Angela Davis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascismo prima e dopo il fascismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/il-fascismo-prima-e-dopo-il-fascismo/ Mon, 05 Feb 2024 23:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80898 di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico? In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.

Sviluppando questo approccio, Toscano mette in luce quattro dimensioni del fascismo. In primo luogo, bisogna riconoscere che le pratiche e le ideologie che si sono cristallizzate tra le due guerre mondiali sono state anticipate e preparate dall’espropriazione e dallo sfruttamento delle “razze minori senza legge”, perpetrati attraverso il colonialismo, la schiavitù e il capitalismo razziale intra-europeo. Una sorta di “fascismo senza fascismo” che ha contraddistinto l’espansione imperialistica su scala mondiale.
In secondo luogo, i sistemi politici considerati liberaldemocratici possono ospitare al loro interno istituzioni che operano come regimi di dominio e terrore per ampi settori della loro popolazione, soprattutto nei confronti dei soggetti razzializzati, come ha messo bene in evidenza il pensiero nero radicale negli Stati Uniti (George Jackson e Angela Davis sono alcuni tra gli autori citati da Toscano). Occorre dunque superare l’idea che si possano proiettare univocamente gli idealtipi sulla storia: il liberalismo, la socialdemocrazia, il neoliberismo e lo stesso fascismo non sono ordini politici che operano in spazi e tempi mutuamente esclusivi, ma ideologie e pratiche, anche istituzionali, che possono coesistere e intrecciarsi.
In terzo luogo, il fascismo si fonda su una controviolenza preventiva, su un desiderio di rinascita etno-nazionalista alimentato dal fantasma di un’imminente e potenzialmente catastrofica minaccia di natura culturale, demografica ed esistenziale. Il panico epocale generato dalla “marea crescente di colore” e dalla “rivoluzione mondiale di colore”, che ha favorito l’ascesa del fascismo dopo la Prima guerra mondiale, si è mutato nelle narrazioni tossiche sulla sostituzione etnica e sul suicidio culturale che sono oggi condivise sia dai mass shooter sia da molti rispettabili politici. Paure cui si aggiunge una sorta di “gender panic”, derivante da un presunto disordine sessuale figlio del femminismo, funzionale a un tentativo di restaurazione dell’autorità patriarcale. Questa tendenza reazionaria può risultare tanto più efficace quanto più è capace di offrire anche alle donne, ovviamente solo a quelle bianche, una pseudo-spiegazione della loro infelicità e un’arena affettiva per esprimere la loro malintesa rabbia, dando luogo, tra l’altro, a una forma “anti-femminismo femminile” che ha come bersaglio preferito il femminismo neoliberale, facilmente criticato per il suo carattere elitario ma pretestuosamente identificato con il femminismo tour court.

In quarto luogo, il fascismo richiede la produzione di soggettività che, di certo, prevedono obbedienza a un potere statale dispotico, ma attingono anche a un’idea sui generis di libertà e di uguaglianza. La partecipazione allo squadrismo fascista o alle SS naziste ha infatti concesso a un gran numero di individui il potere di uccidere, di violentare e di derubare il proprio vicino. Si tratta, in breve, di una reinvenzione della logica coloniale della piccola sovranità, di una “liberalizzazione” e “privatizzazione” del monopolio della violenza, sicuramente circoscritte, ma molto reale. Allo stesso tempo il fascismo promuove un “egualitarismo repressivo”, basato su un’identità nella sottomissione e una fraternità nell’odio che, ovviamente, non ha carattere universalistico ma esclusivistico, essendo riservato a coloro che appartengono alla razza e alla nazione eletta.
Parlando di libertà e uguaglianza fascista si può comprendere, secondo Toscano, come la rinascita contemporanea dell’estrema destra non si basa sul rovesciamento dell’individualismo competitivo di stampo neoliberale, ma su un suo particolare compimento. L’autore ci ricorda che, storicamente, il fascismo non nasce con l’intenzione totalitaria di fondere politica ed economia, ma come un “virulento antistatalismo guidato dallo stato”, finalizzato a risolvere la crisi postbellica attraverso la restaurazione dell’egemonia liberale sul terreno economico. Tornando ai nostri giorni, vediamo come si facciano sempre più porosi i confini tra la concezione neoliberista della libertà (libertà di mercato e di possedere, assenza di interferenze con la sovranità individuale) e quella fascista (libertà di dominare e di governare). Una convergenza resa possibile dalla condivisione di un immaginario incentrato sulla competizione e sulla sopravvivenza del più forte, e sull’avversione nei confronti della solidarietà, della cura e della vulnerabilità. Il neoliberismo, in breve, deve essere autoritario e populista perché non può essere autenticamente democratico e popolare, preparando così il terreno al tardo fascismo.

Ma cosa dire dell’iperindividualismo contemporaneo che sembra segnare uno scarto decisivo rispetto alle masse compatte mobilitate dal fascismo storico? In realtà le cose sono ben più complesse. Seguendo Adorno, Toscano sostiene che, anche nei movimenti tra le due guerre, gli individui non si identificano realmente con i rispettivi leader, ma partecipano alle loro performance, mettendo in scena un’entusiastica adesione alla causa collettiva. Fermandosi anche per un secondo, l’intera performance è a rischio di andare in pezzi lasciando gli individui nel panico.
Utilizzando le categorie di Sartre, si può anche sostenere che i movimenti fascisti, pur agendo realmente, non si trasformano mai in un gruppo in fusione, rimanendo sempre allo status di massa eterodiretta, dispersa e connotata dalla serialità. Il fatto che per Sartre proprio la serialità sia una determinazione cruciale per la costituzione della sovranità statuale moderna suggerisce come i confini tra l’eterodirezione fascista e quella non fascista potrebbero essere più porosi di quanto pretenderebbe il buon senso liberale. Anche se, aggiunge Toscano, il fascismo eccelle nella manipolazione delle serialità generate dalla vita sociale capitalista, con la sua capacità di plasmare pseudo-unità e false totalità attraverso discorsi di supremazia razziale, etno-nazionalista e religiosa.

Il carattere per certi versi farsesco dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nel 2021 non deve trarre in inganno. Anche la farsa è una forma di performance che, al pari delle messe in scena più seriose, è in grado di tenere insieme differenti e incompatibili immaginari autoritari, coinvolgendo una composizione sociale e di classe quanto mai eterogenea. I molteplici vettori di comunicazione e di aggregazione che oggi contraddistinguono l’estrema destra americana (e non solo), amplificano il carattere “pluralistico” e contraddittorio del fascismo tradizionale. Ma questa è tutt’altro che una debolezza, sostiene Toscano, come l’approccio razionalistico della sinistra sembra spesso ritenere.
Questo perché il “tempo per il fascismo” è il tempo della crisi, nella sua dimensione oggettivamente socioeconomica. La sfida per ogni risoluzione fascista della crisi è di realizzare una mediazione tra due tipi di temporalità divergenti: da una parte, il tempo del risentimento e del revanchismo (il tempo dell’identità e della razza), dall’altra quello dell’accumulazione (il tempo del valore). O, meglio ancora, la vera sfida è di subordinare il primo tipo di temporalità al secondo. La soluzione viene allora trovata attingendo a un archivio disordinato di immaginari ed esperienze sedimentate nel tempo grazie al quale il futuribile e l’arcaico, il nuovo e la ripetizione, la rivoluzione e il ritorno all’origine, la decisione e il destino possono convivere in una miscela instabile ed esplosiva.
Tutto ciò richiama la dimensione della “non-contemporaneità” che Bloch, citato da Toscano, ha per primo messo in luce sottolineando la presenza nella Germania degli anni Trenta di strati sociali fuori sincrono rispetto ai ritmi dell’accumulazione capitalistica (contadini, piccolo borghesi, aristocratici, sottoproletari ecc.). Strati sociali cui appartengono fantasie irrealizzate di una vita migliore, memorie di modi di vita precapitalistici, desideri improduttivi e in eccesso che sono stati deviati e irreggimentati dal fascismo. Allo stesso tempo, prosegue Bloch, abbiamo a che fare  con frammenti di un immaginario che possono rivelarsi rivoluzionari qualora riescano entrare in risonanza con la contraddizione “sincronica”, quella tra capitale e lavoro. 

Ma nelle società dei nostri giorni, si chiede Toscano, possiamo ancora parlare di non-contemporaneità? Il capitalismo attuale, con la sua capacità senza precedenti di modellare e omogeneizzare i desideri e la vita quotidiana, soprattutto sotto l’apparenza di differenza, scelta e libertà, ha portato con sé il prosciugamento delle differenze culturali e temporali dall’esperienza vissuta, insieme a tutte le loro potenzialità utopiche. Insomma, secondo l’autore di Late Fascism, non ci sarebbe più alcun passato da salvare. Quantomeno nulla di antico. Quando Trump parla di fare di nuovo grande l’America, infatti, non fa riferimento ad alcunché di  arcaico, ma a un fordismo post-bellico con tratti fortemente idealizzati, soprattutto per quanto riguarda il benessere diffuso e il compromesso patriottico tra grande capitale e lavoro.
Eppure, possiamo commentare, la sussunzione di modi di vita, culture e tradizioni non capitalistiche sotto il segno della mercificazione universale, non significa necessariamente la scomparsa di tutto ciò che viene dal passato e/o dal mondo non occidentale. Il capitale ha interesse a distruggere solo ciò che è incompatibile con le leggi della sua valorizzazione. Tutto il resto lo può rifunzionalizzare, mettere a valore o lasciar vivacchiare ai suoi margini. Il passato può sopravvivere come preferenza individuale per il consumo di merci e valori vintage, privato della sua profondità storica. Potremmo allora ipotizzare che il postmoderno, a modo suo, generalizzi il rapporto con la storia proprio della cultura di destra per la quale, sostiene Furio Jesi citato da Toscano, “il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile”. La non-contemporaneità è dunque salvata, ma al tempo stesso superata al punto di essere resa difficilmente riconoscibile. 

