antidepressivi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Piero Cipriano: “Ayahuasca e Cura del Mondo”. Per una psicoterapia psichedelica https://www.carmillaonline.com/2023/04/26/piero-cipriano-ayahuasca-e-cura-del-mondo-per-una-psicoterapia-psichedelica/ Wed, 26 Apr 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76726 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023, pp. 173, € 15,00

«Ayahuasca significa viaggio tra mondi che uniscono mentale e reale in modo inedito. È possibile curare i disturbi psichiatrici con questa pianta e metodo ribaltando l’idea che sta alla base della psichiatria e psicanalisi attuale?» A porre tale interrogativo è Piero Cipriano, medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, in servizio presso un SPDC di Roma dopo aver lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale sparsi per l’Italia, oltre che autore di [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023, pp. 173, € 15,00

«Ayahuasca significa viaggio tra mondi che uniscono mentale e reale in modo inedito. È possibile curare i disturbi psichiatrici con questa pianta e metodo ribaltando l’idea che sta alla base della psichiatria e psicanalisi attuale?» A porre tale interrogativo è Piero Cipriano, medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, in servizio presso un SPDC di Roma dopo aver lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale sparsi per l’Italia, oltre che autore di numerosi saggi. L’interesse di Cipriano nei confronti della bevanda ayahuasca e altre piante nasce dalla necessità di individuare rimedi efficaci per i disturbi psicopatologici con cui ha a che fare quotidianamente per lavoro.

In apertura di libro l’autore tratteggia il diffondersi in Brasile di culti sincretici basati sull’assunzione della bevanda ayahuasca, rituale a cui le popolazioni amazzoniche fanno ricorso probabilmente da millenni. Tra i culti diffusisi in tempi recenti in ambito brasiliano viene fatto riferimento al Santo Daime, fondato in apertura degli anni trenta del Novecento dal seringueiro Raiumundo Irineu Serra, alla Borquinha, culto nato alcuni lustri dopo ad opera del suo discepolo Daniel Pereira, alla União do Vegetal (UDV), culto fondato da José Gabriel da Costa ad inizio degli anni Sessanta. Se quest’ultimo è attualmente il culto più diffuso nelle città brasiliane, è stato il Santo Daime ad aver fatto conoscere la bevanda ayahuasca agli occidentali nordamericani ed europei.

Mentre negli anni Ottanta tali culti raggiungono gli occidentali, in Amazzonia la pratica di sciamano (curandero, ayahuasquero, vegetalista…) è sempre meno praticata. Le cose cambiano nel corso del decennio successivo, quando l’arrivo in terra amazzonica di occidentali interessati all’esperienza psichedelica trasforma il mestiere dello sciamano da pratica povera a lavoro ben retribuito, dando vita così al fenomeno del neo-sciamanesimo che coinvolge anche messicani, andini, pellerossa, allargando l’esperienza a funghi psichedelici, Peyote, San Pedro, Bufo Alvarius, Dmt fumata ecc. Come facilmente prevedibile, l’improvvisa richiesta di sciamani determinata dalla presenza occidentale, che in apertura del nuovo millennio si fa davvero cospicua, determina anche casi di curanderi improvvisati e inaffidabili.

Cipriano ricostruisce dunque come, con qualche millennio di ritardo, le esperienze psichedeliche arrivino anche sul fronte occidentale; grazie ad Albert Hofmann nel 1943 l’Lsd inaugura un paio di decenni di ricerche e sperimentazioni sugli psichedelici a cui la psichiatria dell’epoca ha guardato con interesse vedendo in essi degli psicofarmaci efficaci. Negli anni Sessanta, grazie a Stephen Szára, inizia a farsi strada un’altra molecola psichedelica, la Dmt, dunque è la volta della 5-Meo-Dmt, estratta dalle parotidi del Bufo Alvarius, un rospo del deserto messicano.

Oltre a Lsd, Dmt, 5-Meo-Dmt, mescalina, Peyote/San Pedro, psicocibina o fungo magico, salvinorina A della Salvia divinorum, ibogaina della Tabernanthe iboga e muscimolo dell’Amanita muscaria, iniziano a circolare molecole sintetiche come Ketamina, Mdma, Mda e 2CB.

