazionale, poiché se da un lato quello occidentale si è allontanato da temi che dovrebbero essergli più cari ancora del proprio essere (Marx e Engels dicevano a proposito del proletariato inglese e della questione irlandese che un proletariato che non sa difendere i diritti degli altri popoli non sa e non può difendere neanche sé stesso) e quindi non sa più in qualunque modo appoggiare e consigliare i fratelli d’altro colore, dall’altro i proletari dei paesi oppressi, i dannati della terra, i contadini dei paesi in via di sviluppo o ancora soggiogati dall’imperialismo, non trovando sostegno e risposte nel seno delle metropoli, hanno rivolto la loro fede e le loro speranze verso altre bandiere e altre modalità organizzative.

Per questo si può dire che un proletariato (quello occidentale) che non riesce più a percepire la propria alterità rispetto al capitale è condannato a divenire vittime di sé stesso.
Di fronte ai dannati della terra i proletari occidentali non sono più altro che cittadini occidentali cui viene riconosciuto il diritto di morire come nemici tout-court.
E’ evidente l’imbarbarimento che tutto ciò provoca, la regressione politica a livello nazionale ed internazionale che ne è contemporaneamente causa e conseguenza, e non basteranno poche frasi fatte o slogan a superare questo stallo storico.

Quando tempo addietro si insisteva sulla necessità di intervenire nei movimenti post-Seattle, lo si faceva nella speranza che uno spiraglio si fosse aperto e che permettesse un minimo di propaganda antimperialista, ma Genova ha schiantato tutto: ha separato il grano dalla pula, i buoni dai cattivi. Da un lato oggi abbiamo i teorici del commercio equo e solidale o i vari forum passerella per leaderini e dall’altro una nebulosa variegata di giovani enragés che pencolano tra la galassia dei centri sociali antagonisti, spesso ancora troppo lontani tra di loro a causa di divisioni causate da frattaglie ideologiche che sarebbe bene superare, e l’iniziativa individuale votata alla disfatta. Motivo per cui non esiste più un mare comune in cui sperare di nuotare, ma soltanto una palude piuttosto inquinata e asfittica.

Un pericolo che, infine, si rischia di correre è quello di scambiare la difesa delle posizioni di rendita acquisite da alcuni settori delle classi medie come obiettivo (libertà e diritti individuali) di lotte passibili di conseguenze interessanti. Ma non è ancora giunto il momento della rovina delle mezze classi di cui si parlava in altri testi3 e così si rischierebbe soltanto di contaminare il ben poco che rimane (in termine di significato delle lotte) con richieste giustizialiste e piccolo borghesi spacciate come rivendicazioni per un ancora inesistente conflitto sociale allargato.

(Lettere ai compagni, primavera 2004)


  1. Come avrebbero confermato successivamente i due attentati di Parigi, alla redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio e al Bataclan il 13 novembre, del 2015 e quelli di Barcellona del 17 agosto 2017 – NdA successiva alla prima stesura dell’articolo 

  2. Si legga a tal proposito il bel libro di Michel Warschawski, A precipizio (Bollati Boringhieri, Torino 2004), nel quale l’autore, vecchio comunista internazionalista ebreo, descrive la deriva violenta della società israeliana degli ultimi decenni  

  3. Come la crisi del 2008 e quella successiva e attuale legata alle ristrutturazioni socio-economiche riconducibili alle conseguenze dell’epidemia emergenziale da Covid-19 hanno invece successivamente avviato – NdA successiva alla prima stesura del testo.  

]]>