Similmente deformati, secondo Toscano, appaiono i lineamenti della classe operaia cui si appella il tardo fascismo, poco o nulla definita dal suo rapporto con i mezzi di produzione. Il suo tratto caratteristico è invece quello di essere di pelle bianca e di genere maschile. La connotazione razziale (e di genere) riempie una nozione politicamente vuota o spettrale della classe operaia permettendo a una soggettività pseudo-collettiva di aggregarsi per mezzo di un investimento emotivo caratterizzato da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Per questo, a differenza di quello che pensa un certo populismo di sinistra a rischio di colorarsi di tinte rossobrune,  

non esiste alcun percorso che conduca dalla falsa totalità di una classe razzializzata ed eterodiretta a una rinascita della politica di classe, non esiste alcun modo per trasformare le statistiche elettorali o gli studi mal progettati sul “soggetto populista” e sugli “uomini e donne dimenticati”, in punti di partenza per ripensare una sfida al capitale o per analizzare e mettere in discussione i fondamenti stessi del discorso fascista.1

Questo pallido simulacro del proletariato è solo un ostacolo. Ma ciò non significa buttarsi dalla parte opposta per contrastare le tendenze autoritarie del nostro periodo, annacquando l’antifascismo in un “fronte (im)popolare con liberali e conservatori”. Anche il neoliberismo presuntamente progressista, quello che sta alla base della maggior parte delle denunce tradizionali del fascismo, è contraddistinto dalla continua produzione di disuguaglianze ed esclusioni infiocchettate da impegni formali e stereotipati a favore dei diritti, della diversità culturali e delle differenze di genere. Facendo causa comune con esso, ammonisce Toscano, ci si allea con la causa per scongiurarne gli effetti. Di conseguenza, riecheggiando le parole del francofortese Max Horkheimer, non si può che giungere a una conclusione:

Chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe anche tacere sull’antifascismo. Quest’ultimo, inteso in senso ampio, non è solo una questione di resistenza al peggio, ma sarà sempre inseparabile dalla costruzione collettiva di modi di vivere che possono annullare le narrazioni letali di identità, gerarchia e dominio che la crisi capitalista ripropone con così cupa regolarità.2

In estrema sintesi, il fascismo di cui ci parla Alberto Toscano non è l’alterità mostruosa che si oppone al capitalismo, come vorrebbe il pensiero liberale che spesso immagina l’affermazione di questo altro da sé come un evento storico aberrante ed eccezionale. E’ piuttosto il suo lato oscuro, il suo doppio che vive costantemente ai margini (interni ed esterni, sociali e geopolitici) di quello che la cattiva coscienza liberale percepisce come il suo mondo ordinario (che è normalmente assai più limitato dell’intera realtà). Un lato oscuro che è pronto a proiettare la sua fetida ombra sull’intera società quando erompe il tempo della crisi. 

I margini in cui allignano le tenebre, aggiungiamo da parte nostra, possono anche essere concepiti, con l’aiuto di Marx, come ciò che si trova al limite dell’arco visivo dell’ideologia dominante. Quest’ultima fissa di preferenza il suo sguardo sulla sfera della circolazione delle merci, vero Eden dei diritti dell’uomo dove regnano libertà e uguaglianza per tutti i possessori di merci e, per estensione, per tutti i cittadini. Da questo punto di vista, ciò che rimane ai margini è, paradossalmente, il cuore di tenebra del mondo capitalistico, dove domina tutt’altra logica. Nel “segreto laboratorio della produzione”, infatti,

il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro.3

Ed è proprio questo dispotismo, connaturato al rapporto tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, che tende a prevalere anche nell’ambito politico, investendo le relazioni tra governanti e governati fino nel centro dell’impero, quando la silenziosa coazione dei rapporti economici non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, cioè in tempi di crisi. Tempi che, oggi come in passato, ci portano verso scenari bellici sempre più allargati, lasciando spazi di libertà sempre più ristretti per chiunque non si voglia schierare tra le file delle armate patrie. 


  1. Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Vereso, London-New York 2023, p. 21, ed. Kindle. 

  2. Ivi, p. 158. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pp. 468-69. 

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Dagli USA una nuova fase della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/07/14/dagli-usa-una-nuova-fase-della-lotta-di-classe/ Tue, 14 Jul 2020 21:55:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61345 di Nico Maccentelli

Gli USA che non hanno mai fatto bene i conti con l’oppressione razziale…

Non è stato un fulmine a ciel sereno. Le forti tensioni sociali antirazziste di queste ultime settimane negli USA, dovute all’assassinio brutale e gratuito di George Floyd ad opera di cops di Minneapolis, sono lo sbocco politico e organizzato che si è snodato da tempo in una sequenza di riots avvenuti negli ultimi anni. Il movimento Black Lives Matter (BLM) in particolare, cresciuto a dismisura negli ultimi sei anni, è stato la risposta [...]]]> di Nico Maccentelli

Gli USA che non hanno mai fatto bene i conti con l’oppressione razziale…

Non è stato un fulmine a ciel sereno. Le forti tensioni sociali antirazziste di queste ultime settimane negli USA, dovute all’assassinio brutale e gratuito di George Floyd ad opera di cops di Minneapolis, sono lo sbocco politico e organizzato che si è snodato da tempo in una sequenza di riots avvenuti negli ultimi anni. Il movimento Black Lives Matter (BLM) in particolare, cresciuto a dismisura negli ultimi sei anni, è stato la risposta agli innumerevoli atti oppressivi e criminali da parte della polizia contro gli afroamericani.

Del resto, dalla guerra civile statunitense del 1861-65 non c’è mai stata una reale emancipazione degli afroamericani, se non nella misura in cui il capitalismo USA aveva necessità di allargare il mercato e formare una classe lavoratrice, un proletariato in funzione dell’accumulazione capitalistica e del profitto. Detto in termini brutali.

A questa minoranza oppressa, e a quella originaria dei nativi, se ne sono poi aggiunte altre nel corso delle migrazioni, lungo un lasso di tempo lungo 150 anni: italiani (poi assimilati nella categoria di “bianchi”) latinos, asiatici. Il pensiero liberale che ha la sua culla nel mondo anglosassone non ha mai messo in discussione ciò che per le élite bianche statunitensi è un dogma intoccabile: la superiorità dei bianchi, la loro egemonia sul resto della società (1). E le varie giustificazioni liberali dello schiavismo, si trasformate nel tempo insieme al dominio di classe in una rete dispositivi discriminatori. Ovviamente l’oppressione ha varie gradazioni: va dalle discriminazioni negli stati del sud ex-confederati (balzate alla cronaca mondiale dai tempi di Rosa parks e M.L. King) e dal suprematismo bianco a un razzismo più sottile, con la presunzione di essere politically correct, ma non meno funzionale all’intero sistema de capitalismo razziale. Ma se i quartieri ghetto e le carceri piene di afroamericani non bastassero, l’asino casca su quella che è la cartina di tornasole del razzismo USA: la polizia.

La realtà è che gli USA bianchi delle classi dirigenti sono razzisti fino al midollo, politically correct o no. E’ l’intera geografia dei simboli in tutto il paese a parlare. Ed è la ragione per cui oggi è presa di mira dal movimento. Per fare un esempio eloquente: immaginatevi che il dipinto di un artista del quattrocento avesse aperto la strada alla visione pittorica della prospettiva. Solo che questo dipinto raffigura un Cristo crocifisso a testa in giù, tra simboli di caproni demoniaci e stella pentangolari. Sarebbe stato tesoro della civiltà e della comunità di qualsiasi paese? Io dico di no.

Bene, Nascita di una nazione di David Wark Griffith sì: la sua pellicola originale è persino conservata presso il National Film Registry della Biblioteca del Congresso a Washington. Il film è considerato patrimonio e tesoro della nazione per il semplice fatto che rappresenta l’atto conciliatorio tra le “due americhe”: quella unionista e quella confederata. Al di là del fatto di essere uno dei primi lungometraggi con una narrazione più articolata (la pellicola è un muto del 1915).

Notate qualcosa? Le due americhe. Con i cattivi di turno nei neri violenti e assassini e addirittura il Ku Kux Klan che libera i cittadini minacciati. Avete capito bene: i suprematisti razzisti fanno da collante del paese, fanno fottutamente nascere la nazione. Gli USA non hanno mai fatto bene i conti con il loro passato schiavistico che poi è divenuto sfruttamento salariato, oppressione razziale e degrado. Potrete ben comprendere dunque gli attacchi alle statue simbolo di questa vera e propria tirannia violenta mai finita, operata da un’oligarchia che può essere più o meno brutale, che può far dire al “tenero” Biden, candidato democratico alla Casa Bianca, che un nero che delinque non va ammazzato, ma gli si spara alle gambe. (2)

A essere messa in discussione è tutta la narrazione neoliberale che ha accompagnato la “nascita di una nazione” . In questo senso va letta la rimozione delle statue non solo di schiavisti dichiarati e personaggi storici della guerra civile americana come il generale Lee, ma l’origine stessa della colonizzazione selvaggia, dello sterminio dei nativi, della libertà d’impresa nella deportazione di schiavi dall’Africa, arrivando fino a Cristoforo Colombo.

“Le vene aperte” dell’America stanno riversando tutto il sangue di secoli di oppressione proprio nel cuore dell’imperialismo stesso, facendo saltare il tappo della “più grande democrazia del mondo”, che copriva la polarizzazione stridente tra miseria da una parte e lusso dall’altra, tra ghetti sterminati e cittadelle del consumo e del benessere neoliberista.

