antigiudaismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

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Razzismo: falsa coscienza della modernità occidentale https://www.carmillaonline.com/2020/09/11/razzismo-falsa-coscienza-della-modernita-occidentale/ Fri, 11 Sep 2020 20:30:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62718 di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle [...]]]> di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.

Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.

In altri termini, Burgio esprime il bisogno di un’azione di comprensione “teoretica” del razzismo, che possa fungere da cornice di conoscenza complessiva della sua storia, dalla sua genesi fino alla contemporaneità. Si tratta allora di cogliere le strutture fondanti di quella che Burgio definisce come una «insaziabile fame di discriminazione» (p. 15) che turba la civiltà e la società moderne dal Cinquecento ad oggi, da quando l’Occidente non riesce a «fare a meno di inventare “razze” inferiori e parti infette dei corpi sociali che meritano di essere isolate o amputate». (p. 15)

Una delle tesi portanti di tutto il discorso di Burgio è che tra modernità e razzismo vi siano, per dir così, consustanzialità e consequenzialità: il razzismo è una malattia congenita della modernità e della nostra civiltà. Pertanto, esso va inteso come un fenomeno storico, vale a dire storicamente determinato e la sua storicità coincide con la modernità occidentale. L’autore critica le interpretazioni “metastoriche” del razzismo, che leggendolo come un aspetto congenito della “natura” umana e considerandolo avulso dalla concreta e determinata cornice storica della sua genesi e del suo sviluppo, lo trasformano di fatto in un fenomeno “naturale” e pertanto in qualcosa non solo di inevitabile, ma, alla fine, anche di giustificabile. Lo stesso deve dirsi delle interpretazioni “teologiche”, che, ancora una volta in maniera astorica e “metafisica”, lo leggono come la realizzazione del male assoluto, precludendosi così la possibilità di comprenderlo per ciò che è: un fenomeno storico, prodotto della storia della civiltà umana, insomma un fatto di cultura, non di natura. In quanto fenomeno culturale, il razzismo – spiega Burgio – si configura invece come a) un’organica e specifica struttura discorsiva; b) basata su antropologie di tipo essenzialistico; c) nata tra Sette e Ottocento sullo sfondo dei processi di modernizzazione (definitiva affermazione degli Stati-Nazione, urbanesimo, colonialismo e adozione di politiche imperialistiche, sviluppo dell’economia manifatturiera capitalistica, divisione sociale ed internazionale del lavoro); d) con potenti capacità performative, cioè di produzione di comportamenti collettivi.

Dinanzi ai cambiamenti profondi e sconvolgenti dell’età moderna, l’uomo occidentale ha avvertito il bisogno di nuove granitiche certezze e la ha trovate nel razzismo e nella convinzione incrollabile della propria superiorità essenziale. Molti sono gli intellettuali e numerose sono le opere che hanno posto l’accento sul legame tra modernità e violenza e tra i più significativi Burgio annovera i francofortesi Adorno e Horkheimer con la Dialettica dell’Illuminismo e Zygmunt Bauman con Modernità e Olocausto. Le tesi e le argomentazioni dei due scritti sono troppo note perché occorra qui ripercorrerle, ma entrambe le analisi sono da Burgio giudicate inadeguate, in quanto unilaterali, perciò riduttive e deterministiche. Individuano un solo aspetto della modernità, quasi che fosse l’unica epoca storica ad avere l’esclusiva della violenza e non, al contrario, proprio quella che ha dato il contributo essenziale e decisivo all’elaborazione di principi quali il rispetto della dignità umana, il riconoscimento dei diritti, la ricerca della giustizia, la libertà dell’individuo, insomma proprio quei valori “moderni” che fungono da criteri su cui si fondano i giudizi negativi espressi dai francofortesi e da Bauman sulla “modernità”. La tesi avanzata da Burgio è, potremmo dire, uguale e contraria: uguale, per l’individuazione dello stretto legame che unisce modernità e razzismo (e quindi violenza); contraria, in quanto l’autore ritiene che il razzismo sia nato «proprio perché la modernità non si è mai conciliata con la violenza che la pervade, e che per questa ragione – perché fonte di irrisolti conflitti etici – esige giustificazioni» (pp. 21-22): il razzismo è esattamente questa giustificazione, che permette alla civiltà occidentale moderna di trovare una conciliazione tra il piano intellettuale e teorico dei valori e dei principi che è andata elaborando e quello materiale, concreto, delle forme di violenza, sfruttamento e ingiustizia che ha sprigionato a seguito dei propri processi di sviluppo e di affermazione mondiale. Il razzismo è il lato oscuro della modernizzazione, il prodotto, l’espressione e l’esplicitazione delle sue contraddizioni strutturali.

È sul piano dell’etica, quindi, che l’analisi teoretica dei fondamenti e delle condizioni di possibilità della ragione razzista avanzata da Burgio rintraccia il cuore del problema: il razzismo ha risolto il dilemma etico prodotto dalla natura critica, ossia contraddittoria, della modernità, dalla divergenza tra quanto teorizzato e quanto praticato, tra il piano strutturale dei processi materiali di sviluppo e riproduzione economica e sociale (che hanno causato disuguaglianza, violenza, sopraffazione e sfruttamento) e quello intellettuale e valoriale di una cultura che parallelamente andava codificando i principi di libertà dell’individuo, di uguaglianza tra gli uomini e di fraternità universale. Per reggere il peso di questa palese contraddizione serviva una giustificazione autoassolutoria, un’ideologia adatta allo scopo: il razzismo.

La modernità ha una natura critica (cioè vive di lacerazioni e contrasti) ed è all’interno della contraddizione della modernità che occorre rintracciare la genesi del razzismo. Tra il Cinquecento e il Settecento la cultura moderna ha elaborato e diffuso il principio della “libertà” dell’uomo, inteso come uno di quei diritti inalienabili che tali sono perché naturali, ossia posseduti da tutti gli uomini, propri della sua natura e che pertanto rendono tutti gli uomini uguali; “uguaglianza” che ha senso solo se declinata in termini universali ed estesa a tutti gli esseri umani. Uguaglianza e universalità – dice Burgio – sono «cardini dell’ethos moderno» (p. 23), non di epoche storiche precedenti, fondate su distinzioni e gerarchie sociali essenzialistiche e quindi inattaccabili poiché pensate come – per esempio – parte dell’ordine divino. Con l’Ottocento e il Novecento, poi, la diffusione degli ideali e dei sistemi politici democratici ha ulteriormente sviluppato questo processo. È nella collisione tra principi etici (universalistici ed egualitari) e processi materiali di sopraffazione e sfruttamento che si consuma la tragedia della modernità che ha prodotto il razzismo come soluzione ideologica e come razionalizzazione autoassolutoria.

È la cultura illuministica che fissa definitivamente il binomio «libertà-uguaglianza definito sullo sfondo universalistico, cosmopolitico, dell’universalità» – in sostanza i “principi dell’89” – come cardine della tavola dei valori della civiltà occidentale, ma, al tempo stesso, le modalità della realizzazione materiale del principio della libertà all’interno delle relazioni e dei processi economico-sociali concreti e le dinamiche dei rapporti economico-politici tra l’Occidente e il resto del mondo hanno palesemente contraddetto quella stessa tavola assiologica egualitaria. La libertà è andata realmente configurandosi in termini esclusivamente individuali, particolaristici e privati: essa è la libertà economica dell’individuo della società borghese e capitalistica, che non riesce a trovare un punto di convergenza con il principio dell’uguaglianza. Se la libertà borghese, a seguito delle dinamiche della sua attuazione capitalistica si manifesta come libertà di iniziativa privata, di appropriazione, di imposizione di sé e subordinazione dell’altro, allora essa ripudia ed esclude l’uguaglianza, perché produce disuguaglianze, rinnovate forme di sfruttamento e di esclusione, nuove gerarchie sociali e conseguenti pratiche di sfruttamento e violenza. Se lo slancio e il pieno sviluppo dell’economia capitalistica moderna, mercantile e manifatturiera, determinano sul piano internazionale la corsa imperialistica dell’Occidente alla conquista coloniale e allo sfruttamento di risorse e di popoli lontani, allora il valore universalistico della fraternità si riduce ad una nobile ed elegante parola svuotata di senso.

Sono gli sviluppi stessi del progresso e dell’affermazione dell’Occidente moderno, quindi, che lo conducono di fronte ad una lacerante contraddizione, tutta interna alla modernità stessa: la divergenza tra l’idealità dei valori e la concretezza dei processi materiali, economico-sociali. La libertà borghese si riduce ad essere una libertà formale e giuridica che si regge su nuove disuguaglianze ed ingiustizie, che essa stessa produce, nonostante fosse stata elaborata, sul piano ideale, per sovvertire le disuguaglianze e le ingiustizie feudali dell’antico regime. Si tratta di una contraddizione palese tra ideale e reale, tra valori diffusi e condivisi dal senso comune e comportamenti altrettanto correnti nelle relazioni sociali in genere; un conflitto che ingenera nell’uomo occidentale un disagio morale ed un equivoco etico che richiedono di essere risolti. La disuguaglianza e l’ingiustizia praticate de facto necessitano di una giustificazione de jure, che salvaguardi la tavola dei valori ideali. Il razzismo risponde perfettamente a questa necessità e il caso dello schiavismo coloniale (della tratta dei neri africani, ecc.) è quello più emblematico: trasformare i popoli conquistati o i neri africani deportati in “razze”, renderli diversi ed inferiori in base a teorie (pseudo)scientifiche comporta la loro espulsione dal terreno di applicazione del valore dell’uguaglianza, che può così essere idealmente ribadito e al contempo concretamente e palesemente tradito. Il razzismo, osserva pertanto Burgio, è un potentissimo dispositivo ideologico di giustificazione e di riconciliazione dell’Occidente moderno con se stesso. E per elaborare questo apparato ideologico, la cultura moderna si serve di un altro dei suoi pilastri fondamentali, cioè della razionalità scientifica, ricorrendo ai saperi e alle scienze della vita o inventando nuove discipline, come la craniologia o l’eugenetica e così facendo, attribuisce oggettività, attendibilità e rigore a politiche, metodi e pratiche di sfruttamento, di discriminazione e di violenza.

Insomma, il razzismo è un processo di “razionalizzazione”, intendendo il concetto nel suo significato psicanalitico: è un meccanismo inconscio di difesa che consente la giustificazione e quindi l’accettazione di comportamenti altrimenti psicologicamente traumatici, disturbanti o angoscianti. Tale fenomeno di razionalizzazione viene conseguito attraverso la stesura di una narrazione ideologica (le teorie della razza) che funge da “falsa coscienza” dell’Occidente.

