anni ’80 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 In me la notte non finisce mai https://www.carmillaonline.com/2023/10/02/in-me-la-notte-non-finisce-mai/ Sun, 01 Oct 2023 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79051 di Walter Catalano

Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze. Vol. 1 – La sequenza dei delitti e la pista sarda, Mimesis, pp.430, euro 20,00.

Non commetterò più errori, la polizia sì. In me la notte non finisce mai”. (da una presunta lettera del Mostro al quotidiano La Nazione nel 1985)

Gli anni ’80 non sono stati solo gli anni del riflusso, gli anni di Ustica e della strage di Bologna, dei NAR e della P2, di Maradona, di Wojtyla e di Craxi, del walkman e del Commodore 64, di [...]]]> di Walter Catalano

Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze. Vol. 1 – La sequenza dei delitti e la pista sarda, Mimesis, pp.430, euro 20,00.

Non commetterò più errori, la polizia sì. In me la notte non finisce mai”. (da una presunta lettera del Mostro al quotidiano La Nazione nel 1985)

Gli anni ’80 non sono stati solo gli anni del riflusso, gli anni di Ustica e della strage di Bologna, dei NAR e della P2, di Maradona, di Wojtyla e di Craxi, del walkman e del Commodore 64, di Dynasty e delle Tartarughe Ninja, del synthpop, dei paninari e della fine della Nuova Hollywood. Per i fiorentini, specialmente quelli allora più giovani, il decennio vuol dire anche paura e paranoia: non astratta, non lontana; paura diretta e concreta, appena dietro l’angolo, oltre il parabrezza di un’auto, al di là dei cespugli familiari di una radura al buio.

Tutti, fra il Valdarno superiore e inferiore, occhieggiavamo sgomenti, come mai avevamo fatto prima, le sanguinose pagine in cronaca nera che ci rivelavano un’altra città parallela e oscura, un mondo sordido e insospettato fatto di ronde notturne, di guardoni e maniaci, di perversioni e morbosi misteri. Chi scrive aveva allora appena scavalcato i vent’anni e per lui la nativa Firenze era stata fino a quel momento una città tutto sommato piacevole e rassicurante – appena il vago ricordo dell’alluvione, troppo lontano nelle caligini dell’infanzia, un magico lucore di candele, perché avevano tolto la corrente elettrica per giorni – una città borghese e bottegaia in cui lo scontro politico dei ’70 non aveva mai raggiunto la tensione e la pericolosità di altri capoluoghi: pochi i fascisti, abbastanza tranquilli gli ultrasinistri – almeno questa era la percezione probabilmente inesatta e fallace – solo qualche “indiano metropolitano”  ormai in disuso in giro e qualche frikkettone tossico che si sparava di eroina nei vicoli del centro.

Quando gli anni ’80 erano subentrati come una pialla, si era soprattutto pensato a divertirsi, sex&drugs&rock’n’roll più che altro: era esploso il nightclubbing fiorentino, del Banana Moon e del Casablanca, del Tenax e del Manila, dei Litfiba e dei Diaframma, delle etichette discografiche indipendenti e dei giovani stilisti della moda creativa. Ma dietro quel luccicore ostentato, il babau, l’uomo nero non lasciava mai la presa: ad intervalli quasi regolari, quando avevi appena cominciato a dimenticarlo, ricompariva. Colpiva soprattutto ragazzi di provincia, giovani di famiglie popolari, lontani dalle aule universitarie e dai salotti mondani, per due volte anche coppie di campeggiatori stranieri. Chiunque non avesse mezzi, seconde case, garçonnieres, ecc. era potenzialmente esposto. Per chi scrive, timido, bruttino e imbranato com’era allora, l’impossibilità improvvisa e cogente di appartarsi in luoghi discreti con ragazze e fidanzate era l’ultimo dei problemi, ma amici e coetanei più fortunati cambiarono d’un tratto abitudini, non uscirono più la sera o non si allontanarono più dai quartieri urbani affollati anche dopo il tramonto, trovarono provvidenziale complicità e case finalmente lasciate libere per qualche ora dai genitori più comprensivi. La città mostrava adesso la sua doppia faccia, tutto bene entro le mura e fino al tramonto, poi uno sguardo sghembo rivelava con un brivido i volantini circolanti in bar e locali notturni: “Occhio ragazzi”, dicevano in italiano, francese, inglese, spagnolo e tedesco, e poi c’era il numero di pronto intervento della polizia e dei carabinieri.

Un fantasma ci accompagnava. C’era e non c’era. Probabilmente ancora ci accompagna, ancora c’è e non c’è. L’abbiamo rimosso ma non dimenticato. E’ l’Ombra, il riflesso oscuro della città (sarà solo un caso che una minaccia del genere si sia manifestata non a Torino, a Bologna o a Trieste ma proprio a Firenze ?). Il fatto che mai, dopo decenni, sia stato scoperto il Mostro – uno o tanti? Lustmörder solitario o setta satanica, singolo “genio del male” o losca e abborracciata combriccola di “compagni di merende”? – che l’arma dei delitti – la fantomatica Beretta calibro 22, serie 70 a canna lunga – mai sia stata ritrovata; che il garbuglio di fatti e controfatti, di colpevoli presunti e presunti innocenti, di indiziati e sospettati, di inspiegate morti collaterali (prostitute, medici, poliziotti), di testimonianze ambigue, di depistaggi e impistaggi, di telefonate e lettere anonime, di messaggi terrorizzanti e macabri souvenirs anatomici, mai sia stato coerentemente dipanato, rende la questione tutt’altro che conclusa e archiviata. Come Jack the Ripper anche il Mostro di Firenze è ormai divenuto un personaggio mediatico internazionale, amico e collega di Hannibal Lecter, oggetto di film, serie tv e romanzi thriller e horror; per gli americani solo un Michael Myers più figo perchè agiva nella città di Dante, Leonardo e Machiavelli, ma per chi aveva seguito la successione dei delitti in diretta e magari aveva conosciuto e ricordava ancora le vittime, i poveri fidanzati caduti sotto i suoi colpi, uno spauracchio ben poco finzionale e fin troppo concreto. Cosa c’era, anzi cosa c’è dietro a tutto questo? E’ questa la domanda più inquietante a cui nessuno ha mai risposto: un dubbio, un sospetto sulla città intera, sulla gente che ci vive, sull’omertà che ha impedito per tutti questi anni l’emersione della verità o almeno di una spiegazione coerente.