 

… ora devono fare i conti con qualcosa di più generalizzato: la lotta di classe.

Ma se volessimo soffermarci al carattere razziale dell’oppressione negli USA, avremmo fatto solo una parte della lettura di quella situazione.

Se ci chiedessimo perché a metà degli anni ’50 gli USA hanno avuto un fenomeno repressivo come quello del maccartismo, nel dare la risposta ci metteremmo già sulla strada giusta.

Joseph McCarthy mentre illustra la “presenza comunista” negli USA

Certo, avevamo la guerra fredda tra i due blocchi. Ma intanto l’URSS e i paesi del socialismo reale non rappresentavano solo una nomenclatura, ma un’idea diversa di mondo, e già nel secondo dopoguerra si accendevano lotte di liberazione antimperialiste, dalla guerra di Corea in poi. In particolare, ragione non secondaria della caccia alle streghe del senatore alcolizzato, il marxismo, l’anarchismo e la lotta di classe negli USA non sono mai stati momenti episodici ed estemporanei. 

Non è questa la sede per approfondire la storia della lotta di classe negli USA, ma la classe dirigente statunitense con la sua punta di lancia McCarthy cercò di fare piazza pulita di un fenomeno che aveva profonde radici sociali (si pensi solo all’IWW, il sindacalismo rivoluzionario degli anni ’20), alimentate anche per oltre un secolo dalle forti migrazioni.

La vulgata ideologica USA hollywoodiana che stiamo subendo ormai da una sessantina d’anni, ci mostra invece un paese dove il comunismo è stato debellato: un mondo patinato fatto di kolossal, attori, cantanti, uomini politici di successo e… grandi possibilità di farsi strada. Una “way of life” del tutto falsa da sempre. La realtà è ben diversa; e c’è chi la combatte, ora come allora.

Il ciclo di lotte sociali poderose, avviatosi con l’emergenza COVID-19 negli USA, ha tutta l’aria di aprire di fatto una nuova fase della lotta di classe a livello mondiale. Infatti, la crisi mondiale del capitalismo, sta accrescendo da tempo le contraddizioni sociali e di classe anche nel cuore del capitalismo stesso: gli USA. E la pandemia con la battuta d’arresto dell’economia statunitense, i milioni di licenziamenti non ha fatto altro che accentuare la miseria sociale e le ricadute sulla salute per la mancanza di copertura sanitari per milioni di cittadini. Il COVID-19 ha acuito ancora di più una situazione di miseria e disoccupazione largamente diffuse. In pratica non è piovuto, ma diluviato sul bagnato.

Ma più in generale, la pandemia sta lasciando in uno stato ancora più profondo di miseria e depressione tutti i paesi del mondo occidentale, e naturalmente non solo loro, come ulteriore effetto sulla crisi generale mondiale di sovraproduzione di capitale nella caduta tendenziale del saggio di profitto, che è crisi strutturale e sistemica. Al di là degli indicatori drogati di borsa, che millantano una ripresa con i loro rialzi azionari, assistiamo a una contrazione dei mercati con la riduzione dei flussi commerciali internazionali. Ne consegue una flessione dei livelli occupazionali e una maggior crisi delle economie nazionali.

Per questo, con tutta probabilità la grande onda statunitense può essere considerata una prima importante avvisaglia di un cambio di fase della lotta di classe mondiale. Questo movimento ci dice che siamo arrivati ai limiti di un neoliberismo sfrenato che non ha fatto altro che mettere a profitto con il super-sfruttamento di risorse umane e ambientali l’intero pianeta o quasi. Questi limiti ormai sono piuttosto evidenti e la pandemia non ha fatto altro che imprimere un’accelerazione alle contraddizioni sociali e alla comprensione di massa sempre più estesa della tara economica che il neoliberismo stesso porta con sé.

Un anno fa c’erano già lotte proletarie e popolari di vasta portata come in Cile, ad Haiti, in Libano, in Francia, in Irak, che mostravano le forti crepe nel fronte neoliberista. Ma ovviamente una lotta e un processo di trasformazione sociale che partano dal cuore dell’impero hanno tutta un’altra influenza sull’andamento generale dei movimenti anticapitalisti di vario segno nel mondo.

E negli USA , già negli anni precedenti si intravvedevano delle avvisaglie di protesta nella crescita di un antagonismo organizzato contro le brutalità della polizia statunitense, che sedimentavano una coscienza conflittuale contro il carattere razzista del capitalismo a stelle e strisce. Ma si intravvedevano anche nelle lotte sociali per i 15 $ di salario minimo, nelle innumerevoli lotte autonome sui posti di lavoro (vedremo alcuni esempi tra breve), ma anche nella presenza organizzata alle primarie dei democratici di una forte tendenza socialista aggregata nella coalizione di Bernie Sanders.

L’attivismo di autodifesa armato contro gli attacchi dei suprematisti bianchi si è manifestato un po’ ovunque

L’assassinio di Floyd ha fatto da detonatore a un antagonismo di classe e di massa nato come risposta popolare a un neoliberismo sfrenato.

Per questo, oggi la critica di massa e la massa critica che si sono sviluppate in tutti gli USA, hanno travalicato la questione razziale, estendendo il conflitto sociale a tutto il sistema di rapporti sociali. In campo ci sono soggettività multirazziali che subiscono la miseria e la sopraffazione delle classi egemoni. Soggettività che mettono al centro temi fondamentali come i servizi, il reddito, il pubblico, la qualità e la dignità della vita, la sicurezza da un punto di vista popolare e non dei ceti che attraverso la polizia impongono la tutela della proprietà privata a scapito della vita umana: molto forte infatti è la rivendicazione attorno alla piattaforma Defund the Police. Dunque, ridurre questo movimento a una mera protesta per soprusi estemporanei di alcuni agenti di polizia razzisti significa non capire la situazione, né il conseguente salto qualitativo delle lotte sociali. 

In questi giorni (mentre sto scrivendo) a Richmond, militanti armati di BLM presidiano la statua del generale Lee ormai piuttosto variopinta dalle scritte della comunità in lotta, un intero quartiere di Seattle è in mano ai manifestanti: il CHAZ, Capitol Hill Autonomous Zone, ossia Zona Autonoma di Capitol Hill (o CHOP, Capitol Hill Organized Protest, anche la non definibilità precisa del nome è una modalità di riscrivere il territorio) è una zona liberata e la sindaca della città Jenny Durkan, in contrasto con Trump, anche se sta cercando di mettere fine all’esperienza sociale, definisce questa parte di popolo in rivolta non come terroristi ma come patrioti.

Riaffiorano esperienze che si sono caratterizzate nella fase di Occupy, innestandosi nel radicalismo militante della sinistra rivoluzionaria e creando nuove realtà organizzate e coordinate tra loro. Un esempio è Rising Majority, una coalizione intersettoriale di organizzazioni e movimenti che raggruppa realtà organizzate del sindacalismo di base ed espressioni politiche di opposizione antirazzista degli afroamericani o degli asiatici. (3)

(L’incursione degli attivisti afroamericani a Stoney Mountain, culla del suprematismo del Ku Kux Klan)

 

Le narrazioni interessate di casa nostra su questo movimento

Nell’ambito sovran-populista qualche anima bella punta ad associare il BLM e gli Antifa USA al deep state e a Soros in chiave anti-trumpiana. Operazione per esempio di PandoraTv, network pseudo-alternativo ormai definitivamente decotto dopo la prematura scomparsa di Giulietto Chiesa. Rivelando così di schierarsi con la destra ultrareazionaria anti-globalista ma altrettanto neoliberista, come se Bannon e Orban siano interlocutori politici “anti-sistema” insieme a Salvini. L’alternativa non è certo il capitalismo egoistico, razzista e di territorio dei ceti medi reazionari. Il nuovo movimento USA sta facendo piazza pulita anche di questi mentecatti, finti ignari del fatto che là negli USA l’ultradestra ha i fucili automatici dei suprematisti filo-Trump, che li usa contro le manifestazioni antifasciste e antirazziste. E che la falsa “cura” Trump al globalismo è peggio della malattia.

Altro che Soros! Lungi dall’essere eterodiretta, l’onda antagonista popolare che si è innescata con l’omicidio di Floyd, covava come brace sotto la cenere. Oltre a essere reazionari, gli orfanelli di Chiesa, amici di Fusaro, non hanno capito nulla, o non vogliono capire. Questo movimento ha il pregio di rimettere al centro, insieme alla liberazione dal razzismo, i bisogni delle classi popolari, i diritti sul lavoro della classe operaia, attraverso una rottura generalizzata con le istituzioni del paese. Al suo interno sono presenti tendenze socialiste, comuniste, libertarie anarchiche, femministe, che rendono il movimento piuttosto eterogeneo. Ma questa eterogeneità è una ricchezza, poiché mette in dialettica tra loro le diverse anime del movimento, rappresentando un salto qualitativo rispetto a Occupy. Infatti, tutte le positività politiche anticapitalistiche hanno una parte preponderante nella vastità della protesta sociale e delle sue anime differenziate.

Penso che questo movimento faccia chiarezza anche su ogni nostrana incursione “nazionalista” che una certa sinistra radicale italiana ammalata di populismo ha portato avanti in questi ultimi anni. Una tendenza che ritengo essere arrivata al capolinea e che si è nutrita di un sacrosanto anti-europeismo anti-neocolonialista, ma con il risultato di fare il verso alle destre, nella velleità di competere con loro sul loro stesso campo. Si pensi solo a certe posizioni discriminatorie sui migranti e alla definizione della migrazione come “invasione”. In realtà, il vero discrimine nei paesi occidentali ed europei sulla questione della sovranità non è la nazione, ma la classe, detto in termini molto schematici, certo, ma per capirci fino in fondo. E dagli USA arriva una bella lezione e non a caso da lì: dove la classe è multirazziale e dove al di là del proprio potere classista, non esiste alcun “padrone esterno”. Il centro dell’imperialismo per eccellenza ce l’hanno in casa.

