anni Ottanta – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Decenni smarriti. Gli anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2024/07/07/decenni-smarriti-gli-anni-ottanta/ Sun, 07 Jul 2024 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83244 di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato [...]]]> di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato parlano innanzitutto al/del presente, allora, forse, il limite maggiore, per quanto comprensibile possa essere, deriva da un tipo di sguardo a ritroso che, insieme alla sconfitta, ha introiettato l’idea della fine della storia. Si rischia di guardare ai decenni ribelli come se con la fine di essi fosse scomparsa ogni minima forma di conflittualità. Anche da ciò deriva la tendenza a leggere i decenni successivi in maniera non dissimile da quella propinata dai vincitori: seppure vissuti da una parte come trionfo e dall’altra come sconfitta, i decenni successivi al “lungo Sessantotto” tendono ad essere narrati come periodi riappacificati e privi di contraddizioni.

La storia e il conflitto non si sono evidentemente fermati alle soglie degli anni Ottanta lasciando campo libero al dominio ed al pensiero unico capitalistico. Non si può dunque che accogliere con favore l’iniziativa intrapresa dalla rivista “Machina”, in seno a DeriveApprodi, indirizzata ad occuparsi dei «decenni smarriti» riattraversando i «quaranta ingloriosi», dagli anni Ottanta agli anni Dieci del nuovo millennio, al fine di individuare i nodi centrali nel presente tentando di cogliere le tendenze in atto. Risulta indubbiamente efficace il ricorso al termine «smarriti» a proposito di questi decenni in quanto, come argomenta la redazione di “Machina”, si tratta di decenni in buona parte «perduti, rimossi o frettolosamente finiti fuori dai nostri radar, perché rappresentano, simbolicamente e concretamente, l’“inverno del nostro scontento”, conseguente al fallito assalto al cielo».

Certo, quelli successivi ai Settanta sono decenni di controrivoluzione capitalistica, di repressione e di riassorbimento delle lotte e degli immaginari ribelli, ma non sono stati decenni privi di contraddizioni e di conflittualità, per quanto queste ultime abbiano assunto forme e modalità inedite. L’aura del Lungo Sessantotto non dovrebbe ridurre a nullità, a mera sconfitta interi decenni di storie, condotte e immaginari di esseri umani che riconciliati non sono stati. Recuperare i «decenni smarriti» significa innanzitutto infrangere lo storytelling dominante della fine della storia, delle contraddizioni e del conflitto in tutte le sue molteplici forme. È con tali premesse che, dopo aver raccolto numerosi articoli sugli anni Ottanta, la redazione di “Machina” ha dato alle stampe un primo volume dedicato a quel periodo: Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio.

Gli anni Ottanta sono certamente stati anni all’insegna del rappel à l’ordre, di ristrutturazione e di riassorbimento delle insorgenze dei decenni precedenti, anni di disimpegno reclamizzato dai tubi catodici della neotelevisone e di cinico individualismo, ma dietro all’autocelebratoria narrazione patinata dell’oblio pacificato non sono mancate contraddizioni e conflittualità, sperimentazioni e immaginari non riconciliati che, in un clima repressivo da resa dei conti, è bene ricordarlo, hanno dovuto destreggiarsi tra la preservazione della memoria delle esperienze precedenti e il reinsediamento sociale e culturale a partire da un universo produttivo, un contesto urbano e un immaginario, soprattutto giovanile, in via di rapida mutazione.

A dare il senso dello spirito politico con cui il saggio guarda al primo dei “decenni perduti” rapportandolo all’oggi e al domani, non limitandosi dunque a ricavarne una, per quanto interessante, “mappa muta”, è soprattutto il contributo di Chiara Martucci e Bruna Mura che partono dall’esperienza personale che le ha portate a confrontarsi con l’affievolirsi in Italia, nel corso degli anni Ottanta, della tradizione marxista del femminismo, per poi soffermarsi sull’ambivalenza del processo di istituzionalizzazione in quel decennio di diverse conquiste ottenute dalla precedente stagione di lotta:

se da un lato vi e stato il risultato di aver strappato la formalizzazione di diritti e servizi, dall’altro si è reso molto complesso il garantire la portata conflittuale di quelle rivendicazioni, sia a causa di fattori estranei – quali quelli giudiziari – ma anche a causa delle stesse dinamiche formali dei percorsi di istituzionalizzazione. L’elemento profondamente trasformativo dei rapporti sociali e fondativo delle stesse rivendicazioni del femminismo marxista, è venuto meno nel passaggio al riconoscimento normativo (p. 153).

Tale ragionamento sugli anni Ottanta conduce Martucci e Mura a porsi importanti interrogativi sul presente:

ci stanno scippando la profondità dei concetti e la dimensione politico-conflittuale delle pratiche che per noi sono state la potenza della lotta alla violenza di genere? L’utilizzo semplificato e banalizzato di alcuni termini – patriarcato, su tutti – rischia di riprodurre quelle dinamiche di potere e quei rapporti di forza che stiamo combattendo? (p. 163).

Diventa importante comprendere quanto certe dinamiche istituzionali, supportate da una potente grancassa spettacolare-mediatica, assorbano le rivendicazioni depotenziandole e «quanto invece possa rivelarsi potente la diffusione nel discorso pubblico di pratiche e concetti costruiti in decenni di lotte» (Ibid).

Una serie di contributi presenti sul volume sono dedicati alle espressioni artistiche degli anni Ottanta: Jadel Andreetto tratteggia il panorama musicale del periodo evidenziando le tante sperimentazioni e contaminazioni che lo hanno contraddistinto; Rudi Ghedini offre una mappatura cinematografica di un decennio in cui il cinema si trova a fare i conti i conti con l’avvento dei videoclip televisivi e le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie nell’ambito degli effetti speciali; Manuela Gandini degli anni Ottanta tratteggia invece l’intrecciarsi di scenari mediatici ed artistici, costume, politica ed economia a cavallo tra modernità e postmodernità; Giorgio Mascitelli, guardando al dibattito letterario, artistico e filosofico che si è sviluppato all’epoca attorno al termine postmoderno, ricostruisce le avvisaglie della crisi del sistema letterario novecentesco, crisi che subirà un’accelerazione con l’arrivo di internet nel decennio successivo.