All’ormai sostanziosa bibliografia sull’insoluto caso criminale, forse “il caso” di tutta la storia criminale italiana, si è aggiunto recentemente un monumentale testo in tre volumi, opera prima dello studioso Roberto Taddeo, che ha, a differenza di quasi tutti quelli già editi, il grosso pregio di non voler sostenere alcuna tesi precostituita ma semplicemente di raccogliere e ordinare in modo logico e congruente tutti i fatti noti, con l’intento non di convincere, esibendo una teoria anziché un’altra, ma semplicemente di narrare, sviscerando tutto quello che è possibile sapere: una mappa di orientamento all’interno di un labirinto.   

Questo primo tomo presenta in dettaglio tutta la sequenza dei delitti – partendo dal primo del settembre 1974, perpetrato fra Vicchio e Barberino di Mugello e l’ultimo del settembre 1985, a Scopeti vicino a San Casciano Val di Pesa – e approfondisce la cosiddetta “pista sarda” che riconnette ai delitti del Mostro – per l’uso della stessa pistola, mai ritrovata, e dello stesso tipo di proiettili, Winchester calibro 22 Long rifle, serie H, a piombo nudo o ramati – un precedente delitto avvenuto, con dinamiche assai diverse, nell’agosto del 1968 vicino a Signa.

La pista principale degli anni’80 è proprio quella sarda – perseguita dopo una misteriosa soffiata anonima, fatta passare ufficialmente per la geniale intuizione di un carabiniere – che mette in relazione l’arma del primo crimine con quella dei successivi. Una linea di indagini che oppone – evidenziando in modo paradossale le contraddizioni e inefficienze delle “forze dell’ordine” – i carabinieri con il giudice istruttore Mario Rotella – risoluti nel sostenere che “la pistola di un omicidio non passa mai di mano” e che quindi chi ha commesso il primo delitto in cui compare (e scompare) la misteriosa Beretta, nel 1968, sia necessariamente l’autore anche di tutti gli altri – alla polizia, la Questura e i procuratori Piero Luigi Vigna, Paolo Canessa, Carlo Bellitto e Francesco Fleury, con la neocostituita (nel 1984) SAM, la Squadra Anti Mostro, che cercano (senza praticamente cavare un ragno dal buco) in tutt’altre direzioni.

Rimandiamo all’appassionante testo per i dettagli del groviglio inestricabile della pista sarda che ha per protagonisti, tutti emigrati in Toscana dalla Sardegna, un minorato mentale, marito cornuto contento (ma non troppo), Stefano Mele, che cambia ogni momento versione dei fatti sull’omicidio della moglie fedifraga e di uno dei suoi numerosi amanti, e accusa ora sé stesso (facendosi così parecchi anni di gabbio), ora un ampio spettro di parenti e amici sul quale emergono soprattutto due poco raccomandabili fratelli, Francesco e Salvatore Vinci, entrambi amanti della moglie (uno dei due, bisessuale, anche del marito); infine un bambino, il figlio di Mele, testimone reticente dell’uccisione della madre e dell’amante, più un verminaio di personaggi minori uno più sinistro dell’altro.

Il volenteroso giudice istruttore Rotella coi suoi fidi carabinieri, sarà costretto alla fine a gettare la spugna, non riuscendo a incastrare Salvatore Vinci, il principale imputato al ruolo di mostro, che non subirà alcun processo e farà perdere le sue tracce (tutt’ora non si sa se sia ancora vivo in Spagna o no). La pista sarda verrà definitivamente abbandonata nel 1989, col proscioglimento per i delitti del Mostro, di tutti gli indiziati. Affossati i carabinieri, uno a zero per i procuratori, la polizia e la Squadra Anti Mostro, che stanno ancora cercando, per il momento senza successo, altre diverse vie di indagine.

Nel frattempo gli anni ’80, il decennio del Mostro, finiscono. Gli anni ’90, per fortuna senza più delitti e nuove vittime, saranno quelli dei processi a Pietro Pacciani e ai compagni di merende, a cui è dedicato il secondo volume in uscita a ottobre. Il terzo, che avremo a novembre, si concentra invece sugli altri possibili mandanti e figure oscure della “mostrologia”: Francesco Narducci, medico perugino ripescato (se il corpo era davvero il suo) nelle acque del Trasimeno nel 1985; Francesco Calamandrei, farmacista accusato e assolto per insufficienza di prove; Giampiero Vigilanti, ex legionario neofascista. Si giungerà così a individuare e determinare gli sviluppi investigativi più recenti, ancora pienamente in moto a tutto il febbraio del 2023, di un cold case tutt’altro che chiuso, un enigma che, come un malefico e velenoso miasma, non cessa di tormentare la Città del Fiore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La gamification antagonista del Csm di Parma https://www.carmillaonline.com/2021/09/21/la-gamification-antagonista-del-csm-di-parma/ Mon, 20 Sep 2021 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68236 di Luca Cangianti

Al principio erano gli scatoloni. Dentro ci sono stipati i documenti storici necessari per la stesura di un libro sul Sessantotto parmense: Parma dentro la rivolta (Punto Rosso, 2000). Sulla base di questo primo nucleo archivistico, un gruppo di storici e attivisti fonda nel 2000 il Centro studi movimenti di Parma. Il taxi lascia le vie rinascimentali del centro e si spinge verso una periferia ordinata. Scendo di fronte a tre casette circondate da un prato: una azzurra, una gialla e una rossa. Appartengono alla Fondazione Matteo Bagnaresi, [...]]]> di Luca Cangianti

