Anni di piombo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 23 Dec 2024 06:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Milano, Vigorelli 1971: “Abbattete lo Zeppelin !” https://www.carmillaonline.com/2021/07/15/milano-vigorelli-1971-abbattete-lo-zeppelin/ Wed, 14 Jul 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67111 di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di [...]]]> di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di uno dei momenti più difficili ma anche esaltanti attraversati dalle giovani generazioni dell’epoca: il 1971, un anno cruciale in cui necessità popolare di cambiamento e volontà istituzionale di conservazione si scontrano già con violenza ma in modo ancora immaturo e confuso. Conflitti che non deflagrano più solo nelle fabbriche e nelle università, ma anche nei luoghi deputati alla cultura e al tempo libero.

Chi ha vissuto quel periodo lo ricorda con un brivido ambivalente di rimpianto e di sollievo. Sollievo per il tramonto successivo, faticoso ma inderogabile, dei cascami di un ancien régime opprimente e fortunatamente sepolto, rimpianto per le possibilità che allora si squadernavano illusoriamente infinite e, nel tempo, si sono ridotte, sfilacciate, erose, fino a rivelarsi fallaci e disattese.

Nel corso del ’71 i Tupamaros rapiscono l’ambasciatore inglese in Uruguay; in Egitto apre la diga di Assuan; Amin Dada prende il potere in Uganda; le missioni Apollo 14 e 15 preludono sommessamente al crepuscolo dell’era spaziale; le truppe sudvietnamite invadono il Laos; a Città del Messico si consuma la strage del Corpus Domini; Nixon cancella gli accordi di  Bretton Woods ponendo fine alla convertibilità del dollaro in oro; Jim Morrison viene ritrovato morto nella vasca da bagno della sua stanza in un albergo di Parigi, mentre George Harrison vara il Concert for Bangla Desh e John Lennon pubblica Imagine. Intanto in Italia la commissione d’inchiesta su SIFAR e Piano Solo smentisce l’ipotesi di qualsiasi possibile golpe proprio mentre Paese Sera rende noto il tentativo di un altro golpe, quello di Junio Valerio Borghese del 7 dicembre 1970, e il Principe Nero, colpito da mandato di cattura, rifugia in Spagna; il giudice di Treviso emette mandato di cattura verso i neofasciti padovani Freda e Ventura in relazione agli attentati del 1969; Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Trieste e la Corte Costituzionale abroga l’articolo 553 del codice penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali. Il ventunesimo Festival di Sanremo viene vinto da Nada e Nicola di Bari con Il cuore è uno zingaro, secondi i Ricchi e Poveri e Josè Feliciano con Che sarà, ma saranno significativamente i terzi classificati, Lucio Dalla e l’Equipe 84 con 4 Marzo 1943, a primeggiare nelle vendite: anche il pubblico popolare chiede tematiche e melodie almeno un po’ diverse.

Così Ezio Radaelli, impresario e barone dell’industria dell’intrattenimento, fino dal 1962 ideatore e patron del Cantagiro – formula presa a modello dal Giro d’Italia di ciclismo, che consisteva in una carovana canora in giro per l’Italia con i cantanti in competizione, giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico delle varie città – fiuta l’aria di rinnovamento: nel ’71 il Cantagiro diventerà Cantamondo, non avrà classifica e affiancherà ad ogni tappa alle star nostrane anche big della musica internazionale come Aretha Franklin, Miriam Makeba, Nina Simone, King Curtis, Charles Aznavour, Sam & Dave, Donovan e, dulcis in fundo, i Led Zeppelin, per la prima volta in tour in Italia, che chiuderanno la manifestazione canora. Quello che non risulta perfettamente chiaro all’impresario è che alcuni mondi musicali sono ormai sempre più fieramente  incompatibili, che il pubblico di gruppi rock come i Led Zeppelin (lasciamo per ora da parte gli alfieri del Rhythm&Blues o il menestrello folk-psichedelico Donovan) non ne vuole minimamente sapere di una musica leggera e leggerissima, vista, non a torto, come di regime perchè ammannita giornalmente dalla Rai in Tv e in radio: Gianni Morandi e sodali (Lucio Dalla compreso) non hanno la minima speranza di condividere indenni lo stesso palco con la band di Whole Lotta Love. Un’inconciliabilità che porterà alla catastrofe.

Giovanni Rossi, come in un giallo ben costruito, predispone, capitolo per capitolo, scenari e dramatis personae. Una Milano in cui da pochi giorni la signora Licia Pinelli, vedova di Pino, ha denunciato (il 24 giugno 1971, il concerto è fissato per il 5 luglio) il Commissario Calabresi e i suoi accoliti questurini per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità, mettendo in fibrillazione tutta l’estrema sinistra cittadina. San Siro, luogo più indicato per l’evento, è inagibile per lavori di ristrutturazione e si ripiega sul velodromo Vigorelli. Nel frattempo una fiumana di giovani sciama da tutta Italia – chi in auto, chi in treno, chi in autostop – verso il concerto dell’anno. Poche sono state fino ad allora le occasioni di vedere i grandi del rock nel nostro paese: a Roma, i Beatles al Teatro Adriano nel 1965, Jimi Hendrix al Brancaccio nel 1968, i Rolling Stones nel 1967 e nel 1970, in varie città tra cui Roma e Milano. Ma non erano ancora eventi di massa come questo.

I Led Zeppelin sono al culmine della loro fama. Hanno pubblicato tre LP (il gruppo rifiuta di fare 45 giri) che li hanno portati ai vertici delle classifiche: giusto il terzo, meno rock blues e più folk, non ha raccolto consensi unanimi, ma la perfetta sintesi fra la musa elettrica e quella acustica sta per arrivare, a novembre, con il IV (quello di Starway to Heaven per intenderci) di cui il quartetto ha già in serbo ricche anticipazioni live. La stampa italiana, evidenziando la sua incompetenza musicale e la totale estraneità rispetto alla cultura del rock, li etichetta concordemente nei titoli di cronaca come “i successori dei Beatles”.

 Il pubblico che si prepara ad assediare il Vigorelli è fin troppo variegato. Prima i regolarmente paganti: innocue famiglie borghesi spesso in compagnia di bambini e adolescenti, interessate al Cantagiro e del tutto ignare dei Led Zeppelin; pubblico giovanile tranquillo o quasi, ansioso di ascoltare i Led Zeppelin ma insofferente al Cantagiro. Poi i non paganti che tenteranno di forzare gli ingressi: autoriduttori, divisi in quelli politicizzati che rivendicano musica gratis per tutti e semplici portoghesi che vogliono imbucarsi al concerto; militanti di estrema sinistra, non necessariamente autoriduttori ma intenzionati a fare casino sfruttando l’importanza dell’evento per avere una risonanza mediatica sulle loro rivendicazioni politiche; fasci infiltrati, anche loro lì per fare casino e sabotare i “capelloni”.  A chiudere in bellezza oltre 2500 sbirri in tenuta antisommossa. Una polveriera in attesa di scoppiare.

Rossi ben descrive l’escalation degli eventi. Apre Gianni Morandi accolto da gran parte del pubblico con fischi e lanci di ortaggi: tenta con ammirevole coraggio una svolta, a modo suo, verso l’engagement, cantando la versione italiana di Here’s To You di Joan Baez, ma una lattina lo coglie dritto in faccia ed è costretto a ritirarsi praticamente in lacrime (il contraccolpo sarà duro: abbandonerà le scene per più di cinque anni, andando a studiare contrabbasso al conservatorio…). Stessa sorte per i Vianella (Wilma Goich ed Edoardo Vianello: non sono più i tempi dei Watussi…). Lucio Dalla e Milva, meno impavidi, si rifiutano di uscire e, alla romana, “se danno”. Lo stesso Radaelli interviene e saggiamente manda fuori i New Trolls. Il gruppo progressive genovese, per quanto molto lontano dai Led Zeppelin, viene accolto con rispetto: è pur sempre una band rock, non canta canzonette, possiede solide capacità strumentali ed ha appena varato un best seller come Concerto Grosso per i New Trolls, innesto rock-barocco, un po’ pretenzioso ma bello, su musiche di Luis Enriquez Bacalov, che viene eseguito quasi per intero nell’attenzione generale del pubblico e degli stessi componenti dei Led Zeppelin che hanno ormai raggiunto il retropalco perché chiamati a cominciare il loro numero un’ora prima del previsto. La buona accoglienza riservata ai New Trolls dimostra come l’avversione degli spettatori sia indirizzata unicamente verso i cantanti “leggeri”, melodici e antiquati che usurpano le scene italiane da troppo tempo.

Nel frattempo gli autoriduttori stanno premendo sugli ingressi e le camionette della polizia che presidiano tutta la zona cominciano a concentrarsi nei punti di accesso. I primi candelotti già piovono nelle strade circostanti, dove si stanno raccogliendo gruppi di manifestanti intenzionati a farsi sentire ma non a forzare le porte del Vigorelli: per il momento i fumi che invadono il velodromo sono solo quelli, ancora contenuti, provenienti dall’esterno.