Delle forme aggregative e di militanza che si fanno strada negli anni Ottanta, soprattutto a partire dalla dimensione “emotiva”, si occupano Federico Battistutta e Massimo Ilardi: il primo si concentra sulla categoria della “fuga” per descrivere quanto avvenuto nei movimenti sociali del periodo condensabile nell’espressione di “militanza gioiosa” introdotta recentemente da Silvia Federici; il secondo guarda alla nascita delle rivolte contraddistinte da una conflittualità sfuggente alle letture politiche tradizionali in quanto scatenate da “pratiche di libertà” e “culture del consumo”. «Sono lotte che non hanno né il lavoro, né la produzione, né la conquista del potere al centro dei loro obiettivi, ma attaccano una forma e una tecnica del potere che vogliono destituire, quella più legata al controllo dei corpi e del territorio. Non cercano il nemico principale ma quello più vicino» (p. 99).

A partire Les années d’hiver, volume che raccoglie diversi scritti di Félix Guattari redatti nella prima metà degli anni Ottanta, e Les nouveaux espaces de libertés, testo steso attorno alla metà del decennio dal francese insieme a Toni Negri, Roberto Ciccarelli ragiona attorno alla questione della soggettività e dei periodi di “letargo politico”, mentre Paolo Virno, Marco Mazzeo e Adriano Bertollini dialogano tra di loro su quanto l’immaginario e l’universo valoriale degli anni Ottanta sia stato contraddistinto da opportunismo, cinismo e da un particolare intrecciarsi di paura e angoscia, valutando quanto la presenza di vie di fuga presenti in quel contesto avrebbero potuto essere sfruttate più proficuamente proiettando così il ragionamento sull’oggi.

L’ultima parte del volume vede Ubaldo Fadini ragionare attorno alla figura del soggetto e alla qualifica della “plasticità”, riemersa prepotentemente negli anni Ottanta, dunque i due scritti di Rita di Leo e Romeo Orlandi sono dedicati rispettivamente al mesto dissolversi dell’esperienza sovietica e alla trasformazione cinese avvenuti nel corso di quel decennio, infine un intervento di Christian Marazzi ragiona sul recupero al lavoro, nel corso degli anni Ottanta, di quelle soggettività che avevano rifiutato il modello fordista, con un occhio sulla contemporaneità:

Quali possono essere le direttive per una possibile ricomposizione di classe? È difficile rispondere, ma bisognerebbe puntare a un’iniziativa a livello planetario per riprenderci il tempo, lottando sulla riduzione dell’orario di lavoro a tutti i livelli. Il nostro lavoro produttivo di dati non e riconosciuto ed e all’origine di profitti sconfinati per i capitalisti. Va recuperata l’esperienza teorico-politica del movimento femminista, del lavoro all’interno della riproduzione, contro il lavoro non riconosciuto che va remunerato, salarizzato. Oggi siamo persino oltre la connotazione di genere perché il tempo di lavoro non riconosciuto, gratuito, è ormai del tutto pervasivo. La riappropriazione del tempo di vita deve diventare l’asse di una possibile ricomposizione soggettiva, nella forma di resistenza al dominio capitalista (p. 195).

Chi ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta in maniera non riappacificata lo ha fatto nella scomodità del trovarsi a cavallo tra passato e futuro, tra necessità di preservare la memoria ed urgenza di sperimentare per impattare le trasformazioni in atto, in un contesto sospeso tra oblio e solitudine che invitava a guardare al passato, ridotto ad “anni di piombo”, come a un cumulo di macerie e al futuro come al raggiungimento di uno stato di grazia in cui l’individuo, sostenuto dalle risate e dagli applausi a comando degli schemi televisivi, si sarebbe finalmente liberato da ogni minimo legame sociale. Insomma, sono stati decenni un po’ più complessi e contraddittori rispetto a come sono stati spesso raccontati.

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Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

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Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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Nemico (e) immaginario. Paure identitarie fuori e dentro gli schermi dei primi anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/06/22/nemico-e-immaginario-paure-identitarie-fuori-e-dentro-gli-schermi-dei-primi-anni-ottanta/ Tue, 22 Jun 2021 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66829 di Gioacchino Toni

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche, uscite all’aprirsi degli anni Ottanta – Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982), entrambe di Ridley Scott, La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter e per certi versi Videodrome (id. 1983) di David Cronenberg, insieme a qualche suo altro film gravitante attorno alla “nuova carne” –, hanno affrontato in maniera del tutto nuova le montanti paure identitarie del periodo costringendole al confronto con alterità sempre più spaventose.

In un [...]]]> di Gioacchino Toni

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche, uscite all’aprirsi degli anni Ottanta – Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982), entrambe di Ridley Scott, La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter e per certi versi Videodrome (id. 1983) di David Cronenberg, insieme a qualche suo altro film gravitante attorno alla “nuova carne” –, hanno affrontato in maniera del tutto nuova le montanti paure identitarie del periodo costringendole al confronto con alterità sempre più spaventose.

In un suo recente libro Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario (Armillaria, 2019), sottolinea sin dal sottotitolo come a suo parere sia proprio la pellicola del 1979 di Ridley Scott a dare/portare alla luce un nuovo immaginario: ed in effetti quest’opera sembra davvero inaugurare una nuova stagione e non solo dal punto di vista cinematografico.

Battaglia ricostruisce dettagliatamente la genesi di Alien a partire dalle vicende dello sceneggiatore Dan O’Bannon che, dopo aver inutilmente lavorato con Alejandro Jodorowsky alla sceneggiatura per un film tratto dal romanzo Dune (1965) di Frank Herbert, si cimenta insieme a Ronald Shusett nella scrittura di una storia incentrata su di un demone dello spazio poi presentata, tramite Walter Hill, ad Alan Ladd della 20th Century Fox. Quella sceneggiatura viene poi ripresa e modificata da Hill assecondando l’idea di Ladd di sostituire il protagonista maschile previsto da O’Bannon con una donna sull’onda del recente successo della principessa Leila Organa di Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas e, forse, con l’intento di richiamare l’immaginario ruotante attorno alla protagonista del film Barbarella (1968) di Roger Vadim. Pur andando in porto l’idea di affidare il ruolo di protagonista a un’attrice, circa le caratteristiche del personaggio da lei interpretato le cose vanno diversamente rispetto a quanto auspicato dalla 20th Century Fox.