L’uscita di queste molecole dall’ambito laboratoriale, e l’uso che ne è stato fatto da parte di terapeuti particolarmente eterodossi, ha condotto tali sostanze a una repentina perdita di credibilità dal punto di vista farmacologico tanto da venire rubricate come droghe con relativa messa fuori legge. Il fatto è che, ricorda Cipriano, tutte queste sostanze finirono per spaventano il potere; iniziarono ad essere viste non tanto come sostanze utili per curare depressi, ansiosi, psicotici o dipendenti da sostanze, ma come sostanze che, dissolvendo l’ego che separa il sé dal non sè, indirizzano all’empatia, avrebbero potuto “cambiare il mondo”, “trasformare l’umanità” mandando in frantumi i capisaldi del sistema sociale, politico ed economico egemone.

Timothy Leary, intenzionato a sottrarre queste sostanze psichedeliche prodigiose a una nicchia di privilegiati, ne auspicava una diffusione generalizzata, vedendo in esse “un dono della natura” di cui tutti avrebbero dovuto beneficiare dando così luogo a una trasformazione positiva dell’umanità. Gli Stati Uniti ne decretarono la messa al bando, immediatamente seguiti dalle altre nazioni. Del soffocamento sul finire degli anni Sessanta di questa “epopea psichedelica” tratta Robert Anton Wilson (RAW), uno dei suoi “protagonisti”, nel libro Sex, Drugs & Magik, uscito nel 1973.

Così, a partire dagli anni Settanta, con la loro messa la bando, l’uso di tali molecole finì per essere portato avanti rigorosamente in ambito underground da parte di terapeuti, come Leo Zeff, operanti in clandestinità. Soltanto a ridosso del cambio di millennio ricomparvero studi scientifici condotti alla luce del sole.

Nel corso degli anni Novanta, in anticipo rispetto al cosiddetto “rinascimento psichedelico”, lo psichiatra statunitense Rick Strassman presentò il primo studio in cui si individuava nella molecola Dmt la responsabile delle visioni determinate dalla ayahuasca. Sin dall’inizio del decennio Strassman ipotizza che l’epifisi in particolari situazioni produca quantità di Dmt in grado di dare effetti psichedelici e che lo stato di coscienza definito psicosi sia uno stato psichedelico endogeno determinato da un eccesso di produzione di Dmt. Lo studioso ipotizza che il cervello funzioni di fatto come un ricevitore captante la realtà e che, assumendo Dmt, cambi la captazione del segnale. A bassi dosaggi si avrebbero cambiamenti semplici (intuizioni, ricordi, visioni personali…) in grado di mettere meglio a fuco il segnale, mentre ad alti dosaggi si otterrebbe l’accesso ad “altri mondi” che sembrerebbero non far parte né dell’inconscio individuale, né di quello collettivo.

Paragonando il tutto a un televisione, non si sarebbe più di fronte a un “miglioramento di nitidezza”, ma ad un vero e proprio “cambio di canale”. La giusta quantità di Dmt secreta dalla ghiandola pineale manterrebbe l’essere umano sintonizzato sulla realtà, mentre un eccesso di Dmt endogena lo sintonizzerebbe sua altri piani. Non sapendo come altro fare, per riportare gli individui sul “canale normale” lo psichiatra prescrive antipsicotici che però, se assunti per tempi prolungati, finiscono per “restringere la coscienza”, “sbiadire la percezione della realtà” di queste persone, condannandole alla limitatezza e al grigiore.

Strassman comprende inoltre che il setting ed il set degli esperimenti scientifici – ben diverso dal contesto sciamanico – ne inquina la ricerca e di ciò, suggerisce Cipriano, occorrerà tener conto se mai si deciderà di ricorrere a sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico: che non si pensi di potersela cavare somministrando tali sostanze con lo stresso distacco con cui si somministrano pasticchine tradizionali. Insieme alle sostanze dovrà cambiare lo stesso psichiatra se si vuole che queste risultino efficaci sui pazienti. Occorrerà che la figura dello psichiatra che somministra sostanze psichedeliche si faccia un po’ curandero, che sappia instaurare con il paziente e con le sostanze un’adeguata relazione.

Dunque, ricapitolando, per quanto riguarda la psichedelia occidentale si può parlare di una sua fase pionieristica (coincidente con l’epopea di Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary), seguita da una sorta di “medioevo psichedelico”, in cui personaggi come Leo Zeff operano praticamente in clandestinità o altri, come Terence McKenna, continuano ad alimentare la controinformazione psichedelica, per poi giungere a quello che è stato definito il “rinascimento psichedelico” che, sull’onda degli studi di Rick Strassman, ha preso il via con il cambio di millennio grazie agli studi scientifici di personalità come Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross – direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University – e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California.