Arriva finalmente l’ora dei Led Zeppelin che – mentre la situazione rapidamente degenera e scariche sempre più nutrite di candelotti lacrimogeni vengono sparati dalle “forze dell’ordine” a parabola anche oltre le aperture dei tetti, direttamente dentro il velodromo e addirittura sul palco – avranno la professionalità di reggere per ben 50 minuti: la scaletta comprende Immigrant Song in medley con Mr. You’re a Better Man Than I degli Yardbirds, il gruppo precedente di Jimmy Page, Heartbraker, Since I’ve Been Lovin’ You, l’allora ancora inedita Black Dog, Dazed and Confused, Whole Lotta Love. Robert Plant invita più volte alla calma, e scherza col pubblico invitandolo a soffiare tutti insieme per allontanare il gas che sta progressivamente invadendo la scena: presto però i colpi di tosse gli impediranno di cantare mentre con gli occhi accecati e lacrimanti i ragazzi del dirigibile vedranno il pubblico, passato dall’entusiasmo al terrore, invadere di corsa il palcoscenico e venir loro addosso. Hanno chiuso tutte le uscite e l’unica via di fuga passa per il palco e per i camerini. Soccorsa dal promoter e dai roadies la band si rifugia in uno sgabuzzino mentre la marea umana infuria calpestando e distruggendo strumenti e impianto sonoro. Non stupisce che l’esperienza, a posteriori, li abbia determinati ad un’unica, drastica conclusione: “Mai più in Italia”.

Per pura fortuna comunque non ci scappa il morto. Un carabiniere perde un occhio per una sassata, decine di feriti e contusi su entrambi i fronti, quasi un centinaio di fermi e di arresti. Decine di milioni di danni agli edifici del Vigorelli. Anche Radaelli dovrà rimborsare i Led Zeppelin – il cui ingaggio già gli è costato un occhio della testa – svuotando paurosamente il suo nutrito portafoglio e il Cantagiro stesso subisce un colpo mortale: sopravviverà ancora in sordina fino al 1974 per scomparire del tutto, almeno nella forma classica. Si è davvero consumata un’epoca.

Ovviamente la stampa si dividerà nei giorni successivi in due netti fronti avversi. I “moderati”, Corriere della sera, Il Giorno, La Notte, L’Avvenire, La Stampa, Domenica del Corriere, sosterranno la linea della provocazione deliberata ad opera di gruppuscoli eversivi intenzionati, con il pretesto dell’evento musicale, a scatenare la guerriglia urbana attaccando le forze di polizia che non hanno potuto evitare di reagire. I giornali di sinistra, Lotta Continua, Il Manifesto, L’Unità, accuseranno invece la polizia di aver volutamente scatenato un attacco rivolto contro pacifici manifestanti fuori dal Vigorelli e contro il pubblico inerme all’interno. Come sempre la verità sta probabilmente nel mezzo: la manifestazione non fu davvero così pacifica perché qualche razzo antigrandine e qualche molotov venne lanciata contro i celerini anche dalle barricate dei difensori. Più attendibile forse la stampa musicale estera o quella italiana non schierata apertamente su una precisa linea politica, come Ciao 2001, che raccogliendo anche la testimonianza diretta degli stessi Led Zeppelin, imputava la colpa del tralignare nel caos di una situazione all’inizio ancora gestibile, alla polizia che per contenere poche decine di autoriduttori si era lanciata in una serie esagerata di brutali cariche e in un lancio inutile e spropositato di candelotti lacrimogeni: “Erano quei tipi in uniforme che non avevano capito un cazzo di quel che stava accadendo ! Quindicimila persone che cercano disperate una via d’uscita per via dei gas lacrimogeni e quegli sbirri non lo capiscono!” dirà Robert Plant.

L’incombere degli anni di piombo a venire già si profila in queste asimmetrie fra azione e reazione, un copione già scritto che, ben più amaramente, un’intera generazione avrebbe presto  interpretato in un ruolo o nell’altro: i fatti del Vigorelli, come ben evidenzia il libro, ne sono infausta metafora e prefigurazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Gli Arditi del popolo, il PCd’I e l’irrisolta questione dell’organizzazione militare di classe https://www.carmillaonline.com/2019/12/11/gli-arditi-del-popolo-il-pcdi-e-lirrisolta-questione-dellorganizzazione-militare-di-classe/ Wed, 11 Dec 2019 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56642 di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, dal punto di vista storiografico e politico, le vicende che portarono ad una netta distinzione tra l’organizzazione illegale del Partito fondato a Livorno nel 1921 e quella spontanea e diffusa, soprattutto in ambito proletario, di chi cercava di opporsi armi alla mano alla nascente minaccia fascista.

Una lezione, indipendentemente dai risultati conseguiti e dalle motivazioni politiche che alimentarono le differenti strategie e tattiche assunte dai principali protagonisti, che potrebbe rivelarsi ancora oggi decisiva per distinguere comunque il reale antifascismo da quello di facciata finalizzato soltanto a protrarre oltre ogni possibile limite la sopravvivenza dell’attuale ordine economico e sociale basato sul sopruso e l’oppressione di classe.
All’interno di un conflitto sociale che si muove oggi in un’aura già di guerra civile, nelle diverse aree del globo in cui si va manifestando, ma in cui una parte dei contendenti sembra ancora tardare nel prendere coscienza delle difficoltà e delle responsabilità che l’attendono nel confronto con la violenza dispiegata dagli Stati e dai loro apparati militari e repressivi.

Tale non secondario problema, evidentemente, nel periodo intercorso tra il 1919 e il 1921, fu invece centrale per l’organizzazione di chi, tornato dalla guerra oppure rimasto in officina, doveva fare i conti con la crisi economica successiva alla fine del primo conflitto mondiale e, soprattutto qui in Italia, con l’organizzazione della violenza armata delle milizie che, come quelle fasciste, affiancarono l’opera di controrivoluzione preventiva messa in atto dallo Stato nei confronti dei lavoratori e del proletariato e delle loro iniziative ed organizzazioni politiche e sindacali.

Certo, a differenza di oggi, l’idea della violenza ineliminabile da qualsiasi discorso sullo scontro di classe non era ancora stata cancellata dalla memoria di chi si opponeva all’esistente e alle condizioni di vita e di lavoro che ne conseguivano. E a questo avevano certamente contribuito anni di guerra e di macelli interimperialisti, la leva di massa, le sofferenze di coloro che erano rimasti a casa e la delusione dei reduci e dei sopravvissuti di un conflitto che aveva causato in Europa circa dieci milioni di morti e un’innumerevole quantità di feriti e dispersi tra le file dei soldati di ogni nazionalità.

L’uso delle armi era diventato massiccio e abituale per chi era stato al fronte, ma anche il corso degli avvenimenti precedenti e contemporanei al periodo di guerra (la settimana rossa, l’insurrezione di Torino dell’agosto del 1917, le rivolte per il pane e la terra e le occupazioni delle fabbriche del cosiddetto Biennio rosso) aveva determinato tra i proletari, gli operai e i militanti più decisi delle varie tendenze politiche contrarie al capitalismo una pratica diffusa di detenzione o una più semplice propensione all’uso delle armi per far valere i propri diritti oppure per difendere la propria vita, le manifestazioni, gli scioperi e tutte le strutture connesse all’organizzazione delle lotte (tipografie, sedi sindacali e di partito, case private dei militanti) dall’assalto delle forze della controrivoluzione preventiva: sia che si trattasse di quelle dello Stato che di quelle inquadrate nelle milizie fasciste.

Un’azione militare proletaria che ebbe nell’azione degli Arditi del popolo un’autentica punta di diamante nella risposta al Fascismo e che finì con lo scontrarsi sia direttamente sul campo che giuridicamente con gli apparati repressivi e militari dello Stato Regio.
Stato che sempre e comunque, ben prima della sua completa fascistizzazione, intervenne a difesa delle milizie nere sia a supporto della loro azione repressiva che per soccorrerle in caso di probabile o evidente sconfitta. Ragion per cui gli appelli successivi alla pacificazione o l’invito al ritorno alla tradizione democratica del parlamento e del governo, ancora nel 1924 dopo il delitto Matteotti oppure vent’anni dopo con gli appelli ai “fratelli in camicia nera” del 1938 o la formazione del CLN dopo la caduta del regime, sempre risuonarono, e non avrebbe potuto essere diversamente, come autentici tradimenti dell’iniziativa autonoma proletaria e dello spirito rivoluzionario che l’aveva spontaneamente animata fin dagli anni del primo dopoguerra.

Mantovani prende in esame, nel suo sintetico testo, un problema importante e significativo del rapporto tra organizzazione politica (il partito o i partiti) e azione autonoma del proletariato: quello dell’avvicinamento alle formazioni militari degli Arditi del popolo e del contemporaneo allontanamento di molti militanti dalla disciplina e dalle direttive degli stessi partiti, in particolare da quel Partito Comunista d’Italia che era nato da una scissione a sinistra dell’ormai decotto Partito Socialista.