L’insegna del dipartimento di polizia occupato a Seattle

Dunque, la crisi del neoliberismo riaccende la lotta di classe dal basso verso l’alto. Crea i presupposti per rimettere al centro ipotesi di paradigma socialiste, comunità collettivistiche che non possono certo essere riedizioni delle esperienze passate, ma che sono tutte da realizzare e sperimentare. Nel caso italiano, il centro dello scontro sociale non potrà non essere la rottura con l’Unione Europea e i suoi trattati ordoliberisti, perché da qui discende tutta la devastazione economica e sociale degli ultimi decenni, tra privatizzazioni, impossibilità dell’intervento statale a favore delle aziende in crisi, speculazioni finanziarie contro un paese che non stampa moneta, che non ha una politica economica indipendente.

Ma i temi centrali qui come negli USA sono i medesimi: non si può lasciare ai mercati (leggi: i centri del potere finanziario e multinazionale) le redini dell’economia di un paese. Occorre un forte e profondo cambiamento democratico che dia tutti gli strumenti a un potere popolare per pianificare l’economia, per socializzare i mezzi di produzione e di circolazione del capitale a partire da quelli vitali per la società.

Basta, dunque, fare il verso alle destre, che siano europeiste o sovraniste. Più che di nazioni autoreferenziate in un mondo sempre più interconnesso, ci sono tutti i presupposti per il rilancio di un nuovo internazionalismo popolare e proletario.

Vista in maniera più ampia, si può constatare come il centro dell’imperialismo mondiale, gli USA, sia sottoposto a un attacco fuori e dentro il suo territorio nazionale, come portato di secoli  di oppressione schiavistica, coloniale e neocoloniale da parte del capitalismo liberale razziale. Le resistenze bolivariane in America Latina, tra alterni colpi di mano, le lotte popolari in tutto il continente sudamericano esprimono la risposta all’attuale neocolonialismo yankee. E dal cortile di casa, si è passati… direttamente in casa.

Solo la “sinistra” nostrana, euroriformista, non si è accorta di questo fenomeno politico piuttosto dinamico e in progress, che si sta espandendo in tutto il mondo “anglosassone”, ossia in quei paesi come il Regno Unito, che vivono in modo altrettanto stridente il neoliberismo selvaggio sviluppatosi in questi decenni, paesi che sono stati la culla del tatcherismo e del reaganismo. La nostra “sinistra” riduce la rivolta statunitense a proteste umanitarie e antirazziste contro la brutalità poliziesca contro gli afroamericani, senza nulla toccare del sistema che ha generato queste condizioni. Ma perché questa riduzione superficiale fa comodo per non rimettere in discussione nulla qui da noi delle politiche di asservimento europeista e atlantista al capitalismo continentale e del servilismo del nostro ceto politico alle élite d’oltreoceano.

E’ auspicabile che la nuova onda statunitense sia anticipatrice (come gran parte dei i fenomeni sociali partiti da là) di una tendenza che presto inizierà a manifestarsi anche qua. Che chiuda i conti con questi teatrino fatto di Papetee e sardine. Perché se all’ignavia PD e dei suoi cespuglietti che sostengono nei fatti la deriva neoliberista in Italia e in Europa sta facendo da contraltare la peggiore destra ammantata di “sovranismo” populista, l’unica possibilità è sintetizzata della parola d’ordine degli zapatisti: que se vayan todos!.

Ovviamente alla “sinistra” nostrana fa molto comodo ridurre la chiave di lettura della nuova onda americana alla sola questione razziale che sì è fondamentale, ma non ci fa capire nulla di quanto sta accadendo negli USA se ci limitiamo ad essa.

Già abbiamo visto le Sardine cavalcare con la parola d’ordine “I can’t breath” il processo di liberazione irreversibile negli USA, bypassando completamente ciò che è scomodo ai loro mentori italiani, ossia il PD e i partitini vari alla LeU e Coraggiosa che gli fanno da contorno: le questioni del lavoro, lo sfruttamento del capitale sul lavoro e la miseria sociale dilagante in tutti gli stati dell’Unione.

Ma qui in Italia l’impostazione politica è completamente diversa e vede la totale subalternità della post-sinistra (definiamola così, non offenderemo più chi si sta rotolando nella tomba) al neoliberismo: subalternità diretta, da parte del PD, che ne è l’asse politico centrale; o per conseguenza: LeU, Coraggiosa, ecc.. E parlo di quel neoliberismo che là negli USA è ben chiaro a quelle sinistre e che viene quindi combattuto, ma che qua fa l’effetto della latrina per chi ci vive dentro e non sente più il fetore di piscio. Qui vige una sorta di totalitarismo politico che impedisce una presenza realmente critica dentro l’ala sinistra della borghesia imperialista ed euroliberista di qualsiasi realtà organizzata della sinistra radicale, una capacità di incidere nelle sue politiche.

L’esempio di Bernie Sanders, dei DSA e di stelle nascenti del socialismo come la Ocasio Cortez (4), qui sarebbe impensabile e lasciamo al mondo dell’autoillusione, o meglio, alla disonestà intellettuale personaggi come la Schlein o Fratoianni, che vogliono farci credere che in coalizione col PD si possa avere lo stesso scenario del bipolarismo USA, e che quindi con le primarie dem e l’internità sia possibile introdurre elementi progressivi su tanti temi come la salute, il lavoro, l’ambiente. In realtà il ruolino di marcia dei Bonaccini a livello regionale o degli esecutivi governativi in cui partecipa il PD a livello nazionale non si tocca. Il “piccolo dettaglio” che differenzia questi personaggi di piccolo cabotaggio nostrano, che fanno leva su qualche rivendicazione, dalla presenza socialista alle primarie dem, è la forte pressione dal basso che ha consentito anche a personaggi come Sanders di capitalizzare questa forza sui temi sociali. Ma soprattutto è la lotta che attraversa tutta la società civile statunitense.

 

La pressione dal basso sui dem USA, sviluppatasi in anni di conflitto di classe, l’antagonismo, le lotte

I democratici USA devono fare i conti con una marea montante antagonista che, nella migliore delle ipotesi, si presenta come socialista riformista, appunto Sanders e soci (5), ma che di fatto va ben oltre per conflittualità sociale e coscienza politica. L’intera élite statunitense deve fare i conti con lotte che qui nemmeno ci immaginiamo. Vediamone alcune per sommi capi.

Partiamo da un punto sostanziale: sono anni che la sinistra americana, sin dai tempi di Occupy e del “noi siamo il 99%”, ossia dal 2011, sostiene tre punti fondamentali: salario minimo a 15$, il medicare ossia un sistema sanitario che deve tornare a essere pubblico e garantito a tutti, e la questione più politica di democrazia economica, ossia il fatto che il reddito degli americani più ricchi, ossia l’1%, dal 1979 al 2007 è aumentato del 275%, mentre i salari sono cresciuti nel frattempo meno dell’inflazione (6). (Detto per inciso, quando mai queste questioni sono state agitate da una sinistra imbelle e capitolazionista come la nostra?)

A questi punti si accompagna un chiaro orientamento strategico al socialismo che qui non esiste. O viene timidamente sbandierato da forze decotte ed euroriformiste come Rifondazione Comunista. Giusto Potere al Popolo ne fa qualche accenno, avendolo nel suo dna. Il DSA è forse politicamente più rivoluzionario anche della sinistra radicale italiana? (7) E’ una domanda provocatoria, ma pertinente, visti gli esiti del conflitto sociale USA, la sua crescita e il ruolo che giocano le stesse forze “moderate” come i DSA. Negli USA si parla di socialismo, qua no.

Ma torniamo alle tappe della crescita della lotta di classe al capitalismo razziale in USA.

Occupy Wall Street, 2011

Il 2011 segna un passaggio importante per la sinistra radicale americana: è l’anno di Occupy, ossia di un vasto ed eterogeneo movimento contro le forti disuguaglianze sociali e il potere della finanza nato per certi aspetti e caratteristiche dalle esperienze no-global dell’ondata precedente, quella di Seattle del 200. Ma in quell’anno c’è anche un altro fenomeno importante: il governatore del Wisconsin Scott Walker con il Budget Repair Bill cercò di rendere illegali le contrattazioni collettive per i lavoratori del pubblico impiego, oltre a tagli alla sanità, alla tutela dell’ambiente e all’istruzione pubblica. Ciò provocò una risposta di massa piuttosto vasta: oltre centomila persone invasero la capitale Madison, gli insegnanti organizzarono un assenteismo di massa, fu occupato il Campidoglio dai manifestanti (8).

Nel 2014 a Ferguson, l’assassinio di Michael Brown, un adolescente afroamericano ad opera di un ufficiale di polizia bianco, scatenò un’ondata di proteste e scontri e la nascita di Black Lives Matter, che chiedeva la fine del razzismo e delle uccisioni dei neri da parte della polizia. Ma è evidente, come già evidenziato, che tutte queste esperienze di lotta hanno avuto un processo di convergenza alimentata dalla miseria sociale dilagante e dallo strapotere nei luoghi di lavoro e sul territorio da parte dei guardiani razzisti e classisti del capitale.

Il fronte sociale e politico è piuttosto eterogeneo: va dall’Antifa all’anarchismo organizzato, dal BLM alle campagne per le primarie di DSA e sostenitori di Sanders, alle lotte di realtà autonome nel mondo del lavoro come Fight for 15$. 

