Angélique del Rey – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 04 Jan 2025 21:07:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cultura della sorveglianza https://www.carmillaonline.com/2021/09/09/cultura-della-sorveglianza/ Thu, 09 Sep 2021 20:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67967 di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare [...]]]> di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare volentieri con qualche “servizio” offerto dal web o qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali e di azione fuori dagli schermi, ma tale propensione più che riconducibile alle debolezze umane sembra piuttosto essere il risultato di alcune importanti trasformazioni – non solo tecnologiche – che hanno segnato gli ultimi decenni.

Se la digitalizzazione di numerosi servizi ha praticamente imposto il costante ricorso a Internet – tanto da discriminare nettamente la componente più anziana della popolazione, meno capace di ricorrere alla tecnologia digitale, e quella più svantaggiata economicamente, inevitabilmente meno dotata delle risorse necessarie – non di meno è oggettivamente difficile sottrarsi da quelle piattaforme digitali che sembrano offrire gratuitamente una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità e di protagonismo, tanto che vi viene fatto ricorso anche per protestare contro quel controllo sociale a cui si sta contribuendo immettendo dati in rete. Gli utenti delle tecnologie digitali sono «materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare […]. Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente»1. Poco importa cosa le persone si scambiano on line, vanno benone anche le proteste più accese e radicali; ciò che conta è che si producano dati in grande quantità.

Quello che è stato chiamato “capitalismo della sorveglianza”2 fuoriesce dagli schermi ed entra nel reale non solo attraverso le applicazioni e le piattaforme che si utilizzano quotidianamente ma anche grazie all'”Intenret delle cose”3, agli oggetti connessi digitalmente con la rete, e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti agli individui dalla “società della prestazione”4; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri5; la parcellizzazione dell’apprendimento6; l’accesso selettivo alle informazioni utili a immediate esigenze di relazione7; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sui comportamenti degli individui8; le politiche progettuali e amministrative che strutturano e finalizzano le tecnologie9; il primato dell’appropriazione temporanea dell’utente sul contenuto nell’ambito di un contesto in cui è la tecnica a delineare i confini delle nuove modalità di una conoscenza sempre più orientata al conformismo10. Si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio e predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e buona parte di tali pratiche di controllo e manipolazione sociale non sono in possesso degli Stati, ma di aziende private, le nuove superpotenze11.

Sarebbe importante approfondire il sempre più marcato passaggio di mano della tradizionale funzione censoria, di indirizzo etico, un tempo prerogativa degli Stati, alle grandi piattaforme private di comunicazione e commercio; la partecipazione in rete è sempre più sottoposta alla regolamentazione aziendale piuttosto che alla legislazione degli Stati, tanto che, come si è visto, gli stessi leader politici, se vogliono usufruire delle piazze virtuali per comunicare, devono adeguarsi ai parametri censori decretati dalle corporation. Anche questo è sintomo di un passaggio di consegne divenuto inevitabile nel momento in cui si è incrementata la propensione all’abdicazione della politica all’economia.

È ormai chiaro che il concetto di superpotenza non può essere applicato esclusivamente a uno Stato dotato di un forte apparato militare ma deve contemplare anche l’ambito cibernetico. Se una superpotenza cibernetica per dirsi tale deve poter avere ampio accesso alla rete esercitando un certo controllo dei flussi di dati, allora tale definizione risulta oggi riferibile a colossi come Google, Microsoft, Apple, Amazon e le più importanti aziende fornitrici di tecnologie infrastrutturali e produttrici di microprocessori. Nella riunione sulla sicurezza informatica del G7 del 2017, tenuta ad Ischia sotto la presidenza italiana, accanto ai leader dei sette paesi più potenti del mondo hanno preso posto i rappresentati dei colossi del web e dell’informatica sancendo, ancora una volta, il ruolo sempre più importante di queste grandi corporation sul panorama politico mondiale.