Secondo Cipriano sono ormai maturi i tempi per fare i conti con i limiti storici di Basaglia che, pur di tirare fuori i poveri cristi dalle mura manicomiali non poteva che ricorrere ai farmaci disponibili. Nel frattempo, però, alle fasce di contenzione si sono sostituiti i farmaci di contenzione e il manicomio si è fatto chimico, a cielo aperto, a base di psicofarmaci, antipsicotici, antiepilettici e così via. Una serie di sostanze che a lungo termine non possono che restringere le coscienze.

I limiti di tanti “basagliani” è forse quello di non voler prendere atto della trasformazione subita dal manicomio; è contro il manicomio contemporaneo che occorrerebbe battersi oggi non accontentandosi di ribadire la brutalità di quello del passato, anche se quest’ultimo, di tanto in tanto, fa comunque capolino pur sotto altri nomi.

Occorre provare ad andare oltre Basaglia e, soprattutto, sostiene Cipriano, oltre i “basagliani”. «Ora bisogna levare i farmaci che cortano le coscienze e imparare a maneggiare le sostanze che possono espanderle. Sostanze di cui talvolta gli esperti non siamo noi, scienziati o medici, ma gli sciamani selvaggi rimasti fuori dalla scienza».

Pur in mancanza di uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali ne siano le cause e persino i motivi per cui possa definirsi una malattia, stando ai dati dell’OMS, questa sarebbe la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra chi ha tra i 15 ed i 44 anni). Distinguendo tra tristezza cum causa e tristezza sine causa (la sola da ritenersi patologica), Ippocrate differenziava una malinconia esogena (con causa) da una endogena (priva di causa). Tale millenaria separazione viene di fatto cancellata dal Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders nella sua edizione del 1980 (DSM-III), la “bibbia diagnostica” degli psichiatri stilata dall’American Psychiatric Association (la prima edizione del manuale risale agli anni Sessanta).

Da allora le diverse edizioni del DSM che si sono succedute hanno via via trasformato in depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, ponendo fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena, dunque trasformando la depressione da patologia rara in pandemia. Basti pensare che ora si è considerati depressi se per un periodo di almeno due settimane si palesano almeno cinque sintomi tra: umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi; pensieri di morte o di suicidio.

È facilmente intuibile come nell’attuale società della prestazione i casi di depressione conteggiati siano così elevati. Qualche decennio di chimica antidepressiva e una riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici hanno condotto a una vera e propria pandemia di depressi, tanto che ai nostri giorni se ne stimano 400 milioni, a cui si aggiungono 60 milioni di bipolari, in cui la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore.

Con la diffusione degli antidepressivi, da fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, il disturbo bipolare diviene la seconda patologia psichica più diffusa. Non a caso le case farmaceutiche hanno negli antidepressivi la fonte maggiore di profitto. Gli antidepressivi e antipsicotici di nuova generazione di cui i colossi farmaceutici hanno inondato il mercato delle sofferenze a partire dagli anni Ottanta, dopo diversi decenni di utilizzo hanno mostrato i loro limiti.

Oggi, dopo che Ssri e antipsicotici di nuova generazione hanno avuto trent’anni per misurarsi, per mostrare la loro non dico inefficacia (non sarei onesto) ma la loro non risolutività, spero che anche gli psichiatri più timidi e gli psicoterapeuti più tradizionali saranno pronti ad affrontare la sfida, quella di una terapia che saprebbe mettere d’accordo l’annoso conflitto tra pillole e parole, tra trattamenti biologici e trattamenti psicologici. Sarebbe il tipo di terapia che praticava Stanislav Grof o che ha praticato in clandestinità l’eroico Leo Zeff, una terapia breve, di poche sedute ma decisamente trasformativa.
Riconosco che questo modello, diciamo di psicoterapia psichedelica, è un rischio sia per lo psichiatria che per lo psicoterapeuta tradizionale, perché una terapia dove lo scopo è procurare un’esperienza mistica o estatica appare decisamente poco scientifica e molto sciamanica, e potrebbe rappresentare davvero una sorta di cavallo di troia introdotto nella pratica medica e psicologica. Questo potrebbe minare alle fondamenta i protocolli scientifici, contaminare di sciamanesimo la medicina, innescare una mutazione, un’inversione di marcia non solo della psichiatria ma dell’intera medicina.

Certo, nel contesto ad egemonia capitalista in cui viene a darsi questo “rinascimento psichedelico” non manca il rischio che i colossi farmaceutici inglobino le molecole psichedeliche, tolgano loro visionarietà addomesticandone l’effetto, le riducano a semplici farmaci anziché tecnologie capaci di cambiare coscienze e società. Nonostante questo rischio, sostiene Cipriano, le frontiere tra misticismo e cura psichiatrica, tra psichedelici e psicofarmaci sembrerebbero ai giorni nostri vacillare come mai è accaduto prima, tanto da poter ipotizzare la possibilità della cura Ayahuasca.