In specifico, nell’ambito dell’antagonismo di classe, è significativa l’unificazione di varie entità organizzate sotto il cartello del già prima menzionato Rising Majority, a cui hanno aderito personalità dell’attivismo anticapitalista come Naomi Klein, e comuniste storiche della lotta antirazzista e contro il carcere imperialista e le sue strutture privatizzate come Angela Davis (9).

In particolare è degno di rilievo lo sviluppo e l’unificazione delle proteste in seguito all’assassinio di George Floyd, l’attivismo dei BLM nelle città statunitensi, le mobilitazioni sul territorio come la già citata esperienza di CHAZ a Seattle. Interessanti a tal proposito sono le considerazioni di Noam Chomsky su questa esperienza:

“Creare delle strutture di mutuo soccorso e cooperazione che liberino le persone dalle strutture governative, che si sono dimostrate totalmente inadeguate nell’affrontare problemi specifici, come garantire l’acqua a tutti e tutte – o altri problemi più gravi ancora che spiegano come mai siamo stati così disperatamente impreparati per questa crisi. La zona autonoma è un esempio interessante di questa tendenza. È anche impressionante vedere il supporto che arriva [da persone come] il sindaco di Seattle, e l’enorme sostegno popolare, che sta facendo impazzire Trump e Fox News. È un segnale positivo, una cosa importante. Credo che sia una manifestazione del fatto che iniziamo a pensare di poter prendere il controllo delle nostre vite, di non poterle lasciarle nelle mani delle autorità che si presentano come nostri padroni. Dobbiamo farcene carico noi.” (10)

Ingresso a CHAZ, la zona liberata a Seattle

Un’esperienza di autogestione popolare che va oltre l’accampata di Occupy per arrivare su un terreno di contropotere. A ciò si aggiungono le lotte sui luoghi di lavoro, il costituirsi di comitati popolari, esperienze come il boicottaggio da parte degli autisti di mezzi adibiti al trasporto dei manifestanti nelle carceri, l’appoggio al già citato Defund the Police, all’istanza di definanziare le spese per la polizia nella lotta per estromettere dai sindacati la polizia stessa (11).

In particolare i comitati popolari di base nei luoghi di lavoro e nel territorio delineano l’orientamento che vanno assumendo la ricomposizione di classe, l’organizzazione e la lotta verso la costituzione di consigli operai e popolari. Leggo dal summenzionato articolo di Left Voice:

“Questi comitati popolari di base possono costruire il potere di colpire e fermare la produzione, sia per misure di sicurezza durante la pandemia che a sostegno della rivolta. E possono essere il modo di coordinare nuovi settori della classe lavoratrice per unirsi alle mobilitazioni e ai combattimenti di strada.” (…) “Ma altrettanto importante è l’agitazione ovunque e ogni volta che possiamo per la creazione di assemblee di massa come quelle emergenti a Minneapolis e Seattle. Queste assemblee di massa possono essere cruciali per unificare, collegare e coordinare le lotte di manifestanti, attivisti sindacali e liberi lavoratori non sindacali.”

La rivolta sociale divampata negli USA ha anche e soprattutto le caratteristiche sul piano identitario e delle vertenze di una vera e propria lotta di classe del basso contro l’alto, una lotta proletaria che riunifica una sommatoria di istanze sociali, che tende verso la costruzione di un contropotere consiliare ancora embrionale, ma significativo.

Amazon (Amazonians Unidos) e Instacart sono altri esempi in cui i lavoratori hanno costituito infrastrutture organizzate, ma esperienze di lotta si annoverano anche in altri contesti del lavoro come McDonald e anche tra i lavoratori agricoli.

Afroamericani, latinos, asiatici e tanti bianchi precari e poveri, nonché il soggetto doppiamente sfruttato e vessato, quello femminile, costituiscono la vasta e variegata realtà dell’antagonismo sociale statunitense, espressione dei profondi guasti lasciati dal neoliberismo, che qui ha la sua culla, dell’abissale polarizzazione tra ceti agiati e classi popolari con in mezzo una media borghesia devastata (come qua) dalle veloci dinamiche di esproprio sociale e di rapida caduta dalla scala sociale nella perdita di lavoro e potere d’acquisto, proprie della società USA, quindi dalla fuori uscita dalle coperture previdenziali e dal ritrovarsi dall’oggi al domani in mezzo alla strada.

Per quanto riguarda i “reietti del paese”, il rapido sviluppo di una loro coscienza di classe e di realtà di base antirazziste e anticapitaliste rivoluzionarie, le parole di Angela Davis sono più eloquenti di qualsiasi bella analisi:

“Questo è un momento straordinario. Non ho mai sperimentato nulla di simile alle condizioni che stiamo vivendo attualmente, la congiuntura creata dalla pandemia di Covid-19 e il riconoscimento del razzismo sistemico che è stato reso visibile in queste condizioni a causa delle morti sproporzionate nelle comunità di Blacks e Latinos. E questo è un momento in cui non so se mi sarei mai aspettata di sperimentare (…) ho spesso detto che non si sa mai quando le condizioni possono dar luogo a una congiuntura come quella attuale, che sposta rapidamente la coscienza popolare e ci consente improvvisamente di muoverci nella direzione del cambiamento radicale.” (13)

 

In conclusione

Se andiamo oltre i singoli alberi e vediamo la foresta nella sua interezza, diviene chiaro ciò che sta accadendo a partire dagli USA, con la caduta dei livelli di gestione capitalistica dello stato di cose vigente. Come le borghesie imperialiste si stiano preparando per contenere le masse d’urto popolari e le possibilità di intervento politico delle forze marxiste rivoluzionarie e antagoniste in una molteplicità di ambiti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche più politici sui rapporti di forza tra classi, ossia di contropotere e autogestione, di rimessa al centro del pubblico in una nuova visione di Stato popolare.

Sinora i punti di frizione maggiori di questa lotta di classe erano all’esterno: tra imperialismo e popoli, con punti focali come il Venezuela, la mai doma Cuba, il Medio Oriente, l’intera America latina. Con capovolgimenti di forze alterni: Macrì in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Lenin Moreno in Ecuador, il golpe in Bolivia e poi ancora la vittoria popolare del peronismo kirchneriano in Argentina. In particolare l’attacco al bolivarismo pur con le sue contraddizioni e all’emancipazione sociale di cui è portatore nei confronti dei popoli e paesi dell’America latina che si affrancano dal dominio imperiale yankee viene tutt’ora condotta senza esclusione di colpi.

Certo, il tentativo delle oligarchie imperialiste più in generale è quello di contrastare l’ingresso sulla scena mondiale di nuovi grandi attori capitalisti, di predare o mantenere il controllo su materie prime e risorse energetiche, ma anche quello di stroncare esperienze politico-sociali del tutto alternative al modello neoliberale. E questo è il fronte più caldo. Ora però questo fronte è divenuto mobile, e si è esteso arrivando geograficamente e socialmente fino al cuore delle contraddizioni sociali del sistema imperialista stesso. Questa guerra sociale è arrivata fin dentro le metropoli. 

Nella rivolta statunitense, le componenti rivoluzionarie non hanno certo un ruolo secondario. In intere masse giovanili, che si credevano educate da bravi bimboni ad hamburger king size da McDonald e videogame, rivivono le evocazioni anticapitaliste, comuniste, libertarie tipiche degli anni ’60 e ’70. Antichi percorsi che si credevano interrotti definitivamente, si riallacciano con modalità organizzative e in contesti socio-culturali e comunitari diversi, con intelligenza politica e metodo. E le scene delle manifestazioni e del conflitto di strada sono molto simili a quelle nostre degli anni ’70 in Italia: il meglio che il movimento di classe antagonista qui da noi abbia mai potuto esprimere.

La lotta di classe ritrova una sua pratica soggettivazione proprio nell’epicentro del capitalismo mondiale, ormai attraversato dalla devastazione sociale, frutto di decenni di macelleria sulle classi lavoratrici, privatizzazioni, di un liberismo che ha avuto il suo sviluppo con Reagan e Tatcher, e che oggi mostra tutti i suoi limiti più osceni: l’aver portato a dei livelli intollerabili e a un punto di non ritorno le diseguaglianze e tutte le tare mai superate delle “democrazie” liberali come il razzismo, la supremazia oligarchica bianca, la privazione di ogni diritto e dignità nel nome del mercato.

Ecco perché si tratta di un passaggio epocale. La rivolta cilena contro Piñera dell’anno scorso, nel paese simbolico dove tutto è iniziato nel 1973 con gli esperimenti economico-sociali dei fanatici iperliberisti dei Chicago boys, è stato il colpo di diapason. Ma la marea montante ha la sua prosecuzione non in qualche remoto territorio delle periferie dell’imperialismo; il suo sviluppo, che segna il passaggio di fase insieme alle devastazioni profonde accentuate dal Covid, è proprio nell’Occidente nord americano, dove la miseria già da anni segna la vita di decine di milioni di persone senza alcuna soluzione che non sia il tentativo di girare individualmente la roulette del darwinismo sociale, del “cane mangia cane”, del gioco al massacro del libero mercato.
Minneapolis e poi Seattle, Boston, Oakland, New York, Washington e il resto delle grandi metropoli statunitensi, rappresentano l’inizio della grande crisi sociale del capitalismo avanzato, imperialista, l’esplosione del ventre della bestia.

Vedere le immagini degli scontri non rende quanto le migliaia di pugni alzati antifascisti, di una sinistra irriducibilmente antagonista che ci riassume tutta la storia dei movimenti operai e socialisti del secolo scorso, riannodando un filo rosso che si pensava interrotto definitivamente, pensato fino a ieri solo come ipotesi, eventualità quasi utopica. E’ una presa di coscienza della forza sociale che riguarda anche i diretti protagonisti, che in queste settimane si sono ben saggiati. E la questione non finisce qui.