Al principio erano gli scatoloni. Dentro ci sono stipati i documenti storici necessari per la stesura di un libro sul Sessantotto parmense: Parma dentro la rivolta (Punto Rosso, 2000). Sulla base di questo primo nucleo archivistico, un gruppo di storici e attivisti fonda nel 2000 il Centro studi movimenti di Parma.
Il taxi lascia le vie rinascimentali del centro e si spinge verso una periferia ordinata. Scendo di fronte a tre casette circondate da un prato: una azzurra, una gialla e una rossa. Appartengono alla Fondazione Matteo Bagnaresi, la prima ospita il Csmp. Sorrido delle mie aspettative conformiste: ma dove sta scritto che un archivio sui movimenti antisistemici debba stare per forza in una fabbrica abbandonata, in un forte militare diroccato o in un ex ospedale psichiatrico?

“Il Centro si considera parte integrante dei movimenti sociali” mi spiega William Gambetta. “A questi cerchiamo di contribuire con la riflessione critica, lo studio storico e la conservazione della memoria.” Al Csmp venti ricercatori e ricercatrici si occupano di ordinare i centoquattordici fondi provenienti da attivisti e attiviste della sinistra storica e rivoluzionaria, del dissenso cattolico, dell’antipsichiatria e del movimento femminista. Inoltre i visitatori – studenti medi e universitari, dottorandi, docenti delle scuole secondarie, ricercatori italiani ed esteri – hanno a disposizione una biblioteca di diciottomila volumi, un archivio di manifesti politici e di dischi con canzoni lotta.

Manifestazione studentesca, Roma, 1984

Quanto a me, attirato da tanta ricchezza archivistica, sono venuto fin qui per mettere il naso tra i volantini che circolavano a Roma nei primi anni Ottanta, specialmente in ambito studentesco. Tra i fondi che si dimostrano più generosi ai miei fini c’è quello di Marco Melotti, militante di mille battaglie rivoluzionarie, compagno del quale, a tredici anni dalla sua scomparsa, conservo ancora nelle orecchie la calda risata esplosiva. In poche ore, sotto gli occhi mi passano centinaia di ciclostilati scritti fitti fitti, fronte e retro. Spesso iniziano con un semplice “Compagni, studenti!” e si chiudono con una falce e martello disegnata a mano e la mitica dizione “Ciclinprop.” Nel testo ricorrono riferimenti edenici alle lotte degli anni settanta, passate eppur evocate sempre come prossime a tornare. Si stigmatizzano la passività politica, il plagio televisivo, la robotizzazione dell’umano, l’“efficientismo”, la repressione e la legislazione speciale. I riferimenti a George Orwell si sprecano. La critica rabbiosa dei “decreti delegati” (i parlamentini scolastici con i quali si cercava d’istituzionalizzare la soggettività studentesca) e della Riforma della scuola mi appaiono un mantra maniacale. Vedendo tuttavia cosa è diventata oggi l’istruzione, devo ammettere che quei profeti ignorati e derisi, che la mattina si sgolavano sotto i licei e gli istituti, avevano visto lontano.

“Diamo molta importanza alla fisicità, all’esperienza fatta dal vivo, agli spazi e agli oggetti” continua William. “Se la memoria rimane fredda sui libri o nelle conferenze, non genera empatia, immaginario, partecipazione. Il tipo di ricerca storica che vogliamo suscitare è diversa: un conto è sapere che milioni di persone sono morte durante un evento lontano e drammatico come la Seconda guerra mondiale; un altro è recarsi, dopo alcuni incontri preparatori, nei campi di concentramento ad Auschwitz, a Mauthausen oppure a Dachau, vedere con i propri occhi, toccare con le proprie mani.”

William Gambetta, ricercatore del Csmp

Questa stessa impostazione è alla base delle visite guidate a Parma in cui i ricercatori mostrano una città parallela e invisibile, difficile da trovare nelle guide turistiche in commercio: quella degli Arditi del popolo e della Resistenza. Lo scorso 11 settembre, ad esempio, si è tenuta un’iniziativa che potrebbe esser definita di gamification antagonista. Si tratta di “Barrichiamoci”, una caccia al tesoro per adulti e famiglie dedicata alle eroiche gesta dell’agosto 1922. In quei giorni il popolo parmense in armi respinse la spedizione punitiva fascista contro lo “sciopero legalitario” proclamato dai sindacati di sinistra coalizzati nell’Alleanza del lavoro. Infine è attiva presso il Csmp la Libera università del sapere critico con i suoi corsi multidisciplinari di critica politico-cuturale nei confronti dei rapporti di potere esistenti, mentre la maggior parte delle scuole della città ha stipulato convenzioni con il Centro per realizzare dei laboratori didattici di storia.

Devo riprendere il treno delle 14.54. Sul mio cloud ho caricato un prezioso bottino di scansioni: volantini, giornaletti improvvisati e perfino alcune mozioni votate dall’assemblea del mio liceo romano. William si offre di accompagnarmi alla stazione e mi allunga un casco. Mi ritrovo sul sellino posteriore a sfrecciare su un vespone anni ottanta: a ogni curva e cambio marcia mi sembra di esser tornato ai tempi della scuola, quando nella tolfa portavo una risma di ciclostilati in carta grezza. Chissà, mi dico, William avrà voluto assicurarsi che le mie ricerche non siano puramente nozionistiche e prive di partecipazione emotiva.