Burgio di seguito si occupa della morfologia e della fenomenologia del razzismo, analizzandone le forme fondamentali e le particolari manifestazioni storiche. Una prima tipologia di razzismo, detta poligenetica e sorta principalmente nell’ambito delle relazioni commerciali coloniali con il Nuovo mondo, nega l’esistenza di un’unica specie umana, teorizzando la compresenza di una pluralità di esse, tra di loro incommensurabilmente differenti (e che pertanto dovrebbero evitare ogni tipo di ibridazione o meticciato). Tale forma poligenetica è detta anche (secondo la categorizzazione di Pierre-André Taguieff, a cui più volte Burgio si riferisce) “differenzialistica” e conosce la propria manifestazione storica paradigmatica nell’antisemitismo moderno pseudosceintifico, erede di quello religioso antico e medievale, che ha condotto allo sterminio nazista degli ebrei d’Europa, considerati non tanto e non solo una “razza” non ariana “inferiore” da schiavizzare (al pari di slavi e latini), ma propriamente una razza “diversa”, di fatto disumana, la cui distruzione non comporta quindi l’insorgenza di alcuna resistenza etica.

La seconda fondamentale forma di razzismo è detta monogenetica e gerarchica: essa non nega l’appartenenza all’unica specie umana delle differenti razze, ma le colloca in una rigida gerarchia antropologica che sentenzia l’inferiorità delle une e la superiorità (per intelligenza, sensibilità, capacità, ecc.) delle altre, che possono così sentirsi legittimate a discriminare, segregare, asservire, sfruttare e infine anche sterminare le razze inferiori. Nel linguaggio di Taguieff, si tratta del razzismo “inegualitario”, che conosce la propria manifestazione paradigmatica nello schiavismo coloniale e nella tratta dei neri.

Va per prima cosa sottolineato come, nonostante le differenze, i due modelli possano intrecciarsi e sovrapporsi e come, in secondo luogo, la logica e la sintassi del discorso razzista si articolino secondo le medesime strutture in entrambi i casi e che sostanzialmente uguali sono anche gli effetti, ovverosia la giustificazione teorica di atti e comportamenti crudeli, che dalla discriminazione procedono fino alla possibile eliminazione fisica del gruppo che subisce il processo di trasformazione in “razza”. In linea di principio il razzismo “inegualitario” tende soprattutto a giustificare il dominio e lo sfruttamento, mentre quello “differenzialista” teorizza e prepara il terreno per l’esclusione e lo sterminio. Ma – rileva efficacemente Burgio – «l’ebreo, il non-uomo, può anche servire egregiamente come schiavo» – prima di essere eliminato – e «il nero e il proletario, “schiavi naturali”, possono ben essere sfruttati sino allo sfinimento in quanto, in definitiva, non pienamente umani» (p. 53) perché inferiori.

Per quanto riguarda la struttura logica della narrazione razzista, Burgio individua i seguenti elementi essenziali: la stereotipizzazione olistica, essenzialistica, riduzionistica e fissistica del gruppo che viene definito “razza”. Qualsiasi discorso razzista si regge sulla creazione di uno “stereotipo” fatto di presunti tratti fisici e psichici propri ed esclusivi di quel gruppo, che risulta in tal modo delineato e circoscritto. Fondamentale è il vincolo psico-somatico (in questo senso “olistico”), stretto e necessario, che il razzismo pone tra gli aspetti esteriori del corpo e le attitudini intellettuali, spirituali e morali della persona, che forzatamente ne conseguono. I tratti che connotano una razza vengono ipostatizzati, in sostanza vengono intesi come “essenze” naturali e non più come caratteristiche storicamente determinate di un gruppo umano, vale a dire caratteri culturali. In quanto tali, le proprietà di una razza diventano eterne ed immutabili, permangono “fisse” ed immodificabili nel tempo, vincolando in modo totale ed assoluto l’individuo alla razza di appartenenza. Si tratta di un tratto deterministico e totalitario del razzismo in forza del quale il singolo uomo è “ridotto” ad identificarsi totalmente con il gruppo, perdendo ogni aspetto o tratto individuale e particolare e finendo per essere considerato identico ad ogni altro.

«Lungi dall’essere entità naturali» – riflette Burgio – «le “razze umane” sono il prodotto (artificiale, simbolico) di tale articolato dispositivo. Per ciò stesso […] deve considerarsi oggetto di razzismo (“razzizzato”) qualsiasi gruppo umano nei confronti del quale venga impiegato questo dispositivo». (p. 54)
In altre parole «è oggettivamente razzista ogni discorso che proietti su un qualunque gruppo umano stereotipi olistici, essenzialistici, riduzionistici e fissistici». (p. 53) Pertanto, a nostro parere opportunamente, Burgio sottolinea come le forme di discriminazione e violenza che possono e che devono essere riconosciute come declinazioni particolari del dispositivo razzista siano molto più numerose di quelle “classicamente” considerate tali in riferimento al passato storico o al presente, ma in quanto ricollegabili o eredi di quelle passate. Perché il razzismo, si è visto, è un sistema ideologico di giustificazione e razionalizzazione della violenza dinamico e adattabile a contesti e oggetti differenti, ai quali applica lo stesso dispositivo di procedure. E allora nel corso del Settecento, nel momento della ascesa e dell’affermazione della borghesia europea e del sistema di produzione capitalistico, il sistema logico del razzismo si è rivelato arma potente nelle mani della borghesia nel conflitto sociale che ha condotto alla “razzizzazione” della classe operaia. E medesima sorte è toccata alle donne, ai poveri e alle altre categorie di “asociali” e refrattari all’ordine vigente, ai “delinquenti nati” dell’antropologia criminale lombrosiana e così via.

Osserva Burgio che per un lungo periodo «le classi lavoratrici e le donne sono state escluse dalla cittadinanza e integrate nella popolazione in funzione subordinata. E il discorso razzista ha costituito una risorsa ideologica fondamentale nella gestione di questa dinamica. Per secoli e ancora nella prima metà del Novecento servi, lavoratori salariati e donne furono rappresentati come “razze” a sé stanti, afflitte da specifiche tare fisiche e da insormontabili limiti intellettivi, caratterizzate da odori particolari e dall’insopprimibile vocazione a trasgredire i valori morali della classe media. […] Nei confronti delle componenti più povere delle comunità civili europee fu impiegato lo stesso schema sperimentato tra Sette e Ottocento sugli schiavi “negri” delle colonie» (p. 105). La stessa sorte che oggi tocca a chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale, ai reietti delle nostre società di inizio XXI secolo, non più gli operai delle fabbriche, ma i migranti che si avvicinano alle porte dell’Occidente e i nuovi schiavi del capitalismo contemporaneo globalizzato.

Non è possibile in questa sede affrontare in maniera esaustiva la presentazione e il commento dell’intero contenuto del lavoro di Burgio, un libro rigoroso e profondo nell’analisi dell’argomento studiato e molto ricco ed articolato, per la capacità di affrontare i numerosissimi aspetti della storia del razzismo, come la complessa questione dell’antisemitismo, delle sue relazioni con l’antigiudaismo cristiano, che vengono esposte in modo puntuale ed incisivo, seppur necessariamente riassuntivo, nelle pagine centrali del libro, che si conclude con il sesto capitolo dedicato ad un aspetto dell’argomento di grande interesse e che più volte è stato da noi affrontato: il caso del razzismo italiano e della sua quasi totale rimozione dalla coscienza collettiva del nostro paese.

La riflessione di Burgio prende le mosse da una considerazione di Enzo Collotti, che nel suo libro del 2003 – Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza – avanzava l’ipotesi che gli italiani, nell’immediato secondo dopoguerra, avessero rimosso le leggi razziali del 1938 e l’antisemitismo fascista per l’incapacità di affrontare e di elaborare fino in fondo l’enorme responsabilità di quanto accaduto e che per queste ragioni la voce “disturbante” dei testimoni, dei sopravvissuti, fosse rimasta per lo più inascoltata. L’autore opportunamente rileva che se il ragionamento dello storico e tra i massimi studiosi italiani del nazismo può essere considerato valido e pertinente per gli anni di poco successivi alla tragedia della guerra, lo stesso non si può dire per le generazioni di italiani successive e per i nostri giorni, per i quali si rende necessario comprendere come, perché e con quali conseguenze sia stato elaborato il mito collettivo del “bravo italiano”, che mostra una capacità di resistenza nel tempo e di pervasività tali da essere diventato parte essenziale ed inamovibile della coscienza collettiva italiana.

Per ricostruire la genesi e lo sviluppo del processo che ha condotto all’elaborazione dell’inossidabile immagine dell’italiano per indole e natura buono e quindi mai razzista, Burgio risale al lavoro storiografico di De Felice, che già a partire dagli anni Sessanta del XX secolo poneva le fondamenta dell’interpretazione sostanzialmente assolutoria della politica razziale fascista, che presentava le leggi del ’38 come una dettatura di Berlino, recepita e subita da Roma al fine di consolidare l’alleanza italo-tedesca e che non avrebbero però mai trovato un terreno adatto in cui attecchire, essendo il popolo italiano non ostile verso gli ebrei e in generale immune, a differenza di altri popoli e paesi europei, dalla malattia del razzismo; estraneità tra il carattere italiano e le dottrine della razza che sarebbe stata corroborata dalla tradizione cattolica del paese e dall’operato della Chiesa. Si trattava – è facile comprenderlo – di una rappresentazione “riduzionistica” di una delle pagine peggiori della storia della dittatura italiana, che si prestava ad un utilizzo ideologico, teso a diffondere un’immagine bonaria del fascismo e di Mussolini e che consentiva agli italiani di deresponsabilizzarsi e di concepirsi come “buoni” ed incapaci di quegli orrori che venivano imputati completamente ai “cattivi tedeschi”.

Sulla scorta dei risultati a cui, da molti anni ormai, è giunta la storiografia italiana antidefeliciana, Burgio ricorda come le leggi razziali del 1938 abbiano avuto una genesi ed uno sviluppo autonomi ed indipendenti dalle leggi di Norimberga e che i loro presupposti siano da ricercarsi nella legislazione di discriminazione e segregazione razziale in Africa e nelle brutali politiche di polizia coloniale, attuate in Libia e in AOI sia prima sia dopo la guerra d’Etiopia. Come, ben lungi dall’essere per indole estraneo ad ogni forma di razzismo, il popolo italiano abbia recepito la propaganda e la politica razziali volute dal regime, salutando positivamente l’emanazione delle leggi del ’38 ed avvantaggiandosene a scapito dei connazionali ebrei e come, infine, il tutto sia potuto accadere anche grazie ad una robusta e lunga tradizione di antigiudaismo cattolico, teorizzato, predicato e praticato dalla Chiesa e da molti suoi organi ed influenti esponenti.