Democratici e repubblicani, neocom di entrambi i campi fittizi della medesima oligarchia, del deep state USA, lo sanno bene: chi sfila nelle piazze degli Stati dell’Unione è una massa eterogenea, composta da una minoranza che vota e una maggioranza che non voterà mai più o che non ha mai votato. Sono i focus target delle campagne politiche che se ne vanno dagli orizzonti di un’autonomia del politico che è solo regime, fuori e contro le vuote e asfittiche istituzioni del comando e delle lobby, che, nella “migliore” delle ipotesi possono essere tutt’al più un’opzione obamiana, quella elitaria, dell’oligarchia, che ha stroncato con la frode clintoniana in due primarie le spinte socialiste e di giustizia sociale incarnate da Bernie Sanders. Tutti passaggi politici che hanno portato nella testa di vaste masse alla caduta di ogni credibilità di poter cambiare lo stato di cose dall’interno, di appoggiarsi al nemico apparentemente più “buono”.

Ma lo stesso copione viene articolato anche qua, in un TINA (there is no alternative) che non guarda neppure più la necessità di gestire il consenso. Come se i bugiardoni di regime, le veline, le menzogne, le bufale potessero influire su un corpo sociale senza alcun new deal, azione concreta per intervenire sulla devastazione acuita dal covid, sulle economie distrutte. Resta solo il vuoto delle cittadelle della rendita, simulacri di patti sociali che non esistono più. Ma questa è un’altra storia, che necessiterebbe altre, più approfondite quanto urgenti riflessioni.

Mi limito ad affermare che sta in noi dunque, alle forze della sinistra di classe, ai comunisti, prendere esempio dal lavoro straordinario fatto dalle realtà marxiste rivoluzionarie statunitensi, per non lasciare al populismo reazionario il ruolo di oppositori e quindi una falsa iniziativa politica “anti-sistema” che non è altro che l’altra faccia dell’orrida medaglia capitalista. Qui c’è ancora molta confusione, c’è tanta arretratezza politica. Ma i segnali della crisi sociale ci sono tutti. Sapremo esserne all’altezza?

 

NOTE

1) A tal proposito consiglio la lettura di Controstoria del liberalismo, di Domenico Losurdo, ed. Laterza, che analizza l’approccio allo schiavismo da parte del pensiero liberale dalla sua genesi: John Locke, John Calhoun, John S. Mill.

2) Sui secoli di oppressione degli afroamericani e sulle attuali lotte antirazziste è interessante l’intervista a Carl Williams, attivista di supporto legale al BLM Boston qui

3) Ecco il sito: https://therisingmajority.com e una lista parziale delle organizzazioni aderenti: Black Lives Matter / Grassroots Global Justice / Working Families Party /  Southern Vision Alliance / U.S. Labour Against the War / National Domestic Workers / Left Roots / Fight For $15 / Women’s March / Black LGBTQA+ Migrant Project

4) Si vada a leggere qui

5) Va detto che il ceto dirigente dei democratici USA, esponenti del deep state, fa sempre di tutto per boicottare la politica radicale dei socialisti, ma appunto le dinamiche politiche rispetto all’Italia sono differenti e differente e più incisiva è la pressione della sinistra radicale.

6) Bashar Sunkara, Manifesto del socialismo del XXI secolo, pag. 216.

7) La stessa Angela Davis nei lontani anni ’60 definì come radicali coloro che vanno alle radici delle cose; ma qui in Italia si sono perse proprio le radici…

8) Vedi l’articolo (qui) di Valerio Evangelisti sulla nostra testata il 2 marzo 2011

9) Qui la tematizzazione dei contenuti e del dibattito interno all’inizio della pandemia negli USA e alla vigilia della rivolta sociale

10) Qui, in questo articolo di Jacobin Italia l’intera intervista

11) In merito a questo, leggere qui

12) Questi e altri dati sulle esperienze di lotta attuali evidenziate da Left Voice si trovano su questo articolo

13) Citazione presa dall’articolo-intervista a Kent Ford, attivista storico delle Black Panthers, fondatore della loro sezione a Portland negli anni ‘60 su Contropiano (qui)

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I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/06/24/i-dont-live-today-scene-dalla-guerra-di-classe-in-america-e-non-solo/ Wed, 24 Jun 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60919 di Sandro Moiso

Will I live tomorrow? Well I just can’t say But I know for sure I don’t live today (I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria [...]]]> di Sandro Moiso

Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.

La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.

La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica. Defund the police è diventato uno slogan politico che potrebbe avere, anche qui da noi, una funzione niente affatto secondaria per rilanciare il dibattito pubblico sul ruolo attivo delle forze dell’ordine nella repressione sociale e nella creazione di autentici casi giudiziari, come ad esempio in Val di Susa nei confronti del movimento NoTav.

La sorpresa con cui è stata accolta la richiesta da diverse amministrazioni locali statunitensi, la confusione in cui sono rimasti intrappolati i vertici militari e politici manifestano non soltanto un vacuo ‘pentimento’ per le violenze subite da secoli dalla comunità afro-americana, ma anche la crisi sociale, politica ed economica in cui si dibatte ormai da tempo la maggior potenza imperialista dell’Occidente. Una crisi di cui abbiamo parlato già più volte su Carmilla, destinata inevitabilmente a sfociare in un nuovo conflitto globale per il contollo dell’economia planetaria oppure in una nuova guerra civile di cui da tempo si parla negli ambienti politici e culturali statunitensi. Guerra civile che già da anni ispira, anche soltanto metaforicamente, molte trame della produzione letteraria, cinematografica e fumettistica statunitense.

Guerra civile a venire (o forse già in atto) che ha prodotto un immaginario che già la “comprende” e che, a sua volta, spinge, nemmeno più troppo inconsciamente, verso una sua concreta deflagrazione.
Guerra civile che, proprio in quanto tale, non può essere animata e agita da due soli attori, come la concezione tradizionale dello scontro di classe vorrebbe. Le guerre civili infatti decidono di come le società e le economie dovranno essere ristrutturate una volta concluse e una volta emerso il vincitore.

Così fu per la guerra civile americana, durante la quale il presidente repubblicano Abramo Lincoln guidò la costruzione di un’America industriale sulle ceneri di un’altra America agricola, schiavista e dipendente dalle esportazioni verso l’impero britannico. In cui la questione della schiavitù e dell’oppressione divenne dirimente soltanto a partire dal 1863, con il proclama con cui il presidente del Nord abolì la stessa nella speranza che la rivolta degli schiavi mettesse in crisi il Sud, fino ad allora vincente nello scontro militare. Vittoria finale del Nord cui la classe operaia dello stesso, anche sotto l’invito dei socialisti ispirati da Karl Marx e Friedrich Engels, aveva dato un significativo contributo in termini di arruolamento e partecipazione, non tanto per la liberazione degli schiavi afro-americani, quanto piuttosto a favore di uno sviluppo industriale nazionale che permettesse e favorisse lo sviluppo della stessa classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita e di partecipazione democratica alla vita politica nazionale.

Ecco, proprio quella guerra civile ci permette di cogliere l’essenza di tutte le guerre civili: più attori in lotta sullo stesso campo, divisi oppure uniti da interessi che talvolta coincidono e ancor più spesso divergono.
Capitalisti industriali del Nord, banchieri, grandi proprietari terrieri del Sud, piccoli proprietari terrieri degli Stati confederati, schiavisti, abolizionisti, afro-americani schiavi oppure liberi nelle principali città del Nord, operai industriali, socialisti, repubblicani, democratici (questi ultimi all’epoca rappresentanti della proprietà terriera del Sud) furono infatti gli attori principali di quel dramma.

La vittoria dei primi dell’elenco delineò il destino di grande potenza degli Stati Uniti, gli schieramenti politici successivi, gli allineamenti di classe rispetto agli interessi nazionali, odii e conflitti mai rimarginati ma, soprattutto, non risolse il problema della sottomissione degli afro-americani al potere bianco che, comunque, da quella guerra non fu minimamente scalfito o indebolito, ma piuttosto rafforzato da alleanze (ad esempio quello tra gli interessi economici del gran capitale e quelli dell’aristocrazia operaia del Nord) semplicemente impensabili prima di allora.

No sun comin’ through my windows
Feel like I’m livin’ at the bottom of a grave

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

Anche la Grande Crisi degli anni Trenta non contribuì ad un ravvicinamento tra gli interessi dei lavoratori, dei piccoli contadini bianchi impoveriti e quelli della comunità afro-americana. Troppo vicine risultavano, soprattutto al Sud, le ferite lasciate ancora aperte dalla guerra civile; troppo nazionalista risultava ancora la politica di una sinistra americana che incoraggiava gli operai bianchi a partecipare allo sforzo collettivo in vista dello scontro militare con le potenze del male, rappresentate all’epoca da Germania, Italia e Giappone (anche se ai vertici dell’establishment economico e politico statunitense non poche erano le simpatie per quei regimi politici) mentre lo stalinismo spingeva i ‘neri’ alla creazione di un proprio stato autonomo nel Sud degli Stati Uniti, basato unicamente sul presupposto della maggior presenza di discendenti degli schiavi, in stati come l’Alabama, la Georgia e il Mississippi, rispetto alla popolazione ‘bianca’.

In realtà la crisi della segregazione razziale ebbe inizio soltanto un secolo dopo, negli anni Sessanta del ‘900, a seguito di una crisi di coscienza politica sviluppatasi tra gli anni della Nuova Frontiera di kennedyana memoria e la critica del macello imperialista in Vietnam, che vide comunque protagonisti, oltre agli afro-americani, gli studenti, gli intellettuali e una parte dei reduci di quella guerra più che i lavoratori della classe operaia o della classe media bianca. Ancor aggrappati, questi ultimi, ad un sogno americano che per gli altri andava rapidamente disfacendosi nella repressione poliziesca dei movimenti giovanili, nei ghetti delle metropoli e nelle paludi del Sud-est asiatico. Soltanto là dove la componente afro-americana era predominante, come nel caso di Detroit, la classe operaia bianca si unì ai neri nella lotta, che ebbe comunque sempre al suo centro rivendicazioni inerenti l’autonomia di classe, il lavoro e le sue condizioni salariali ancor più che i diritti civili1.