Oggi il 90% delle ricerche su Internet avviene attraverso Google. La stessa Google, insieme a Facebook, controlla oltre il 90% della pubblicità on line. I sistemi operativi di Apple (iOS) e Google (Android) equipaggiano il 99% degli smartphone. Ancora Apple, ma questa volta con Microsoft, forniscono il 95% dei sistemi operativi nel mondo. Il 95% degli under trenta che usano Internet (cioè tutti) ha un profilo Facebook o Instagram (che è sempre di Facebook). Amazon controlla la metà delle vendite on line degli Stati Uniti. Nei paesi occidentali ormai una persona su tre utilizza un assistente vocale come Alexa (Amazon) o Siri (Apple). Un orecchio sempre attivo che ascolta, ascolta, ascolta e immagazzina informazioni. Numeri simili riguardano servizi come la classiche e-mail, le mappe, lo sviluppo di intelligenza artificiale o di auto a guida autonoma12.

A spartirsi gli spazi cloud, ove sono presenti informazioni di ogni tipo, sono Amazon, che controlla quasi la metà del mercato globale, Microsoft – che vanta un rapporto privilegiato con il Pentagono – e Google.

Insomma, “la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” è stata in realtà realizzata da queste grandi corporation private che stanno ulteriormente rafforzando la loro capacità di dominio13.

Può pertanto risultare contraddittorio inveire in Internet contro le pratiche di sorveglianza o farlo in una piazza con uno smartphone in tasca, quando non impugnato per digitalizzare prontamente la realtà e diffonderla sui social quasi a volerla certificare all’interno di quel mondo vissuto sempre più come primario. Se è innegabile che la digitalizzazione ha allargato e intensificato la sorveglianza, più difficile è dire quanto questa stessa tecnologia, in un tale contesto, possa essere utilizzata con finalità davvero altre14.

Ad insistere su come siano cambiate negli ultimi decenni l’esperienza e la percezione della sorveglianza è il libro di David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori (Luiss University Press 2020), uscito originariamente in inglese nel 2018. Con l’espressione “cultura della sorveglianza”, Lyon si riferisce a tutti quegli ambiti di interesse propri solitamente dell’antropologia, come gli usi e i costumi, le abitudini e le modalità con cui si guarda e si interpreta il mondo. Piuttosto che sui centri di potere politico-economico interessati al controllo, l’autore preferisce soffermarsi sulle modalità con cui la sorveglianza viene immaginata e vissuta dagli individui, su come le più banali attività quotidiane siano influenzate dalla sorveglianza e come a loro volta la influenzino e su come si tenda a promuoverla o a prendervi parte rendendola parte del proprio stile di vita.

La sorveglianza non è più soltanto qualcosa di esterno che influisce sulle “nostre vite”. È anche qualcosa a cui i cittadini comuni si conformano – volutamente e consapevolmente o meno –, che negoziano, a cui oppongono resistenza, a cui prendono parte e, in modi nuovi, a cui danno inizio e che desiderano. Da aspetto istituzionalizzato della modernità o modalità tecnologica di disciplina sociale, ora la sorveglianza è stata interiorizzata in modi nuovi. Permea le riflessioni quotidiane sulla realtà e il repertorio delle pratiche quotidiane […] La cultura della sorveglianza è sfaccettata, complicata, fluida e piuttosto imprevedibile15.

La cultura della sorveglianza contemporanea parrebbe dunque caratterizzarsi, rispetto al passato, per una maggiore partecipazione attiva alla propria e all’altrui sorveglianza, in quest’ultimo caso occorre sottolineare che se si possono controllare agevolmente le vite altrui attraverso i social, ciò avviene anche perché i “controllati” fanno di tutto per permetterlo, ossessionati come sono dall’esibirsi sulla rete senza che ciò venga loro direttamente imposto, anche se è chiaro che i sistemi presenti sul mercato, come le piattaforme web, sono esplicitamente progettati per incoraggiare tutto ciò.