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Innamorarsi di Capitan Comunismo https://www.carmillaonline.com/2021/08/13/innamorarsi-di-capitan-comunismo/ Thu, 12 Aug 2021 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67582 di Luca Cangianti

Filippo Casaccia, Canzoni per fare l’amore. Storia pop erotico politica di Eugenio (figlio unico di piacente madre vedova) in fuga dalla Genova borghese, De Ferrari, 2021, pp. 248, € 14,90.

C’è un supereroe che compie azioni più incredibili di arrampicarsi sui grattacieli o volare a velocità superiori a quella della luce. È l’etereo angelo custode dei meritevoli, l’implacabile nemico dei prepotenti: espropria tabaccai razzisti per finanziare operai indebitati, punisce i fascisti, protegge le utilitarie delle pensionate e sanziona le Mercedes, aiuta a segnare il centroavanti del [...]]]> di Luca Cangianti

Filippo Casaccia, Canzoni per fare l’amore. Storia pop erotico politica di Eugenio (figlio unico di piacente madre vedova) in fuga dalla Genova borghese, De Ferrari, 2021, pp. 248, € 14,90.

C’è un supereroe che compie azioni più incredibili di arrampicarsi sui grattacieli o volare a velocità superiori a quella della luce. È l’etereo angelo custode dei meritevoli, l’implacabile nemico dei prepotenti: espropria tabaccai razzisti per finanziare operai indebitati, punisce i fascisti, protegge le utilitarie delle pensionate e sanziona le Mercedes, aiuta a segnare il centroavanti del Genoa e concentrando tutti i suoi superpoteri riesce perfino a trovare l’amore a una militante di Lotta Comunista. Il suo nome è Capitan Comunismo e le sue imprese fanno da intermezzo alle vicende narrate in Canzoni per fare l’amore di Filippo Casaccia.

Il romanzo potrebbe esser definito un Porci con le ali in salsa anni ’80, ma l’atmosfera poetica, ironica e trasognata ne fanno un prodotto unico, godibilissimo. Eugenio e Annalisa sono due liceali genovesi, s’incontrano durante un kiss in indetto contro la circolare bacchettona di un preside, si perdono, si ritrovano, s’innamorano perdutamente. È il 1986, l’anno dei Mondiali del Messico e delle proteste contro la riforma della scuola della ministra Falcucci. Si è ancora in pieno riflusso: i giovani politicizzati come Eugenio e Annalisa vedono negli anni ’70 un’età dell’oro della quale si sentono orfani. Eugenio, inoltre, da bambino ha perso il padre del quale continua simbolicamente a indossare il loden blu, mentre la madre trentenne preferisce farsi chiamare Federica piuttosto che “mamma”. La narrazione ci fa bighellonare tra feste, ubriacature epocali, pomeriggi cinefili accompagnati da junk food, confessioni amicali, copule nei bagni o sotto lo sguardo televisivo di Pippo Baudo, occupazioni di scuole trasformate in “soviet sentimentali”, esami di maturità e questioni cosmiche tipo “Il comunismo, come si fa?” Sembra non ci sia una direzione precisa, ma è solo una trappola narrativa, perché il dramma è in agguato e anche Capitan Comunismo – questa reificazione lirica del nostro immaginario desiderante – non potrà sottrarsi a un’ennesima missione.

Canzoni per fare l’amore è il romanzo di formazione di una generazione che, tra mille contraddizioni, ha continuato a sognare di cambiare il mondo quando quella precedente si leccava le ferite in galera, nel privato, con un laccio emostatico stretto al braccio. È uno sguardo senza retorica e reducismo, ma pieno d’amore, di precisione storica e, perfino, merceologica nei confronti di una città (Genova), di un’epoca e di un’età della vita. Quella in cui usciamo definitivamente dall’infanzia, avvertiamo l’orrore del male nel mondo, veniamo sommersi dalle domande, scopriamo la potenza dell’amore e dubitiamo delle nostre forze. È una fase d’instabilità emotiva, ma anche di grande produttività: è lì che nasciamo ai compiti che ci guideranno nel corso degli anni a venire; è lì che diventiamo veramente “capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”; è in quegli anni che alcuni di noi imparano ad alzare lo sguardo al cielo e a distinguere sopra i tetti, in alto tra le nuvole, la sagoma inconfondibile di Capitan Comunismo.

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Cosa resterà https://www.carmillaonline.com/2019/04/02/cosa-restera/ Mon, 01 Apr 2019 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51839 di Giovanni Iozzoli

Nel 2017 abbiamo celebrato l’anniversario del movimento del ’77. L’anno dopo è toccato è toccato al ’68. Nel 2019? L’autunno caldo, forse? Sia pur in forme sempre più blande, gli anniversari scandiscono anche una memoria generazionale, al di là della grande Storia, una memoria di persone concrete, in carne e ossa, che ridefiniscono dinamicamente il rapporto con il loro passato. Uomini e donne, ogni anno più vecchi, che discutono di sé, della loro storia, del senso del loro stare al mondo.

Il susseguirsi (più o meno ritualistico) delle celebrazioni mi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Nel 2017 abbiamo celebrato l’anniversario del movimento del ’77. L’anno dopo è toccato è toccato al ’68. Nel 2019? L’autunno caldo, forse? Sia pur in forme sempre più blande, gli anniversari scandiscono anche una memoria generazionale, al di là della grande Storia, una memoria di persone concrete, in carne e ossa, che ridefiniscono dinamicamente il rapporto con il loro passato. Uomini e donne, ogni anno più vecchi, che discutono di sé, della loro storia, del senso del loro stare al mondo.