La vera novità di queste ultime settimane, invece, è data dal fatto che le proteste hanno coinvolto soggetti diversi, sia dal punto di vista etnico-culturale che di classe, vedendo uniti nelle protesta la comunità afroamericana (che rappresenta circa il 12% della popolazione statunitense) insieme a quella ispanica, nativa americana, asiatica e almeno ad una parte di quella bianca. Un fatto sicuramente inedito per le proporzioni che ha raggiunto nella partecipazione alle proteste.

D’altra parte l’omicidio del quarantaseienne George Floyd, seguito a distanza di pochi giorni da quello del ventisettenne Rayshard Brooks da parte della polizia di Atlanta sono stati non soltanto gli ultimi casi di una catena di violenze e prevaricazioni di cui la comunità afroamericana e vittima da sempre, ma anche le classiche gocce che hanno fatto traboccare un vaso già colmo.

La crescita abnorme delle disuguaglianze sociali nel corso dell’ultimo decennio ha cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. La precarizzazione delle vite dei lavoratori e l’impoverimento della middle class sono state ulteriormente aggravate dall’epidemia di Covid-19 che ha colpito in maniera sproporzionata la popolazione nera e, in genere tutte le fasce più deboli della popolazione. Creando le condizioni per una tempesta perfetta.

Al 21 giugno gli Stati Uniti risultano essere infatti il paese maggiormente colpito dall’epidemia con con 2.255.119 casi e 119.719 decessi. In un contesto in cui il settore dell’assistenza sanitaria costituisce:

il più grosso fallimento del sistema economico americano. Un disastro che, oltre a provocare un numero infinito di drammi individuali, lacera pericolosamente il tessuto sociale mettendo con le spalle al muro un ex ceto medio già molto impoverito e accentua ulteriormente le disuguaglianze estreme dell’America del Ventunesimo secolo. E quando le disuguaglianze si misurano non con gli squilibri di reddito ma con la differenza tra vivere e morire, le cose, evidentemente, cambiano.[…] I racconti commoventi o che suscitano rabbia sono infiniti: Pazienti in lotta con il cancro che si sono visti negare la chemioterapia per via di una polizza sanitaria che copriva solo il primo ciclo; malati terminali costretti, tra mille sofferenze, a combatter con i call center della propria assicurazione per negoziare qualche rimborso; migliaia di famiglie andate in bancarotta perché non in grado di pagare il prezzo esorbitante dei trattamenti medici erogati dal pronto soccorso. Il motivo è che in America, oltre alle aziende, possono dichiarare fallimeto anche i singoli individui: l’impossibilità di far fronte alle spese mediche è la prima causa di bancarotta2

Immaginiamo come tutto questo si sia incrociato con la pandemia e aggiungiamo il video di nove minuti girato da una ragazza di 17 anni che in poche ore ha fatto il giro del mondo con un effetto dirompente e, circa 48 ore dopo, il fuoco che ha distrutto il terzo distretto di polizia a Minneapolis, che ha invece prodotto l’immaginario della protesta contro le ingiustizie e il razzismo.

“Col passare dei giorni e delle settimane, la narrazione della vera natura della rivolta continuerà a essere discussa” scrive un cronista che ha seguito da vicino la prima settimana a Minneapolis. “[…] Non puoi fare un censimento durante una rivolta, ma il mio resoconto personale è che i giovani in prima linea sono stati sproporzionatamente neri e marroni, per lo più non affiliati a un’organizzazione ufficiale.“
Ma la vera importante novità sono le seconde linee: li’ trovi anche ispanici, latinos, bianchi, asiatici, nativi americani, donne e persone anche anziane3.

A tutto ciò va poi ancora aggiunto che:

Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1000 dipendenti si è quasi dimezzato
(da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 20183.
La seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.
[…] Tra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti è passato da quasi 5500 miliardi a poco più di 17.000 miliardi e la produttività è cresciuta di circa il 60%, ma i salari orari reali di gran parte dei lavoratori sono rimasti invariati o si sono addirittura abbassati. In altre parole, «per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica». Il che testimonia, tra l’altro, che i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi decenni – «la politica», con poche eccezioni individuali – hanno avuto la non volontà di legiferare a protezione degli strati mediobassi, cioè della maggioranza della popolazione, e hanno mostrato subalternità agli interessi della piccola minoranza dei potentati economici e finanziari.

L’impressionante aumento di ricchezza dei ricchi[…](ha) cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione. I suicidi sono aumentati del 24% tra il 1999 e il 2014; nello stesso arco di tempo, il tasso di suicidi è cresciuto del 63% per le donne tra i 45 e i 64 anni e del 43% per gli uomini della stessa età. Il loro numero è passato da 29.199 del 1999, a 42.773 del 2014, a 47.173 nel 2017 (quando le morti per alcol e droghe sono state più di 100.000). Infine, il fatto che l’arricchimento dei ricchi sia continuato durante la cosiddetta Grande recessione iniziata nel 2008, ha generato nuove frustrazioni, suscitato risentimenti e minato i pilastri della stessa tradizionale fiducia degli statunitensi nella loro democrazia in quanto prassi sociale informale e condivisa, prima ancora che impalcatura istituzionale.4

A questo punto è facile comprendere come le proteste e i riot che sono seguiti al brutale omicidio di George Floyd in quasi tutti gli stati della federazione, vanno ben oltre la pur fondamentale lotta contro la discriminazione razziale e pongono, invece e in maniera lampante, una questione socio-politica che, forse per la prima volta nella storia americana, potrebbe unificare le differenti componenti etniche in unico, autentico melting pot di classe.

Naturalmente, si è cercato fin da subito di vedere nelle rivolte un complotto dei suprematisti bianchi (tornando all’inveterata tradizione degli opposti estremismi che serve sempre a dipingere come fascista o populista qualsiasi forma di lotta non immediatamente inquadrabile nelle maglie istituzionali)5, ma è indubbio che la pressione sociale negli USA è salita a livelli critici a causa della crisi economica da Covid-19, che ha prodotto nel giro di poche settimane un aumento vertiginoso di richieste di nuovi sussidi di disoccupazione, aumentate di circa 40 milioni.

Anche se la maggioranza dei nuovi disoccupati è probabilmente da ricercare nei settori lavorativi contraddistinti dal precariato e vedono coinvolti soprattutto lavoratori e lavoratrici appartenenti alle minoranze etniche e ai millennial bianchi (i quali ultimi hanno visto ridursi del 16% le loro possibilità occupazionali soltanto tra marzo e aprile6), è altrettanto indubbio che tale situazione ha aperto un ulteriore baratro di fronte agli occhi di quella classe media bianca, operaia e non, che già dal 2008 ha imparato cosa significhi perdere rapidamente non solo il posto di lavoro, ma anche la casa e qualsiasi altro tipo di garanzia sociale ed economica (risparmi e investimenti nei fondi pensionistici privati in primis).

Ecco allora che se nel Michigan lavoratori e miliziani bianchi armati avevano occupato il parlamento dello Stato armi alla mano, nei giorni successivi alcuni gruppi di boogaloo boys (militanti di formazioni armate di varia natura e non sempre apparteneti soltanto alla destra bianca) hanno manifestato solidarietà con la morte di George Floyd, in nome di una comune lotta (boogaloo è, né più né meno, che un sinonimo gergale per guerra civile) contro lo Stato federale, le sue leggi, i suoi apparati di sicurezza e la sua volontà di controllare la diffusione delle armi a discapito del secondo emendamento della Costituzione americana7.

Certo in tale manifestazione di “solidarietà” sono rintracciabili elementi di opportunismo e di provocazione, forse solo un autentico bluff, ma non dimentichiamo mai che, soprattutto tra le frange impoverite dei piccoli farmers tali posizioni estreme, di destra e armate, hanno preso piede da decenni8 proprio a partire dal venir meno di qualsiasi speranza in un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni economiche a seguito di un sempre maggior indebitamento nei confronti delle banche, oggi accompagnato spesso dai danni causati in molti territori, ancora utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento, dalla pratica del fracking, ovvero della fratturazione idraulica del sottosuolo per la ricerca e l’estrazione del petrolio e dello shale gas.

E’ una geografia politica, mentale e spaziale estremamente frantumata quella degli Stati Uniti attuali.
Un mosaico impressionista di emozioni, rivendicazioni, miseria e rabbia che spesso assume i contorni della dichiarazione di zone liberate. Dalla attuale Zona Autonoma di Capitol Hill a Seattle alla ciclica dichiarazione di indipendenza di zone rurali, caratterizzate dalla rivolta contro il prelievo fiscale e l’austerity di stampo governativo, che hanno contraddistinto la storia della federazione americana dalla Shay’s Rebellion del 3 febbraio 1787 fino ai giorni nostri9.

Stiamo attenti, molto attenti, la creazione di un fronte comune tra bianchi impoveriti, armati e arrabbiati e movimenti afro-americani, ispanici o altri ancora è altamente improbabile, ma come scriveva l’ultimo maestro dello haiku: Eppure, eppure10.
La situazione negli USA è altamente esplosiva e sicuramente i vertici politici, finanziari e militari del paese non possono escludere alcuna possibilità di sollevamento e rivolta sociale. Non a caso gli stessi vertici sembrano aver formalmente “abbandonato “ Trump per concedere ai movimenti ben più di quanto il presidente avrebbe voluto (ovvero nulla o quasi), mentre continua ad abbaiare il suo slogan di Law and Order e le sue minacce di dieci anni di galere per chi imbratta o abbatte le statue del passato colonialista e schiavista.