Non sarebbe però sufficiente sostituire farmaci che espandono la coscienza a quelli che la contraggono; occorrere anche una nuova generazione di terapeuti disposti a imparare come gestire gli stati di coscienza espansi, disposta a farsi «insegnare il segreto dai signori del limite, dalle guide della soglia, imparando dunque a conoscere le molecole psichedeliche». L’ultima parte del volume è dunque dedicata a come si possa intraprendere una sorta di viaggio iniziatico, sciamanico di cura dei disturbi psichici.

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Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2018/05/06/libro-delle-metamorfosi-intervista-piero-cipriano/ Sat, 05 May 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45116 di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non è possibile sfuggire. In attesa dell’uscita del libro ti chiediamo di anticiparci brevemente qualcosa a tal proposito.

[pc] I quarant’anni di una legge straordinaria ma tutto sommato per lo più tradita offrono l’occasione per fare il punto. Quella legge era fatta a misura del manicomio classico, quello che siamo abituati a pensare essere il manicomio, l’unico manicomio, il manicomio inventato da Pinel nel 1794, il manicomio lager che serviva per segregare i devianti affetti da un qualche elemento di follia, non per curarli e restituirli alla società ma per separarli per sempre da essa. Un luogo dove si compiva un’eutanasia sociale prossima a quella dei lager nazisti. Il luogo della definitiva sparizione degli esseri umani diversamente ragionanti. Diciamo che con la legge 180 si decretava, in Italia almeno, la fine di questi dispositivi di annientamento. Ma, è quel che sostengo in questo libro, il manicomio è un Proteo, è cangiante, e la psichiatria ha saputo sempre declinarsi in un manicomio; posto fuori legge il manicomio concentrazionario ecco ascendere, proprio a partire dal 1980, un manicomio fatto di etichette diagnostiche e psicofarmaci conseguenti, a vita, quel manicomio che ho definito chimico, il 2.0, diciamo. Ma questo manicomio invisibile si embrica con un ulteriore manicomio, trasparente, emanazione di questa società della trasparenza, la società digitale del web, della rete, dei social network, dove ognuno si denuda e mette in piazza la sua esistenza, dove il controllo è totale, come in un panottico dove, a differenza di quello benthamiano, i controllori sono gli stessi controllati, un controllo reciproco a 360 gradi, perfetto. Dirai ok, ma come questo si interseca con il manicomio chimico e quello concentrazionario? Ti faccio un esempio. La Food and Drug americana sta sperimentando un sistema detto Proteus (non per caso ispirato al Proteo mostro cangiante della mitologia) per rendere l’assunzione dei nuovi antipsicotici sicura, certa, assoluta. Il malato psichico del prossimo futuro digitale ingoia la pasticca, dotata di un sensore ingeribile che comunica con un sensore posto sulla pelle che a sua volta comunica col tablet dello psichiatra, il quale alla prima trasgressione provvederà al ricovero obbligatorio, in un reparto chiuso. Ecco che il manicomio chimico si embrica con quello digitale e con quello concentrazionario. L’uno non esclude l’altro ma si combinano. Poi mi sono perfino immaginato un povero paziente psichico digitale la cui assunzione o meno del farmaco con sensore sarà premiata con un like o biasimata con un dislike da parte dei suoi cosiddetti amici social-virtuali. E così via. Non ti racconto tutto…

[ght] Nel libro, ricostruendo la lunga lotta condotta da Basaglia contro il manicomio concentrazionario e il significato assunto dalla Legge 180 da essa derivata, insisti sulla necessità di una nuova rivoluzione anti-manicomiale. Ti chiediamo di fornirci qualche elemento utile a motivare l’urgenza di una nuova rivoluzione nell’ambito del disagio mentale.