A questo si aggiunga che ben prima del fascismo la pianta venefica del razzismo aveva messo radici in Italia, già a fine Ottocento nell’Italia liberale che si lanciò nelle imprese coloniali in Africa orientale e poi a inizio Novecento in Libia e, prima ancora, anche l’”epopea” risorgimentale del processo di unificazione nazionale non può dirsi esente da evidenti tratti di razzismo, un razzismo tutto interno al paese e diretto nei confronti della sua metà meridionale.

Di grande interesse sono le considerazioni di Napoleone Colajanni, a fine Ottocento, e di Antonio Gramsci, trent’anni dopo, che mostrano come fosse ben chiaro nella mente di entrambi il funzionamento di quel dispositivo di razzizzazione di un gruppo umano, da Burgio descritto nelle pagine e nei capitoli del nostro libro. Per celare la natura “coloniale” del Risorgimento italiano nel Meridione e le vere responsabilità dell’arretratezza del Sud e della sua sottomissione al Nord, furono attuati, nei confronti dei meridionali in genere e delle plebi in particolare, i medesimi processi di codificazione di una “razza”, da considerare inferiore e perciò da sottomettere e sfruttare, già ampiamente praticati da tutto l’Occidente in Africa, nei confronti dei neri.

Negli ultimi anni dell’Ottocento il mondo scientifico italiano fu messo a rumore da una raffica di pubblicazioni di argomento antropologico che prospettavano una precisa interpretazione delle cause del forte divario economico che già separava il nord e il sud del paese. […] La tesi sostenuta da questi autori era chiara, non lasciava margini al dubbio. Il Meridione era arretrato perché i meridionali – i “sudici” – sono un’altra “razza”: renitenti al lavoro; indisciplinati e inadatti a cooperare; propensi a forme brutali di violenza e criminalità. E tali sono perché, come le donne e i selvaggi, prodotti di un arresto evolutivo. (p. 243)

Gramsci constatava che le stesse masse lavoratrici del Nord avevano fatto proprio tale punto di vista razzista e anziché comprendere le reali dinamiche dell’arretratezza del Meridione «il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico[…] non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica [A. Gramsci, Quaderni dal carcere]». (pp. 249-250)

Pertanto, conclude Burgio, «La storia del nostro paese tra il XIX e il XX secolo non si discostò in nulla di sostanziale da quella degli altri paesi europei, Germania compresa. Di questa storia il razzismo fu parte integrante e questa circostanza contribuisce a spiegare l’avvento del fascismo col suo carico di ferocia, di brutalità criminale e di atrocità». (p. 250)

Consideriamo questo bel libro di Alberto Burgio un lavoro fondamentale di uno dei più importanti studiosi italiani del razzismo; un volume prezioso, che merita di essere letto con attenzione da chi voglia avere del razzismo una conoscenza approfondita circa i fondamenti, i presupposti e le condizioni storiche determinate che lo hanno generato, che continuano a renderlo possibile e a conservarlo, purtroppo, in ottima salute. Un contributo, quindi, ad un lavoro di studio del razzismo che più che altrove sarebbe urgentemente necessario promuovere e soprattutto divulgare – affinché si estenda oltre l’ambito comunque ristretto degli addetti ai lavori – proprio in Italia; un passaggio indispensabile per uscire dalle pastoie di quell’approccio opportunisticamente riduzionistico che contraddistingue il modo distorto e falso con cui la coscienza collettiva italiana si rapporta col proprio passato prossimo.

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Cattolici antisemiti 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/02/cattolici-antisemiti-2-2/ Tue, 02 Oct 2018 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48800 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche i più avveduti come Giovanni Miccoli, tendono a fissare con estrema fermezza. Quello spagnolo è proprio un esempio, il più chiaro ed importante storicamente, di razzializzazione degli ebrei, in quanto per gli Esatatutos, anche a fronte della conversione e del battesimo, il giudeo, rimaneva giudeo, il converso era comunque marrano.

Gli Esatutos servivano in buona sostanza proprio per escludere dalla vita civile e politica, dall’accesso alle cariche ecclesiastiche, politiche o militari i conversos, i cristianos nuevos, affinché rimanessero relegati nella condizione di casta inferiore rispetto ai critianos vejos, i veri spagnoli. Come a dire che – secondo Ruzzenenti a differenza di quanto sostenuto da Miccoli – in questo caso la condizione di “razza maledetta”, l’ebraicità considerata infamia judìa, non era affatto una condizione storica, storicamente determinata e quindi storicamente superabile con l’ingresso nella nuova fede, ma costituiva un qualcosa di sostanzialmente immodificabile, un dato di natura, una condizione razziale, appunto.

Gli Estatutos vennero introdotti a partire dal 1495, in una Spagna – considera Ruzzenenti – proiettata verso la creazione del suo impero, e che avvertiva fortemente l’esigenza di autodefinire se stessa, di darsi un’identità contrapposta a ciò che era percepito come “altro”, tanto che questo fosse un “diverso interno” (ebrei e mori), quanto che fosse “esterno” (gli indios). Analoga situazione si sarebbe riproposta secoli dopo nella Germania nazista, che, protesa verso la realizzazione del proprio “impero millenario”, avrebbe sentito il bisogno di fissare un’identità tedesca, di definire il germano, l’ariano e quindi anche la conseguente necessità di individuare un polo opposto, negativo, rispetto al quale determinarsi. Ed anche per il caso del fascismo italiano si possono avanzare considerazioni simili, se è vero – come ormai tutta la storiografia al riguardo sostiene – che il razzismo e l’antisemitismo italiani abbiano trovato il luogo della loro incubazione nell’Africa coloniale, dopo la proclamazione dell’impero abissino e con l’introduzione di pesanti provvedimenti razzisti e segregazionisti nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa e quindi in un momento, nella ventennale storia del fascismo, in cui il regime avvertiva l’esigenza di procedere speditamente alla costruzione di un “italiano nuovo”, pronto per affrontare oneri ed onori imperiali e quindi solidamente certo della propria identità e superiorità razziali.

Certo, nel caso dell’antisemitismo nazista e fascista sono chiari gli apporti della scienza che da fine Settecento e per tutto l’Ottocento aveva classificato e misurato crani, tratti somatici o pigmentazioni della pelle, aspetti questi che sarebbe anacronistico cercare nella Spagna del ‘4/500, dove la definizione delle categorie veniva operata sulla base prevalentemente di aspetti religiosi, ma tanto nell’uno quanto nell’altro caso, sul piano giuridico, quando cioè il legislatore dovette fissare criteri precisi di identificazione, si fece ricorso alla genealogia, nella convinzione – anche nella Spagna della prima età moderna – che la presenza in essa di parentele, anche lontane, di natura giudaica inquinasse inesorabilmente il sangue, non più limpido, non più spagnolo. Se ciò che si ritiene di dover difendere da corruzione è il sangue, risulta allora difficile, secondo Ruzzenenti, sostenere che l’antisemitismo cattolico sia stato solo di matrice religiosa, culturale e storica e non razziale. Gli Estatutos, quindi, servirono nella cattolicissima Spagna per creare una “casta”, una “razza” inesorabilmente e costitutivamente inferiore, cosicché i conversos rimanessero in una condizione di «permanente inferiorità civile e sociale» (p. 49), condizione che neppure l’acqua della fonte battesimale poteva modificare completamente.

Pertanto, nel caso di un antisemitismo che si vorrebbe presentare come solamente “religioso”, la genealogia e quindi la trasmissione dei caratteri da genitori a figli e discendenti – osserva puntualmente Ruzzenenti – servirono per definire chi fosse cristianos vejos o spagnolo e chi conversos o marrano, così come sarebbe successo negli anni Trenta del ‘900 per i Volljuden, i Mischlingen e gli ariani. E all’estremo opposto, cioè quello di un antisemitismo che si vorrebbe solo “razziale”, vista la difficoltà di utilizzare solo fattori genealogici e (pseudo)scientifici per la distinzione dei gruppi razziali, si fece ricorso, per l’applicazione delle Leggi di Norimberga, anche a criteri culturali e religiosi per individuare entrambi i poli dell’opposizione ariano-ebreo. Nel caso della definizione dell’ariano intervennero elementi come la lingua, la cultura, la religione, le tradizioni e i costumi, ovvero tutti quei fattori che cementavano il legame Blut und Boden tanto caro all’ideologia völkisch e, per classificare e determinare i Mischlingen o meticci, discriminanti erano anche aspetti religiosi come l’iscrizione ai registri della sinagoga o l’appartenenza e la frequentazione della comunità religiosa ebraica. Tutto ciò prova come la teoria di una precisa e netta separazione tra un razzismo solo religioso e uno solo razziale sia insostenibile e come il confine tra i due concetti sia impreciso e poroso e frequenti siano i punti di tangenza e sovrapposizione.

La seconda parte del lavoro di Ruzzenenti si concentra su aspetti e momenti dei rapporti tra antisemitismo e cattolicesimo interessanti e di cruciale importanza tanto quanto quelli sui quali in questa sede si è scelto di concentrare principalmente l’attenzione, ma senz’altro più noti ai lettori (e per questo qui di seguito considerati più superficialmente), poiché concernenti i pontificati di Pio XI e Pio XII, le relazioni tra la Chiesa cattolica e i regimi fascista e nazista ed infine la vexata questio della posizione della Chiesa di fronte alla Shoah. Nel caso italiano, Ruzzenenti parla di una evidente convergenza e di una duratura e proficua collaborazione tra fascismo e Chiesa cattolica, che però «non significò necessariamente perfetta consonanza, perché Chiesa cattolica da un canto e regime fascista dall’altro rappresentavano in modo diverso istituzioni “totalitarie”, con finalità proprie e distinte, in quanto tali tendenti a un primato esclusivo, che mal si conciliava con una pacifica cooperazione». (p. 96)

Ma, si potrebbe aggiungere, troppo importanti erano per entrambe le parti i benefici di quella alleanza, perché il sodalizio tra cattolicesimo italiano e fascismo non riuscisse a superare qualche motivo di screzio. Il caso tedesco fu, senza dubbio, diverso e più complesso per la Chiesa, che non usufruiva in Germania della posizione di monopolio assoluto assicuratale in Italia dai Patti lateranensi, in più era religione minoritaria rispetto al protestantesimo e dovette rapportarsi ad un regime che, a differenza di quello mussoliniano, che si ancorò senza reticenza alcuna alla tradizione religiosa cattolica italiana, aspirò a sostituirsi al cristianesimo, legando il popola a sé attraverso la fede laica del razzismo ariano.