Il susseguirsi (più o meno ritualistico) delle celebrazioni mi porta a ripensare alla mia generazione – gli attuali cinquantenni – e al suo destino di apparente mediocrità. Una generazione che non pare aver depositato un vero lascito, una generazione senza slanci epici, senza una sua mitologia da tramandare – se non qualche autoironia sulla propria balbuzie tecnologica, tipica delle “generazioni di mezzo”. Quindi: non avremo anniversari, in futuro, da proporre alla memoria collettiva; niente seminari o monografie in cui sarà esaltato il nostro ruolo di “testimoni”; non riascolteremo nostalgicamente canzoni che celebrano eventi in cui siamo stati protagonisti. Siamo cresciuti con vecchi film in bianco e nero e ci siamo ritrovati all’improvviso nel più fasullo e colorato degli universi virtuali: e tutto nello spazio di un mattino, quasi senza accorgercene.

Vecchia storia, questa della “transizione”: tutte le generazioni sono sempre in transizione, ma la mia, chissà perché, mi dà l’idea di averla subita unilateralmente, più di altre. Una generazione mai davvero protagonista, come se fosse cresciuta in un vuoto artificioso, in un deserto della storia, nel quale non ha ricevuto linfa, impulsi vitali, un ambiente sterile in cui non ha interagito e a cui non ha saputo reagire.

Eppure, se si getta anche solo un’occhiata distratta ai libri di storia, ne sono successe di cose, nei decenni che separano quelli come me dalla loro infanzia civile: la totale riscrittura della carta geopolitica dell’Europa; una feroce continuità bellica ai quattro angoli del pianeta; postcolonialismi e neocolonialismi variamente intrecciati che ingoiano intere nazioni e digeriscono utopie; e le tv commerciali che formattano la psiche collettiva degli italiani ben oltre ogni pessimistica aspettativa pasoliniana; una lenta, strisciante, persistente controrivoluzione sociale che consolida i primati di amoralità, familismo, clientela. Altro che deserto.

Sotto i nostri occhi le civiltà crollavano.

I ragazzini degli anni ’80 guardavano il mondo con sguardo cinico e al contempo stupito – il disincanto verso le narrazioni sistemiche, ormai fuori moda, conviveva con l’incedere maestoso e catastrofico degli eventi. Si è scritto molto del rinculo privatistico di quegli anni, il solipsismo, la perdita di intelligenza e moventi collettivi: eppure nessuna generazione precedente aveva visto scorrere davanti ai suoi occhi il fiume tremendo della Storia con tanto fragore, dopo i due conflitti mondiali. Cosa vedevamo, in diretta, sui nostri vecchi televisori? La resa progressiva dell’URSS che dal 1986, accordo dopo accordo, retrocedeva il suo campo d’influenza fino all’autoannientamento. Tienanmen che si riempiva di migliaia di giovani anime in pena, incuranti del motto di Deng: arricchitevi! E nei brulli altopiani afghani si consolidava e avanzava la “rivincita di Dio” – che la modernità pareva aver a suo tempo espunto dalla storia – e l’islamismo politico metteva alle corde l’Armata Rossa (mentre gli amici della sinistra palestinese ci raccontavano allibiti delle madrasse che aprivano in Palestina, con i soldi del Golfo e la benedizione dello Shin Bet israeliano). Tutto era maledettamente complicato, tutto era caoticamente in movimento. Tutto era incubazione dei processi oggi in corso.
Nel novembre 1989 a Berlino il maldestro annuncio di un ministro, anonimo fantaccino della storia, provocava il primo assalto di massa di cittadini orientali al Muro, che fortunatamente non trovava resistenza: da lì a poche ore crollerà tutto il cupo e maestoso edificio che eravamo abituati a chiamare DDR. Gorbačëv era il più rassegnato di tutti e fingeva di voler “transitare” pure lui, mentre era in ostaggio delle leve potenti che ogni controrivoluzione capitalistica scatena, quando le forze produttive si liberano dei vecchi rapporti sociali decrepiti. Potenze anonime e incontrollabili, proprio come quelle che in Cina, nel decennio successivo, avrebbero prodotto il più prodigioso processo di modernizzazione della storia dell’umanità.

Guardavamo quello smottamento devastante, noi ragazzini degli anni ’80, e non capivamo che quelle macerie, quelle onde telluriche potentissime, parlavano anche a noi, alle nostre velleità, al nostro futuro indecifrabile. Cossiga, vecchio rottame catto-massone, disperato alfiere della realpolitik atlantica, stava intuendo il sovvertimento generale e si divertiva a recitare il ruolo del profeta pazzo: il crollo del socialismo sarebbe stato anche il crollo della Prima Repubblica, del suo ruolo di paese frontiera e cerniera, della sua centralità strategica, dei suoi mercati protetti, della sua lira svalutabile alla bisogna. La fine della guerra fredda ci spingeva in periferia – e non ne saremmo più usciti.

Alla fine degli anni ’80, nonostante i colossali mutamenti del teatro geopolitico, la nostra Italietta continuava a sembrarci immota provincia sub-imperiale, mentre la propaganda craxiana – l’Italia che va! – la raccontava addirittura dinamicamente in movimento (provare a diventare “moderni”, la tragica coazione italiota…).

Dopo la doppia sconfitta del movimento operaio, tra la marcia dei quarantamila e il referendum sulla scala mobile, il quadro sociale pareva stabilizzato in modo irreversibile. E milioni di italiani si percepivano effettivamente nel loro momento migliore: impiego pubblico, rendita da Bot, lavoro nero a go go, rientro degli emigranti, grandi cataclismi che muovevano altrettanto formidabili masse di indebitamento – Keynes e Antonio Gava uniti nella lotta.

Non eravamo né in crescita né propriamente fermi: diciamo una corsa sul posto.

E noi, ragazzotti degli anni ’80, più o meno figli di niente, con che animo nuotavamo in quello che ci pareva uno stagno soffocante, di cui ignoravamo la ribollente profondità? Non tutti si adattavano allo spirito dei tempi. Qualcuno più testardo si era messo in testa – addirittura – di raccogliere le bandiere cadute nel fango. Eravamo stati o no il paese più conflittuale d’Europa, un laboratorio rivoluzionario, con l’antagonismo più duraturo e il Partito comunista più forte dell’Occidente? La rivoluzione era stata o no una cosa seria – di sangue, piombo e riforme strappate con i denti? E allora perché non ricominciare? Perché non riprendere il filo spezzato dalla generazione precedente?

