antimodernità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Storia sociale della bicicletta, tra modernità e antimodernità https://www.carmillaonline.com/2020/06/16/sport-e-dintorni-storia-sociale-della-bicicletta-tra-modernita-e-antimodernita/ Tue, 16 Jun 2020 20:38:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60566 di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007. Ricorrendo ad [...]]]> di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007.
Ricorrendo ad una molteplicità di fonti archivistiche e a stampa, a documenti prodotti dalla cultura popolare, immagini, poesie, racconti e canzoni, l’autore assume come chiave di lettura principale della storia sociale della bicicletta la dialettica tra “modernisti” e “antimodernisti” e indaga gli svariati intrecci tra il mezzo a due ruote e il contesto sociale italiano.

La ricostruzione di Pivato consente di cogliere da un’angolatura particolare alcune importanti dinamiche e trasformazioni dell’Italia contemporanea, dell’immaginario collettivo come della cultura materiale, del costume come della questione di genere, dei soggetti politici come delle figure sociali per le quali il mezzo ciclistico diventa parte integrante della vita quotidiana.
Nel racconto della lunga e affascinante storia delle due ruote, l’autore dà voce anche suoi cantori mostrando «la convivenza e la contaminazione fra cultura alta e cultura bassa» che «costituiscono una delle caratteristiche della bicicletta e della sua declinazione in varie forme»: dagli scritti dei letterati innamorati della bicicletta ai tempi dei “pionieri” agli articoli degli scrittori che seguivano il Giro d’Italia, dai fogli volanti dei cantastorie che narravano le gesta dei campioni alle canzoni di cantautori come De Gregori, Paoli e Conte che hanno rievocato le atmosfere dei tempi di Girardengo, di Coppi e di Bartali.

Tra fine Ottocento e primo Novecento, quando l’ingombrante velocipede viene sostituito dalla più economica e maneggevole bicicletta, le due ruote si diffondono progressivamente trasformandosi da stravagante passatempo per aristocratici a strumento per le passeggiate della borghesia, da esercizio per pochi a bene di consumo popolare, utilizzato da impiegati e operai per recarsi al lavoro.
La pratica ciclistica si carica di significati connessi alla modernità: rappresenta l’ebbrezza della velocità (in bicicletta si possono percorrere 20 km all’ora, contro i 4 a piedi), consente di ampliare l’esplorazione del paesaggio e la conoscenza della penisola, apre nuovi orizzonti fisici e mentali, trasmette un senso di libertà.
Ai ciclofili entusiasti si contrappongono i ciclofobi che condannano il nuovo mezzo. «E l’antimodernità – scrive Pivato – è una categoria dentro la quale stanno gran parte delle motivazioni che si oppongono alla bicicletta. Vi è la paura delle genti di campagna quando vedono per la prima volta il mostro meccanico; così come vi è il timore della chiesa per il ridicolo e la mancanza di decoro cui si espongono i preti che montano le due ruote. Dentro l’antimodernità ci sta anche la tutela della pudicizia che è alla base delle limitazioni e dei divieti posti alle donne. E così pure l’iniziale rifiuto del movimento operaio per la bicicletta considerata “un prodotto del capitalismo borghese”».
Pivato dedica pagine ricche di informazioni, aneddoti e riflessioni agli atteggiamenti contraddittori assunti dagli ambienti ecclesiastici nei confronti della bicicletta, alle istanze emancipatrici che il nascente movimento delle donne attribuisce alle due ruote come alle riserve della scienza e ai pregiudizi dell’opinione pubblica conservatrice nei confronti delle donne in bicicletta, al dibattito interno al movimento socialista tra gli intransigenti “antisportisti” e i fautori di un uso politico del mezzo ciclistico inteso come strumento per diffondere la propaganda e come veicolo di socialità.

In prossimità della prima guerra mondiale, la bicicletta irrompe nella vita militare e nel discorso patriottico. Anche in questo caso, Pivato evidenzia i contrasti che accompagnano l’utilizzo del mezzo. Da un lato, come per i sacerdoti e per le donne, permane un pregiudizio di natura estetica che vede nell’uso della bicicletta il rischio di «mettere a repentaglio la credibilità e il decoro delle forze armate»; dall’altro, si pensa di poter sfruttare a fini militari la velocità e la mobilità delle due ruote.
Ad alimentare l’immagine di rapidità e di efficienza della bicicletta contribuiscono i futuristi che allo scoppio della guerra si arruolano nel Corpo dei ciclisti volontari. Il mezzo non si rivela però adatto ad un conflitto che si configura di posizione, mentre riesce utile in un frangente drammatico come la ritirata di Caporetto perché le due ruote «consentono una libertà di movimento maggiore rispetto a chi si affida a mezzi pesanti come i carri, spesso bloccati dagli intasamenti che la precipitosa ritirata provoca».