Nella politica della Chiesa di pieno appoggio al fascismo e di collaborazione con il nazismo, l’antisemitismo non poteva che diventare elemento centrale e decisivo. Ruzzenenti studia le posizioni della Chiesa del tempo, come già fatto col pensiero di Toniolo, anche attraverso l’esame delle riflessioni di due figure centrali dell’intellighenzia vaticana: Agostino Gemelli, allievo di Toniolo, tra i fondatori del Ppi e soprattutto dell’Università cattolica e tanto altro ancora e Mario Bendiscioli, intellettuale cattolico, che poi sarà anche partigiano ed antifascista, ma che negli anni Trenta esprimeva le stesse posizioni ideologiche di Gemelli e delle componenti più reazionarie ed antisemite della Chiesa, come la più volte citata Civiltà cattolica.

Gemelli, convinto sostenitore del fascismo e tenace antisemita, colse nel Concordato l’occasione per compiere quella restaurazione della società cristiana dentro la modernità, ma contro di essa, che era già stato il progetto politico di Leone XIII, che permaneva anche in Pio XI e che era stato pensato pure da Toniolo. Numerose sono le affermazioni antisemite di Gemelli in interventi e discorsi pubblici, in cui il ricorso alla formula della perfidia giudaica conseguente al deicidio è frequente, al punto che si meritò pure l’apprezzamento – espresso mezzo stampa – di uno dei più fanatici antisemiti del regime: Roberto Farinacci. Bendiscioli tradusse il libro del francese naturalizzato inglese Hilaire Belloc – The Jews – testo di riferimento fondamentale per gli antisemiti del periodo e pubblicato poi da Vita e Pensiero di Gemelli nel 1934. Nel testo l’autore sosteneva la tesi della impossibile assimilazione degli ebrei e della necessità della loro separazione ed espulsione dal corpo della società; in sostanza si trattava di quella “segregazione amichevole” che la Chiesa fece propria e di cui si è già detto.

Sostiene Ruzzenenti che la Chiesa, a metà anni Trenta, con i suoi esponenti, organi ed ambienti antisemiti, per certi versi anticipò, quindi facilitò, lo scatenamento della campagna propagandistica antisemita italiana, che di lì a poco il fascismo avrebbe montato in maniera sempre crescente – anche nel contesto della svolta imperiale, della guerra d‘Etiopia e della politica demografica e razziale innescata da questa – e che poi sarebbe culminata nel famigerato e tragico 1938.

«Per conquistare il dominio del mondo, il giudaismo si serve delle due potenze più efficaci di dominazione del mondo: l’una materiale, l’oro, che è al presente il padrone assoluto del mondo, e l’altra ideale: l’internazionalismo. Quanto all’oro, già lo ha in massima parte in mano. Gli resta ad accaparrarsi del tutto l’internazionalismo. Il giudeo è per essenza internazionalista e cosmopolita. Internazionalista, perché il suo sogno messianico di dominazione mondiale non può conciliarsi con i nazionalismi; cosmopolita, perché, in ragione della sua adattabilità, si stabilisce da per tutto, e da per tutto è a casa sua» (p. 139)

Queste parole, in cui ritroviamo tutti gli stereotipi dell’antisemitismo e che facilmente si penserebbero pronunciate da un Giovanni Preziosi o da un Roberto Farinacci o urlate da un qualsiasi balcone d’Italia da Mussolini, furono invece scritte da un religioso – padre Barbera, direttore della Civiltà cattolica – nell’aprile del 1937 e costituiscono solamente uno dei numerosissimi esempi che Ruzzenenti propone per mostrare quanto la Chiesa fosse impregnata di antisemitismo ed impegnata in una politica antisemita su posizioni di sostanziale allineamento a quelle del regime.

Le divergenze circa la politica antisemita tra Chiesa e fascismo riguardarono principalmente due questioni, una giuridica e una teorica. La seconda era conseguenza del fatto che in «Italia vi erano i “razzisti biologici” alla Telesio Interlandi, poi direttore de La difesa della razza o gli “spiritualisti esoterici” alla Julius Evola, o “i fanatici antisemiti” alla Giovanni Preziosi o alla Roberto Farinacci, che riflettevano posizioni presenti in alcuni esponenti del nazismo». (p. 135) La Chiesa diffidava del razzismo “scientifico” ma soprattutto di quello “neopagano” ed anticristiano nazista e cercò in tutti i modi di far sì che l’antisemitismo italiano e fascista rimanesse fedele alla tradizione dell’antisemitismo cattolico. Insomma, vi era un antisemitismo “buono”, quello pensato e praticato dalla Chiesa, dai suoi più alti vertici e avvallato dal papa e uno “cattivo” perché anticristiano e neopagano. Proprio per evitare frizioni con il Vaticano – secondo Ruzzenenti – gli estensori del Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938 usarono certe parole e formule. Il punto 7 – È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti – infatti diceva: “La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano – nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono”.

Non è un caso che – fa notare Ruzzenenti – l’assenza di intenzioni filosofico-religiose, il carattere italiano dell’antisemitismo e la presa di distanza dall’antisemitismo nazista venissero immediatamente apprezzate dalla Chiesa attraverso la Civiltà cattolica, l’Osservatore romano e L’Avvenire d’Italia. E questo tornava comodo anche al regime che, in un paese in cui gli ebrei erano una esigua e quasi trascurabile minoranza, in cui l’emancipazione ottocentesca era avvenuta con successo e in cui non vi era un sentimento antisemita diffuso, il fascismo «cercò di tracciare un proprio percorso autoctono all’antisemitismo, con un’elaborazione in qualche modo originale, che nel caso italiano non poteva non raccordarsi all’unica tradizione antisemita nazionale, quella cattolica. […] Ciò che importa sottolineare è che la responsabilità di aver adottato una legislazione antisemita è da addossare interamente al fascismo e alla Chiesa cattolica che […] condivise quella scelta». (p. 156)

Per quanto concerne l’altro motivo di frizione, quello giuridico, riguardò la questione dei “matrimoni misti”, che le leggi del 1938 proibivano, con disappunto della Chiesa, intenzionata a tutelare, innanzi tutto, quanto stabilito dai Patti lateranensi, che riconoscevano valore civile al matrimonio religioso, dal pericolo di un’invasione di campo da parte del regime e, in secondo luogo, la possibilità di celebrazione del matrimonio tra un cattolico “ariano” e un ebreo “convertito”, quindi “cattolico” per la Chiesa, ma per il regime di “altra razza”. Come è facile comprendere, si trattava di una inezia, che non metteva minimamente in discussione l’impianto complessivo e lo spirito della legislazione antisemita del 1938, per la quale la Chiesa in più occasioni, attraverso i propri organi ufficiali, espresse chiari apprezzamenti. Ed inoltre, come doverosamente fa notare Ruzzenenti, nulla sarebbe cambiato per la sorte degli ebrei italiani, discriminati e perseguitati, se anche quel punto della legge, disapprovato dalla Chiesa, fosse stato emendato.

Anche in Germania e per le stesse ragioni, la questione dei matrimoni misti dal 1935 aveva dato il via ad una polemica tra Chiesa cattolica e regime nazista, a cui si aggiungeva però un motivo di critica e dissenso di superiore peso specifico. Si trattava di ciò che papa Pio XI espresse nella molto nota Mit brennender Sorge, del marzo 1937, dalla storiografia cattolica, ricorda Ruzzenenti, spesso citata con l’intento di avvalorare la tesi dell’opposizione al nazismo della Chiesa stessa. In realtà ciò che il papa esprimeva con quell’enciclica era la preoccupazione per la diffusione in Germania di un neopaganesimo nazista ed anticristiano dal Vaticano deprecato e di un etnicismo razzista assurto a ruolo di fede religiosa e pertanto inaccettabile per una Chiesa cattolica intenta nella restaurazione dell’ordinamento cristiano della società dentro alla modernità. Per le stesse ragioni, osserva Ruzzenenti, il testo più importante di Alfred Rosenberg, Il mito del XX secolo, in cui il massimo ideologo del nazismo ipotizzava una riforma religiosa che eliminasse il Vecchio Testamento e le radici ebraiche del cristianesimo, fu dalla Chiesa condannato e proibito. Erano il razzismo e l’arianesimo assurti a dogma religioso e le derive neopagane ed anticristiane del nazismo – con il conseguente rischio di una loro diffusione anche oltre la Germania – che preoccupavano il Vaticano, che si guardò bene però dal condannare il nazismo in quanto tale, dal ridiscutere o sospendere il Concordato col regime hitleriano firmato nel 1933, dal denunciare la barbarie delle Leggi di Norimberga.

Marino Ruzzenenti in questo suo denso libro di poco più di duecento pagine fornisce un quadro estremamente dettagliato e complesso della problematica affrontata e suggerisce numerose piste di indagine per ulteriori studi e ricerche e rende evidente come, da parte della Chiesa cattolica, considerata la portata e la lunghissima storia del suo coinvolgimento nella questione dell’antisemitismo, sarebbero opportuni dichiarazioni ed atti ben più autocritici delle omertose parole del documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (1998), stilato dalla Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo della CEI, durante il pontificato di Giovanni Paolo II.

[Qua la prima parte della recensione]

 

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Cattolici antisemiti 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/09/25/cattolici-antisemiti-1-2/ Mon, 24 Sep 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48795 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in particolare) ed antisemitismo razziale (premessa e causa della Shoah) e i fautori della tesi della tangenza e convergenza, senza una sostanziale soluzione di continuità, tra le due principali modalità storiche di odio antiebraico.

L’autore – che delimita il campo altrimenti sterminato del suo studio, chiarendo l’intenzione di considerare esclusivamente le posizioni ufficiali ed istituzionali della Chiesa riguardo agli ebrei ed in particolare a partire dal pontificato di Leone XIII e non altri aspetti del problema dei rapporti tra il mondo cattolico, gli ebrei d’Europa e la Shoah – appoggia risolutamente la tesi della consequenzialità e continuità e pertanto, fin dalle prime pagine, prende le distanze da quello che considera un apriori storiografico dogmatico, osservato – salvo qualche rara eccezione – non solo da tutti gli storici cattolici, ma anche da buona parte degli storici laici ed ebrei, forse preoccupati questi ultimi di non incrinare i rapporti tra ebraismo e Chiesa. Un apriori che distanzia l’antisemitismo cristiano (per questo il più delle volte chiamato antigiudaismo) da quello razzista (nazista in particolare) ed eliminazionista, sostenendo che il primo non si fondi su principi razziali, ma solo religiosi e che abbia come suo fine la conversione, il cui conseguimento estinguerebbe il disprezzo e l’ostilità.