Proprio la giovane dirigenza del partito, nato rivoluzionario sulla base delle indicazioni della Internazionale Comunista o Terza Internazionale, fu quella che con più decisione si oppose teoricamente e organizzativamente all’unione militare tra militanti del Partito, proletari non ancora inquadrati politicamente e ex-combattenti antifascisti e avversi a quell’ordine socio-economico che li aveva mandati al macello.

Questi ultimi avevano una composizione socio-politica molto diversificata al proprio interno: ex-militari di prima linea, volontari fiumani, anarchici, socialisti, repubblicani, comunisti provenienti da classi sociali diverse (studenti, piccoli borghesi, disoccupati, sottoproletari, lavoratori), ma uniti nel rifiuto dell’esistente e attivi nel rispondere alla minaccia e alle aggressioni fasciste.
Certo non potevano essere portatori di un programma politico ben delineato e definito e proprio da qui nacque l’equivoco, se vogliamo definirlo con un eufemismo, che portò l’allora segretario del Partito Amadeo Bordiga e buona parte del direttivo dello stesso ad opporsi alla pratica di collaborazione militare e a proporre un inquadramento militare, destinato soltanto ai militanti riconosciuti del partito stesso, all’interno delle strutture illegali del Partito.

Molti militanti non diedero ascolto a tali indicazioni (lo dimostrano le cifre delle adesioni agli Arditi del popolo di militanti definiti come comunisti) e ciò naturalmente causò irritazione negli organi dirigenti da una parte e dall’altra una serrata polemica tra la direzione del Partito e la Direzione dell’Internazionale e lo stesso Lenin, favorevoli invece ad una collaborazione militare tra il Partito italiano e le formazioni militari spontanee rappresentate dagli Arditi.

Mentre la dotta introduzione di Marco Rossi, già autore di diversi testi sul teme degli Arditi e del rifiuto della guerra, serve a inquadrare più generalmente il periodo e le pratiche spontanee di resistenza e di organizzazione paramilitare di chi, nel primo dopoguerra oppure durante la guerra stessa, si opponeva allo Stato borghese, al capitalismo, al nazionalismo e al fascismo, la ricostruzione di Mantovani si basa principalmente sulla documentazione e sui testi prodotti all’epoca dal Partito Comunista a direzione bordighiana e dall’Internazionale relativi al medesimo argomento.

E’ un lavoro interessante e, fortunatamente, critico delle formulazioni e delle pratiche messe in atto dal PCd’I in quei frangenti, ma nell’opera quasi ostinata di antologizzazione dei testi (molto ricca è infatti l’Appendice in cui si raccolgono i documenti, gli articoli e gli accesi contrasti tra Partito e Internazionale) rischia di cadere nello stesso errore di schematismo in cui caddero Bordiga e gli altri dirigenti del Partito (fatto forse salvo il caso di Gramsci) che ebbero come unico faro i compiti e i programmi del Partito stesso, senza tener conto delle proposte e delle nuove modalità organizzative e operative che giungevano dal basso e dalla società. Un dibattito che, per forza di cose, era destinato e sarebbe destinato tutt’ora, a rimanere racchiuso nel confronto ideologico e politico interno ad una minima frazione di proletariato e di militanti compresi all’interno del Partito di allora o di quello puramente immaginario di adesso.

In questo, però, occorre anche vedere anche un prolungamento di quelle pratiche bolsceviche e bolscevizzanti messe in atto proprio sulla base delle indicazioni provenienti dall’Internazionale per la formazione dei nascenti partiti comunisti: partiti di quadri e militanti rivoluzionari che dovevano guidare le masse in nome di un chiaro e ben definito progetto di azione tattica e strategica.
Una concezione dell’azione politica militante che non solo avrebbe portato nel giro di pochi anni alla degenerazione staliniana nell’Urss e nei partiti “fratelli”, ma che era riuscita di ostacolo persino agli inizi della rivoluzione russa quando, a febbraio, i rappresntanti del partio presenti a Pietrogrado si erano inizialmente opposti alle iniziative dal basso, di operaie, operai e soldati, che avrebbero portato nel giro di una settimana alla caduta dello Zar.

Una concezione e una pratica militare, quella ereditata dal partito bolscevico, più adatta all’azione armata ristretta delle fasi di difficoltà di un movimento (come quella attraversata dal partito bolscevico dopo la rivoluzione del 1905) piuttosto che all’azione generale di classe in un momento di guerra civile oppure pre-insurrezionale e rivoluzionario. Concezione ristretta che si sarebbe drammaticamente riverberata anche nei cosiddetti ‘anni di piombo’ e nelle tragiche e perdenti scelte operate dalle organizzazioni maggioritarie della lotta armata italiana a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Se non sbaglio, poi, l’autore dimentica una specie di autocritica che lo stesso Bordiga avrebbe poi fatto sulle pagine di Prometeo, la rivista teorica del Partito sopravvissuta pochi mesi all’azione fascista statalizzata, riconoscendo l’importanza che il movimento dannunziano e l’impresa di Fiume avrebbero potuto avere come momento di rottura all’interno della società italiana se questa fosse stata riconosciuta dai vertici della Sinistra come una possibile componente del movimento rivoluzionario. Ma questa “autocritica” in realtà tale non era poiché all’epoca del movimento dannunziano il Partito Comunista non esisteva ancora e, quindi, la responsabilità poteva essere rovesciata interamente sul Partito Socialista.

Il testo di Mantovani, edito da Pagine marxiste, è pertanto utile dal punto di vista della conoscenza e diffusione delle teorizzazioni, pro o contro, dell’epoca, ma pecca ancora di una mancata e approfondita analisi delle componenti sociali e degli immaginari che determinarono tali scelte. E questo non è poco in un momento in cui, a livello mondiale, torna a delinearsi uno scontro di classe variegato e contraddistinto dall’essere più guerra civile che non “rivoluzione pura” come alcuni vorrebbero, cosa che condannerà inevitabilmente questi ultimi a ripercorrere ancora le stesse orme lasciate da altre sconfitte nella neve insanguinata della Storia.

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Sherlock contro Andreotti https://www.carmillaonline.com/2014/01/19/sherlock-andreotti/ Sun, 19 Jan 2014 21:55:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12096 Sherlockdi Alessandra Daniele

La prima stagione di Sherlock è stata ottima. La seconda mediocre. La terza una presa per il culo. Autocelebrazioni ridicole, idee idiote rubate alle fanfiction o riciclate da altre serie, personaggi così out of character da scambiarsi le personalità, trame inesistenti, incongruenti, assurde, morti che sì ripropongono come i peperoni. Un supervillain abbastanza intelligente da ricordarsi a memoria tutte le informazioni che adopera per ricattare le sue vittime, ma anche abbastanza coglione da rivelare a Sherlock che la sua mente è il suo unico archivio, beccandosi ovviamente una pallottola in fronte per questo. Quanto sarebbe durato Andreotti, [...]]]> Sherlockdi Alessandra Daniele

La prima stagione di Sherlock è stata ottima. La seconda mediocre. La terza una presa per il culo.
Autocelebrazioni ridicole, idee idiote rubate alle fanfiction o riciclate da altre serie, personaggi così out of character da scambiarsi le personalità, trame inesistenti, incongruenti, assurde, morti che sì ripropongono come i peperoni.
Un supervillain abbastanza intelligente da ricordarsi a memoria tutte le informazioni che adopera per ricattare le sue vittime, ma anche abbastanza coglione da rivelare a Sherlock che la sua mente è il suo unico archivio, beccandosi ovviamente una pallottola in fronte per questo.
Quanto sarebbe durato Andreotti, se fosse andato in giro a dire di non avere un backup?
Quant’è durata la British Reinessance televisiva? Anche oltremanica la moneta cattiva ha inesorabilmente cominciato a scacciare quella buona.
Steven Moffat, lo showrunner a cui sono stati affidati sia Sherlock Holmes che Doctor Who, due delle principali icone british simbolo della superiorità dell’intelligenza sulla cazzonaggine, è stato capace soltanto di trasformarle entrambe in brutte copie dell’icona british che rappresenta il contrario: 007. Sia Sherlock che il Dottore adesso sono Bond, James Bond.
Quello di Pierce Brosnan.
Inutile illudersi però, nessuna stroncatura, nessuna protesta organizzata convincerà la BBC a esonerare Moffat fintanto che il mercato gli darà ragione in termini di audience, merchandising, e royalties internazionali.
Così come gli elettori vanno considerati politicamente corresponsabili della cialtroneria dei politici che eleggono, gli spettatori paganti, e gli acquirenti di gadget, volenti o nolenti, sono corresponsabili dello sgangherato declino qualitativo del prodotto mediatico che continuano a foraggiare nonostante tutto.
Una scelta discutibile, che in caso di emittente statale finanziata dal canone diventa però una scelta obbligata.
Se ai cittadini britannici tocca finanziare il cazzarismo moffattiano, va molto peggio agli italiani, complici forzati del grossolano revisionismo Rai de Gli Anni Spezzati.
Un’esperienza straniante in particolare per i cinquanta-sessantenni, costretti ad assistere all’orwelliano retcon di un’epoca storica che hanno vissuto personalmente.
È come se a noi fra qualche anno toccasse vedere e finanziare una fiction sull’era Berlusconi che lo ritrae come uno statista illuminato, onestissimo, e interpretato da Benedict Cumberbatch.
Che sia frutto d’incompetenza, malafede, o d’una miscela tossica d’entrambe le cose, il revisionismo della trilogia Rai è quanto di peggio sia stato prodotto sul tema dei cosiddetti Anni di Piombo, e questo è un record significativo, data la ricorrente ossessione mediatica per l’argomento.
Per quanto le speculazioni di Moffat sul falso suicidio di Sherlock siano state  irritanti, la speculazione della Rai sul falso suicidio di Pinelli è stata avvilente.