Da un parte, il coinvolgimento dell’utente nei confronti di dispositivi e piattaforme come smartphone e Twitter crea dati usati nella sorveglianza delle organizzazioni. E dall’altra gli utenti stessi agiscono come sorveglianti quando controllano, seguono e danno valutazioni ad altri con i loro “like”, le loro “raccomandazioni” e altri criteri di valutazione. Quando lo fanno, non interagiscono solo con i loro contatti online, ma anche con modi subdoli in cui le piattaforme sono create per favorire particolari tipologie di interscambio16.

Circa la consapevolizza della sorveglianza occorre dire che se l’intreccio tra gli ambiti militari, statali e aziendali nelle pratiche di controllo si è palesato nettamente negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, successivamente il dilagare dei social network ha piuttosto evidenziato un tipo di sorveglianza aziendale volta a estrarre valore dai dati personali. A rafforzare tra la popolazione la percezione del controllo diffuso è stata poi la diffusione nel 2013 da parte di Edward Snowden di documenti relativi a pratiche di sorveglianza telefonica e Internet di massa tra Stati Uniti e Unione europea.

Nonostante l’essere tracciati dalle corporation risulti secondo diverse ricerche tra le maggiori preoccupazioni degli statunitensi, ciò non sembra aver modificato granché la loro partecipazione alla grande macchina di raccolta dati; le stesse rilevazioni Snowden hanno sì generato indignazione e preoccupazione ma non hanno modificato in maniera sostanziale le abitudini dello “stare in rete” e dell’autoprofilazione via social. Come qualsiasi altra cultura, anche quella della sorveglianza si sviluppa in modalità diverse e, soprattutto, tende a trasformarsi rapidamente a maggior ragione in contesti di crescente liquidità sociale.

Per tratteggiare lo sviluppo della cultura della sorveglianza nel libro vengono riportati alcuni esempi di profilazione dei clienti da parte di catene come Tesco e Canadian Tire da cui si apprende che persino l’acquisto di feltrini da collocare sotto le sedie potrebbe influire sulla concessione di un presito. Altro ambito indagato è quello degli aeroporti ove gli individui sapendo di essere osservati modificano il proprio comportamento partecipando così al “teatro della sicurezza”; nell’approssimarsi ai controlli i passeggeri si atteggiano al fine di fornire un’immagine di sé affidabile e trasparente a maggior ragione se appartengono a “categorie” considerate a “rischio” (in cui si può rientrare anche soltanto per avere una determinata tonalità di pelle o per portare la barba)17.

Dopo l’11 settembre negli Stati Uniti l’agenzia statale che sarebbe poi diventata la Homeland Security ha palesato tra le sue priorità quella di strutturare collaborazioni con le società private attive nella raccolta dati dei propri clienti per meglio individuare potenziali terroristi. Si potrebbe dunque essere fermati in aeroporto anche in base a qualche fantasiosa associazione prodotta da un algoritmo che riprende il monitoraggio relativo agli acquisti nei supermercati o ai termini inseriti in un motore di ricerca sul web.

Se non mancano atteggiamenti di resistenza o almeno di ritrosia alla sorveglianza, vi sono anche casi in cui questa viene adottata dai singoli ad esempio attraverso: la “condivisione” del tracciamento tramite GPS di “smartphone amici” (perlopiù in ambito famigliare); il controllo di conoscenti o vicini di casa attraverso le informazioni da loro caricate sui social; i baby monitor utilizzati per controllare la babysitter; i sistemi di telecamere degli allarmi anti-intrusione nelle abitazioni; il monitoraggio delle attività online dei figli attraverso software; più in generale tutti gli oggetti connessi a Internet. Secondo Lyon tutto ciò contribuisce a rafforzare la convinzione che la sorveglianza sia diventata parte di uno stile di vita, un modo con cui ci si rapporta al mondo.