Nel ventennio fascista, «la bicicletta diventa uno degli indici più caratteristici della nazionalizzazione del tempo libero del regime». La “Carta dello Sport”, varata nel 1928, affida il compito di dare impulso al ciclismo amatoriale alla Federazione Italiana dell’Escursionismo che organizza convegni, concorsi, gite di massa nell’ambito del Dopolavoro. Le escursioni in bicicletta rappresentano «uno degli strumenti più efficaci della mobilitazione degli iscritti per educare l’italiano “nuovo” attraverso itinerari e mete che devono familiarizzare i partecipanti alla conoscenza della nazione e delle opere del regime. Nelle parate del Dopolavoro, della Milizia e delle Giovani italiane il veicolo a due ruote è una presenza costante».
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la popolarizzazione del mezzo ciclistico è favorita dall’abolizione della tassa di circolazione che entra in vigore nel 1939 nel pieno della campagna autarchica quando la limitazione dei carburanti rilancia l’utilizzo delle due ruote. Ricorrere all’«”autarchico cavallo d’acciaio” diventa, per la possibilità di economizzare il carburante, una delle più significative manifestazioni di adesione agli interessi e ai sentimenti nazionali con l’entrata in guerra dell’Italia».

Come osserva Pivato, «se la bicicletta diviene uno dei simboli dell’”andata verso il popolo” del regime fascista, si trasforma però in uno dei mezzi che più attivamente contribuisce alla sua caduta».
Poiché garantisce rapidità di esecuzione e aumenta le possibilità di fuga, durante la Resistenza la bicicletta è uno strumento determinante per le operazioni militari dei Gruppi di Azione Patriottica che agiscono nelle città. Anche per le staffette partigiane, come si evince dalle storie e dalle testimonianze delle donne impegnate in varie missioni (portare ordini ai compagni, distribuire giornali clandestini, trasportare viveri, indumenti o armi), è fondamentale l’uso della bicicletta. Ricordava una di loro: «Quando optai per combattere in città […] non sapevo sparare […] ma sapevo perfettamente andare in bicicletta». E dal punto di vista simbolico il protagonismo delle staffette rappresenta «una sorta di rivincita postuma delle donne nei confronti della bicicletta il cui uso, qualche anno addietro, era loro precluso o fortemente condizionato».

Lungo il Novecento la fortuna della bicicletta dipende anche dalle grandi corse, a partire dal Giro d’Italia e dal Tour de France.
Agli albori del ciclismo, l’epopea delle due ruote è legata alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure e povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale.
Nella loro evoluzione, le competizioni fanno poi emergere la figura del campione. «Nell’immaginario del Ventesimo secolo – scrive Pivato – il campione sportivo viene a sostituire una delle figure più caratteristiche della cultura classica: quella dell’eroe che non sta più nelle pagine di un romanzo ma sulle strade del Tour e del Giro».
Nel secondo dopoguerra sono anzitutto Gino Bartali e Fausto Coppi i campioni che suscitano le passioni degli italiani. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico Coppi). Nel clima della guerra fredda il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi: «In un periodo in cui il partito democristiano si avvia a divenire egemonico e a emarginare le sinistre dalla vita politica e sociale del paese, le sconfitte che Coppi infligge al “De Gasperi del ciclismo” acquistano, per quanti hanno creato la leggenda di un Coppi comunista, il valore di una sconfitta dell’Italia democristiana».
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista antico come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

L’ultimo capitolo del libro – intitolato “Dalla modernità all’antimodernità” – si chiude con uno sguardo sul rovesciamento di paradigma che ha caratterizzato la bicicletta nell’epoca della motorizzazione di massa e delle crisi ambientali.
«A partire dagli anni Sessanta – nota Pivato – in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e dal decennio successivo, nel periodo della prima crisi energetica globale, quella che all’origine era nata come il simbolo della modernità per eccellenza si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Anzi, diventa la rappresentazione di quello che uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, ha definito “un nuovo umanesimo” diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale».
Ancora una volta, il ruolo della bicicletta e i significati che le vengono attribuiti rimandano a rilevanti passaggi storici, confermando ciò che sosteneva quarant’anni fa Gianni Brera: «Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia».