[pc] La Legge 180 è stata una legge straordinaria, meglio di così non si poteva fare. Però è stata applicata solo in pochi luoghi, che peraltro dimostrano proprio il contrario di ciò che sostengono i detrattori, ovvero che sapendola attuare è una legge che fa quel che deve fare, ovvero elimina la manicomialità, e permette la cura delle persone nei luoghi di vita e non nelle cliniche, nei letti, nei luoghi a parte, nei tanti manicomietti e caravanserragli sparsi per il paese, che si chiamino SPDC che si chiamino casa di cura che si chiamino comunità terapeutica che si chiamino REMS. Una rivoluzione politica e scientifica che, come spesso succede, è stata in parte riassorbita, se non vanificata. La vicenda del suo ispiratore, Franco Basaglia, sulla cui figura imposto questo libro, assomiglia a quella del ginecologo viennese della metà dell’Ottocento, Filippo Ignazio Semmelweis. Il quale aveva intuito che la sepsi puerperale delle donne gravide dipendeva dalle mani dei medici, che non lavate, le infettavano a morte. Bastava lavarsi le mani, suggerì Semmelweis. Grandissima intuizione, politica e scientifica. Ebbene, fu necessario mezzo secolo perché Pasteur dimostrasse, con le scoperte microbiche, che Semmelweis aveva ragione. Nel frattempo i medici avevano ottusamente continuato a non lavarsi le mani. Nel nostro specifico sembra sia accaduta la stessa cosa. Basaglia come Semmelweis dice sono gli psichiatri che con i loro dispositivi internanti ovvero i manicomi uccidono, socialmente e fisicamente, le persone. Ancora una volta il motivo della malattia è iatrogeno. Lavatevi le mani. Eliminate i manicomi. Be’, siamo anche noi in attesa di un Pasteur della psichiatria che confermi l’intuizione di Basaglia e dica: i manicomi ammalano, non curano.

[ght] Nel libro concedi spazio ad autori come Paolo Virzì, Silvano Agosti, Nicola Lagioia e Pierpaolo Capovilla, accomunati dall’avere raccontato al grande pubblico il mondo della sofferenza mentale. Mi sembra sia importante raggiungere un pubblico diffuso perché quella rivoluzione anti-manicomiale di cui parli richiede una rivoluzione dell’immaginario collettivo e il ruolo del cinema, della musica, della narrativa e di altre forme di comunicazione è probabilmente fondamentale per il raggiungimento di questo scopo.

[pc] In effetti non l’ho detto ma lo dico ora: sono due libri, appunto. Nel primo libro, che rappresenta la prima parte, faccio una contro-storia della follia e dell’anti-follia ovvero la psichiatria, da Pinel a oggi, dove il fulcro è Basaglia. C’è insomma, io penso, nella storia della psichiatria, un prima e un dopo Basaglia. Un po’ come quell’altro, che non nomino. Nel secondo libro, appunto per capire con chi farla questa rivoluzione se di rivoluzione vogliamo parlare, oppure questa nuova 180 di cui c’è bisogno, do la parola ai nuovi tecnici, operatori, esperti della salute mentale. Capire da loro cos’hanno in testa. Cosa pensano di fare. Purtroppo erano tanti a cui ho dato la parola, e siccome il libro è fatto di pagine e di carta, ad alcuni di loro a malincuore ho dovuto toglierla, nel senso che troveranno spazio nella versione e-book, ma non nella forma cartacea, in cui saranno presenti solo cinque: uno psicologo che fa lo psicologo non nello studiolo dorato ma in un orto, una filosofa che fa le consulenze filosofiche, un giovane psichiatra che come me a trent’anni si sente un cane in chiesa, un’infermiera poco più che ventenne che vede le fasce come il fumo negli occhi, e un’economista nonché esperta di jazz che non ha neppure uno straccio di attestato che la abiliti alla cura eppure ha delle splendide idee di come una società dovrebbe prendersi cura di sé invece di ricorrere agli esperti.
Prima di arrivare a quelli famosi di cui mi chiedi, devo dirti che ho dato la parola anche agli esigenti, ovvero impazienti che hanno delle idee molto chiare su cosa vogliono e cosa non, hanno avuto un inciampo psichico ma non gli piace di essere maltrattati da operatori poco gentili. Sono una filosofa una poetessa e un narratore. Sono stupendi. Infine questi quattro grandi autori. Perché? Quando Basaglia prese la direzione del manicomio di Gorizia prima e di Trieste poi cosa fece? Per prima cosa li aprì, e dopo li distrusse. Per distruggerli però li dovette prima aprire. Aprire alla cittadinanza. Da lager diventarono nel giro di pochi anni luoghi di vita: concerti, spettacoli, teatro. Entrarono Dario Fo, De Gregori, gli Area, Battiato, molti altri. Nel momento in cui erano stati aperti, fu facile abolirli, a quel punto non avevano più senso come luoghi di internamento.
Per i nostri manicomi succedanei direi che è un po’ la stessa cosa. Abbiamo bisogno di farli conoscere. Ho individuato alcuni artisti che per un verso si sono già occupati a fondo di questi temi, per altri versi sono dei potenti amplificatori. Virzì veniva fuori dal film La pazza gioia dove racconta benissimo le contraddizioni della psichiatria italiana di questi anni. Mi venne a cercare nell’ospedale dove lavoro dopo aver letto Il manicomio chimico, a quei tempi era voracissimo di tutto ciò che ineriva il tema, sapeva tutto, ed era appassionato e direi decisamente schierato. Era con noi, con Basaglia, con Marco Cavallo, nel film denunciava le contenzioni, l’elettrochoc, la follia dei manicomi giudiziari, le pasticche facili, insomma, il suo film l’ho trovato molto più potente e immediato di molti saggi o documentari. Direi che è stato, per questo tema, ciò che negli anni Settanta era stato Silvano Agosti, autore di Matti da slegare e del documentario Il volo con cui filmava Basaglia e duecento internati in gita aerea su Venezia. Perciò ho voluto intervistare pure Agosti, testimone di quella rivoluzione. Nicola Lagioia, invece, apparentemente è il meno dentro alla questione manicomi, però è esperto di quel tipo di manicomio che sono le sostanze o gli psicofarmaci. In che senso. Nel senso che con lui i mediatori sono stati due narratori su cui lui è ferratissimo, e che, secondo me, sono stati i massimi esperti dei due manicomi di cui scrivo: Roberto Bolaño dei grandi manicomi concentrazionari dell’America latina, di cui parla nei Detective selvaggi e in 2666, e David Foster Wallace del manicomio chimico, essendo un dichiarato dipendente da antidepressivi, i nuovi psico-cosmetici che alimentano questa nostra contemporanea società della prestazione. Infine Pierpaolo Capovilla, è stato divertente intervistare un cantautore rock di cui, essendone diventato amico, pensavo di sapere già molte cose. Invece viene fuori ancora il fuoco, la passione civile che lo divora, e che ha messo a disposizione della causa dei perdenti. Dei soccombenti, voglio dire, in questa lotta cartesiana tra chi ha la ragione e chi no.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – P. Cipriano, “Lo specialista pericoloso” – P. Cipriano, “Metapsicologia dell’inanalizzabile” – P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia” – Volumi di Piero Cipriano recensiti: P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015) – P. Cipriano, La società dei devianti (2016)]