Quelli che coltivavano queste ambizioni si guardavano intorno perplessi. L’assalto al cielo aveva lasciato prevalentemente (ma non solo) macerie fumanti. Centinaia di uomini e donne in gabbia, erano testimoni viventi della sconfitta, della sanzione, una specie di monumento perenne all’impossibilità del cambiamento. Un monito, appunto, per le generazioni successive.

Ci guardavamo intorno a caccia di tracce fresche, indizi, reperti: da dove ricominciare? Dove sono i nostri fratelli maggiori? – ci chiedevamo – perché ci hanno lasciati soli? Dove sono gli arsenali, i giornali, le sedi, le radio – dov’era finita quell’onda di vita che pure era esistita, aveva lasciato tracce archeologiche visibili: c’erano rimasti in giro solo menestrelli queruli e strapentiti, gli unici autorizzati a parlare a reti unificate. E storie precocemente ingiallite, vendute a pacchi nelle bancarelle di libri usati (di cui eravamo, tra l’altro, accaniti consumatori).

Non era solo la repressione giudiziaria, la sconfitta operaia o la narrazione di regime: una potente comunità umana si era sgretolata, era implosa su se stessa, vittima delle sue contraddizioni – prima che degli attacchi del nemico – e noi ragazzi degli anni ’80 raccoglievamo lungo il nostro cammino rare pepite e i molti ciottoli anneriti di una stagione esaurita.

Non ho una memoria ingenerosa: me li ricordo bene i quarantenni di allora, carichi di processi e sconfitte che avrebbero stroncato un mulo, disponibili, sempre in prima fila, a organizzare la grande campagna antinucleare o il sostegno alla prima Intifada. Ma tutti loro sapevano di essere fisiologicamente il residuo ultraminoritario di una storia che era stata di massa. A guardarsi intorno c’erano ancora tutti: maoisti, anarchici, trotskisti e brigatisti; ma erano come statuine di un presepio, conservate con cura, anche belline, disposte in buon ordine, ma con legami ormai sempre più affievoliti con la società che pretendevano di rappresentare – soprattutto con i ragazzi e le ragazze italiane, gioventù inafferrabile. Non avremmo potuto contare su un ordinato passaggio di staffetta, le condizioni non lo consentivano.

I ricordi di quegli anni, a Napoli, in una città ancora endemicamente conflittuale, sono impastati di volontarismo, generosità e persistenti stati confusionali. Ricordo come negli ambienti “di movimento” non discutemmo praticamente mai dell’evento epocale del crollo del Muro, come se, assurdamente, non ci riguardasse affatto: che c’entriamo noi con quei rozzi regimi di fine secolo?

Noi siamo altro! – la benemerita futura umanità…

L’angelo della storia ci stava pisciando in testa e noi, sotto, facevamo finta di niente.

Guardavamo il passato con la nostalgia degli “sfiorati” – sentivamo l’odore della polvere da sparo senza mai aver sparato un colpo, più o meno metaforicamente. La testa volta all’indietro, verso le mitopoiesi di un passato che non ci apparteneva. E contemporaneamente lo sguardo costretto a guardare il presente indecifrabile, con durezza, con scaltrezza. Una specie di gianismo militante.
Se all’inizio degli anni ’80 qualcuno di noi poteva consolarsi, pensando che la storia fosse eterna ripetizione, che avremmo solo dovuto pazientare, perché il pendolo sarebbe tornato bene o male a girare dalla nostra parte, al giro di boa di quel decennio era ormai chiaro che un capitolo era chiuso per sempre, che dovevamo scriverne un altro usando inchiostro nuovo, e che ci mancavano le parole per riempire quelle pagine fresche.

E qui inizia la storia senza gloria di una generazione pragmatica e dimessa. Dedita all’invenzione estemporanea, alla politica del giorno per giorno, della navigazione a vista in mezzo a scogli acuminati e dentro nebbie persistenti. Una generazione senza medaglie, armata della buona volontà dei mediocri che devono tirare fuori soluzioni efficaci e alla svelta: è così che nacque, ad esempio, la stagione dei centri sociali (che all’inizio furono soprattutto sedi politiche e l’esaurimento graduale di quella funzione, negli anni, li logorò…). Scoperte inaspettate, pratiche improvvisate, sperimentazioni per ricostruire presidi e legittimazione nei territori; campagne solennemente annunciate, magari precocemente abortite per mancanza di mezzi e militanza; manifestazioni nazionali organizzate a colpi di gettoni telefonici nei bar di periferia; e poi la lenta faticosissima ripresa dei rapporti con il mondo operaio – un calvario di equivoci tutt’ora in corso.

Vite da mediani di spinta – le nostre –, vite di tenuta, di raccordo. Fatica e repressione (e un po’ di autoironia che ci portava finalmente anche a smitizzare i nostri fratelli maggiori – che, con tutto il bene possibile, a conoscerli meglio, si capivano tante cose…).

Pochi grandi scenari di massa – tra la Pantera e Genova 2001, eventi entrambi incompiuti e deludenti come ogni appuntamento mancato. Poche anche le teste d’uovo: a differenza delle generazioni precedenti, dal nostro seno non sono sortiti raffinati intellettuali e schiere di giornalisti mainstream (semmai precariato di massa delle tastiere e delle intelligenze diffuse). E pochi anche i politicanti di mestiere – in genere figure marginali anche dentro i movimenti, sempre a caccia di consulenze e improbabili mense pubbliche, nel sottobosco delle amministrazioni “progressiste”.