Sport e dintorni

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Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2020/06/04/lo-spazio-e-il-deserto-nel-cinema-di-pasolini/ Thu, 04 Jun 2020 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60153 di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da personaggi erranti appartenenti a un universo estraneo agli schemi della razionalità capitalista.

Nelle pellicole pasoliniane sembra quasi che sotto lo spazio ordinato e geometrico della borghesia si muova «un magma tellurico, un deserto barbarico e mitico che promana dalle profondità della coscienza dei personaggi. Sembra che lo spazio cereo e geometrico possa essere annullato da un momento all’altro dall’incedere dello spazio desertico, astorico e atemporale, connotato nel profondo dal mito della barbarie.» (p. 11)

Detto che la barbarie in Pasolini assume una connotazione positiva – quasi sinonimo di mitico, puro e primitivo –, la contrapposizione spaziale proposta dal regista riflette quella fra la società industriale e la società arcaica e contadina dello spazio desertico delle periferie italiane o dei deserti africani. Secondo Lago lo spazio desertico messo in scena da Pasolini può essere letto ricorrendo alla definizione data da Gilles Deleuze e Felix Guattari di “spazio liscio”, abitato da comunità nomadi contrapposto allo “spazio striato” della città sottoposto al controllo.

Se la contrapposizione tra rigore urbano e barbarie “periferica” è ravvisabile sin da Ragazzi di vita (1955), Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), è però con Edipo re che, sostiene lo studioso, nel cinema di Pasolini emerge la dimensione di uno spazio desertico rappresentante una forma di società altra e alternativa a quella capitalistica. «La dialettica fra spazi diventa dialettica fra società: da una parte, quella barbarica, arcaica, pura e quindi mitica che, ormai, si può solo trovare nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, dall’altra, quella borghese e capitalistica, precipitata nell’inferno dei nuovi consumi […], connotata da colori smorti e pallidi e da interni rigidi e geometrici.» (p. 17). Il regista esplicita così come a suo modo di vedere, fuori dello spazio borghese che, asservito com’è alla forma merce della società neocapitalistica, impone nelle sue rigidità geometriche “movimenti unidimensionali” e ripetitivi, da catena di montaggio, esista una realtà arcaica, mitica e barbarica che ancora mantiene elementi irriducibilmente estranei alla dominazione del capitale.

Se la pasoliniana contrapposizione tra un (positivo) universo arcaico, mitico e una (negativa) società moderna industrializzata è stata più volte interpretata come reazionaria, secondo Lago si potrebbero invece cogliere in essa analogie con il pensiero di Robert Kurz che ritiene indispensabile, per rompere una volta per tutte con i rapporti feticistici e di dominio del sistema capitalista, optare per una scelta anti-moderna radicale ed emancipatoria che nulla abbia a che fare con i reazionari approcci antiilluministi o antimoderni di matrice borghese-occidentale. L’antimodernità evocata da Kurz, sostiene Lago, «non si allontana molto dall’idea pasoliniana di contestazione della società dei consumi: l’idealizzazione, da parte del poeta, della società e della realtà africana, pur con tutte le sue problematiche sociali e politiche, è legata appunto a una forma di antimodernità, di contestazione radicale dei rapporti feticistici e di dominio.» (p. 105)

Nel film Edipo re, costruito sull’opposizione fra la cultura arcaica e quella moderna, l’ambientazione borghese del prologo si presenta come uno spazio sospeso, in silenziosa attesa di essere divorato «dal deserto avanzante, dal ritmo tribale e ferino che sta per erompere dall’altrove del mito.» (p. 28). L’epilogo della narrazione si concentra invece sulla figura nomadica, perturbante e sovvertitrice dell’ordine urbano e costituito, di Edipo mendicante che si muove in una Bologna che sul finire degli anni Sessanta pare ormai essersi piegata al consumismo. «Edipo viaggiatore non è più contornato dalle folle popolari africane, ma dal mondo del benessere economico degli anni Sessanta, rappreso nelle sue movenze di falsa felicità. […] Edipo insinua, all’interno dell’universo stanziale borghese, il demone del nomadismo e del vagabondaggio: elementi trasgressivi e sovvertitori. Egli è il sovvertitore poeta – portatore di un sacro irrimediabilmente perduto dalla classe borghese – che è giunto dal deserto, da uno spazio antitetico a quello della città degli anni Sessanta, uno spazio che magmaticamente continua a sussistere ad uno strato oscuro e ctonio, pronto nuovamente a fare irruzione nell’ordo geometrico dei nuovi consumi.» (pp. 45-46)