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A proposito del ritorno dell’elettrochoc https://www.carmillaonline.com/2017/07/30/proposito-del-ritorno-dellelettrochoc/ Sat, 29 Jul 2017 22:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39275 di Piero Cipriano

Io ho una mia teoria sugli psichiatri che si specializzano – solo – in farmaci o elettrochoc. Se li guardi in faccia quasi mai ricambiano lo sguardo. Guardano di sbieco, o in alto, o in basso, come avessero gravi deficit relazionali, l’empatia non ne parliamo, è per questo, secondo me, che invece di stare con il paziente, comprenderlo, ascoltarlo, parlarci, calarsi nel suo dolore, restituirgli un po’ di speranza, preferiscono somministrargli farmaci o corrente elettrica. È una mia teoria, si capisce. Ma confortata da quasi vent’anni di frequentazione del mondo psi. È per questo che non potevo fare [...]]]> di Piero Cipriano

Io ho una mia teoria sugli psichiatri che si specializzano – solo – in farmaci o elettrochoc. Se li guardi in faccia quasi mai ricambiano lo sguardo. Guardano di sbieco, o in alto, o in basso, come avessero gravi deficit relazionali, l’empatia non ne parliamo, è per questo, secondo me, che invece di stare con il paziente, comprenderlo, ascoltarlo, parlarci, calarsi nel suo dolore, restituirgli un po’ di speranza, preferiscono somministrargli farmaci o corrente elettrica. È una mia teoria, si capisce. Ma confortata da quasi vent’anni di frequentazione del mondo psi. È per questo che non potevo fare il farmacologo o lo scioccatore, nonostante avessi iniziato la mia carriera proprio con questo tipo di psichiatri.