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La mia fuga. Intervista a Cesare Battisti https://www.carmillaonline.com/2013/04/25/la-mia-fuga-intervista-a-cesare-battisti/ Wed, 24 Apr 2013 22:00:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4840 di Fabrizio Lorusso

Cesare Battisti SP[Dopo la pausa tecnica per la ristrutturazione di Carmilla torniamo a pubblicare su una nuova piattaforma mentre la grafica del sito prende forma giorno dopo giorno. Questo dialogo con Cesare Battisti risale al 28 dicembre 2012 ed è stato registrato a San Paolo, in Brasile. Una versione più stringata di questa intervista è uscita in spagnolo sull’inserto domenicale del quotidiano La Jornada di Città del Messico. Nel gennaio 2013 è uscito in Brasile (e uscirà prossimamente in Francia) il libro dell’accademico argentino Carlos Lungarzo intitolato Os cenários ocultos [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Cesare Battisti SP[Dopo la pausa tecnica per la ristrutturazione di Carmilla torniamo a pubblicare su una nuova piattaforma mentre la grafica del sito prende forma giorno dopo giorno. Questo dialogo con Cesare Battisti risale al 28 dicembre 2012 ed è stato registrato a San Paolo, in Brasile. Una versione più stringata di questa intervista è uscita in spagnolo sull’inserto domenicale del quotidiano La Jornada di Città del Messico. Nel gennaio 2013 è uscito in Brasile (e uscirà prossimamente in Francia) il libro dell’accademico argentino Carlos Lungarzo intitolato Os cenários ocultos do caso Battisti (Gli scenari occulti del caso Battisti). E’ un saggio piuttosto completo, scritto da una prospettiva brasiliana: parte dai dibattiti che coinvolsero la Suprema Corte, il Partido dos Trabalhadores (PT), l’opinione pubblica e l’ex presidente Lula nella decisione di non estradare Cesare Battisti e poi identifica gli scenari “nascosti” della sua vicenda politica e giudiziaria. A questo link c’è la traduzione in italiano dell’articolo di Tarso Genro, ex ministro della giustizia del Brasile, sul libro di Lungarzo e sul “caso”. Quest’intervista, chiamata “La mia fuga” (“Ma cavale” in francese) come un romanzo di Battisti del 2006, tocca in parte questi punti, ma cerca soprattutto di comprendere e di dare una visione più ampia sulla vicenda storica, umana e letteraria. F. L.]

F. L.: Sono passati due anni dalla decisione del presidente Lula che ti ha rimesso in libertà. A cosa ti dedichi ora?

C. B.: Ti avviso, senti, mi sono quasi scordato l’italiano ed è un problema! Ora mi sto dedicando a sistemarmi a San Paolo, quindi preparo l’appartamento che ho appena affittato ed è completamente vuoto. Il punto è che dopo più d’un anno e mezzo che sono uscito dal carcere, praticamente solo adesso sto cominciando a entrare nell’ordine di idee che sono uscito, cioè fino ad ora non mi sono sentito come una persona che stava “affrontando” la libertà.

Come sono andate le presentazioni del tuo nuovo libro “Face au mur” (Faccia al muro)?

Sì, ho fatto diverse presentazioni in varie città. Tra l’altro non ho mai firmato tante dediche come qui, ma in pratica è perché si riunivano tante persone ad ogni presentazione. Era più un evento su Cesare Battisti che sul libro in realtà. Quindi per esempio un autore medio in Francia quando autografa 50 libri ha fatto un gran lavoro, ci vuole molto tempo, ci si conosce e si parla, e qui sono arrivato a firmarne 300, cosa mai successa davvero e che non corrisponde alle vendite del libro perché il libro non è praticamente distribuito.

Oggi qual è il legame tra la tua vicenda editoriale e quella mediatica e giudiziaria?

Al contrario di quello che si pensa, cioè che l’importante è comunque parlare di qualcuno, questo non è vero. Mi hanno completamente distrutto, hanno costruito un’immagine infernale che mi sta impedendo di vivere e ricominciare a vivere e soprattutto vendere libri. E’ controproducente al 100%, è orribile e non avrei mai immaginato che potessi avere tanti problemi a causa di un’immagine creata dai media in tutti questi anni. Di solito quando vado a presentare un libro in una città c’è un’organizzazione fatta dalle persone e dai gruppi di appoggio che mi hanno sostenuto in questo periodo perciò è normale che ci siano due o trecento persone o più presenti. Ma se il libro fosse in libreria, semplicemente non venderei nemmeno il 5% di quello che vendo in Francia perché il libro di Battisti non si compra perché è del mostro.

Un boicottaggio editoriale o della distribuzione?

Mah, qui in Brasile, sicuramente c’è un boicottaggio della distribuzione perché chi monopolizza la distribuzione è un gruppo che si chiama Avril fondato da un italiano, già morto, che si chiamava Civita. Questo gruppo è il mio peggior avversario in Brasile. Tutte le riviste, i giornali e i media di questo gruppo mi hanno massacrato durante quattro anni. Parlo di distribuzione, non dell’edizione. Il mio miglior libro, semplicemente, non è in libreria.

In “Faccia al muro” in pratica parli dell’esperienza brasiliana in modo autobiografico.

Faccia al muro è l’ultimo di una trilogia che cominciò con un’autobiografia totale che si chiama Ma cavale (La mia fuga). L’ho cominciato a scrivere fuggendo dalla prigione nel 2004, in un momento di disperazione totale dove non capivo quel che stava succedendo e quindi da un paese all’altro, da un porto all’altro, e in tutto il percorso da Parigi fino ad arrivare al Brasile e poi qui ho scritto questo libro cercando di capire che cosa mi stava succedendo. Quindi con una certa distanza non solo emotiva e psicologica, ma anche materiale e fisica, cercavo di vedere un po’ cos’è successo in quegli anni lì. Quindi per la prima volta ho cominciato a rivedere gli anni 70 con una certa obiettività, anche con una certa esperienza di scrittore, una maturità che già avevo. Quindi diciamo, come scrittore già un po’ più riconosciuto, che sa usare anche certe tecniche, ho scritto quel libro che è autobiografico, anche se poi nella seconda parte non son più riuscito a continuare con la prima persona e passo alla terza per distaccarmi. Il secondo, uscito solo in Brasile, si chiama Essere bambù. E’ in pratica una via di mezzo, con questo personaggio che sono io, da clandestino qui in Brasile e anche in altri paesi: è la vita di un clandestino ultracinquantenne con tutti i problemi che ci possono essere. E’ più introspettivo, la lettura non è tanto scorrevole, ma entro di nuovo nel genere, nella finzione del romanzo, pur mantenendo ancora la parte autobiografica.

Sono scritti in francese?

Sì, tutti e tre, e sono pubblicati in Francia e in Brasile.

Perché in francese?

Non è stata una scelta. A un certo punto non riuscivo più a scrivere in italiano e mi son reso conto che stavo scrivendo in francese dopo una ventina di pagine! Parlo del primo libro. Il terzo l’ho scritto quando stavo in prigione, a Brasilia, ed è un libro che si riavvicina quasi totalmente al mio genere di scrittura, la finzione, usando la realtà come un trampolino, ma anche come una finzione che diluisce la realtà. Nel senso che quest’ultima è più forte della fantasia, in generale. Se noi scrivessimo le cose così come esistono nella realtà, forse nessuno le leggerebbe o ci crederebbe, perché nessuno vuole sapere quale situazione sta vivendo, la durezza della situazione e della vita stessa, nessuno vuole “essere trattato da cretino” ed è meglio, come dire, pensare che il cretino sia il proprio vicino e non lui. Volevo parlare del Brasile, ma non potevo farlo con un libro da turista, come uno che viene qui per due mesi, parla di un paese e fa un libro magari con un’irresponsabilità enorme. E ne vediamo tanti nei supermercati così. Allora faccio parlare del Brasile, dando voce ai detenuti.

Che significa raccontare un paese dal carcere?