A conocorrere alla grande macchina della sorveglianza sono anche le “automobili senza guidatore” che non solo accumulano dati sugli itinerari e sulle abitudini dei passeggeri ma che, per interagire con essi, necessitano di conoscere numerosi dati che li riguardano, tenendo inoltre presente che tutte queste informazioni verranno sempre più messe in rete con quelle di altri utilizzatori al fine di gestire la viabilità urbana. Le stesse “smart cities” – sul modello che si sta sperimentando a Songdo, nei pressi di Seul in Corea del Sud – possono essere lette, suggerisce Lyon, come veri e propri incubatori della cultura della sorveglianza.

A partire dallo smartphone, con cui soprattutto i più giovani strutturano un rapporto di interazione strettissimo, basato sulla concessione dei dati personali18, le tecnologie di comunicazione digitale si configurano ormai come sensori nella routine quotidiana vissute come del tutto “naturali”. A permettere che quanto è divenuto familiare possa essere vissuto come normalità concorre una cultura che propaganda in maiera martellante l’individualismo e l’autopromozione.

La smania di trasparenza degli ambiti sia privati che pubblici, tanto fisici che digitali, fa leva sull’idea che non si ha “nulla da nascondere”, inoltre a incentivare l’esposizione è il bisogno di percepirsi parte di una comunità. Il desiderio di trasparenza insomma sembra indirizzare a una società di “schiavi della visibilità” in cui ci si sottopone volontariamente al controllo sociale, in un sistema di coercizione dell’individuo impegnato a fornire e a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali mercificate.19.

É soprattutto grazie alle tecnologie interattive digitali che avviene il passaggio da una sorveglianza fissa a una fluida.

I dati del contatore dell’elettricità smart mostrano se siete in casa o no. Il vostro smartphone registra la vostra posizione e i vostri “like” oltre alle persone che contattate Ma ciò avviene all’interno di un contesto culturale più ampio, in cui calcolare rischi e opportunità è centrale, precedere il futuro è un obiettivo fondamentale e ovviamente la prosperità economica e la sicurezza dello Stato sono strettamente collegate20.

Ne deriva l’inseparabilità della sorveglianza smart da ciò che lo studioso definisce “social sorting”, ossia lo smistamento sociale sulla base dei dati raccolti sulla rete con lo scopo di profilare gli individui e di sorvegliarli costantemente.

Le tecnologie integrate, indossabili e mobili si infilano facilmente nelle routine e nei regimi della vita quotidiana. Vengono acquistate da persone a cui offrono vantaggi seducenti e convenienti, tra cui miglioramenti personali. L’aspetto più ovvio, con i cellulari e poi con gli smartphone, è che il dispositivo diventa parte della vita, un oggetto personale, non solo uno strumento di comunicazione. Ma più in generale, con lo sviluppo dell’“ubiquitous computing” e dell’Internet delle cose, sia i programmatori che gli “utenti” sono maggiormente consapevoli della necessità di “interfacce” appropriate che diminuiscano la “distanza” tra gli utenti e le loro macchine. Da qui, per esempio, gli accessori di abbigliamento con sensori che troviamo anche in dispositivi di tracciamento personali come Fitbits21.

Se le forme di sorveglianza convenzionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, difficilmente sono associate a “piaceri estetici” e tendono a generare ansia, le nuove forme familiari e quotidiane che la sorveglianza sta adottando si rivelano non solo abili nell’evitare impatti ansiogeni ma riescono persino in diversi casi a rendersi desiderabili e tali tipi di sorveglianza percepita come soft comportano una maggior propensione alla complicità nella sorveglianza di se stessi e degli altri.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • Del Corno Mauro, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021.
  • DeNardis Laura, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma, 2021.
  • Del Rey Angélique, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018.
  • Drusian Michela, Magaudda Paolo, Scarcelli Cosimo Marco, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, Meltemi, Milano 2019.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Grespi Barbara, Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei, in Guerri Maurizio (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano 2018.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni 2012;
  • Id., Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016;
  • Id., Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Milano, Meltemi 2017.
  • Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Murri Serafino, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020.
  • Toni Gioacchino, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

  1. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  2. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  3. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma, 2021. 