Una volta scelto per la regia l’inglese Ridley Scott, fresco del debutto dietro alla macchina da presa con I duellanti (The Duellists, 1977), si è trattato di pensare alle sembianze da dare all’entità aliena affinandosi alla fantasia di Hans Ruedi Giger, autore dell’inquietante raccolta Necronomicon (1977) pubblicata in quel periodo. Abbandonate le forme tutto sommato umanoidi degli alieni della fantascienza tradizionale, il mostro proposto dallo svizzero – poi realizzato da Carlo Rambaldi – si presenta come un enorme insetto con la coda e l’esoscheletro dall’evidente simbologia sessuale in tutte le forme che assume (facehugger, chestbuster e adulto) che, sostiene Battaglia, parrebbe rimandare ai peggiori aspetti dell’uomo.

lo xenomorfo di Giger è un costrutto immaginativo primordiale, che irrompe con inaudita e reale violenza nel nostro immaginario, e attraverso il quale ci è possibile indagare ciò che più ci rende umani: la paura di noi stessi. Non si scappa: lo xenomorfo […] siamo noi con forma diversa. Ma al contempo lo xenomorfo è altro da noi1.

Secondo Battaglia tra le caratteristiche che rendono lo xenomorfo proposto da Giger davvero altro rispetto all’umano vi è l’assenza di occhi che lo priva della possibilità di contatto. A rendere attuale Alien non sono gli effetti speciali, che a distanza di tempo mostrano impietosamente tutta la loro obsolescenza, quanto piuttosto le modalità con cui «viene mostrato quello che c’è da mostrare, ovvero la nostra paura del contatto»2. Ed in effetti, come negli altri film citati precedentemente, l’opera di Scott è imperniata sulla paura del contatto.

Se la genesi di Alien può aver tratto suggestioni dai racconti di Robert Anson Heinlein e da film come Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space, 1958) di Edward L. Cahn, non di meno, secondo Battaglia, deve essere messa in relazione con l’emergere di diversi indicatori di cambiamento che caratterizzano il momento storico-culturale nordamericano. Ed indicatori in tal senso, sostiene l’autore, possono persino essere le mutate modalità con cui sul finire degli anni Settanta si guarda al surf ed all’autostop, pratiche fino ad allora associate ad immaginari libertari.

Proprio in chiusura di decennio, nota Battaglia, il surf smette di rimandare all’immaginario hippie per trasformarsi in metafora bellica. Non a caso il Vietnam aleggia in Un mercoledì da Leoni (Big Wednesday, 1978) di John Milius e, a maggior ragione, è al centro di Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola, ove l’immaginario statunitense ricorre proprio alla metafora del surf per autoconvincersi della propria superiorità nei confronti del nemico: Charlie don’t surf.

Lo spettatore, come il surfista e come l’attore, trova la propria soddisfazione nell’inquietante presenza del peggio che potrà capitare. […] Come il surfista, anche lo spettatore, scivolando su un elemento tutto sommato indifferente alla sua vita (per il surfista è l’onda, per lo spettatore è la pellicola), desidera che quel momento non termini mai, ma a differenza del surfista lo spettatore può fare pulizia di ogni speranza […] godendosi lo spettacolo dell’imprevedibile, dell’incognito e della tragedia3.

È lo stesso equipaggio dell’astronave Nostromo ad assomigliare, continua Battaglia, ad una banda di surfisti che, come si conviene, «ha un unico interesse: la soddisfazione del proprio desiderio. Non sono animati, come invece accadeva per i protagonisti della fantascienza classica, dalla volontà di conoscenza, e nemmeno dal desiderio di avventura. L’unico motivo che spinge l’equipaggio della Nostromo, Ripley compresa, è il compenso per il lavoro svolto»4. Evidentemente questi novelli surfisti della Nostromo hanno sostituito il soddisfacimento di un desiderio ludico-gratuito con uno di ordine prescrittivo-lavorativo. Come a dire “È uno sporco lavoro quello che dobbiamo portare a termine… ma è quello per cui siamo pagati e di metterlo in discussione non se ne parla”. Insomma, benvenuti negli anni Ottanta.

Lo stesso autostop si è rapidamente trasformato nel corso degli anni Ottanta da esperienza conoscitiva e di condivisione esaltata dalla beat generation a potenziale, se non scontato, momento di pericolo di cui occorre aver paura.

Il momento in cui è cominciato questo radicale cambiamento di paradigma culturale ce lo ha mostrato Ridley Scott quando, contravvenendo al protocollo e alla decisione del tenente Ripley, […] Ash fa salire a bordo della Nostromo un passeggero alieno. […] è in questo preciso momento, attraverso quello che possiamo definire il contatto con l’autostoppista xenomorfo, che la nostra paura comincia a diffondersi e il paradigma a cambiare5.

Tornando alla protagonista femminile di Alien, Battaglia sottolinea come la speranza della produzione di avere come protagonista una sorta di novella Barbarella venga sostanzialmente rifiutata da Scott a cui non interessa affatto riproporre un’eroina che, per quanto autodeterminata, resti sostanzialmente prigioniera dello sguardo maschile. Al regista di Alien interessa piuttosto creare un personaggio in linea con una certa fluidità del gender – cosa che «non comporta l’indistinzione o la neutralità, in quanto ogni esperienza, avvenendo attraverso il corpo, è sessuata»6 – utile a generare un’immedesimazione nel tenente Ripley che vada al di là della mera biologia. Ed infatti, sottolinea Battaglia, Sigourney Weaver usa – «surfandoci sopra» – la fluidità del genere, sia sessuale che narrativa, per costruire sul personaggio di Ripley un’identità del tutto originale.

Non è infrequente imbattersi in film horror in cui la protagonista femminile, restata l’ultima sopravvissuta all’interno di un gruppo annientato dalla ferocia di qualche essere mostruoso, venga salvata da un intervento esterno o che, in alternativa, riesca ad annientare il mostro in maniera del tutto fortuita. Anche nell’opera di Scott si ha in Ripley l’unica a sopravvivere allo xenomorfo, ma in questo caso nessuno deve venire a salvarla, la protagonista è consapevole di doversi arrangiare e si mostra pronta a prendere il controllo della situazione ogni qual volta è necessario giungendo ad eliminare lo xenomorfo non certo per fortuna ma grazie a una tattica ben precisa.