Non è stato Mandela che ha detto che per conoscere un paese, bisogna conoscere le sue prigioni? Beh, allora, questo non lo sapevo mentre scrivevo, l’ho scoperto dopo. Ho scoperto il Brasile attraverso la voce dei detenuti brasiliani. Il Brasile fisicamente e anche come cultura. Perché una persona che sta in carcere ha una sensibilità tale, uno stato emotivo così forte che può comunicare delle cose che sono uniche, che per strada, in libertà, tu non avrai mai. E se riesci a cogliere quei momenti, puoi penetrare un universo che altrimenti non riuscirai mai a penetrare. Conosciamo l’opera di Dostoevskij che è una prova fondamentale di questo. Avevo voglia di parlare di questo paese perché avevo già passato quasi tre anni qui da clandestino, clandestino tra virgolette perché tutti sapevano che stavo qui. Il paese mi aveva trasmesso qualcosa di strano, di misterioso. Mi rigettava, ma allo stesso tempo mi attirava. Quindi credo di aver cominciato a capire un po’ cos’è il Brasile in carcere. Siccome io scrivo storie, romanzi che sono sociali, ho scelto storie di detenuti non casualmente, ma in modo che mi permettessero di conoscere il paese e certe sue culture, dato che questo non è solo un paese ma un continente, e allo stesso tempo di denunciare certe situazioni e capire che cosa stavo facendo io qua. C’è quindi la mia storia dal momento in cui arrivo in Brasile fino all’arresto, ma contemporaneamente sono già in galera, c’è un flashback, sto nel cortile con altri reclusi, li vedo uno a uno e racconto la storia di ognuno di loro. Quindi sono storie che s’incrociano e c’è un filo conduttore tra tutte, sono sempre storie d’amore perché affianco a un uomo c’è sempre una donna e, soprattutto in prigione, la donna assume un ruolo importantissimo, un ruolo quasi feroce. E quindi il filo conduttore è l’amore, una donna. Sono storie d’amore che legano il protagonista, in questo caso io, e i protagonisti delle storie frammentate che sono quelle dei detenuti per cui ognuno di loro racconta le vicende della propria terra, della propria regione e della propria cultura.

Ora che sei fuori da quasi due anni, cosa ti aspetti dal futuro?

E’ un po’ come se fossi uscito dal carcere ieri. Ho sottovalutato i danni psicologici e fisici che ho subito durante tutto questo tempo. Ero uscito con l’atteggiamento di uno che pensa di avere ancora vent’anni. Insomma, a vent’anni faccio tre anni e mezzo di prigione, esco e ricomincio a vivere. Ma non ho più vent’anni, ne avevo 55 e ne ho 58 adesso, e mi sono reso conto che ero quasi una rovina. Quindi ho agito incoscientemente come se avessi ancora l’energia, la forza e l’età di prima ed è per questo che in un anno e mezzo non sono riuscito a concludere niente o quasi. Non sono riuscito a sfuggire alle prese della persecuzione italiana che è feroce e ancora non abbassa le armi, che investe influenze e soldi, risorse umane e tecniche. Pensavo di poter sfuggire a questo con una certa facilità e mi sono accorto di aver sottovalutato le loro forze e sopravvalutato le mie. C’è voluto quasi un anno e mezzo e l’intervento di una marea di amici e compagni per tirarmi fuori da questa situazione.

Già uscendo di prigione hai temuto o pensato di avere pericoli per la tua incolumità?

Per come s’intende la cosa, si pensa sempre che io dovessi temere aggressioni fisiche in Brasile. Si sbagliano tutti, non è successo, non vedo un pericolo di questo tipo qui. I miei avversari avevano altre intenzioni: demolizione psicologica. Cosa che io e anche altre persone che mi sostenevano non avevano considerato abbastanza, ma, in effetti, esisteva ed esiste un piano di demolizione psicologica forte.

In che consisterebbe?

Creare una situazione d’instabilità, d’insicurezza, di delirio, di panico, d’isolamento, di sabotaggio, tutto questo. Sarebbe attraverso la tecnologia, pressioni, influenze politiche.

Qual è il tuo status attualmente in Brasile?

Ho un visto permanente di immigrante, o meglio, ho un numero di permesso permanente in tasca, però per ragioni misteriose il documento materialmente non mi è stato dato.

Quali ragioni sarebbero?

Ci sarebbe qualche autorità influenzata dall’estero che può bloccare il documento in modo illegale. Questo spiega un po’ il potere che hanno i miei avversari qui, cioè riuscirebbero a far desistere l’amministrazione dall’adempiere un ordine dell’esecutivo. Insomma il governo mi dà un documento, ma ci sono forze straniere che in teoria riescono a bloccare un’ordinanza dell’esecutivo brasiliano.

Visto che l’intervista è per il quotidiano messicano La Jornada, volevo ricordassi l’epoca messicana. Come e quando sei arrivato in Messico?

Sono stato là dal 1981 al ’90. Sono arrivato da Parigi come tante altre persone che non potevano restare in Francia. Alcuni sono andati in Africa, io in Messico. E sono stato accolto da alcuni compagni del sindacato universitario della UAM, [Universidad Nacional Metropolitana di Città del Messico], il SITUAM [Sindicato Trabajadores UAM]. Nella stessa unità i cui stava il Subcomandante Marcos, una sotto-facoltà di grafica a Xochimilco. Il Messico ha rappresentato la vita, perché lì ho costruito: una moglie, i figli, il nucleo familiare, il lavoro. Fino ad allora non avevo mai avuto una “vita normale”, ero clandestino e solo. In Messico ho cominciato a sapere cos’è la normalità, ho cominciato a lavorare a scrivere, lì ho scritto il mio primo libro.

Qual è il tuo primo libro?

Eh, non lo posso dire, perché c’è una polemica grande sulla paternità, non vorrei tornare sul tema. Il mio primo libro, scritto in spagnolo e uscito in Francia e in Italia allo stesso tempo, si chiama “Travestito da uomo” o Les habits d’ombre in francese. L’ho scritto in spagnolo e l’ho tradotto io stesso all’italiano. Il Messico è stato il paese che mi ha formato come adulto, tanto che nel secondo processo di estradizione dalla Francia, paese in cui sono nati i diritti dell’uomo, sono riusciti a processare la stessa persona, io, per gli stessi motivi due volte. Nel secondo processo il Pubblico Ministero è riuscito a dire: “ad ogni modo a quest’uomo non piace la Francia, lui dice sempre che il suo paese è il Messico”, tanto per dire cosa rappresenta il Messico per me. In parte aveva ragione.

Hai parlato di Marcos e degli zapatisti nel libro “Buena Onda”, cosa sai di quell’esperienza? Recentemente l’EZLN è ritornato sulla scena, anche se in realtà non era mai sparito.

Il romanzo è fiction. Marcos, quando io ero in Messico, stava nel nordest, nella zona del Tamaulipas. Ho sentito della loro ultima marcia del silenzio in dicembre. In Francia sono rimasto in contatto coi messicani, con dirigenti che facevano parte dei comitati internazionali dei vari gruppi, quindi ero informato su quanto succedeva. Chiaro, non sapevo cosa sarebbe successo in quel famoso 1994 a San Cristóbal, ma ero al corrente di quello che è successo dopo coi contatti che erano rimasti.

Ricordi qualcuno in particolare dell’epoca messicana?

Basta prendere il comitato di redazione della Rivista Via Libre e ci sono tutti.

Esiste ancora la rivista?

Era stata fondata in Messico nel 1986, è andata avanti due o tre anni, ma oggi non funziona più. Era stata riaperta da me grazie a un sito internet nel 2001, ma dopo il 2004 s’è spento.

Ci collaborava anche lo scrittore Paco Ignacio Taibo II? Lo conoscevi?

Sì, lo conosco, non ricordo bene, ma credo abbia collaborato con qualche articolo, anche se non aveva a che fare direttamente con la rivista.

Nel romanzo “Avenida Revolución” parli di Milano, di Tijuana e di Città del Messico, cioè il famoso D.F. (Distrito Federal). Che hanno in comune queste realtà?

E’ un libro che pensavo nessun editore avrebbe accettato. Ho scritto scatenato tutto quello che avevo voglia di scrivere. E’ un delirio, in tutti i sensi. E’ la decadenza, la rovina, il sogno e il cliché moltiplicato. Non saprei, non sono riuscito a descrivere mai cosa volessi dire in quel libro, ma è quello che mi piace di più. Se non riuscirò a scrivere il Libro con la L maiuscola, penso che questo possa essere Avenida Revolución.

Tijuana e Milano, che rappresentano?

C’è una specie di cataclisma di tutti valori, una specie di mondo che sta marcendo, ma dal marcio può rinascere la vita. Innanzitutto è portare all’estremo un’idea o uno dei fili conduttori o soggetti dei miei libri, cioè il fatto che non è l’uomo che crea le circostanze, ma il contrario: le circostanze creano l’uomo. Quindi prendere una persona e metterla in una situazione che è completamente inimmaginabile per lui e vedere che succede. Da Milano a Tijuana. Da Milano, in cui il protagonista fabbrica dolcetti, a Tijuana. Però allo stesso tempo c’è una Milano in cui è successo un cataclisma, un disastro. E’ piena di simboli, i poliziotti si chiamano con lo stesso nome ed è piena di nani. C’è la storia dei muri: si ricominciano a costruire i muri come nelle antiche cittadelle. Il muro di Israele, per esempio, è stato costruito dopo quel libro.

Possiamo parlare di Puerto Escondido?

Ho vissuto in varie parti, mia figlia è nata a San Miguel de Allende, ma diciamo che se devo considerare dove è cresciuta mia figlia, di dove si sente lei, è a Puerto Escondido, dove c’erano la casa e la spiaggia. La prima spiaggia che ho conosciuto in Messico era Puerto Escondido e c’ero andato con un amico di Marcos.