Eppure provengo da quel mondo. Il mondo della psichiatria biologica, organicista, basata su diagnosi descrittiva di marca americana (DSM) e psicofarmaci. La mia tesi di laurea ebbe questo titolo, che dice molto, sul tipo di psichiatria che frequentavo, e di cui ero diventato molto esperto: Allucinazioni uditive e giro temporale superiore nella schizofrenia – uno studio quantitativo RMN. Conoscevo i farmaci, li conoscevo molto bene. Talmente bene che nessuno avrebbe potuto convincermi che sapevamo quale fosse il meccanismo d’azione, e che tutto sommato non continuavamo a somministrarli ex adiuvantibus – a giovamento – un po’ alla cieca. Fu nel periodo della mia formazione universitaria che venni cooptato nell’ambìto gruppo elettrochoc. Eravamo in quattro a farne parte: il professore, l’anestesista, e due studenti. L’altro studente che non ero io al primo elettrochoc cui assisté, appena il povero cristo ebbe la convulsione, crollò al suolo svenuto. Non volle più continuare a vedere elettrochoc. Velocemente fu sostituito da un altro. Per fortuna pure io fui presto sostituito, dopo quattro o cinque elettrochoc cui partecipai, più che altro come spettatore, perché fui chiamato a fare il militare. Solo che presi la via dell’obiezione di coscienza, e feci in modo di farmi assegnare a un centro diurno psichiatrico di Montevarchi, dove c’erano stati i basagliani, e così conobbi un altro tipo di psichiatria, e lasciai per sempre gli elettroscioccatori, i farmacisti, gli organicisti, i neokraepeliniani.

Qual è il motivo della persistenza, altrimenti immotivata, di questa pratica?

Molti pazienti, dopo anni di assunzione di antidepressivi, non ne riportano più alcun beneficio. Viene ormai definita sindrome tardiva da antidepressivi. Accade sempre più di frequente che dopo dieci o quindici anni di somministrazione, senza interruzione, di psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI), un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli antidepressivi SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori cerebrali, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare viepiù il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi, e gli ansiolitici.

Nel caso degli antipsicotici, dopo alcuni anni, si sviluppano le cosiddette psicosi da ipersensibilità. Ovvero psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma accade. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti.

Un caso mio personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più nuovo, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio, e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio.

Poi vi sono le depressioni da supersensibilità. O le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, dopo dieci quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. La causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche di medici di base o di neurologi o di altri specialisti, antidepressivi prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sotto soglia. E’ lapalissiano che meglio sarebbe prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario – depressioni gravi e con idee di suicidio – alle dosi minime efficaci e per periodi limitati (alcuni mesi), e quando il paziente sta meglio iniziare la riduzione del dosaggio. Invece gli psichiatri vengono formati (negli innumerevoli convegni sponsorizzati dalle case farmaceutiche) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato.

Invece accade che molti psichiatri, ai pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che non sanno più con quali altri farmaci trattare, li inviino a fare gli elettrochoc.

Dunque cosa determina il ritorno dell’elettrochoc?

La psicofarmacologizzazione di massa crea un esercito di persone resistenti ai farmaci (un po’ come per gli antibiotici, assumerli per motivi sbagliati – influenza, raffreddori, eccetera – li sta rendendo viepiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti). Ma il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima coi farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva.

Questa terapia aveva forse senso negli anni 30-40-50 del secolo scorso, quando la psichiatria era del tutto priva di trattamenti somatici, e brancolava nel buio, e dunque qualcosa doveva provare, e una terapia ex adiuvantibus basata sull’ipotesi che schizofrenia ed epilessia fossero patologie antagoniste, dava l’illusione agli psichiatri di fare qualcosa.

Ma oggi, oggi non avremmo più alcun motivo per riproporre le pratiche di Julius Wagner-Jauregg (convulsioni indotte attraverso la malaria) o di Ladislas Meduna (convulsioni indotte con il cardiazol) o di Bini e Cerletti (convulsioni indotte da scarica elettrica), nessun motivo se non fosse che i farmaci psicoattivi, che dovevano essere miracolosi, e avrebbero dovuto spazzare via le malattie mentali dal pianeta, non solo non sono miracolosi per niente, ma hanno smesso di funzionare, e hanno iniziato a cambiare la psicopatologia, facendo sì che molta psicopatologia di questi ultimi decenni è forse, prevalentemente, una psicopatologia iatrogena.

Il rimedio, però, non può essere l’elettrochoc, di cui – riguardo ai meccanismi d’azione – non si sa assolutamente niente.

In Italia, per fortuna, rispetto ad altri paesi (negli USA 100mila persone ogni anno), l’uso di questa pratica è tutto sommato limitato. L’ultimo censimento risale ai dati resi noti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, presieduta da Ignazio Marino, nel triennio 2008-2010. Allora furono individuate novantuno le strutture ospedaliere italiane dove veniva effettuato l’elettrochoc. E millequattrocento persone, in questo triennio, avevano effettuato il trattamento elettrico. Le strutture ospedaliere più attive in questa pratica erano l’ospedale di Montichiari, in provincia di Brescia (più di quattrocento trattamenti nel triennio 2008-2010), il Policlinico di Pisa (con quasi trecento trattamenti, nello stesso triennio), e l’ospedale San Martino di Oristano (con quasi duecento trattamenti).