A differenza di chi ha visto in Ripley un surrogato maschile, una trovata della produzione affinché vi si potesse identificare tanto il pubblico femminile quanto quello maschile, Battaglia sottolinea invece come l’intero equipaggio della Nostromo manchi sostanzialmente di caratterizzazione sessuale, l’unica forma di sessualità espressa è quella dell’essere xenomorfo. Certo, Ripley, per quasi tutto il film, al pari del resto dell’equipaggio, si presenta come personaggio intersessuale ma

se Scott cancella dalla narrazione il tipo di esperienza sessuata che deriva dalle basi culturali di una società, non può cancellare certo quella fisica. Infatti mantiene per tutti i membri dell’equipaggio la differenza di genere (che è sessuata anche solo per le differenze fisiche). Tutti e sette hanno un’identità di genere genetica, ma su di essa non pesano ancora – quasi fossero tutti novelle creature nell’Eden (che poi si rivela un inferno) – le sovrastrutture culturali che dettano le regole dei comportamenti sessuali standardizzati dalla cultura che li genera. Infatti, sarà solo attraverso la sessualità dell’alieno che, da una situazione asessuata, si avvia una presa di posizione sessuale piena. Nella sequenza finale, quella in cui uccide lo xenomorfo, il corpo di Ripley, spogliato, compie una scelta. Una scelta divenuta obbligata nel momento in cui l’alieno, attraverso il parto biologico, ha introdotto la sessualità in questa enclave, rompendone ogni equilibrio. Una scelta di campo e di sessualità. Ripley si salverà perché sarà l’unica a farla.7.

Una delle scene centrali del film è sicuramente il momento in cui il mostro esce dalla pancia di Kane; ad inquietare il pubblico, più che la violenza della sequenza, secondo Battaglia è la presa d’atto della necessità di mettersi in gioco per godersi il film ed accettare che a partire dallo stupro facciale messo in atto dal facehugger nei confronti di Kane il corpo maschile di quest’ultimo assuma un inaspettato ruolo riproduttivo.

Cadono così, anche nella fiction, certezze identitarie: tutto diviene fluido e ci si trova a dover scegliere se «surfare» su tale fluidità o chiudersi a riccio in un monolite identitario tramandato. Film come Alien, Blade Runner, La cosa e Videodrome non hanno evidentemente alcuna intenzione rassicurante, nascono sulle inquietudini per dispensare dubbi ma è però proprio in questi ultimi che si annida qualche pallida speranza mentre, al contrario, nel regno delle certezze più facilmente dimora la disperazione.

Lee E. Heller8 ha notato come negli anni Ottanta e Novanta le relazioni eterosessuali siano state insistentemente descritte dai media come caratterizzate da conflitti e differenze insormontabili tra i generi, quasi che uomini e donne non possano che considerarsi reciprocamente specie aliene. Scrive a tal proposito Nicholas Mirzoeff:

Una delle proteste principali in questa guerra dei generi è, per usare il popolare titolo di un’opera, Gli uomini che non sanno essere intimi. Sotto questo aspetto, tutti gli uomini sono replicanti. Il personaggio di Harrison Ford, Rick Deckard, l’eroe, è un “Blade Runner”, il cui compito è “mettere a riposo” i replicanti, uccidendoli. Ma quando Deckard alla fine fugge con la replicante Rachel, un avanzato modello femminile, ciò sembra perfettamente appropriato. Deckard può ora avere la donna perfetta delle fantasie maschili, che non farà alcuna irritante richiesta di intimità emotiva. D’altro canto, la versione del 1992 del montaggio del regista accenna al fatto che Deckard stesso potrebbe essere un replicante, rendendo Rachel e Deckard la perfetta coppia androide. Blade Runner ha fuso le tematiche di razza e genere, messe in scena da La cosa, nella singola persona del replicante. La paura inespressa è che tutti i corpi umani siano già cambiati così tanto, che sia comunque difficile capire la differenza tra esseri umani e macchine. Tant’è vero che ci vogliono cento domande, prima che persino un veterano come Deckard possa capire che Rachel è un replicante9.

Mirzoeff sottolinea che film come Alien e Blade Runner – ma qualcosa di analogo accade anche in Videodrome – presentano un futuro in cui le conquiste tecnologiche

hanno permesso di emergere a una cultura aziendale globale, motivata esclusivamente dal profitto. In Alien, la Compagnia preferirebbe la sopravvivenza delle specie aliene maligne, piuttosto che del suo equipaggio, mentre Blade Runner presenta un mondo in cui tutte le parti dei corpi umani sono in vendita senza difficoltà. Entrambi invitano il pubblico a considerare le corporation responsabili – l’una di aver creato i replicanti, l’altra di aver salvato l’alieno più inumano di qualunque altra specie aliena o androide10.

Nella denuncia alle corporation è possibile leggere un’accusa a quel capitalismo che, come scrive Rosi Braidotti, ormai da tempo ha palesato il suo essere «un sistema tendente all’auto-implosione che non si ferma davanti a nulla pur di realizzare il suo obiettivo: il profitto. Questo sistema intrinsecamente auto-distruttivo nutre, per poi distruggere, le condizioni stesse della sua sopravvivenza: è onnivoro e in ultima analisi ciò che mangia è il futuro in sé»11

Se in termini di rappresentazione dell’essere alieno questa generazione di opere dei primi anni Ottanta, sostiene Mirzoeff, oscilla tra rinnovamento e recupero di alcuni tratti dell’immaginario degli anni Cinquanta, resta il fatto che prospetta una nuova e drammatica visualizzazione distopica del futuro. Blade Runner, ad esempio, offre quella che Vivian Sobchak12 ha efficacemente definito un’immagine “trash” di quei radiosi scenari futuristici tipici del genere, prospettando una Los Angeles per certi versi obsolescente e non troppo lontana nel tempo, una metropoli caotica, cosmopolita, immersa nel buio e battuta da una pioggia incessante e marcata da una rigida suddivisione di classe verticale in cui i poveri vivono nelle strade ed i ricchi nell’aria.