Secondo Marino Ruzzenenti codesta interpretazione dei fatti risulta essere funzionale, in buona sostanza, ad una lettura riduzionistica del ruolo svolto dalla Chiesa nella elaborazione delle categorie dell’odio antisemita e nella loro diffusione, proprio nel momento storico decisivo per lo sviluppo del razzismo come ideologia forte del pensiero e della cultura occidentali, cioè in quella seconda metà dell’Ottocento in cui sul soglio pontificio a Pio IX succede Leone XIII. Ecco allora perché l’assunto aprioristico della netta differenza propende per la separazione tra le posizioni di certi ambienti ecclesiastici, come la rivista dei gesuiti – la Civiltà cattolica – su posizioni rozzamente e grossolanamente antisemite ed il papato, quello di Leone XIII e della sua Rerum Novarum, presentato come un pontificato “sociale e liberale”. Rappresentazione lontana dalla realtà storica dei fatti, secondo Ruzzenenti, che sostiene e spiega come il papa stesso sia stato attore in prima persona della politica antisemita della Chiesa tra ‘800 e ‘900, cioè nel momento storico in cui si formarono le idee che poi sarebbero tragicamente confluite nell’antisemitismo genocida della Shoah.

In sintesi Ruzzenenti ritiene che per pesantezza delle accuse rivolte, per virulenza degli attacchi, per persistenza storica del fenomeno, per corrispondenza quasi perfetta tra provvedimenti discriminatori adottati (o auspicati) da Chiesa e stati cristiani nel passato e dalle legislazioni razziali degli anni Trenta del ‘900 poi, l’antisemitismo cattolico abbia agito da premessa, da presupposto propedeutico allo scatenamento dell’antisemitismo razziale. Infatti, anche l’argomento secondo il quale l’ostilità antiebraica cattolica non avrebbe contenuti e connotati razzisti – poiché contrari ai fondamenti della fede cristiana – è privo, pensa l’autore, di cogenza logica, dal momento che l’attribuzione collettiva e sulla base di stereotipi e pregiudizi di colpe e misfatti, il determinismo che vincola necessariamente l’individuo e il suo comportamento al gruppo e alle sue presunte caratteristiche, la trasmissione ereditaria e persistente nel tempo di quei medesimi caratteri sono tutti aspetti essenziali del razzismo, tanto che abbia il suo fondamento in principi teologico-religiosi, quanto che li ritrovi in teorie pseudoscientifiche. E la “perfidia del popolo deicida” – per racchiudere in questa formula tutti i possibili stereotipi antisemiti – che apparterebbe a tutti i “giudei” in quanto tali, che ne determinerebbe inesorabilmente i comportamenti, che si trasmetterebbe di generazione in generazione, per secoli e millenni, non può non essere considerata la base granitica di un “razzismo antisemita religioso”, che neppure l’eventuale ed auspicata conversione alla “vera fede” elimina del tutto, come dimostra – afferma Ruzzenenti – il caso spagnolo degli Statuti di Limpieza de sangre del ‘500.

Di sicuro interesse sono poi le analisi che Ruzzenenti propone di due casi quanto mai significativi a supporto della tesi principale dell’intero suo lavoro: si tratta delle vicende dei partiti cristiano-sociali austriaco e francese, cioè di due paesi di radicatissima tradizione cattolica, che dal pontificato di Leone XIII ricevettero incentivo e sostegno alla partecipazione alla vita politica e all’impegno nella società. È noto quanto contemporaneamente molto differente fosse la situazione del mondo cattolico italiano, ancora per molto tempo vincolato al rispetto del non expedit di Pio IX e quindi anche per questo i casi austriaco e francese risultano ancora più decisivi per comprendere quali fossero i tratti essenziali e la cornice complessiva del pensiero sociale della Chiesa nell’ultimo quarto del secolo XIX. Quello austriaco fu il primo partito cristiano-sociale a prendere il potere e a conquistare posizioni di governo in Europa, quindi dalla Chiesa fu visto quasi come un avamposto del progetto del Vaticano di spingere il laicato cattolico all’impegno nel mondo civile e sociale, al fine di ricristianizzare la società moderna, cioè quella modernità che al controllo della Chiesa aveva iniziato a sfuggire alla fine del secolo precedente, con la rivoluzione francese e il pensiero illuministico.

Nell’interpretazione dei fatti di Ruzzenenti, ciò che muoveva l’attenzione della Chiesa per la società moderna, interesse poi espresso organicamente nella Rerum Novarum, non erano l’intento del dialogo con essa, la ricerca di una mediazione delle posizioni o la volontà di rendere moderna la Chiesa, ma, tutto al contrario, un progetto neoteocratico di ri-cristianizzazione della società laica moderna, del quale l’antisemitismo era parte integrante. E le presunte aperture della Rerum Novarum, tanto valorizzate dalla storiografia cattolica, in realtà rientravano in una complessiva visione conservatrice e statica della società, che leggeva le dinamiche sociali secondo modalità tradizionali e che criticava la modernità e i suoi prodotti, cioè tanto il capitalismo quanto il marxismo, visti come espressioni complementari di uno spirito moderno materialista ed ateo ed entrambi messi in relazione all’ebraismo, che, dopo l’emancipazione iniziata a fine Settecento, era considerato dalle forze politiche e sociali conservatrici come causa e al contempo effetto della modernità stessa e comunque ad essa consustanziale. Capitalismo e marxismo, l’uno dal lato dell’individualismo liberale e l’altro da quello del collettivismo socialista, erano giudicati come prodotti dello spirito giudaico e del suo razionalismo materialista.

Dopo l’elezione al soglio pontificio di Leone XIII, nel 1878, partiti cattolici come quello austriaco e quello francese furono spinti all’azione dal Vaticano, nel quadro generale della politica voluta dal papa di lotta contro la modernità, contro la civiltà moderna laica e liberale e sulla base del collante ideologico dell’antisemitismo, che avrebbe assicurato ottime possibilità di presa e di diffusione nella due società. Il tutto si reggeva sull’equazione per cui il giudaismo, emancipato ed assimilato, coincideva con la massoneria, quindi con le forze laiche, illuministiche, razionalistiche che con la rivoluzione francese avevano preso il comando della società “moderna”, capovolgendo quella “naturale”, poiché “cristiana”, dell’ancien régime. La lotta contro la modernità era quindi tout court una lotta contro gli ebrei e le loro cospirazioni massoniche. Alla modernità la Chiesa contrapponeva il programma di una riorganizzazione sociale corporativa e al confronto tra capitale e lavoro e allo scontro di classe sostituiva l’idea dell’armonia sociale da conseguire ricollocando la Chiesa stessa al centro della società, in posizione di guida e comando.

È illuminante e meritevole di ulteriori approfondimenti l’idea di Ruzzenenti che sembra cogliere uno dei presupposti del processo di avvicinamento e poi di stretta alleanza tra cattolicesimo e fascismo in una comune e convergente visione complessiva della società e delle sue dinamiche economiche: si tratta di quel corporativismo che, mutatis mutandis, dalla dottrina sociale della Chiesa a inizio ‘900 passò al nazionalismo italiano e da questo al fascismo, divenuto prima forza di governo e poi regime. Di questa complessiva visione della società parte essenziale – e quindi anello di congiunzione decisivo tra cattolicesimo e fascismo – era l’antisemitismo, che la Chiesa coltivava ed esprimeva da moltissimo tempo e che il fascismo adottò da un certo momento in poi e – come è ben noto – con esiti nefasti per gli ebrei italiani.

Questo importante nucleo tematico viene di seguito approfondito da Ruzzenenti nelle pagine dedicate al pensiero di Giuseppe Toniolo (o di Agostino Gemelli), figura assolutamente centrale per la genesi e lo sviluppo del pensiero economico sociale del cattolicesimo italiano, e non solo, e padre nobile del movimento cattolico italiano novecentesco. Toniolo elaborò una organica e generale teoria economica che intendeva, per sua stessa dichiarazione, muovere una critica del capitalismo moderno, dopo averne colto genesi e sviluppo e con finalità restauratrici, cioè con l’idea di ripristinare l’ordine sociale cristiano tradizionale. Si tratta di quella “neoteocrazia della modernità” che Ruzzenenti attribuisce al pontificato di Leone XIII come sua cifra essenziale, ovvero del «progetto di ricondurre il progresso tecnologico, industriale ed economico (le rerum novarum, appunto) all’interno di una società cristianamente ordinata secondo i principi eterni della Chiesa e della potestà divina rappresentata sulla terra dal pontefice, come vigeva nell’aura età media». (p. 77) Per questo Giuseppe Toniolo propose una “filosofia della storia” secondo la quale lo spirito laico e razionalistico del Rinascimento e poi a seguire il protestantesimo avrebbero sovvertito l’ordine naturale e divino delle cose e della società, introducendo un sistema economico e relazioni sociali incentrate esclusivamente sul principio del profitto individuale che causa eccessiva disuguaglianza. Insomma si tratta di quel capitalismo delle origini che trovò, secondo Toniolo, nel mutuo feneratizio, nel monopolismo e nel commercio speculativo i suoi pilastri fondamentali; in altre parole quello che, se volessimo attualizzare i concetti dell’economista cattolico, oggi chiameremmo capitalismo finanziario o finanziarizzazione dell’intera economia o subordinazione dell’economia produttiva all’economia finanziaria e speculativa.

Nel medioevo era stata la Chiesa a porsi come argine a queste storture economiche e sociali e, secondo il pensatore ed economista cattolico – dal 2012 beato, per decisione di papa Benedetto XVI – aveva tentato di opporsi alla deriva della società istituendo e promuovendo il sistema dei Monti di pietà, come alternativa alla speculazione, immancabilmente – anche per Toniolo – monopolizzata dagli ebrei. Ecco il punto saliente, pure secondo Toniolo, la degenerazione capitalistica della modernità costituiva un tutt’uno con l’imposizione dell’egemonia del dominio giudaico all’interno delle società cristiane. Lo strumento vincente di questo progetto/complotto giudaico per il controllo del mondo cristiano era quindi quello economico-finanziario.

L’anticapitalismo di Toniolo – come risulta dalle riflessioni di Ruzzenenti – cioè quello della dottrina sociale della Chiesa di Leone XIII, quello della Rerum Novarum, quello dei partiti cattolici sorti e promossi dal Vaticano in Austria, Francia e altri paesi cattolici, quello che poi a inizio ‘900 in Italia fu espresso anche dal nazionalismo e che in seguito, sia attraverso quest’ultimo sia grazie alla politica di avvicinamento tra fascismo e cattolicesimo, entrò nel fascismo era reazionario, antimoderno e apertamente antisemita.