Dopo di questo vi è stata un’audizione al Senato nel 2013 da cui i centri eroganti questa terapia sembravano essere ridotti a dodici. Evidentemente molte strutture la stanno abbandonando. Nel Lazio, per esempio, fino al 2014 vi era una sola casa di cura privata a erogarla (la clinica San Valentino), ora nessuna più.

Il meccanismo d’azione dell’elettrochoc, dicevamo. Ipotesi. Nulla di più. Forse viene coinvolto il sistema serotoninergico, perché sappiamo che è coinvolto nella regolazione dell’umore. Ma ciò è poco, troppo poco.

In realtà è forse il suo principale effetto collaterale, quello che viene perseguito: rendere amnesico un paziente. Fargli dimenticare, talvolta, persino chi è.

“Mi chiamo Fernando Alonso, corro in kart e voglio diventare un pilota di Formula uno”. Gli ultimi vent’anni della sua vita rimossi dalla memoria, il campione di Formula uno ricorda la sua vita fino al 1995.

Il 6 marzo 2014, il corridore di formula uno, dopo aver avuto una scarica elettrica nell’abitacolo della sua auto da corsa, così si esprimeva. Aveva fatto una sorta di elettrochoc, presentava i sintomi tipici dell’amnesia post critica della sindrome convulsiva. Dopo la scarica elettrica perse coscienza, rimase senza memoria per un paio di giorni.

Ecco, Fernando Alonso, il campione, aveva dimostrato cos’è, come funziona, un elettrochoc. Nulla è cambiato da quando i maiali destinati a essere sgozzati, al mattatoio di Roma, dopo lo choc elettrico andavano al patibolo fatui, stolidi, ignari del fatto che stavano per morire. Questo stato di completa incoscienza di sé colpì a tal punto Bini e Cerletti, che pensarono di trattare allo stesso modo i malati mentali, gli internati del manicomio di santa Maria della Pietà. E così nacque una delle tante terapie ex adiuvantibus della psichiatria: l’elettrochoc si aggiunse alla malarioterapia, alla lobotomia, alla camicia di forza, alle fasce. Perché funzione l’elettrochoc? Togli la memoria di sé a un depresso, o a una persona con un arresto psicomotorio, lo riporti indietro di venti, dieci, un anno, o di pochi mesi, e quello scorda le ragioni della sua depressione o del suo blocco. E per un po’ non si sente più depresso, ma non perché gli è passata – per magia – la depressione, ma perché per un po’ egli non sa neppure chi è, o chi è stato negli ultimi anni o mesi. Salvo poi quando torna la memoria, e con essa il male di vivere. Ciò che i medici elettricisti non dicono, però, è che questa pratica non solo non è una cura, ma è come una botta in testa, che favorisce una evoluzione tardiva verso sindromi demenziali.

Quando ero nel gruppo elettrochoc dell’università di Roma veniva un ex giornalista, depresso, ormai resistente agli antidepressivi che aveva assunto per venti anni. Dopo alcune somministrazioni elettriche, da depresso che era diventava stolido, la depressione sembrava essere passata, ma lui pareva non sapere neppure chi fosse.

La memoria, dunque. Perdeva interi pezzi della sua memoria biografica. Che poi, nei mesi successivi riacquistava, e con essi tornava la depressione.

È quanto auspica la protagonista del film di Paolo Virzì, La pazza gioia, dice portatemi a Pisa a fare l’elettrochoc, ma non intende per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa.

Ricordo una ragazza, con diagnosi di disturbo borderline (non è tra i disturbi indicati per l’elettrochoc) che fuggiva tenacemente dai luoghi di cura. Le fecero 6-8 elettrochoc, senza effetto alcuno, la memoria le rimase integra, e di conseguenza non manifestò alcun effetto terapeutico (a dimostrazione che è il disturbo cognitivo che favorisce l’apparente miglioramento dell’umore).

Per questi motivi io, tutto sommato, sono d’accordo con Kurt Schneider, che pure è uno psichiatra molto apprezzato dagli organicisti: “Rifiuterei questa terapia anche quando con essa si potesse sottrarre, cosa possibile, un paziente a un conflitto interiore. Lo si potrebbe colpire alla testa così che non sia più capace di risposte emozionali, ma così noi veniamo meno alle ragioni etiche della vita. Anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito”.

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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