Analogamente, continua Mirzoeff, Alien rende “trash” l’astronave, vero e proprio emblema del progresso tecnologico, presentandola umida, cupa e «costruita in modo tale che il suo spazio sia allo stesso tempo femminile, nella sua scura umidità, e orientale, attraverso un labirinto infinito di depositi, condotti di aerazione, e passaggi»13. Anziché l’ansiogena geopolitica della guerra fredda il film sembra mettere in scena quelle inquietudini di genere, classe e identità che attraversano gli Stati Uniti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta.

Tanto Blade Runner quanto Alien, come già aveva fatto l’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel, individuano il mostruoso nella replica degli esseri umani, quasi a suggerire che la mostruosità aleggia anche in questi ultimi. In Alien, ad esempio, si scopre che l’ufficiale scientifico Ash è in realtà un androide programmato per far sopravvivere l’essere alieno, una creatura che, abbandonate le movenze rallentate dei mostri degli anni Cinquanta, si muove velocemente ed è abile nel nascondersi.

La seconda ondata di femminismo in Occidente aveva ottenuto diritti relativi alla riproduzione, il diritto di scelta della donna, e spingeva per una legge sulle pari opportunità negli Stati Uniti. Questo contesto rende l’ossessione della riproduzione parassita dell’alien più di un semplice artificio testuale. L’alieno impianta un feto in un maschio umano da un bozzolo simile a una pianta, ricordando l’Invasione degli ultracorpi. Il neonato alieno in seguito esplode fuori dallo stomaco della sua vittima, portandola alla morte – come a mettere in guardia dalle conseguenze della distruzione dei “naturali” processi riproduttivi14.

Blade Runner mette in scena l’ossessione per l’individuazione e l’eliminazione di replicanti ribelli indistinguibili dagli esseri umani se non per la mancanza di emozioni; si tratta di una distinzione ricorrente nell’ambito della fantascienza tanto che la si trova nel film Invasione degli ultracorpi del 1956. Nel film di Scott si fatica però a non provare un minimo di simpatia per i replicanti, quando non veri e propri momenti di identificazione, condannati come sono a una vita breve e programmata da una cinica corporation.

Mirzoeff coglie anche l’importanza rivestita dalla fotografia nella trama di Blade Runner: essa si rivela utile nel rintracciare i replicanti ed è proprio a fotografie contraffatte che ricorre la corporation nel momento in cui impianta in essi una memoria. Riflettendo sullo status della fotografia come indice di realtà il film sottolinea la manipolabilità dell’immagine fotografica nell’era elettronica e l’incapacità dei sensi umani di discernere tra reale e rappresentazione, dunque la fine della credenza acritica in ciò che si vede.

Su riflessioni di tal tipo insiste Videodrome di Cronenberg nel suo porre inquietanti interrogativi circa la natura riproduttiva delle immagini e circa il rapporto di fascinazione/repulsione che l’occhio umano prova al cospetto dei propri sogni/incubi reificati e riprodotti in un loop senza fine dagli schermi. È un mondo condannato a vivere in uno stato di perenne allucinazione quello messo in scena dal canadese, abitato da esseri umani programmabili. Davvero in anticipo di alcuni decenni rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), riflettendo sul consumo di immagini, Videodrome fa provare direttamente allo spettatore gli splendori e le miserie insite nel desiderio di consumo tecnologico delle immagini. [Al cinema di Cronenberg è dedicata la serie di scritti Processi di ibridazione su Carmilla].

Un interessante confronto tre La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby ed Howard Hawks e La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter è proposto da Mirzoeff che segnala come nelle due versioni liberamente derivate dal racconto La cosa da un altro mondo (Who Goes There?, 1938) di John W. Campbell sia ravvisabile il passaggio dal contesto della guerra fredda all’età “postmoderna” e con esso un vero e proprio mutamento di immaginario.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, aleggia il timore di un possibile attacco sovietico dal Polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana15.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nel remake di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Se la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

Nel ripetere a se stesso “I know I’m human” McReady, il protagonista del remake di Carpenter, pur alludendo al timore di non essere effettivamente biologicamente diverso dagli alieni, tradisce anche un più o meno consapevole timore della “mescolanza razziale” e soprattutto, secondo Mirzoeff, uno strenuo tentativo di difesa del proprio orientamento (etero)sessuale. A differenza del film degli anni Cinquanta, nel remake di Carpenter tutti i personaggi umani sono maschi.

Nel suo mondo omosociale, l’alieno porta alla luce l’omofobia delle istituzioni esclusivamente maschili. Allo stesso tempo, il test del sangue per l’umanità di McReady evoca chiaramente le paure della mescolanza razziale. Anche se il mostro è sconfitto, McReady è lasciato ad attendere la morte per ipotermia alla fine del film, dopo la distruzione della base con il fuoco. Il futuro non è più un posto migliore, ma semplicemente un altro luogo in cui mettere in scena le nostre ansie culturali16.

Nel bene e nel male, i primi anni Ottanta hanno davvero rappresentato un importante spartiacque politico, culturale ed estetico. È in quel pugno di anni che molto – tutto sarebbe forse troppo – cambia. Film come Alien, Blade Runner, La cosa e Videodrome hanno sapientemente fornito immagine ad un nuovo immaginario contribuendo allo stesso tempo a crearlo. Non è stato che l’inizio… la storia continua (dentro e fuori gli schermi).


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria, 2019, p. 86. 

  2. Ivi, 88. 

  3. Ivi, p. 39. 

  4. Ivi, p. 120. 

  5. Ivi, pp. 60-61. 

  6. Ivi, p. 97. 

  7. Ivi, pp. 103-104. 

  8. Lee E. Heller, The Persistence of Difference. Postfeminism, Popular Discourse, and Heterosexuality in “Star Trek: The Next Generation”, in Science Fiction Studies, n. 24, 1997. 

  9. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 307-308. 

  10. Ivi, p. 306. 

  11. Rosi Braidotti, Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, Meltemi, Milano, 2019, p. 147. Su tale libro si veda: Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Linee di fuga femministe dalla panumanità della vulnerabilità, Carmilla, 15 Novembre 2019. 

  12. Vivian Sobchak, Screening Space: The American Science Fiction Film, Rutgers University Press, New York, Brunswick, 1978. 

  13. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op cit., p. 307. 