A differenza di chi ci aveva preceduto, a noi non era toccato misurarci con le lacerazioni strazianti delle sconfitte epocali. Ma avevamo vissuto e occupato con dignità e misura tutto lo spazio umanamente e socialmente possibile – le piazze reali e quelle virtuali dell’immaginario, sempre più ostili e contorte.

E questa cifra di “normalità” si riscontra nelle biografie dei tanti militanti o ex tali che oggi si possono ancora incontrare, qua e là, a fare il loro dovere, senza fanfare e grancasse. Una generazione con molti falliti e pochi venduti – grana grossa di gente sobria e seria, fanti e formiche. Perché non servono le primedonne davanti alle discariche napoletane o nella Val di Susa militarizzata, o a presidiare i cancelli delle grandi fabbriche o degli anonimi micromagazzini della logistica – i luoghi vecchi e nuovi in cui il potere si nutre dello stesso sangue, della stessa sottomissione dei “diversamente ultimi”.

Quei ragazzi degli anni ’80, spesso, li puoi trovare ancora lì, nei fronti sparsi del conflitto, nelle linee di frattura, nelle faglie sociali, a tagliare e ricucire, con gli occhiali sul naso, come vecchi sarti di paese.

Abbiamo fatto quanto potevamo, con i mezzi disponibili, nel tempo che ci è toccato vivere.

Abbiamo fatto quanto potevamo.

Eppure, adesso, mentre le ombre della sera (vabbè, del tardo pomeriggio), si allungano lente sulle nostre vite, sulle nostre speranze, sulle nostre bandiere – e i conti, maledetti, non tornano mai – ci sorprendiamo a chiederci: cosa resterà?

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Gli eBook di Carmilla: L’Era del Cazzaro, di Alessandra Daniele https://www.carmillaonline.com/2016/05/30/gli-ebook-carmilla-lera-del-cazzaro/ Mon, 30 May 2016 21:07:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30836 di Alessandra Daniele

cover1Dopo Fuga di Mauro Baldrati e Malevisione di Marilù Oliva, L’Era del Cazzaro è il terzo eBook gratuito della nostra collana carmilliana. Mentre sceglievo e impaginavo i corsivi per questo best of della mia rubrica Schegge Taglienti, mi sono resa conto che nel sub-universo nel quale ci troviamo il tempo non scorre in modo cronologico, ma alfabetico. Dopo l’era Andreotti abbiamo avuto l’era Berlusconi. Adesso tocca alla C di Cazzaro. Una metastasi dell’era precedente. Di Matteo Renzi non conta il nome, ma [...]]]> di Alessandra Daniele

cover1Dopo Fuga di Mauro Baldrati e Malevisione di Marilù Oliva, L’Era del Cazzaro è il terzo eBook gratuito della nostra collana carmilliana.
Mentre sceglievo e impaginavo i corsivi per questo best of della mia rubrica Schegge Taglienti, mi sono resa conto che nel sub-universo nel quale ci troviamo il tempo non scorre in modo cronologico, ma alfabetico.
Dopo l’era Andreotti abbiamo avuto l’era Berlusconi. Adesso tocca alla C di Cazzaro. Una metastasi dell’era precedente.
Di Matteo Renzi non conta il nome, ma solo la qualifica. Non perché Andreotti e Berlusconi non fossero cazzari, ma perché Renzi è soltanto un cazzaro.
Non è nient’altro.
Chi lo appoggia per opportunismo lo sa bene, chi lo sostiene per cieca disperazione, temendo un vuoto di potere in sua assenza, non si rende conto che Renzi stesso è il Vuoto al potere.
Il vuoto entropico che è lo Zeitgeist di quest’era, in tutto il mondo.
Un vuoto famelico che come un buco nero risucchia le nostre vite e le nostre storie nel nulla.
Finché non sapremo darci la spinta necessaria per uscire da quest’orbita.

Per scaricare l’ebook L’Era del Cazzaro: EPUB, MOBI, PDF

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Jump They Say https://www.carmillaonline.com/2012/05/28/jump-they-say/ Mon, 28 May 2012 01:47:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4314 di Alessandra Daniele

Clown.jpgBeppe Grillo è uno dei primi ricordi televisivi della mia vita. E oggi, a quanto pare, è il futuro della politica italiana. Cos’è successo alla mia generazione? Prima il Biscione di Canale 5, poi il faccione lanuginoso di Grillo, le immagini iconiche della nostra infanzia televisiva ritornano a perseguitarci come il clown di Ashes to Ashes. Persino il nome ”Cinque Stelle” è un’eco della Tv di allora. È come se negli USA Boss Hogg fosse stato presidente per gli ultimi vent’anni, e ora il rinnovamento lo rappresentasse Fonzie.

Mentre i superstiti del Biscione che affonda sperano in una [...]]]> di Alessandra Daniele

Clown.jpgBeppe Grillo è uno dei primi ricordi televisivi della mia vita. E oggi, a quanto pare, è il futuro della politica italiana. Cos’è successo alla mia generazione? Prima il Biscione di Canale 5, poi il faccione lanuginoso di Grillo, le immagini iconiche della nostra infanzia televisiva ritornano a perseguitarci come il clown di Ashes to Ashes. Persino il nome ”Cinque Stelle” è un’eco della Tv di allora.
È come se negli USA Boss Hogg fosse stato presidente per gli ultimi vent’anni, e ora il rinnovamento lo rappresentasse Fonzie.