Tornando ai partiti cristiano-sociali, quello austriaco fece breccia soprattutto presso la piccola borghesia, spaventata dal marxismo ed egualmente dal grande capitale e dalla modernità, che venivano identificati con l’ebraismo. A questo si aggiungevano numerosi elementi di nazionalismo völkisch, che sostenevano l’idea della contrapposizione inconciliabile tra Judentum e Deutschtum. Nel programma del partito del 1894 si ritrovano affermazioni antisemite sconcertanti, così come nei discorsi, ampiamente riportati da Ruzzenenti, del suo più importante leader Karl Lueger. Tutto questo non solo era noto alla Chiesa, ma – sottolinea l’autore – approvato dal Vaticano e da papa Leone XIII, nonostante alcune perplessità espresse da certi gruppi o esponenti del mondo cattolico viennese. Un così diffuso antisemitismo, in buona parte dovuto anche al solido e duraturo successo del partito cristiano sociale austriaco, può aiutare a capire – osserva Ruzzenenti – perché la “piccola” Austria, una volta annessa al Terzo Reich nel 1938, abbia dato un contributo percentualmente altissimo alla messa in opera delle politiche antisemite naziste e della Shoah.

Analogo è il caso francese del partito cattolico denominato “Democrazia cristiana”, che attinse a piene mani alle idee del campione indiscusso dell’antisemitismo francese dell’epoca: Édouard Drumont, autore de La France juive e fondatore del giornale reazionario ed antisemita La Libre Parole. Pure in questo caso, aiuti ed appoggi da parte del Vaticano e del papa agli ambienti e ai gruppi antisemiti francesi non tardarono ad arrivare, così come a tutto il fronte antidreyfusardo. La vittoria della Francia laica nell’affaire Dreyfus, paradossalmente, peggiorò la situazione, perché gli ambienti cattolici antisemiti si convinsero ancora di più che ci fosse un complotto ebraico in atto e che avesse ormai irrimediabilmente conquistato la guida del paese. È questo l’humus, alla crescita del quale la Chiesa cattolica contribuì in maniera fondamentale, da cui si sviluppò il partito dell’Action française di Charles Maurras, che fu antisemita, nazionalista, fascista, filomussoliniano, filofranchista e che animò la politica della Repubblica di Vichy, emanando una legislazione antisemita, senza che vi fosse alcuna esplicita richiesta o pressione da parte dell’occupante tedesco e che guidò il rastrellamento degli ebrei francesi per la loro deportazione a est.

Nel novembre del 1896 – ricostruisce Ruzzenenti – «nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale della Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale». (p. 25) Il congresso discusse sulle norme antiebraiche la cui adozione il partito avrebbe sostenuto e promosso e ne individuò cinque; le prime due dichiaravano: «1. Il decreto del 1791, che ha dato il diritto di cittadini francesi agli ebrei, deve essere abolito. 2. Nel frattempo, gli ebrei devono essere esclusi dall’insegnamento pubblico, dalla magistratura, dagli impieghi amministrativi e dai gradi dell’esercito». (p. 27) È sin troppo facile osservare come questi provvedimenti, insieme ad altri, sarebbero stati adottati in seguito dalle legislazioni antisemite dei fascismi del XX secolo. In sostanza – conclude Ruzzenenti – si può sostenere che in Francia l’antisemitismo, profondamente radicato a fine ‘800 e inizio ‘900 e dai toni violentissimi, sia nato, si sia sviluppato e diffuso all’interno del mondo cattolico, sulla base del tradizionale odio antiebraico cristiano-cattolico e con l’aperto appoggio del Vaticano.

Tra gli organi della Chiesa che più si impegnarono nella politica antisemita, la Civiltà cattolica fu certamente in prima fila ed in particolare per opera – ricorda Ruzzenenti – di padre Giuseppe Oreglia, autore di numerosissimi articoli trasudanti un antisemitismo virulento. Nelle pagine della Civiltà cattolica si realizza anche il passaggio senza soluzione di continuità tra “antigiudaismo” e “antisemitismo” per mezzo della “razzializzazione” degli ebrei, che vengono esplicitamente definiti “razza” e in quanto tali, cioè in quanto “razza”, a loro vengono attribuite le peggiori caratteristiche dello stereotipo antisemita. È all’interno di questo quadro ideologico complessivo che la Chiesa spinse in Austria e Francia i partiti cattolici alla partecipazione all’agone politico, in vista di un progetto di riconquista cristiana della società, per la realizzazione del quale l’arma principale da utilizzare era proprio l’antisemitismo, al punto che fu la Chiesa stessa a richiedere per prima l’adozione di legislazioni speciali antiebraiche già a fine ‘800.

«Inoltre, ed è il caso di sottolinearlo, lo stesso Oreglia in un articolo del 1880 ipotizzava esplicitamente misure restrittive nei confronti degli ebrei in Europa, come la negazione della cittadinanza, la confisca dei beni e delle proprietà terriere, l’allontanamento dall’insegnamento e dal giornalismo, in buona sostanza i provvedimenti che, come abbiamo visto, diventarono a fine secolo programma politico dei partiti cattolici francese e austriaco e che, mezzo secolo dopo, formeranno l’ossatura della legislazione antisemita nazista e fascista». (p. 35)

Ed è sempre la Civiltà cattolica che arriva alla elaborazione del concetto della “segregazione amichevole”, che di fatto la Chiesa manterrà anche successivamente e che le permise non solo di tollerare, ma addirittura di considerare come opportuni molti dei provvedimenti antisemiti delle legislazioni razziali fasciste. Sulla rivista dei Gesuiti nel 1881 si leggeva: «Ma […] può ognuno congetturare quanta sia la sapienza dei moderni legislatori che, seguendo i principii liberali e massoni, tolsero ogni freno di leggi eccezionali a una razza forastiera a ogni paese dove abita; e quanto sia per essere vana e fuoco di paglia qualsivoglia agitazione antisemita, la quale non riconduca una legislazione speciale per gli ebrei; in forza di cui essi non siano già perseguitati o vessati, ma difesi e frenati contro sé medesimi e le loro vessazioni e persecutrici tendenze sempre riuscite fatali prima ai popoli che non seppero frenarli e poi agli stessi ebrei; contro i quali presto o tardi suole poi sempre prorompere l’odio e la vendetta popolari». (p. 37) Insomma, è da loro stessi – e dalla loro connaturata malvagità – che gli ebrei devono essere difesi, quindi segregati, come il sistema medievale dei ghetti aveva fatto in passato, in quella “età d’oro” della società cristiana che la Chiesa di fine ‘800 vorrebbe restaurare.

Sulla base di queste considerazioni, sostiene Ruzzenenti, continuare a dire che l’antigiudaismo religioso della Chiesa cattolica sia stato costitutivamente altro dall’antisemitismo razziale dei fascismi successivi appare argomentazione speciosa ed altrettanto si dovrebbe dire delle reticenze della storiografia cattolica nel riconoscere l’antisemitismo del pontefice, che viene percepito come una contraddizione rispetto alle presunte aperture alla società e alla modernità della Rerum Novarum, aperture che in realtà si muovono in tutt’altra direzione, cioè in quella di una “restaurazione neoteocratica“. Insomma si potrebbe dire che per Ruzzenenti definire Leone XIII un “papa sociale” perché emanò la Rerum Novarum sarebbe come pensare – come si erano illusi di poter fare i neoguelfi di metà 800 – a Pio IX come a un “papa liberale” solo perché indirettamente diede inizio al biennio delle riforme. La vera differenza tra i due papi, secondo Ruzzenenti, sta nel fatto che Pio IX dopo il Sillabo e la Quanta Cura si arroccò su posizioni di intransigente chiusura e rifiuto di dialogo con la modernità, mentre Leone XIII volle entrare nell’agone politico e sociale per creare un argine al laicismo, al liberalismo, alla democrazia e soprattutto al socialismo, assumendo una posizione attiva e di attacco alla modernità, ma uguale rimaneva il fondamento ideologico dei due papi. Per questi fini Leone XIII rispolverò il tomismo e lo impose come paradigma della visione della società, promuovendo una sorta di medievalismo a cavallo tra ‘800 e ‘900.

[continua]

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Cannibali antenati, ovvero antropofagia e Medioevo https://www.carmillaonline.com/2016/01/27/28182/ Wed, 27 Jan 2016 22:30:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28182 di Armando Lancellotti

La vendetta di Atreo22Angelica A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, il Mulino, Bologna, 2015, 238 pagine, € 22,00

La storica medievalista e ricercatrice Angelica Aurora Montanari affronta nel suo ultimo libro, Il fiero pasto, un argomento che già per la sua originalità e scarsa trattazione rende il saggio qui presentato meritorio e stimolante: l’antropofagia nel corso dell’età medievale. Nonostante le fonti trabocchino di riferimenti a casi di antropofagia o di banchetti cannibalici, pochi sono ad oggi gli studi sulla più estrema forma di tanatoprassi: il cannibalismo. Probabilmente perché – [...]]]> di Armando Lancellotti

La vendetta di Atreo22Angelica A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, il Mulino, Bologna, 2015, 238 pagine, € 22,00

La storica medievalista e ricercatrice Angelica Aurora Montanari affronta nel suo ultimo libro, Il fiero pasto, un argomento che già per la sua originalità e scarsa trattazione rende il saggio qui presentato meritorio e stimolante: l’antropofagia nel corso dell’età medievale.
Nonostante le fonti trabocchino di riferimenti a casi di antropofagia o di banchetti cannibalici, pochi sono ad oggi gli studi sulla più estrema forma di tanatoprassi: il cannibalismo. Probabilmente perché – osserva la studiosa – le testimonianze o i racconti che si incontrano nei documenti medievali incuriosiscono, attraggono il semplice lettore o lo studioso, ma solo momentaneamente, dopodiché l’attenzione si sposta rapidamente su cose ritenute più serie e si dà scarsa importanza al fenomeno del cannibalismo, che finisce presto relegato nell’ambito dell’aneddotica e forse anche poiché spesso non è facile capire la veridicità degli eventi raccontati e non è sempre semplice cogliere il discrimine tra realtà ed immaginazione, tra resoconto dei fatti e fantasia.