  14. Ivi, pp. 307-308. 

  15. Ivi, p. 303. 

  16. Ivi, pp. 304-305. 

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Il senso di un’estate passata https://www.carmillaonline.com/2020/12/13/il-senso-di-unestate-passata/ Sat, 12 Dec 2020 23:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63829 di Luca Cangianti

Paolo Scardanelli, L’accordo. Era l’estate del 1979, Carbonio, 2020, pp. 240, € 15,00.

Gli anni della scuola, la nostra sensibilità ancora priva di epidermide, i riti di passaggio della gioventù racchiudono significati che impieghiamo un’intera vita per decifrare. Siamo figli e figlie di un’estate passata a interrogarci su come cambieremo il mondo, con il rumore delle cicale nelle orecchie e una bomba a orologeria nel cuore. Poi, quando giunge il tempo dell’età adulta, la memoria s’incarica prometeicamente di trovare un senso a ciò che è stato e a [...]]]> di Luca Cangianti

Paolo Scardanelli, L’accordo. Era l’estate del 1979, Carbonio, 2020, pp. 240, € 15,00.

Gli anni della scuola, la nostra sensibilità ancora priva di epidermide, i riti di passaggio della gioventù racchiudono significati che impieghiamo un’intera vita per decifrare. Siamo figli e figlie di un’estate passata a interrogarci su come cambieremo il mondo, con il rumore delle cicale nelle orecchie e una bomba a orologeria nel cuore. Poi, quando giunge il tempo dell’età adulta, la memoria s’incarica prometeicamente di trovare un senso a ciò che è stato e a ciò che ne rimane.
L’estate di cui parla L’accordo di Paolo Scardanelli è quella del 1979, quando dopo la maturità un gruppo di amici parte dalla Sicilia alla volta del Friuli per partecipare a un campo di lavoro della Fgci, la federazione giovanile del Pci. In verità il vero “figgicciotto” è uno solo (Roberto), mentre gli altri (Paolo, autore e voce narrante, e Pino) sono più che altro di tendenze anarchiche e autonome. E infatti combineranno qualche guaio. Infine c’è Andrea, che rimane a casa, ma che diviene il focus narrativo degli anni che seguiranno. Il suo rapporto frustrante con il padre, un imprenditore etneo dal carattere autoritario, il suo amore possessivo e disperato verso Anna sono la cifra di una condizione esistenziale tipica degli anni Ottanta. Si tratta di un orizzonte percettivo senza soggettività, dove tutto “sembrava semplicemente e inevitabilmente agito”, dove la realtà sfuggiva via tra le dita come sabbia finissima: “penso ad Andrea – scrive Scardanelli – come paradigma della difficoltà, dell’impossibilità quasi di vivere”.

La trama del libro è solo struttura leggera intorno alla quale si aggrappa una prosa densa, intima, a tratti aulica, a tratti colloquiale, spesso tagliente, sempre dolorosa. È un lungo flusso di coscienza che divaga tra filosofia, religione e temi musicali; un guardare agli anni Settanta, dove tutto iniziò, con sofferto distacco, ma senza rancore: “Gli anni Settanta erano un vecchio mantello lasciato nel guardaroba non senza una punta di nostalgia… dell’ansia d’eterno che li attraversò, della desolazione del dopo che ci colse tutti e ci traghettò verso gli orrendi Ottanta.”
L’accordo è un romanzo che va letto con calma. Parla di un’esperienza imprescindibile che ci riguarda tutti, la necessità di guardare indietro e ritrovare un senso: “Ho paura, ma so di potere, dovere provare a riconnettermi. A ciò che è stato, a ciò che sono stato. Al suo illusorio stato di benessere che la distanza magnifica. Illudendoci. Che ciò che siamo stati possa ritornare. Che l’Eden abbia un posto sulla Terra.”

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Nati troppo tardi. La generazione degli anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2020/11/03/nati-troppo-tardi-la-generazione-degli-anni-ottanta/ Mon, 02 Nov 2020 23:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63299 di Luca Cangianti

Adolfo Scotto di Luzio, Nel groviglio degli anni Ottanta: Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi, Einaudi, 2020, pp. 312, € 30,00.

Al liceo con il righello scrostavo l’intonaco bianco per far riemergere le scritte di quelli che erano venuti prima di noi. Erano gli anni Ottanta. Quando davamo i volantini contro i missili a Comiso o per protestare contro la chiusura dei cancelli della scuola durante le ore di lezione, loro, quelli più grandi, ci guardavano con sufficienza, forse persino con fastidio. Con noi non parlavano. Avevo [...]]]> di Luca Cangianti

Adolfo Scotto di Luzio, Nel groviglio degli anni Ottanta: Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi, Einaudi, 2020, pp. 312, € 30,00.

Al liceo con il righello scrostavo l’intonaco bianco per far riemergere le scritte di quelli che erano venuti prima di noi. Erano gli anni Ottanta. Quando davamo i volantini contro i missili a Comiso o per protestare contro la chiusura dei cancelli della scuola durante le ore di lezione, loro, quelli più grandi, ci guardavano con sufficienza, forse persino con fastidio. Con noi non parlavano. Avevo sempre saputo che durante gli anni dell’infanzia era accaduto qualcosa d’importante al quale non avevo potuto prender parte: il Sessantotto, il Settantasette, milioni di giovani, di donne, di operai in tutto il mondo si erano ribellati a una società ingiusta. Lo avevo letto nei libri comprati sulle bancarelle, lo avevo visto in film come Fragole e sangue, Zabriskie Point e La classe operaia va in paradiso.
Qualche compagno più grande, prima di scomparire chissà dove, mi aveva indicato l’ambasciata spagnola in piazza Fontanella Borghese e di come fossero riusciti a rompere una finestra al secondo piano il giorno dell’uccisione dei cinque antifascisti spagnoli da parte del regime di Franco. Era il 27 settembre 1975. Probabilmente quel giorno ero sotto casa a giocare a pallone o con Big Jim. Eppure quando passo per quella piazza rivedo le immagini mitologiche che mi sono state raccontate, l’enorme bandiera rossa listata a lutto in testa al corteo che aveva sfilato da piazza Esedra a piazza del Popolo, gli slogan che rimbombavano cupi e potenti sui palazzi di via Cavour: “Compagni portoghesi, compagni spagnoli, per la rivoluzione non sarete soli!”
Non so cosa avrei dato per vivere dal vero quella sensazione adrenalinica, terribile ed euforica di chi sentiva il compito di portare avanti la battaglia di speranza di quei cinque giovani martiri, di chi si sente padrone di una agency rivoluzionaria, capace di opporsi al male e di cambiare il mondo.
Sono cresciuto con la sensazione di esser “nato troppo tardi”, di essermi “perso qualcosa di molto importante”, ma ho avuto sempre la convinzione che un giorno sarebbe toccato a me. Pensavo di dovermi preparare, perché alla fine sarebbe venuto il mio tempo e mi sarei ricongiunto con la mia essenza più profonda. Lo stupore è stato davvero grande quando ho ritrovato questi miei sentimenti intimi, esposti con le parole che avrei utilizzato io stesso, in un’opera di sociologia, Nel groviglio degli anni Ottanta di Adolfo Scotto di Luzio.