Si può dire chi era?

Si può dire, si chiama David Villa Rueda. Il fratello è famoso, lo chiamano El Negro, un leader sindacale.

Il film “Puerto Escondido” di Gabriele Salvatores ha a che vedere con la tua storia?

Chiaro, il personaggio sono io. L’attore che ha interpretato il mio ruolo [Claudio Bisio] voleva anche incontrarmi al centro culturale dell’Ambasciata di Parigi, ma poi quando stavamo per vederci mi sono accorto che stavo entrando in territorio italiano e non sono voluto entrare…

Visto che il Messico era il paese in cui comunque potevi e volevi stare, perché sei andato via? Com’è stato il passaggio nel 1990 dal Messico alla Francia?

Per varie ragioni. La prima era che volevo recuperare la mia identità perché qualunque cosa avessi fatto, avrei perso tutto, perché non potevo presentarmi pubblicamente. Infatti, le autorità messicane, anche se sapevano che io ero lì, non mi permettevano di presentarmi, di dare la faccia.

Eri clandestino in Messico?

Sì, le autorità sapevano. In caso mi fosse successo qualcosa probabilmente mi avrebbero mandato in Nicaragua invece di mandarmi in Italia, solo che non volevano saperne niente di rifugiati italiani, come adesso, come mai. Erano tanti e ce ne sono ancora. Insomma sono andato via perché volevo recuperare la mia identità in Francia dov’era possibile ed è successo. Sono tornato, mi son fatto 3-4 mesi di carcere, di routine, per il processo di estradizione nel 1990. Ho chiesto di usufruire della dottrina Mitterand come tutti gli altri. L’estradizione è stata negata, ho avuto il permesso di soggiorno, prima, e poi la naturalizzazione.

Hai cominciato in Francia a pubblicare?

Prima di arrivare là non avevo mai pubblicato un libro. Vivacchiavo in Messico, dove ho cominciato a lavare i piatti nei ristoranti e ho fatto un po’ di tutto. Da autodidatta là ho iniziato con articoli nelle sezioni culturali di quasi tutti giornali. A parte l’Excelsior mi sa che li ho fatti proprio tutti, addirittura anche riviste di moda. Scrivevo qualsiasi cosa, dovevo vivere, pagare l’affitto e avevo una moglie e una figlia, quindi facevo di tutto. Poi abbiamo cominciato a mettere su questo gruppo, è nata la rivista, è nata la Biennale del Manifesto che ancora esiste, credo, ed era la prima dell’America Latina. E lì ho cominciato ad avere uno stipendio, avevo lo stipendio della rivista, un ufficio, cominciavo… Solo che ero giovane, avevo trenta e poco più anni, avevo un’energia incredibile, continuavo ad organizzare cose, eventi culturali, ma ogni volta che dovevo dare la faccia non potevo.

Cos’era questa biennale?

La Biennale del Manifesto, dell’Affiche e di disegno grafico. E’ una fiera internazionale periodica. In America, tranne in Colorado, non ne esisteva nessuna.

E poi in Francia?

Ho cominciato una vita normale, con i documenti. Ho avuto la naturalizzazione francese che però mi è stata ritirata prima di darmi il passaporto. Perché già nel 2003 l’Italia stava facendo manovre per farmi estradare. Quindi il ministro della giustizia francese, per decreto, illegalmente, mi ha cancellato la naturalizzazione, cosa che non si poteva fare perché la decisione sarebbe dovuta passare da un procedimento giudiziario della giustizia francese. Pertanto abbiamo fatto causa con l’avvocato e avrei diritto oggi alla nazionalizzazione francese, siccome abbiamo vinto la causa. Ce ne stiamo occupando adesso.

Tornando ai libri, “Ma cavale” è autobiografico, tu racconti anche gli anni settanta, l’epoca francese e poi la fuga.

Quel libro comincia quando sto fuggendo dalla Francia. Poi torno indietro e cerco di spiegare, di spiegarmi, gli anni settanta, ma con una certa sincerità, cioè non sto più cercando storie. Ero in una situazione tale, in una merda tale che non capivo più che cosa stava succedendo, davvero. E allora sto dicendo, ma perché tutto questo?

C’erano delle condanne, ma tu che risposta ti sei dato?

Che io dovevo smetterla… Ho avuto un po’ di successo in Francia, mi hanno aperto le porte dei mass media e io ho approfittato di ogni occasione per attaccare l’Italia, per denunciare quello che stava succedendo, per dire che c’erano ancora prigionieri politici in Italia, per parlare di quello che era successo, eccetera. Niente di peggio di quello che già Cossiga aveva già detto in televisione, ma solo che detto da Cesare Battisti… E dici, perché io? Era molto più pericoloso un Toni Negri, per esempio, che scrive su queste cose. La differenza enorme è che Toni Negri scrive documenti e un documento, tra virgolette, non è un’opera d’arte, è parziale, è politico e puoi dire quello che ti pare, ma è politico. Invece un pittore o uno scrittore che dicono la stessa cosa sono pericolosi, principalmente quando perdono la prudenza e parlano troppo e cominciano a tirare in ballo nomi e personaggi, come per esempio nominare Berlusconi e parlarne oltralpe. Non pensavo che un paese come la Francia, però, potesse fare una cosa del genere, come giudicare due volte la stessa cosa.

Ti sentivi sicuro in Francia?

Tutti mi avevano avvisato, “calmati, stai buono”, anche dall’Italia, da dove arrivavano minacce. Non mi stavo rendendo conto della portata della cosa, del calibro della situazione, e stavo agendo come un incosciente. E’ sempre importante dire che questo personaggio fabbricato, questo “Cesare Battisti dal 2003 ad oggi” non esiste, è un personaggio completamente fabbricato, e non c’entra niente con la realtà. Io non son mai stato leader di niente, a quell’epoca ero ragazzino e gli altri avevano quindici anni più di me, figurati se ero leader di qualcosa. Questo personaggio è stato completamente costruito da zero. Sono andati avanti fino al punto di non ritorno e adesso non possono più tornare indietro e dire che non era così… Cioè l’Italia ha preso uno schiaffo dal Brasile, per cui non poteva più tornare indietro. E’ l’Italia che quasi quasi dice al mondo intero che non c’è mai stata guerriglia in Italia, che Cesare Battisti era un bandito e ce n’erano, non so, altri dieci o quindici che hanno ammazzato Moro. Come si fa a tornare indietro?

Parlando dell’Italia. Allora che tipo di democrazia pensi ci fosse negli anni settanta e ottanta in Italia?

Se per democrazia parliamo di elezioni libere, di suffragio universale, eccetera, dico che c’era. Però in Italia c’era un paese semi-governato dalla mafia.

In che senso?

In senso politico ed economico, non lo dico solo io, lo dicono anche alcuni processi, per esempio. Un sistema che si reggeva su accordi politici, nazionali e internazionali, su contratti e legami anche perversi. Un’Italia considerata il terzo mondo dell’Europa, paese di migranti dove per ogni italiano in Italia ce ne sono tre all’estero, dove negli anni sessanta ancora in Germania c’erano cartelli nei bar con scritto “proibita l’entrata agli italiani e ai cani”, ed è un’Italia che poi si crede tanto ricca da permettersi di buttare a mare gli immigranti albanesi o africani. Non c’è niente di peggio che ricordare a un nuovo ricco il suo passato povero e diventerà il tuo peggior nemico. Questo non me l’hanno mai perdonato perché l’ho scritto. E ho anche la foto di quel cartello dei bar. Chi lavorava nelle miniere sotto terra in Belgio, in Francia o in Germania? Gli italiani. Chi erano gli africani e gli arabi degli anni 50 o 60? Chi ha sostituito gli schiavi qui in Brasile nelle piantagioni di caffè? Gli italiani che sono arrivati qui nel 1865 e hanno preso il posto loro, dei neri. Vai a ricordare agli italiani cos’era l’Italia che non riusciva a mangiare e vediamo cosa risponde la milanese con pelliccia di visone. C’erano più pellicce in Italia che in Canada…

Ti definivi militante, come ti definiresti allora oggi?

Mi chiedo come si faccia a non essere militante. Qualsiasi cosa io faccia, qualsiasi atto o argomentazione sono il risultato di un pensiero, di una struttura psicologica e di principi che sono là e che non possiamo togliere. Quindi restano militanti. Possiamo cambiare idee e mezzi, le forme, ma ecco certe convinzioni, come per esempio che il capitale non sia proprio la cosa migliore del mondo, sono quelle e non ci si potrebbe convincere del contrario. Sono un militante, anche se qui in Brasile non posso fare politica. E’ una delle norme che mi hanno applicato.

Quali sarebbero i valori che restano?