Nonostante Edipo incontri anche il mondo operaio, il suo vagabondaggio nomadico si palesa però estraneo ad esso, situandosi piuttosto a un livello sottoproletario. «Edipo emarginato e vagabondo è un nuovo nomade sottoproletario che attraversa la catatonica società degli anni Sessanta, fino a giungere al luogo della propria nascita.» (p. 46) Il film si chiude infatti in quel Friuli degli anni Venti, ricostruito nel contado lombardo, che assume di certo connotazioni amniotiche e regressive ma, sottolinea Lago, appare anche «irrimediabilmente contaminato dal germe nomadico e sovvertitore portato da Edipo.» (p. 47)

In Teorema «il personaggio sacrale dell’Ospite, quasi un nuovo Dioniso che si insinua nelle spire dello “spazio striato” del potere economico e sociale» (pp. 18-19), si configura come vero e proprio elemento perturbante nel suo farsi portatore del sacro all’interno dello spazio striato desacralizzato della lussuosa dimora dell’alta borghesia milanese. L’Ospite, detentore della medesima valenza sacrale dello spazio del deserto, appare all’interno dello spazio borghese come un elemento distruttivo di quell’universo consacrato al denaro: si presenta come «un sacro che sembra giungere da lontano, da lande desertiche e ferine ed appare incarnato nella figura di un giovane dio ribelle e trasgressore dell’ordine costituito.» (p. 54)

Gli aspetti dionisiaci dell’Ospite sono palesati soprattutto dalla sua presenza fisica e corporea portatrice di un eros capace di modificare la caratterizzazione dello spazio dell’ambiente borghese scardinando la stessa istituzione sociale della famiglia. Si viene così a determinare «uno spazio “ibridato” dal deserto ctonio e terribile, lo spazio barbarico e “liscio” che sta avanzando verso le attonite spazialità “striate” borghesi. È uno spazio fisico che si contrappone all’universo amniotico e regressivo della campagna milanese». (p. 63)

Lago si sofferma sul momento in cui il ricco industriale Paolo, ormai contaminato dall’Ospite, nel suo percorso verso lo spazio deterritorializzato e barbarico del deserto, dopo essere giunto alla stazione di Milano – emblema della meccanizzazione dell’individuo moderno –, si spoglia dei suoi abiti borghesi in mezzo alla folla. Liberatosi ormai dei simulacri borghesi, l’industriale prosegue poi il suo viaggio verso quel deserto che sembra prospettare «una nuova era che si apre sotto i piedi nudi di un borghese che si è distaccato per sempre dalla sua classe sociale, ormai annientata essa stessa. La dimensione fisica del corpo prosegue nell’urlo: quest’ultimo è un’appendice corporea che esprime, di esso, lo stato ferino e selvaggio e, nel contempo, la profonda angoscia annientatrice che ormai ha avvolto la coscienza del personaggio. Fuori dalla catatonia borghese, dalle geometrie e dalle scatole che racchiudono e serrano l’universo della quotidianità dei nuovi consumi, non vi è che deserto e angoscia.» (p. 83)

Anche Porcile è strutturato sull’opposizione di due spazi: agli spazi geometrici e razionali, in quanto tali generatori di mostri, della villa signorile percorsi meccanicamente da esponenti dell’alta borghesia tedesca di fine anni Sessanta marcatamente compromessa col nazismo, si contrappongono le brulle, desertiche, silenziose e sacrali pendici dell’Etna, proiettate in un indefinito medioevo, percorse disordinatamente dal personaggio del cannibale sovvertitore dell’ordine nel suo estremismo portato al limite dell’orrore, che, come una “macchina da guerra nomade”, sembra prepararsi ad aggredire lo “spazio striato” borghese.

Se quello desertico si presenta come uno spazio caotico in costante movimento, solcato dalle eruzioni magmatiche del vulcano e attraversato da un personaggio che sembra provenire dai suoi più profondi interstizi, gli interni della villa borghese suggeriscono un’idea di immobilità. «Se quest’ultima si configura quasi come un monumentale sepolcro che racchiude il pensiero e l’ideologia di una borghesia industriale in ascesa che cova terribili mostruosità nel suo passato, gli stessi personaggi borghesi appaiono come tante marionette che da questa ideologia sono manovrate. Essi, costretti a percorrere linee geometriche, diritte, senza vie di fuga, come geometriche e rigide sono le stesse linee architettoniche della villa, compiono i loro movimenti incanalati in uno spazio “striato” che ne regola i flussi. La disobbedienza è inconcepibile per tale borghesia ed è per questo che il figlio non disobbediente né ubbidiente, ma comunque tacito sovvertitore del suo ordine, si allontana per le campagne compiendo movimenti tortuosi e imprevedibili, correndo, prendendo vie sconosciute alla sua stessa classe sociale ma conosciute ai contadini con i quali […] egli è in sinergia.» (pp. 97-98)