Roma, manifestazione del 15 ottobre 1983

Con stile riflessivo, il libro ripercorre la storia di una nostalgia di luoghi mai abitati valorizzando aspetti educativi e di vita quotidiana. I giovani degli anni Ottanta – il loro ripiegamento su se stessi, “l’incapacità di pensare all’azione se non nelle forme dell’espressione di sé”, la perdita del valore dell’impresa eroica – sono infatti il frutto culturale di un mancato adempimento: il dovere di primogenitura delle sorelle e dei fratelli maggiori, quelli degli anni Settanta, quelli che avrebbero dovuto far da mentori, trasmettendo la memoria, passando il testimone. Questa generazione – o una sua parte preponderante – non volle, oppure non poté, ottemperare il patto intergenerazionale: veniva da una sconfitta epocale, grande quanto la rivolta che l’aveva preceduta. Le ristrutturazioni tecnologiche frammentarono il contropotere nella fabbrica e nella società, la militarizzazione del conflitto politico offrì un assist alla repressione dello stato, l’eroina dilagò nelle vene di una composizione di classe ormai devastata. Al tempo si parlò di riflusso, che tuttavia, secondo Scotto di Luzio, altro non è che “il modo con il quale la generazione maggiore descrive se stessa nell’atto di lasciare la propria giovinezza.” Il problema è che a “questa modalità pretenderà di inchiodare anche la generazione nuova che comincia a fare le sue prime prove nel mutato contesto del nuovo decennio.”

I principali movimenti degli anni Ottanta appariranno come “non ideologici”, pragmatici, focalizzati su singoli temi di cittadinanza attiva: la pace, gli armamenti nucleari, la mafia, la riforma scolastica dell’85, quella universitaria del ’90. Molti li guarderanno paternalisticamente dall’alto dell’“irripetibile” Sessantotto.
I sentimenti sono evanescenti, ingannevoli ed estremamente soggettivi. A trattarli con gli strumenti della storia e della sociologia si può rischiare qualche giudizio eccessivamente impressionistico, qualche generalizzazione non sufficientemente puntellata da evidenze empiriche. Scotto di Luzio, tuttavia, ha fatto bene a correre questo rischio, perché nessuna base economica, nessuna struttura sociale deprivata dalle mentalità e dai sentimenti collettivi potrà mai restituire la complessità di un tempo.
Nel groviglio degli anni Ottanta, infine, può aiutare quelli che hanno vissuto nell’attesa romantica del loro momento ad accorgersi che ogni momento è buono per la vita e la rivolta, che la ferita di un passato mai vissuto non ci deve impedire di dichiarare guerra oggi alle forze del male. Solo così riabbracceremo le nostre sorelle e i nostri fratelli maggiori, e gli diremo quanto ci sono mancati.

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Quegli anni Ottanta al sapor di benzina https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/41554/ Tue, 07 Nov 2017 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41554 di Paolo Lago

Nicola Pera, Benzina, MdS Editore, Pisa, 2017, pp. 155, € 12,00

Il recente romanzo dello scrittore livornese Nicola Pera, Benzina, uscito nella collana “Cattive strade” di MdS Editore, è una storia noir e pulp che si srotola in una dimensione on the road. Siamo presumibilmente nell’estate del 1981 e la vicenda è narrata dal protagonista io narrante, del quale non ci viene mai detto il nome. La struttura del viaggio domina la storia: il protagonista e una squinternata dark lady dal soprannome di Louise percorrono su una 128 rossa tutta [...]]]> di Paolo Lago

Nicola Pera, Benzina, MdS Editore, Pisa, 2017, pp. 155, € 12,00

Il recente romanzo dello scrittore livornese Nicola Pera, Benzina, uscito nella collana “Cattive strade” di MdS Editore, è una storia noir e pulp che si srotola in una dimensione on the road. Siamo presumibilmente nell’estate del 1981 e la vicenda è narrata dal protagonista io narrante, del quale non ci viene mai detto il nome. La struttura del viaggio domina la storia: il protagonista e una squinternata dark lady dal soprannome di Louise percorrono su una 128 rossa tutta l’Italia da Nord a Sud, da Trieste alla Puglia. La “benzina” del titolo ci introduce fin da subito in un mondo di strade e di periferie, di stazioni di servizio e distributori, di odori acri e sporcizia, di notti passate a dormire in auto e di vagabondaggi senza fissa dimora. La benzina segna inoltre le tappe del viaggio dei protagonisti, perennemente destinati a rimanerne senza e a cercare in tutti i modi di procurarsela, fino all’apparizione, alla fine della storia, del cartellone pubblicitario, “metti un tigre nel motore”, slogan del carosello e della pubblicità degli anni Sessanta e Settanta per reclamizzare la benzina Esso (satireggiato da Herbert Pagani e Franco Godi nella canzone Metti un tigre nel doppio brodo, inserita in Vip, mio fratello superuomo di Bruno Bozzetto).