  4. Cfr. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  5. Cfr. Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni 2012; Id., Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016; Id., Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Milano, Meltemi 2017. Su Carmilla; Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018. Su Carmilla

  6. Cfr. Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018. Su Carmilla

  7. Cfr. Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

  8. Oltre al volume citato di Shoshana Zuboff, si vedano: David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020 e i testi prodotti dal collettivo precedentemente citati. 

  9. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit. 

  10. Cfr. Serafino Murri, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020. 

  11. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla 

  12. Mauro Del Corno, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021. 

  13. Per le tematiche sin qua tratteggiate si rimanda a Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

  14. Cfr. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, op. cit. Su Carmilla

  15. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 26. 

  16. Ivi, p. 35. 

  17. Cfr. Barbara Grespi, Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei, in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano 2018. Su Carmilla

  18. Cfr. Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, Meltemi, Milano 2019. Su Carmilla

  19. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  20. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 105. 

  21. Ivi, p. 106. 

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Meritocrazia e valutazione al servizio della flessibilizzazione del lavoro https://www.carmillaonline.com/2018/04/21/meritocrazia-valutazione-al-servizio-della-flessibilizzazione-del-lavoro/ Fri, 20 Apr 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45140 di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video [...]]]> di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video non è poi così dissimile da quanto avviene nella vita quotidiana; ormai in tutte le interazioni sociali si è valutati e chiamati a valutare e non importa se si tratta di un esame, un colloquio di lavoro, una prestazione erogata, una merce acquistata o venduta. Persino l’abitudine a rilasciare giudizi perentori sul web sottostà alla medesima logica introdotta attraverso una potente e suadente macchina narrativa che si è fatta luogo comune. Un esempio significativo di logica valutativa lo si può individuare nei sistemi scolastici, a proposito dei quali scrive Francesco Codello nella Prefazione al libro di Angélique del Rey:

La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti a oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quella di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili e utilizzabili (spendibili) in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale (imparare a imparare). Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea di istruzione obbligatoria a quello di formazione obbligatoria, dall’uomo produttore a quello consumatore. Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione delle conoscenze mentre adesso è rivolta all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica capitalistico-finanziaria, di educare e stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati. Il futuro lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile, adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile, ovvero conscio che il suo interesse coincide con quello generale (cioè con quello delle classi dominanti). La pedagogia delle competenze, così come delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del globo (pp. 11-12)

Angélique del Rey, docente di filosofia in un centro per adolescenti della periferia parigina, nel suo libro La tirannia della valutazione indica nella valutazione lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, strumento comportante una vera e propria “precarizzazione psicologica” dell’individuo. Scrive Codello che con il pretesto dell’efficienza «si valuta solo la capacità di adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi, spazi, luoghi, modi, relazioni, incitando a una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato (a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo soggetto-oggetto dal “cervello aumentato”, piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate» (pp. 10-11).

Attraverso la valutazione, presentata come oggettiva, ogni individuo tenderebbe a ritenersi «soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che gli compete in base agli sforzi (esiti) che ha saputo mettere in campo, perché è quello che si è meritato» (p. 11). L’internazionalizzazione dei sistemi valutativi nella scuola, si sostiene nel libro, è da ritenersi in linea con un modello educativo “formativo” che ha trasformato l’istituzione scolastica in una fabbrica di allievi preformanti, di “risorse umane”. Tali strumenti valutativi, continua Codello, pretenderebbero di misurare ciò che in realtà non è misurabile,

si propongono di dare un valore quantitativo a una qualità. La competenza è infatti quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze. Pertanto, non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente, è vista come il risultato di una padronanza delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche. Ma dalla fine del XX secolo, questo buon senso ha lasciato il posto a una nuova interpretazione del termine “competenza”, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma rimanda sempre più a una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano). Ciò che caratterizza l’approccio a queste nuove competenze, predominante a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità di azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente possedere, ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro, per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò a insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale. Quindi non solo condizionano le modalità di insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni modi di apprendere […] Questo fenomeno sta producendo l’insegnamento dell’ignoranza, depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che è ormai divenuto una sorta di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà spazio a una didattica che produce segmentazione e meccanizzazione dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande (test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente (pp. 13-14).