Nello spazio del deserto “medievale” i volti vengono inquadrati con primi piani capaci di conferire loro una plasticità scultorea che sembra quasi staccarli dall’ambiente circostante: questi corpi scolpiti sembrano pulsare insieme al magma tellurico, «sono forme ctonie che, come animali, si muovono in uno spazio libero dominato dal silenzio. Se la parola condannava i personaggi borghesi a gesti ripetitivi, a percorrere cunicoli imprigionanti, adesso, il silenzio e i suoni naturali rappresentano l’eruzione di una fisicità finalmente liberata, trasgressiva e sovvertitrice. Se la parola imprigiona i personaggi borghesi nel ruolo di languide marionette prigioniere di spazi teatrali e cunicolari, il silenzio libera e circonfonde lo spazio di una magmatica dimensione fisica e ferina.» (p. 101)

Nel corso della sua analisi, Lago presta attenzione anche alla contrapposizione linguistica presente in Porcile. La lingua borghese, salvo che in un paio di monologhi, si caratterizza per il ricorso a termini aulici e per una dizione precisa. «I personaggi borghesi sono quasi delle macchine per parlare, delle marionette la cui presenza corporea è annullata e dominata dalla parola: è, appunto, il “teatro di Parola” pasoliniano, in cui la razionalità sonora della voce si eleva su qualsiasi altro aspetto scenico. È parola sepolcrale che si crede viva, è sepolta e prigioniera ma si crede portatrice di illuministica razionalità negli spazi aperti della nuova industrializzazione degli anni Sessanta.» (p. 105) A questo tipo di parola del potere e del dominio si contrappone il silenzio arcaico proprio dell’ambientazione medievale. «Il silenzio dei contestatori è una opposizione al controllo esercitato dal potere sulla stessa parola […] Contestatori totali, essi negano la parola per non essere sottoposti al principio dell’ordine e del controllo, della segregazione che li avrebbe precipitati nei meandri oscuri di una follia e di una prigione, di un supplizio. Il loro silenzio è la loro crudeltà, i loro movimenti e i loro attacchi sono tanti atti di sabotaggio contro un potere che cerca di catturarli ma anche contro lo stesso dominio razionale della borghesia industriale degli anni Sessanta.» (p. 107)

Medea riprende per certi vesti le tematiche dei film precedenti prospettando il conflitto fra il mondo contadino e preindustriale e quello borghese e neocapitalistico. Viene qua messo a confronto l’universo arcaico del mito, del tutto estraneo al moderno pragmatismo borghese, con il mondo razionale di Giasone ormai adulto. Il contrapporsi di uno spazio curvilineo con uno rettilineo sembra sottende un’opposizione fra diverse culture e società.

Le prime inquadrature «mostrano la potente rappresentazione di un paesaggio che, in virtù della sua sacralità, assume anche connotazioni politiche e sociali all’interno della vibrante opposizione che separa Medea e Giasone all’interno del film, opposizione che pone l’uno di fronte all’altro due universi distinti.» (p. 118) Agli occhi di Giasone divenuto adulto, proposto dal film quasi come il prototipo del borghese, lo scenario non appare più come quello divino e sacrale arso dal sole ma assume le sembianze geometriche caratterizzate da spente tonalità pastello, tipiche degli scenari borghesi presenti anche in altri film. Se lo spazio dai colori pastello è ripreso da una macchina da presa rigidamente bloccata, quello desertico, dai colori decisamente più accesi, vede invece il regista ricorrere alla macchina da presa a spalla tremolante. Risulta evidente come tale duplicità stilistica sia funzionale alla volontà di palesare un’opposizione tra mondi e culture che però non mancano di momenti di sconfinamento e ibridazione.

Giunto al cospetto di Medea, che ora si presenta in posizione dominante, Giasone si trova letteralmente in balia del volto segnato dal desiderio di vendetta della donna. «Il fuoco erompe dalle finestre della sua casa lambendo le pietre e sovrastando lo stesso volto della donna barbara ed emarginata: è il fuoco, sacro come quello dei rituali della Colchide, a suggellare, per mezzo del suo magmatico perpetuarsi in una circolarità ctonia, la vendetta della barbara, “primitiva”, irrazionale ed emarginata Medea contro il ricco, razionale, “borghese” e integrato Giasone.» (p. 142)

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