Ma di certo – sostiene Angelica Montanari – i nostri antenati medievali, in certe circostanze, hanno praticato il cannibalismo e i “mangiatori di uomini” non sono solo individui mostruosi o malvagi, simili agli orchi delle leggende o delle fiabe, ma «anche buoni cristiani, sono cavalieri e re, giovani donzelle, cittadini e ammalati. Il viandante, l’eremita, il pargolo, il guerriero: tutte potenziali vittime, tutti potenziali carnefici». (p. 8).
A ciò si aggiunga che, affrontando un argomento come questo, alla studiosa interessa non solo la ricostruzione evenemenziale dei fatti, la verifica della loro effettiva occorrenza, ma altrettanto il «mirabolante immaginario che ha perpetuato la memoria antropofaga» (p. 9), che ci permette di ricostruire uno spaccato estremamente interessante del cosmo mentale medievale, connesso ad una delle esperienze più estreme ed inumane che uomo passa conoscere.

cover_fiero_pasto_antropofagiaIl libro si struttura in otto capitoli, ognuno dei quali affronta un aspetto o una modalità o un significato particolare dell’atto antropofagico attraverso una ricchissima varietà di fonti che vanno dalle cronache ai memoriali di viaggio, dai trattati medici e dalle farmacopee ai testi normativi e legislativi, dalle fonti cartografiche ed etnografiche alle raccolte di exempla, dai testi letterari alle immagini e alle miniature, tutte esaminate con rigorosa attenzione che si traduce in sistematica categorizzazione fenomenologica dell’antropofagia durante l’intero arco del Medioevo, con qualche incursione a ritroso nel mondo antico ed in avanti verso la prima età moderna e con un’attenzione particolare per l’area geografica italiana centro-settentrionale e franco-normanna.

L’indagine parte nel primo capitolo (I morsi della fame) con la più immediata delle osservazioni eziologiche: lo stomaco vuoto ed attanagliato da una disperazione famelica può indurre in situazioni estreme al cannibalismo. Se si considerano l’altissima frequenza e la grave incidenza dei periodi di carestia durante l’età medievale, è facile comprendere come una delle premesse o delle condizioni principali dei casi di cannibalismo sia stata la fame. Quando i morsi della fame si fanno insopportabili – osserva l’autrice – il confine tra mundus e immundus tende a scomparire; si mangiano anche gli immundia animalia fino ad arrivare all’atto immondo per eccellenza: il cibarsi di carne umana. Non solo le carestie, conseguenza di inclementi fenomeni naturali, ma spesso anche i lunghi assedi creavano le condizioni affinché quel limite, normalmente considerato aberrante, fosse valicato. È il caso dell’assedio e conseguente sacco di Roma compiuto da Alarico nel 408-410, che causò «pasti antropofagici consumatisi all’interno dell’urbe assediata». (p. 12)

Come è noto, per la mentalità medievale il legame tra naturale e sovrannaturale è così stretto da indurre l’uomo dell’età di mezzo a riportare spesso fatti ed accadimenti mondani a cause e ragioni trascendenti, a spiegare l’incomprensibile di questo mondo con il comprensibile per fede di un altro mondo, quello divino. Le calamità naturali e quindi anche le carestie e la fame sono segni o flagelli divini, che mettono in guardia o puniscono gli uomini per i loro peccati. Non sfugge a questo paradigma esplicativo il cannibalismo: «l’antropofagia può essere uno dei profetici signa che annunciano disastri cosmici, oppure la somma conseguenza dell’ira celeste che invia siccità, piogge diluviali, sciami di locuste, guerre, devastazioni cataclismi e carestie, costringendo gli uomini a immonde pratiche necrofagiche e cannibaliche». (p. 15)
Nelle cronache e nelle testimonianze ricorre frequentemente questo genere di rielaborazione e spiegazione degli episodi di “cannibalismo nutrizionale”, un atto così immondo da poter essere compreso solo se lo si riconduce ad un sovvertimento dell’ordine naturale (quindi divino) delle cose, che solo Dio stesso può volere per colpire con la sua infallibile giustizia i mali degli uomini. È il caos che si impossessa del mondo e ne conseguono effetti apocalittici, come racconta Rodolfo il Glabro circa la grande carestia del 1032-1033, che colpì molte parti d’Europa ed anche la Borgogna: «Come se ormai stesse diventando un fatto abituale il mangiare carni umane, un tale ne portò di cotte per metterle in vendita al mercato di Tournus, quasi si trattasse di comune carne animale. Arrestato, l’uomo non negò quella colpa; fu allora immobilizzato e bruciato sul rogo. La carne venne seppellita; ma un altro la dissotterrò di notte e la mangiò, finendo egli pure bruciato». (p. 17)

Dall’analisi dei penitenziali poi la studiosa desume la fermezza dei divieti riguardanti l’ingestione indiretta di carne o altri resti umani, interdetto già auspicato in passato da Tertulliano riguardo all’abitudine di consumare le fiere dell’arena che avevano divorato carne umana: il pericolo è quello della antropofagia di “seconda mano”, che induce per esempio il re di Francia Giovanni II il Buono nel 1363 a vietare di «macellare animali che si fossero nutriti nelle residenze dei barbieri, dove avrebbero potuto ingerire sangue, capelli o unghie recise. La normativa si estendeva poi a proibire a diverse categorie professionali, tra cui gli stessi barbieri e i chirurghi, l’allevamento del bestiame destinato a uso alimentare nel dubbio che potesse essersi cibato di residui piliferi, fluidi umani o carni amputate». (p. 20)

Ma qual è l’identità del divoratore per fame di carne umana, che nella maggior parte dei casi – cioè esclusi quelli di necrofagia – è prima omicida e poi cannibale? Angelica Montanari ci dice che non è affatto facile tracciarne un profilo, disegnarne un identikit, che rimangono pertanto alquanto imprecisi ed indefiniti; molto più semplice, invece, è raccogliere dai documenti gli indizi riguardo alle vittime del “fiero pasto”, che nei più frequenti casi di “esocannibalismo” sono uomini o donne esterni alla comunità, per esempio malcapitati stranieri o pellegrini o viandanti, oppure bambini attirati con l’offerta di un frutto o di un dono. Questa – osserva l’autrice – è «ritenuta la forma meno grave di antropofagia poiché non lede i componenti del nucleo sociale (come nel caso di assassinio di viandanti e pellegrini)» (p. 53); certamente meno grave dell’“endocannibalismo”, fenomeno che si verifica quando la vittima è parte integrante della comunità, che rischia di sfaldare i legami comunitari e sociali. Ma il caso più grave di tutti è l’”omicidio cannibalico intrafamiliare”, che se «commesso dalla madre verso i figli, mina dall’interno il nucleo fondamentale dell’organizzazione sociale». (p. 53)

E proprio delle “madri antropofaghe” si occupa l’interessantissimo secondo capitolo del libro che individua l’archetipo medievale dell’antropofagia materna (o intrafamiliare) nel testo biblico e in particolare nel secondo Libro dei Re, nel quale si narra dell’assedio di Samaria, quando due donne stremate dalla fame si accordano di uccidere, cucinare e mangiare i corpi dei loro figli; ma mentre la prima tiene fede al patto omicida, la seconda, dopo aver mangiato del figlio dell’altra, si rifiuta di uccidere suo figlio e lo nasconde. In altri passi del testo sacro l’antropofagia intrafamiliare viene invece minacciata come tremenda punizione e necessaria tragedia nel caso di infrazione della legge di Dio da parte del popolo di Israele e così i padri sbraneranno i figli o i figli divoreranno i padri.
Maria divora il figlioMa accanto al testo biblico, vi è un’altra auctoritas fondamentale per i medievali riguardo al cannibalismo materno: è il Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio, che racconta l’assedio di Gerusalemme ai tempi dell’imperatore Vespasiano (70 d.C.) e di una donna, Maria, che si ciba del proprio figlio. Disperata per la fame, che attanaglia l’intera popolazione della città assediata e per il deperimento del figlio, che non potrà in alcun modo sfuggire ad una tremenda morte per inedia, a maggior ragione se lei stessa morirà e non potrà più accudirlo, Maria prende la decisione di ucciderlo e di utilizzarlo come cibo. Ma i ribelli, che tengono il controllo di Gerusalemme e la cui rivolta contro Roma ha condotto all’assedio, attratti dall’odore della carne cucinata, fanno irruzione nella casa di Maria per avere una porzione di quel cibo, ma quando vengono a sapere dalla donna stessa di che cosa si tratta, lo rifiutano disgustati e sconvolti. Ma proprio loro, per Giuseppe Flavio, sono ancor più colpevoli della madre cannibale, avendo creato le condizioni perché l’esecrando atto di Maria fosse possibile. La notizia presto si diffonde sia dentro alla città sia al di fuori di essa e giunge fino alle orecchie dei romani e di Tito, figlio di Vespasiano, che dinanzi ad un tale accadimento prende la decisione irrevocabile che Gerusalemme andrà distrutta.

Al di là dei fatti – osserva l’autrice – ciò che più interessa è l’analisi che ne fa Giuseppe Flavio, il quale estende all’intero popolo giudaico, che ha violato la legge di Roma, il crimine di Maria, causato non solo e non principalmente dalla fame, ma anche da una forma estrema e paradossale di pietà per il figlio e soprattutto dall’ira verso i ribelli che hanno provocato la situazione che l’intera Gerusalemme sta vivendo e quindi anche il suo estremo gesto. La «deresponsabilizzazione di Maria è finalizzata ad additare gli insorti come unici veri colpevoli dell’accaduto». (p. 33)

Nel Medioevo il racconto di Giuseppe Flavio si associa alla teoria, desunta dalla Bibbia, dell’antropofagia materna come maledizione punitiva di Dio e il risultato è un acrobatico capovolgimento di senso che porta a corroborare il tremendo pregiudizio cristiano antigiudaico del deicidio. «Il casus belli antropofagico, che dal punto di vista di Flavio (e delle sue prime epitomi latine) motiva la distruzione di Gerusalemme, è diventato progressivamente inutile nella nuova ottica cristiana: sui giudei, colpevoli del massimo peccato, […] ricade sempre e comunque l’infamia più grave e terribile, il deicidio». (p. 35)
L’atto cannibalico, che per l’ebreo e romano Giuseppe Flavio era la “causa” della distruzione di Gerusalemme, negli autori cristiani si capovolge e si trasforma in “conseguenza” inevitabile e tremenda della colpa di tutte le colpe, il deicidio e della sua necessaria punizione.