Sono gli stessi di sempre secondo me, solo che ogni cosa nel proprio contesto storico, con una maturità, intelligenza e sensibilità differenti. I tempi cambiano, tutto cambia, e quindi si devono adattare le proprie idee, i propri pensieri, la propria struttura mentale alla realtà. Secondo me resta la giustizia sociale, l’uguaglianza, che va insieme alla libertà, perché in questi pseudo-paesi avrebbero dovuto costruire il comunismo, questo non è mai esistito. Prima di tutto perché non era possibile costruire il comunismo in paesi con povertà, questo si costruisce con la ricchezza non con la miseria. Quindi ci sono magari alcuni paesi del Nord Europa che potrebbero costruire una società comunista oggi. A parte quello, in ogni caso non si può costruire una società giusta e libera e quindi comunista e quindi “utopica”, mettiamolo tra virgolette, facendo l’uguaglianza e dimenticandosi della libertà, le due cose devono andare insieme, altrimenti non funzionano. Affinché vadano di pari passo ci devono essere dei mezzi, una società già progredita, con una distribuzione della ricchezza già molto avanzata e comunque, quali sono i valori? Beh, oggi quando io vedo le differenze sociali, mi arrabbio, e se non posso far niente sto male. Adesso posso anche diventare non so che cosa, pastore protestante per dire, se si tratta di sopravvivere, ma questo non m’impedirebbe di incazzarmi quando vedo un’ingiustizia sociale. Insomma non si tratta di una cosa che tu puoi cambiare perché passa il tempo. Voglio dire, fa parte di me stesso, non c’è niente da fare. Non posso pensare, accettare, che qualche migliaio di famiglie controllino questo pianeta.

E’ un po’ la denuncia di alcuni movimenti attuali, del 99% contro l’1%, di Occupy Wall Street o del YoSoy132 in Messico. Sono battaglie considerate globali e pacifiche. Cosa diresti sul tema della violenza in certe lotte.

Quando parliamo di globalizzazione e movimenti globali, ok, però non possiamo confondere le situazioni speciali di ogni regione e di ogni paese. Una cosa è certa: la violenza esiste e in certe situazioni non si può lasciare il monopolio della violenza alla figura ideale dello “stato repressore”. Ma un’altra cosa è dire che si può costruire una società GIUSTA o comunista con la violenza: NON ci credo. Ma nemmeno possiamo condannare l’uso della violenza in regioni in cui non c’è altra scelta.

Ma in che ambiti o dove?

Non so, solo per fare un esempio, ci sono paesi africani dove tu pensi che si possa discutere col nemico? In cui si possa distribuire informazione, educazione, ricchezza, i mezzi per creare la salute o sanità pubblica, eccetera? Posso criticarli io da qui? Io non sto lì, però se io dicessi oggi, in quel particolare contesto, semplicemente “condanno la violenza”, sarei uno stronzo. Ma se io dicessi che si può costruire la società giusta, la società utopica, con l’uso della violenza sarei un imbecille.

Negli anni 70 in Italia c’erano scelte diverse da quelle che alcuni gruppi hanno fatto?

C’erano. C’erano, ma stavano morendo molti compagni ed è facile parlare adesso. Ma quando hai vent’anni e stanno ammazzando i tuoi amici per strada, tu reagisci. Ed era quello che lo Stato voleva. Chiaro, non si aspettava che potesse essere tanto com’è stata, perché durante un paio d’anni è rimasto completamente sconcertato, in panico, senza sapere cosa fare in Italia. Stiamo parlando del ’76-’77. Non si sapeva che pesci prendere perché loro hanno provocato la violenza, ma non si aspettavano che fosse tanta, non si aspettavano che arrivassero in piazza centomila persone e il 20% stavano con la pistola in mano. Ma la violenza l’hanno cercata loro. In Italia c’era, all’epoca, un movimento culturale. Credo che non sia mai esistito in nessun paese occidentale, né orientale, un movimento culturale così ricco, così numeroso e così forte come in Italia. Solo con la guerra si poteva distruggere una cosa del genere e noi ci siamo caduti in pieno.

E’ l’ambiente del romanzo “L’ultimo sparo”?

Sì, e in quel momento, in quei due anni, noi ci siamo caduti in pieno. Loro sono rimasti disarticolati per un paio d’anni in cui abbiamo pensato che ce la facevamo, che forse potevamo vincere. Ecco, per esempio le Brigate Rosse, tra loro e l’Autonomia c’è una bella differenza. C’era una bella differenza! Le Brigate Rosse: “l’assalto al Palazzo d’Inverno”, il partito comunista armato, una bella differenza tra Autonomia e Brigate Rosse. Noi non volevamo “conquistare il potere”, volevamo liberare spazi di contropotere, e non ce ne fregava niente “dell’Assalto al Palazzo d’Inverno”, per noi era una risata, era ridicolo. Il leninismo, con tutto il rispetto per Lenin, ma era successo un secolo prima, voglio dire. Invece le BR stavano lì, loro volevano “il potere”, l’assalto. Quindi non c’entrano. La violenza non era il monopolio di nessuno, era usata da tutte le parti, soprattutto dallo Stato perché per ogni morto dalla parte dello Stato o rappresentante dello Stato ce n’erano per lo meno trenta dall’altra. La violenza era banalizzata, no? Perché quando si parla tanto delle BR, di Prima Linea, dei PAC e tutto quanto, stiamo parlando di anni in cui la camorra, da sola, faceva 2000 morti per anno, duemila all’anno, non so se ce lo ricordiamo. Cioè rispetto agli omicidi delle BR non c’è comparazione, senza nulla togliere al rispetto per la vita umana che potrebbe venire inteso male. I morti sono gli stessi e valgono uguale. Però ecco, la camorra, Cutolo e compagnia, con l’aiuto dei servizi segreti italiani, facevano 2000 morti per anni in Italia in quel periodo lì e non se ne parla mai. Cutolo viaggiava in Mercedes, usciva dal carcere, andava nei migliori ristoranti, coi servizi segreti e coi super procuratori che poi davano la caccia ai terroristi…

Però, nel tuo caso personale, a partire dal 1978 i PAC prendono una strada diversa e cominciano a pianificare omicidi, e Battisti che fa?

Battisti sta nella merda e non sa cosa fare. E’ clandestino, ma cerca di trattare, di rimettere insieme le cose, di parlare con le persone, con gli amici perché non è così, le cose non si tagliano col coltello. Pietro Mutti, la persona che mi ha rovinato, era un grande amico mio. Non funzionano così le cose. Abbiamo parlato, discusso, Pietro Mutti piangendo come un bambino, mi ricordo in treno, e lui piangendo come un bambino. Che è successo? Che lui è rimasto da una parte e io sono rimasto dall’altra. E però non è che io sono rimasto dall’altra parte senza armi, io sono andato via con le armi. Non sono andato via dicendo “ah, adesso, non so, vado a mettere dei fiori nei cannoni”, è vero. Soltanto che sono andato via dicendo “oh, aspetta un attimo, cazzo, adesso, la morte di Aldo Moro che c’entra? Scusa un attimo…”. Questo ha parlato, ha detto tutto quello che doveva dire e i brigatisti erano tanto somari che quello stava parlando di strategie, e i brigadisti volevano sapere su corruzioni da un milione di lire, e lui stava parlando di Gladio, di geopolitica, di cose incredibili. Moro ha confessato tutto. Ammazzarlo? Ma come si può ammazzare una persona con cui hai vissuto insieme due mesi? Ma perché? Ma anche politicamente, pur volendo essere cinici, ma è come spararsi su un piede. Quando l’hanno sequestrato c’era stato un plauso e quando l’hanno ammazzato nessuno ci credeva. Quindi si diceva, ‘beh, adesso è la fine, questo è l’inizio della fine, adesso ci massacrano’, e infatti. E lì entra la CIA, ma soprattutto il Partito Comunista Italiano. E lì è incominciato.

Nel tuo caso personale alla fine l’ergastolo e in generale le accuse contro di te arrivarono in un periodo in cui non eri più in Italia. Poi ti sei dichiarato innocente, sostenendo, come dicevi prima, di aver scelto una strada diversa rispetto a Mutti e al gruppo, ma perché hai dichiarato la tua innocenza solo sedici anni dopo?

Primo, perché io stavo in Messico e non sapevo neanche che ero processato per omicidio. Secondo, la nostra linea di condotta era in generale quella di non difendersi. Terzo, arrivati in Francia, un’altra linea di condotta era di non dichiararsi innocenti perché se no quelli che non avevano prove contro di loro erano fregati, per cui la linea comune era quella di non rispondere e non dichiararsi innocenti. Ok? Cioè se io dico “contro di me non ci sono prove”, “non c’è nessuna prova dei delitti di cui mi stanno accusando, niente”, ok. Allora, invece, se io mi difendo e dico che sono innocente, automaticamente gli altri sono colpevoli, giusto? Quindi la linea di condotta era “siamo tutti colpevoli”. Valeva per gli altri che stavano in Francia anche loro. Che succede? Che a un certo punto mi rendo conto che l’unico che non si è mai difeso ero io, gli altri hanno avuto i migliori avvocati e infatti l’unico che è rimasto con l’ergastolo è Cesare Battisti.

L’unico dei PAC.