Mentre i superstiti del Biscione che affonda sperano in una biscaggina di salvataggio guidata da LCDM, l’idolo degli yuppie vanziniani anni ’80, nel PD si medita d’imbarcare i democristiani naufraghi del Terzo Polo, anche a costo dell’ennesimo compromesso (storico) e Palermo rielegge Leoluca Orlando sindaco per la quarta volta: la prima risale al 1985, e oggi come allora Orlando era l’opzione migliore fra quelle disponibili. Nel 1985 Grillo cominciò a parlare di politica in Tv, aggiungendo un po’ di satira ai suoi sketch per il Fantastico di Baudo.
È come se in Italia gli anni ’80, invece di passare, stessero invecchiando fermi al loro posto, e il tempo non scorresse in modo lineare come nel resto del mondo, dove ciò che è vecchio prima o poi finisce rimpiazzato dal nuovo, ma nel modo statico di una semivita dove tutto può solo decadere.
Dobbiamo essere qualcosa di peggio che morti però, perché persino nella semivita di Life on Mars e Ashes to Ashes, benché fuori-sinc, il tempo scorre, tanto che se si facesse un terzo capitolo probabilmente si chiamerebbe Jump They Say e sarebbe ambientato nel ’93.
L’unico elemento del 1993 che abbiamo oggi in Italia invece pare sia la strategia della tensione, benché inquirenti e media mainstream abbiano insistito per una settimana a sbattere in prima pagina il ”mostro” sbagliato.
Take a look at the lawman beating up the wrong guy, oh man! Wonder if he’ll ever know he’s in the best selling show, is there life on Mars?
La strategia della tensione in effetti è molto anni ’70-80.
Anche il quartiere italiano di Internet ha un’atmosfera vintage, e gli attivisti Cinque Stelle confidano nelle potenzialità rivoluzionarie del cyberspace con lo stesso entusiasmo di Sterling e Gibson ai tempi di Mirrorshades, cioè nel 1986.
Nelle interminabili discussioni da bar sul M5S si legge e si sente dire spesso ”sono giovani, questa volta le cose cambieranno davvero”.
But the film is a saddening bore, ‘cause I wrote it ten times or more. It’s about to be writ again, as I ask you to focus on.
So che nel M5S ci sono molti che sperano di usare Grillo solo come sponsor per farsi conoscere e apprezzare dall’elettorato, e poi proseguire da soli. E lo sanno anche Grillo e il suo sponsor, per questo vietano loro di farsi vedere in Tv per conquistarsi una popolarità personale che li renderebbe indipendenti. Un paio dei neoeletti sindaci, unici autorizzati ad apparire in Tv, ne hanno subito approfittato per rivendicare la vittoria come propria, sperando nel salto di qualità. Saranno delusi: il potere resterà nelle mani dello sponsor. Il capitalismo funziona così, e finché non si cambia questo, niente cambierà mai davvero.
Continueremo a girare sulla stessa giostra, alternando entusiasmo illusorio a rabbiosa delusione, mentre al governo s’alternano baccanali e bancarotte, per tutti gli anni di Anni ’80 che ci restano.
Ashes to ashes, funk to funky, we know Major Tom’s a junkie, strung out in heaven’s high, hitting an all-time low.

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L’uomo nello specchio https://www.carmillaonline.com/2011/05/30/luomo-nello-specchio/ Mon, 30 May 2011 02:57:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3914 di Alessandra Daniele

santa-claus.jpgCaro Babbo Natale, lo so che sono un po’ in anticipo, ma non sapevo più a chi altro rivolgermi, a chi spiegare la mia vicenda. Io sono un perseguitato. Sono stato accusato ingiustamente. Sono circondato da nemici. I miei soci fanno a gara a pugnalarmi alle spalle, i miei parenti aspettano solo di potersi spartire la mia eredità, e ho scoperto di non avere amici, solo parassiti e sfruttatori, pronti a scappare come topi dalla nave che affonda. E’ vero, ho ancora qualche milione di fans, ma non posso che considerarli dei decerebrati: credono in me, si fidano, [...]]]> di Alessandra Daniele

santa-claus.jpgCaro Babbo Natale,
lo so che sono un po’ in anticipo, ma non sapevo più a chi altro rivolgermi, a chi spiegare la mia vicenda. Io sono un perseguitato. Sono stato accusato ingiustamente. Sono circondato da nemici. I miei soci fanno a gara a pugnalarmi alle spalle, i miei parenti aspettano solo di potersi spartire la mia eredità, e ho scoperto di non avere amici, solo parassiti e sfruttatori, pronti a scappare come topi dalla nave che affonda.
E’ vero, ho ancora qualche milione di fans, ma non posso che considerarli dei decerebrati: credono in me, si fidano, mi ammirano, mi invidiano, cercano di somigliarmi. Di somigliare all’immagine che hanno di me: una grottesca maschera di plastica. Quando li vedo, con il loro cieco fanatismo mi fanno persino paura. Sono così stanco di esibirmi per loro, così stanco di sforzarmi di sembrare ancora giovanile e pieno di energia. Ma non posso smettere, non posso mollare, o tutto il mastodontico Luna Park che ho costruito mi crollerà addosso stritolandomi.
Come sono arrivato a questo punto? Io da ragazzo volevo solo cantare, esibirmi, fare un po’ il simpatico. Certo, sognavo denaro e successo, come tutti, specialmente allora. Anche se la mia ascesa è cominciata prima, io sono lo specchio degli anni ’80, e loro sono stati il mio. Ci siamo dati forma a vicenda, e l’abbiamo resa eterna.
Quindi non importa la mia attuale stanchezza. Non importa che abbia passato gli ultimi anni a impasticcarmi, affittare organi femminili, stirarmi la faccia, e cercare di evitare la galera. Non importa che certi giornali cerchino continuamente di sputtanarmi come paranoico, pedofilo, truffatore, vergogna nazionale. Io ho fatto la Storia.
Io sono il Mago di Oz.
Continuerò a reggere in piedi il mio Luna Park fino all’ultimo, e mi sopravviverà.
I decerebrati che ci ho attirato continueranno a girarci dentro come topi in una ruota, e lo manterranno attivo dopo di me. E tu, Babbo Natale, potrai continuare a venderci le tue bibite.

Ciao, e buon lavoro.
Tuo
Michael Jackson

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