Come quelle qui sommariamente riproposte riguardo all’antropofagia materna, altrettanto interessanti sono le considerazioni sulla possibilità di un’antropofagia “paterna”, che l’autrice sostiene non essere di fatto contemplata dagli autori cristiani, a meno che l’atto del sacrifico della vita innocente del figlio da parte del padre non costituisca l’esecuzione votiva di un volere divino. In tal caso è proprio l’uomo, è solo il padre che può compiere il gesto estremo infanticida, di cui l’archetipo è Abramo pronto a sacrificare Isacco per ordine di Dio. E il “lieto fine” della vicenda e di altre analoghe confermerebbe come solo all’uomo sia riservato il rapporto sacrificale con Dio e con i valori positivi ad esso connessi, mentre «una madre assassina non agisce mai secondo nobili propositi, ma sempre per follia o per vendetta […]. Ella viene così inevitabilmente relegata nella categoria degli antropofagi bestiali e contro natura». (p. 52)

Maria divora il figlio 2Per rimanere nell’ambito dell’antropofagia sacrale o sacrificale e non rispettando la successione dei capitoli di un libro che per abbondanza e diversità di argomenti e punti di vista considerati può essere letto anche scombinandone la struttura, passiamo al sesto capitolo (Il pasto rituale), in cui Angelica Montanari affronta sia il caso di quella pratica di “antropofagia simbolica” che è il rito eucaristico, sia le accuse di cannibalismo e connessi riti immondi, innanzi tutto imputate dai pagani proprio ai primi cristiani, poi traslate e trasferite da questi ultimi contro i pagani stessi (già dai primi apologisti e padri della Chiesa), ma anche e soprattutto contro eretici ed ebrei nel corso del Medioevo.
Se è vero che né «la teofagia né il cannibalismo sacrale […] nascono con il cristianesimo, essendo presenti in una grande varietà di miti e di culti precedenti» (p. 119) è pure vero che quello di Cristo è un corpo «incarnato, risorto, transustanziato, esposto, venerato, ingerito, assimilato». (p. 119)
I nemici della nuova religione cristiana ebbero quindi gioco facile ad accusare i cristiani di cannibalismo rituale, di cibarsi di carne e sangue umani e di compiere omicidi di bambini per inzuppare nel loro sangue il pane eucaristico.
Gli apologisti e i padri della Chiesa si impegnarono a fondo nel confutare le infamanti accuse e nel rispedirle al mittente in una «tappa fondamentale nel processo di autodefinizione identitaria del nuovo credo» (p. 125), fino ad arrivare a capovolgere i ruoli di accusatori ed accusati.

Nel Medioevo poi, a partire dall’XI secolo in avanti, quando numerose eresie nascono, attecchiscono e si diffondono rapidamente, l’accusa di cannibalismo rituale, nella forma di un plagio demoniaco ed immondo del sacro rito eucaristico, viene imputata proprio agli eretici, i nemici interni, perciò ancor più pericolosi, della cristianità. Gli eretici celebrano «eucaristie sacrileghe con ostie impastate con il sangue o le ceneri dei figli uccisi» oppure preparano «polveri o pozioni a base di residui di bambini in un composto capace – se ingerito – di trasmettere l’errore anche ai fedeli più devoti». (p. 127) Ma – osserva l’autrice – se nella lotta senza quartiere contro catari ed altri eretici è comprensibile che la Chiesa ricorra alle forme peggiori di diffamazione pensabili, risulta invece più complesso comprendere il percorso che porta all’imputazione del plagio sacrilego del rito eucaristico a religioni storicamente precedenti quella cristiana: le correnti misteriche antiche e, ovviamente, l’ebraismo, il più infallibile e sempre pronto all’uso dei parafulmini di buona parte della storia della cristianità.
La verità ontologicamente e logicamente precede l’errore anche quando nell’ordine umano del tempo e della storia le cose si susseguono diversamente, pertanto «con buona pace della sequenza temporale, […] pagani ed ebrei hanno imitato i culti cristiani incentrati sul pasto rituale prima ancora che il cristianesimo si presentasse sul palcoscenico della storia, contraffacendoli diabolicamente in macabri rituali cannibalici». (p. 128)

Già l’antigiudaismo della cultura ellenistica aveva avanzato accuse in tal senso, come testimoniato dal Contro Apione di Giuseppe Flavio, ma è il cristianesimo medievale e basso medievale in particolare che amplifica a dismisura il fenomeno e così la “cronaca nera” dell’Europa cristiana si affolla di casi come quello di Simonino di Trento a cui si aggiunge l’ennesima acrobatica piroetta logica per cui non solo il sacrifico rituale di bambini cristiani è un continuum della violenza contro Cristo crocifisso, ma l’assunzione di «sangue di infanti battezzati da parte di ebrei sarebbe stata motivata dalla volontà di accedere ai benefici redentivi del sangue di Cristo, desiderio che sottintenderebbe paradossalmente la piena accettazione delle verità cristiane». (p. 130)

Retrocedendo al capitolo terzo (Mangiare il nemico), veniamo a conoscenza di un significato e di una forma tanto trascurati quanto interessanti di antropofagia: il divoramento del nemico politico o del tiranno. Si tratta in sostanza di atti di cannibalismo con significati politici e scopi simbolici: il caso più frequente è quello del cuore del nemico strappato dal petto e addentato o sbranato. Circa una quindicina sarebbero secondo le cronache – dice Angelica Montanari – i casi di cannibalismo di questo genere avvenuti tra il XIV e il XVI secolo prevalentemente nell’Italia centrosettentrionale.
La campionatura del fenomeno che il libro riporta parte però dal caso messinese del 1168 durante il regno del normanno Guglielmo II d’Altavilla, quando il popolo, esasperato per le eccessive tasse imposte dagli uomini della regina madre e reggente Margherita di Navarra, uccide Oddone Quarrel, ritenuto il principale responsabile ed un insorto gli trafigge il cranio con un coltello per poi lambire ed ingerire il sangue direttamente dalla lama, per arrivare fino ai fatti del 1585 nel viceregno spagnolo di Napoli, quando l’eletto del popolo Giovan Vincenzo Starace, accusato di privare la popolazione del pane necessario, viene ucciso e squartato dalla folla e le sue carni cotte e crude vengono divorate, passando attraverso le cruente vicende della Marca Trevigiana nel 1313, di Brescia nel 1311, di Firenze nel 1343, oppure ancora di Milano nel 1476 e di Forlì nel 1488 e così via. Non manca neppure un caso francese, che coinvolge però il toscano Concino Concini, uomo di fiducia di Maria de’ Medici, ucciso per volere di Luigi XIII, «il cui cuore sarà strappato e cucinato sui carboni ardenti» nel 1617. (p. 60)

In tutti i casi – che la studiosa cataloga come «tirannicidi, congiure o rivolte, punizioni dell’attentatore del signore, scontri tra fazioni, lotte contro nemici esterni alla città, vendette private» (p. 61) – l’atto di cannibalismo ha il fine di fare scempio del corpo del nemico, spregiarlo e oltraggiarlo; infatti, mentre altre forme di violenza brutale e sanguinaria come l’amputazione, il trascinamento, l’impiccagione per i piedi, fino ad arrivare allo squartamento erano variamente previste da codici penali di molto precedenti il ripensamento e la ridefinizione di delitti e pene dell’illuminismo di un Beccaria, «l’antropofagia, culmine simbolico del rituale infamante» (p. 63), non era contemplata.
Le vittime della violenza cannibalica sono solitamente nobili colpevoli di crimini politici (malgoverno o cospirazione contro un governo giusto); il carnefice è genericamente individuato nel popolo, nella folla, nella moltitudine che si solleva ed insorge; la «pena, quindi, deve essere esemplare e pubblica» (p. 65) e soprattutto infamante, a tal punto che chi ne è colpito viene disumanizzato, animalizzato, ridotto e degradato a semplice carne commestibile.

Supplizio di Andronico ComnenoPer l’autrice, internamente al rituale di vendetta collettiva che comporta smembramento e divoramento del nemico, diverso valore simbolico assumono le modalità di trattamento del corpo straziato. Come ci dice il capitolo quarto (Cuore morso, cuore mangiato), la «crudità della carne […] enfatizza la feritas degli aggressori e pone contemporaneamente l’accento sull’animalizzazione della vittima […]. Al contrario la cottura della carne umana ne sottolinea la novella veste alimentare: è il caso dei bambini cotti che figurano nelle testimonianze delle carestie e nella tradizione testuale e iconografica dell’episodio di Maria, dove il pargolo è immortalato mentre rosola sul fuoco oppure pronto ad essere gettato in un calderone». (p. 77-78)

Non potendo in alcun modo restituire la straordinaria nonché avvincente ricchezza del libro di Angelica Montanari, né intendendo sostituire una semplice presentazione alla sua diretta lettura, completiamo queste considerazioni annotando che molti altri sono gli aspetti dell’antropofagia che la storica affronta nei restanti capitoli del suo lavoro: per esempio la “vendetta cortese” che ricorre nella letteratura medievale, nella quale «un marito geloso, dopo aver trucidato l’amante della moglie, le propina subdolamente a tavola il cuore dell’amato ucciso, celato sotto forma di torta o di altra vivanda» (p. 83); oppure (capitolo quinto, Curare col corpo) l’uso di parti del corpo umano o di membra ricavate da salme per confezionare farmaci, considerati così efficaci da essere quasi miracolosi, analogamente alle reliquie dei santi. Infatti «mentre i monaci erano impegnati a raccogliere i preziosi succhi emersi dalle salme dei santi e a filtrare le reliquie con acqua e vino, in ambito profano si diffondeva una farmacopea ancor più antropofaga». (p. 99) È il caso della cosiddetta “mumia”, «vera e propria carne umana essiccata» (p. 99) considerata un farmaco potentissimo ed efficacissimo.

E per finire riportiamo una “ricetta” – ebbene sì, anche questa non manca – per chi intenda cimentarsi con una tipologia un po’ eccentrica di arte culinaria! È tratta da un testo stampato a Venezia a fine ‘600 da Carlo Lancillotti, medico e chimico modenese, che riporta questa ricetta per la preparazione e la conservazione della carne umana:
«Ingredienti: cadavere umano (a piacimento), mirra, aloe, “spirito di vino ottimo”. Norme per la preparazione: – lasciare il cadavere “un giorno intiero e una notte in tempo sereno all’aria dove li dii il sole e la luna”; – tagliare la carne “in fette”; – aspergere le fette con mirra e un quarto di aloe e polverizzare finemente; – lasciar riposare il tutto quattro o sei ore; – intingere le fette in “spirito di vino” e porre “all’aria in loco secco e ombroso come sarebbe la stufa di un forno, dove si cuoce il pane […] sino che dette fette sieno benissimo secche, che paia carne seccata al fumo”». (p. 117)

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