Dei PAC, e ma non c’ero solo io, ce n’erano diversi, ma l’unico rimasto con l’ergastolo ero io. E perché? Non lo sapevo, ma gli altri si sono difesi tutti, l’unico che non si è mai difeso, che non sapeva manco che c’era il processo e che non ha mai visto un avvocato sono io.

E le firme sulle procure ai tuoi avvocati difensori?

Sono false, ma a chi le avrei date? Adesso, che l’avvocato Giuseppe Pelazza abbia agito con buone intenzioni, posso dirti che secondo me voleva difendermi e aveva buone intenzioni.

Senza quei documenti firmati, saresti potuto essere giudicato comunque in contumacia?

Beh, anche secondo il diritto dell’Unione Europea, l’Italia ha dovuto accettare che ci fosse almeno l’avvocato con le procure firmate nei giudizi in contumacia che, invece, in Europa non sono ammessi. A quel punto si sono dovuti inventare i documenti. Solo che sarebbero stati firmati per i processi con dieci anni di differenza uno dall’altro, mentre ci sono tre firme che risultano fatte una dietro l’altra. Nessuno riuscirebbe a fare tre firme uguali a distanza di dieci anni una dall’altra. Infatti, la perizia della Corte d’Appello di Parigi non ha avuto dubbi, queste firme sono state fatte una dietro l’altra, nello stesso istante, non a dieci anni di distanza. Comunque forse nemmeno ha troppa importanza: se non ci fossero state le firme, avrebbero trovato qualcosa, qualcos’altro. La Francia m’ha venduto come se fossi un quarto di bue all’Italia. E’ uscita una pagina intera sul Corriere della Sera, si negoziava in cambio della TAV e del TGV e degli Airbus e della firma dell’Italia alla Costituzione UE. L’articolista non s’è meravigliato che si stava negoziando con la giustizia e che non c’era nemmeno il problema di nasconderlo, come fosse la cosa più naturale del mondo: in cambio dell’estradizione di Battisti il treno veloce, la Costituzione Europea e due o tre Airbus, o una cosa del genere.

Qual è lo stato della democrazia attuale? Critichi questo sistema? Il Brasile, parte della comunità internazionale, comunque dentro queste regole democratiche, ha trovato una via per lasciarti in libertà qui.

Però così metti in contraddizione in qualche modo il fatto di ‘non concedere l’estradizione’ come se non fosse parte del gioco democratico.

No, infatti, anche quelle regole sono parte della democrazia, però né la Francia né l’Italia hanno deciso in tal senso, mentre il Brasile sì.

Sì, però qui è successa comunque una cosa grave. La famosa separazione dei poteri è andata a puttane, cioè il giudiziario avrebbe invaso l’esecutivo togliendo l’asilo politico, creando un precedente pericoloso, perché qui il potere giudiziario è un contropotere forte. Ma scusa, credo nella democrazia, ma perché c’è un altro sistema? La democrazia, insomma, non c’è un sistema perfetto. Che cos’è? Il diritto della maggioranza sulle minoranze? Posso essere contro o a favore, ma dobbiamo credere che la democrazia è un’utopia anche quella. Non voglio entrare in una discussione tecnica, è un’utopia la sua perfezione come lo è il comunismo. Se la domanda era “accetto io le regole democratiche”, beh, io entro in quelle regole per migliorarle e modificarle fino ad arrivare a quella giustizia sociale che ancora non esiste in nessun paese democratico. Poi il suffragio, chi decide, come si decide, chi sono in candidati, chi paga le campagne, come funzionano i media, tutto questo fa parte della democrazia.

Tornando alla tua vita attuale e ai tuoi progetti. Stai scrivendo, cosa pensi di fare?

Non sto scrivendo, ma sto costruendo le circostanze e mi sto circondando di tutto il necessario per ricominciare a scrivere.

Sei stato definito dalla critica come scrittore autobiografico, realista, politico, con toni epici o anche noir, cos’è per te il noir?

Sono stato pubblicato in collane noir da alcune case editrici e nemmeno sapevo in Francia di aver scritto un libro noir. Non sarei capace di scrivere un giallo classico, con gli intrighi e le trame tipici di quel genere. Sebbene ci possa essere un carattere noir in quello che scrivo, non potrei essere classificato così.

Nelle definizioni del genere noir gli vengono attribuite alcune caratteristiche come la presenza di intrighi, di mistero, di delitti, di investigazioni della polizia ma anche altri tratti: un trasfondo politico più o meno esplicito e un senso di smarrimento, qualcosa che resta irrisolto e risulta frutto di trame superiori.

Mah, io sono orientato tra il fantastico e il noir e quando parlo di fantastico parlo di tutto quello che entra nella parte del sogno, tutto quello che è difficile ricondurre alla realtà in termini razionali. Ma rivendico una cosa anche, cioè in ventiquattro ore, nella vita di una persona, chiediamoci quanto tempo la persona sta sognando o sta vivendo coscientemente la realtà. In questo momento tu stai parlando con me, ma allo stesso tempo la tua mente chissà dove sta andando, quindi stai sognando in questo stesso momento. Perciò se fai i conti, forse in 24 ore non c’è neanche mezz’ora in cui tu sei completamente e coscientemente coi piedi nella realtà. Quindi tutto il resto è sogno, e se tutto il resto è sogno, è questa la realtà. Questa è la tua, la nostra realtà. E’ un po’ come in Avenida Revolución, un romanzo con questa tematica.

Esiste una letteratura senza connotazioni politiche o, per così dire, neutrale?

Non credo sia possibile, ogni opera d’arte è tale e si definisce come opera d’arte solo se modifica qualcosa nella società. Addirittura una volta anche la politica era vista come una forma d’arte che invece ora ha perso tutto il suo prestigio e quindi non esiste una forma di letteratura che possa chiamarsi totalmente fuori dalla società e che non possa definirsi politica in qualche modo, nel senso ampio del termine.

Torniamo all’Italia. Non ci metti piede dal 1981. Cosa rappresenta adesso dopo trentadue anni?

Io preferirei stare in Francia, dove ho la mia famiglia. L’Italia è lontana. Se per astrazione finisse tutto, il processo e tutto, e domani potessi tornare in Italia, non ci andrei comunque, non ho più nulla lì.

Io parlavo della questione della ricerca della verità, della riapertura di un ipotetico nuovo processo.

Beh, però dovrebbero riaprire 4300 processi, che sono 4300 processi fatti in quegli anni lì.

Ma, dico, se si riaprisse il tuo processo?

Io tornerei, se mi dessero le garanzie, con gli osservatori internazionali, sarebbe la soluzione ideale perché, in effetti, dove stanno le prove? Che mi citino una sola prova materiale o tecnica per cui si possa dire “è stato lui”. Non ce ne sono. Prendono le armi del signor X, quell’arma ha ammazzato quella persona lì, ma poi anche se hanno preso le armi da lui, vengono a prendere me. C’è chi ha confessato “sono stato io” e neanche così. Ma dove sono queste prove materiali e tecniche, al di là delle torture e quelle robe lì, ma c’è da fidarsi? Io lo farei, l’ho detto, l’ho dichiarato già, sotto osservazione internazionale.

Ma sarebbe possibile?

Non esiste la possibilità. Non credo che l’Italia possa e voglia sottomettersi a un processo, a una revisione di questo tipo e tanto meno con lo scrutinio internazionale.

Per i nati negli anni settanta, che già è una generazione diversa rispetto alla vostra e che ha solo ascoltato o letto la storia e le storie di quell’epoca, che cosa si può dire su quella fase? Come si potrebbe “chiudere la ferita”? Come si potrebbe parlare a “vittime” e “carnefici” di quell’epoca? Cosa dire alle vittime?

Innanzitutto riconoscere che in Italia c’è stata una guerriglia, c’è stato un conflitto armato e come in tutti conflitti armati ci sono delle vittime. E come in tutti i conflitti armati ci sono abusi e ci sono errori da una parte e dell’altra. Ma se tu non riconosci che c’è stato un conflitto armato, come fai a parlare di questo? Se non c’è stato un conflitto armato, esiste solo una cosa: esiste il bandito, il criminale comune, quindi non c’è più il dialogo. La prima cosa è riconoscere che c’è stato un conflitto armato, cosa che Cossiga ha cercato fare, ma è stato massacrato. O riconosci che c’è stato un conflitto armato come l’hanno fatto la Francia, il Belgio, la Germania e altri paesi del mondo – anche se in confronto all’Italia non era niente perché da noi c’erano più di diecimila persone armate e in altri paesi solo poche centinaia – o se no come si può dialogare?

E parlando delle vittime?

Ma ecco, se si riconosce che c’è stato un conflitto, da entrambe le parti, chi, a parte un sadico o una persona perversa, non avrebbe pietà e compassione per il dolore, per le lacrime, il sangue da una parte e dall’altra, chi?

Però questo sarebbe indipendente dal riconoscimento del conflitto.

Sì, ma se ci obbligano a metterci sulla difensiva, e io dico che ho profonda compassione per i tuoi familiari, ma dei miei se ne fregano, cosa fai? Io riconosco che una vittima è una vittima e basta. Per ogni vittima dello Stato ce ne sono state decine dall’altra parte. Per questo parlo del riconoscimento del conflitto armato.

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