Lo sfondo sul quale si svolge la fuga dei due protagonisti tra sparatorie, sesso e violenza, è quello dei primi anni Ottanta, periodo che inaugura il cosiddetto “riflusso”, la progressiva perdita delle ideologie e l’interesse sempre più esacerbato per la ricchezza facile e per l’apparire, l’età dell’esplosione dello spettacolo televisivo e della nascita delle televisioni private, della pubblicità diffusa, di Berlusconi e della “Milano da bere”, dell’eroina che mieterà innumerevoli vittime. Uno scenario che Federico Fellini rivestì di tratti quasi apocalittici ed infernali nel geniale affresco realizzato con Ginger e Fred (1986): la pubblicità e la televisione che si insinuano dovunque, fin negli interstizi della società la quale, se da una parte è attraversata dalla spettacolarizzazione diffusa che la percorre come una scossa elettrica, da un’altra presenta ancora plaghe irrisolte e inquietanti di povertà nelle lande periferiche delle grandi città, abbandonate a se stesse. Nel romanzo di Nicola Pera la violenza che muove quasi ogni singola azione dei due protagonisti avviene sullo scenario di una società quasi dimentica di se stessa, intrappolata nello sviluppo economico e nello spettacolo più ostentato. Durante il viaggio in auto, dalla radio, a più riprese, in mezzo alle canzoni di moda in quel periodo, si insinua la cronaca del tragico avvenimento di Vermicino che tenne con il fiato sospeso l’intero paese: i vani tentativi di salvataggio e poi la morte di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo. Siamo perciò nel giugno del 1981 e, per la prima volta, veniva spettacolarizzata e seguita in diretta una tragedia di fronte a un pubblico catturato dalla tragicità della vicenda come da uno spettacolo di varietà. La violenza diffusa nel romanzo, il sangue, le sparatorie, il disinteresse ostentato per la vita umana e la leggerezza nell’uccidere e nel commettere, da ogni parte, atti atroci, non è altro che lo specchio di una società che si sta tuffando inconsapevolmente nella spettacolarità diffusa, nella solitudine e nell’individualismo.

Intervallata da numerosi flashback, da Trieste prende avvio la fuga in auto dei due personaggi, attraverso un nord cupo e nebbioso per ritrovarsi in una assolata Puglia da incubo, quasi un nostrano far west in cui quelli che dovrebbero essere i tutori dell’ordine si presentano invece come maniaci e criminali, come l’agente Carmine, maniaco violentatore che sembra uscito da un film americano in cui lo sceriffo di turno, nella provincia più degradata, spadroneggia compiendo gratuitamente ogni atto di violenza. I personaggi sembrano perciò riflettere i lati peggiori di quella società anni Ottanta, inconsapevoli e pronti a compiere ogni atto violento senza riflettere, come se facessero la cosa più naturale del mondo. E loro due, sbandati ed emarginati, molto probabilmente di quella stessa società sono le principali vittime. Prima di lasciare il nord e le sue nebbie, l’auto avanza immersa nella caligine, alla cieca, come la stessa società sembra gradualmente venire catturata dall’inconsapevolezza e dallo spettacolo diffuso: Quel ricordo mi aveva aiutato a rimanere sveglio perché in realtà ero sfinito e quel mondo ovattato di bianco mi faceva bruciare gli occhi. Li strizzavo continuamente per cercare di vedere qualcosa di più. Avrei voluto riposarmi per qualche ora, ma Louise non diceva una parola, si limitava ogni tanto a fumare una sigaretta guardando fuori e aveva acceso la radio. Sembrava non essere successo nulla di particolare. L’estate avrebbe tardato ad arrivare, soprattutto al nord, stavano cercando dappertutto il mostro di Firenze, c’era stato un regolamento di conti della malavita di Trieste che si era concluso con un efferato delitto, però lontano dalla città dei signori, poi avevano arrestato un onorevole per dei fatti che non capivo e un ragazzino era caduto in un pozzo. E adesso un po’ di musica (p. 30).

Il viaggio narrato in Benzina sembra assumere le modalità tipiche della narrativa neopicaresca (la ripresa moderna e contemporanea del genere picaresco): la casualità che muove gli spostamenti e le azioni dei personaggi, la sordidezza delle avventure, gli incontri più svariati. Come scrive Fabrizio Bartelloni nella sua Nota iniziale, i due protagonisti “sembrano capitati dentro la loro vita per caso, come ospiti inattesi e a tratti sgraditi”. Il caso domina anche lo spostamento dei personaggi, il quale a prima vista potrebbe assumere l’aspetto di una fuga, attuata per scappare da Trieste e far perdere le proprie tracce. Si tratta invece di uno spostamento nomadico che non ha una vera e propria meta, un’erranza casuale all’interno di una geografia sbiadita e spettrale. I personaggi, a bordo della loro 128, si muovono sospinti dal caso, seminando violenza, un po’ come il killer psicopatico di Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2007) dei fratelli Coen: se quest’ultimo, vera e propria macchina di violenza, si muove nelle estreme lande americane al confine col Messico, in una terra di nessuno abbandonata a se stessa, l’io narrante e Louise percorrono pianure nebbiose e assolate di un’Italia spettacolarizzata e invasa dalla pubblicità dilagante. Nonostante la violenze perpetrate, nessuno sembra cercare i protagonisti, la polizia non li insegue e dei loro crimini sembra essere persa ogni traccia. Il loro incedere sembra perciò srotolarsi su una mappa mentale, un viaggio picaresco in una geografia onirica e immaginifica che si dimostra crudamente reale ogni volta che la violenza emerge, lancinante e corporea (fino a insinuarsi efficacemente nella ricezione mentale del lettore), dalle plaghe di un paese sprofondato in un dimentico benessere. L’orrore e la violenza sono infatti cadenzate dalle note e dalle parole delle canzoni più in voga in quei primi anni ottanta, da Donatella di Donatella Rettore a Gioca jouer di Claudio Cecchetto, passando per Maledetta primavera.

Per concludere, è doveroso ricordare che di Benzina esiste anche un booktrailer realizzato da Simone Giusti con Alessandra Bareschino e Luca Micheletti nel ruolo dei protagonisti. Il breve video riesce a catapultarci immediatamente nell’atmosfera pulp del romanzo: vediamo i due personaggi che, in un desolato scenario industriale, salgono sulla 128 per poi partire sgommando verso nuove avventure e nuova violenza. L’io narrante e Louise si mettono in movimento in una erranza dominata dal caso e dalla violenza e così, tali e quali, li ritroviamo nell’efficace e avvincente narrazione allestita da Nicola Pera.

 

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