Secondo Angélique del Rey, a partire dagli anni Duemila, nelle scuole in cui la valutazione tradizionale è stata affiancata da valutazioni che pretendono di individuare gli alunni “a rischio di fallimento scolastico” si è finito col predisporre la conformità occupazionale dei bambini sin dalla tenera età attraverso un registro personale delle competenze che «sempre più rimanda a patologie e handicap, nonché a una potenziale propensione criminale» (p. 18). Inoltre, continua Rey, dalla fine degli anni Ottanta la “logica della competenza” ha iniziato ad affiancarsi al sistema di valutazione basato sulle qualifiche proponendosi di sostituirsi presto. Tale nuova logica renderebbe la valutazione uno strumento centrale nella flessibilizzazione del lavoro inducendo a una “precarietà psicologica”. A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento del New Public Management, dapprima nel mondo anglosassone, poi a livello pressoché globale, al posto della tradizionale modalità burocratica di valutazione basata sulla legittimità democratica e sul “controllo a posteriori”, è stata introdotta una “gestione delle prestazioni” ove la valutazione sarebbe riconducibile a “parametri di efficacia basati sul denaro”.

La tirannia delle nuove forme di valutazione si basa anche sulla loro presunta oggettività. Benché tendano a imporsi sulla totalità della vita individuale e sociale, danno di sé un’immagine ben diversa da quella di un potere: si presentano cioè come una semplice “informazione”, se non come un discorso di… verità. E con l’avanzare delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il giudizio di valore presente in ogni valutazione tende a svanire dietro l’impostazione automatica di una misura… autoreferenziale: se un blog o un sito web riceve molti “mi piace”, vuol dire che è di buona qualità e merita di essere frequentato (p. 20).

Le critiche rivolte alla valutazione tendenzialmente vengono percepite come irresponsabili perché, sostiene Rey, il presupposto implicito è che la valutazione, nel duplice significato di conoscenza e di giudizio, sia un prerequisito di ogni scelta razionale, dunque non è ragionevolmente possibile dirsi contro. Il problema, continua l’autrice, non consiste nell’essere pro o contro la valutazione in generale; occorre piuttosto comprendere come si sia prodotto un tale degrado della vita sociale che ha condotto a curare, educare, lavorare sempre peggio e con maggior sofferenza. «Le nuove forme di valutazione hanno l’intento di “ottimizzare” il “capitale umano” e l’azione pubblica, ma chiaramente ottengono il risultato opposto» (p. 21). Occorrerebbe allora chiedersi perché la valutazione abbia finito col produrre una caricatura della meritocrazia, dell’efficienza e dell’oggettività. Si dovrebbe comprendere come l’ideologia della valutazione abbia finito col creare identificazione, “servitù volontaria”, tra gli individui.

L’intero discorso portato avanti da Rey nel suo libro si fonda sulla convinzione che «la vera problematicità delle nuove forme di valutazione, più che sulla loro illegittimità (che pure sussiste), sta nell’incapacità di rispettare i processi che sono all’origine di ogni vitalità sociale» (pp. 21-22). Secondo l’autrice il razionalismo valutatore contemporaneo

rivela un processo di “deterritorializzazione” della misura e del giudizio insiti nella valutazione. Questo processo è un risultato di ungo periodo, ma se da tempo, e oggi più che mai, va incontro a una resistenza passiva (che tende per definizione a forzare), si pone allora la questione di comprendere se tale resistenza possa diventare attiva grazie a una riterritorializzazione delle pratiche di valutazione. È possibile che queste, riagganciandosi alla “situazione”, riacquistino significato ed efficacia? (p. 23).

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