Lo stesso presidente, però, è ben conscio della situazione altamente instabile con cui ha a che fare e, dal chiuso del suo bunker assediato non solo metaforicamente, non smette di soffiare sull’unica risorsa che gli rimane, almeno apparentemente, per vincere le prossime elezioni: ovvero quello del razzismo e dell’odio viscerale che molti lavoratori, piccoli proprietari agricoli e membri impoveriti di una classe media un tempo fiorente, nutrono nei confronti delle banche, dello Stato federale e di una upper class di cui lo stesso Trump è, in fin dei conti, il più agguerrito rappresentante.

L’elastico delle contraddizioni sociali è ormai teso allo spasmo e qualsiasi errore tattico da parte della classe al potere e dei suoi apparati militari e repressivi potrebbe tracimare in uno scontro il cui finale sarebbe ancora tutto da scrivere. Non a caso Obama, sotto la cui presidenza gli omicidi di afro-americani non sono certo diminuiti, e tutto l’apparato del Partito Democratico spingono per cercare di racchiudere la protesta in un ambito puramente elettorale, in cui la questione dei diritti civili sia l’unica componente unificante.

Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, a proposito dei lavoratori irlandesi sfruttati dai padroni e maltrattati dagli operai inglesi, Marx aveva ammonito i secondi, affermando che chi non è in grado di difendere i diritti altrui non è neppure in grado di difendere poi i propri. E tale monito deve continuare a splendere come una stella polare per chiunque abbia a cuore la trasformazione e il superamento del modo di produzione vigente, ma allo stesso tempo occorre che chi vuole lottare efficacemente contro lo stesso tenga presenti tutte le contraddizioni e i bisogni che lo stesso suscita tra segmenti diversi di classe e/o di classi sociali differenti.

Per fare uno scomodo esempio, riferibile all’attuale situazione italiana, sia durante l’epidemia da Covid, con l’obbligo di lavorare per i dipendenti di migliaia di imprese che non si sono mai fermate, che dopo, è qui utile ricordare quanto affermato Sergio Bologna in una recente intervista:

Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.11

Ecco: il conflitto, industriale e/o sociale, può essere il terreno di coltura di una nuova e allargata strategia di classe che veda finalmente riuniti i differenti temi che agitano le rivolte di ogni tipo in nome di un superamento dell’esistente e non del suo mantenimento in vita in chiave green o pseudo-democratica e liberal. A costo di riprendere l’unico illuminista in grado di proiettarsi oltre l’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, occorre ancora ricordare che l’unica vera disuguaglianza tra gli uomini è quella economica, tra chi ha e chi non ha12. E che da questa, fondamentale a partire dall’invenzione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, derivano tutte le altre.

Superare la prima significherà travolgere le altre, anche se secoli di abitudini sedimentate e di incrostazioni ideologiche e religiose avranno bisogno di un certo tempo per essere cancellate del tutto. Cercare di farlo significa però, in maniera tutt’altro che utopistica, cercare di riunificare ciò che il capitale e lo Stato tendono continuamente a dividere per distogliere la rabbia dal conflitto reale e volgerla ad uno più utilmente sfruttabile ai fini del mantenimento dei rapporti di forza attuali tra le classi.

Come ha recentemente affermato Angela Davis:

“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.[…] Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco13.

Sia Trump che i democratici stanno soffiando su un fuoco che, però, non è soltanto elettorale, visto che chiunque dei due vinca alle prossime elezioni, avrà grosse difficoltà nel mantenere le promesse fatte e in ogni caso dovrà fare i conti con una rabbia sempre meno celata e sempre meno rimovibile dalle coscienze.

Abbiamo, come già affermato, qui su Carmilla nella serie di articoli sull’Epidemia delle emergenze14, una grande possibilità da cogliere oggi, in America e non solo, a patto di non ridurre il tutto ad una serie di sardineschi inchini e saper invece affrontare la catastrofe che già è in corso, di qua e di là dell’Atlantico.
Perché l’impossiblità di vivere oggi, per la maggior parte della specie umana, è anche la vera ragione della nostra insopprimibile forza.

I don’t, live today
Maybe tomorrow, I just can say
But a, I don’t live today
It’s such a shame to waste
your time away like this
Existing


  1. Sull’eperienza del DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement) si veda qui  

  2. M. Gaggi, Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti, RCS Media Group, Milano 2020, pp. 57-59  

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dollari-e-no-gli-stati-uniti-dopo-la-fine-del-secolo-americano-intervista-a-bruno-cartosio  

  4. B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del «secolo americano», DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 6 – 23  

  5. Come ha affermato il governatore del Minnesota in un articolo di R.J. Armstrong, Minneapolis senza pace: dietro la rivolta, la mano dei suprematisti, la Repubblica, 30 maggio 2020  

  6. F. Rampini, “Generazione sfortunata”. E i Millenial bianchi si saldano alla rivolta, la Repubblica, 9 giugno 2020  

  7. Si veda R. Menichini, Camicie hawaiane e mitra: la destra dei “Boogaloo Bois” in piazza per Floyd (e per la seconda guerra civile), la Repubblica, 16 giugno 2020 oppure anche https://www.bellingcat.com/news/2020/05/27/the-boogaloo-movement-is-not-what-you-think/  

  8. Si pensi soltanto al bellissimo film Betrayed (Tradita), diretto da Costa-Gavras, autore tutt’altro che di destra, nel 1988. Si consultino, inoltre: J. Dyer, Raccolti di rabbia. La minaccia neonazista nell’America rurale, Fazi Editore, Roma 2002 e J. Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Bruno Mondadori, Milano 2010. Infine, per un autentico ed importante case study sulla trasformazione dal punto di vista sociale e politico di un territorio un tempo caratterizzato da una grande tradizione di lotta di classe, si veda A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011  

  9. Di cui uno dei casi più drammatici è rappresentato dalla violenta repressione della comunità “indipendente” di Waco nel Texas avvenuta nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton. In tale occasione 76 persone, tra cui molte donne e bambini, bruciarono vive nel rogo che seguì all’assalto delle forze federali alla comunità, dopo un assedio durato 51 giorni. Si veda in proposito C. Stagnaro, Waco, una strage di stato americana, Stampa Alternativa, 2001  

  10. «è di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure» scriveva Kobayashi Issa (1763-1827), dopo aver perso il figlio  

  11. S. Bologna, «E’ giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza», il Manifesto, 25 maggio 2020  

  12. J.J. Rousseau, Origine della disuguaglianza (1754), Feltrinelli, Milano 1997  

  13. https://www.infoaut.org/approfondimenti/angela-davis-it-s-about-revolution  

  14. Oggi raccolti in Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020  

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“Ci sono ancora persone sobrie nella Riserva” https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/ci-sono-ancora-persone-sobrie-nella-riserva/ Tue, 15 May 2018 21:12:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45498 di Giacomo Marchetti

Il silenzio, dicono, è la voce della complicità Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione (Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali. Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009. E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica. La pellicola è una co-produzione, anche italiana, [...]]]> di Giacomo Marchetti


Il silenzio, dicono, è la voce della complicità
Ma il silenzio è impossibile.
Il silenzio urla.
Il silenzio è un messaggio,
così come fare nulla è un’azione

(Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali.
Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009.
E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica.
La pellicola è una co-produzione, anche italiana, che nasce da un progetto del Torino Film Lab, selezionata per la sezione Panorama della Berlinale di quest’anno, svoltasi alcuni mesi fa.
“La terra” nella finzione filmica è una riserva indiana chiamata “Prairie Wolf”, ma nella realtà del set è un territorio di confine tra USA e Messico: Tijuana, a qualche km da quel muro che divide “artificialmente” gli States dal Messico
Un confine che è stato al centro della propaganda politica elettorale presidenziale di Orange Man, attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cesura che non ha nulla di naturale, quella tra USA e Messico, ma è il prodotto storico di un esproprio compiuto dagli Stati Uniti a metà dell’Ottocento in una delle prime guerre di conquista che ne caratterizzeranno la storia, così come nulla di “naturale” ha l’attuale situazione dei nativi americani in cui l’inizio del loro Olocausto coincide con l’approdo di padri pellegrini sul Mayflower nelle coste orientali del continente Nord-Americano a Cape Cod l’11 novembre del 1620.

Buona parte del territorio del sud degli Stati Uniti è infatti il risultato di una “guerra di rapina”, recentemente rievocata da un bel romanzo di Pino Cacucci: Quelli del san Patrizio in cui si narra le vicende dei disertori, per la maggior parte di origine irlandese, che passarono dalla parte dei messicani, formando un battaglione d’artiglieria nominato appunto San Patrizio al comando di John Riley, uno dei primi fulgidi esempi di “traditori di razza” della storia popolare nord-americana.

La linea di confine, “il dentro” e il “fuori”, la costruzione dell’identità, sono al centro della riflessione filmica, così come anche il tema del “traditore” – in questo caso traditrice – di razza, un ruolo – quest’ultimo – riservato nella pellicola ad una teenager bianca scevra dei pregiudizi della propria famiglia sui nativi americani, curiosa di conoscere la Storia, anzi le storie, di un popolo che vive ridotto alla condizione di reietto.
I nativi sono ancora odiati dai parenti della giovane che non provano alcun rispetto per “gli indiani” ma di cui hanno ancora timore.
I nativi costituiscono ancora una delle maggiori fonti di ricchezza attraverso la vendita di alcolici, business che oltre a lucrare sull’esistenza dei “pellerossa” contribuisce alla loro “anestetizzazione” sociale, rendendoli dipendenti dall’alcol (e quindi da chi lo vende) e incapaci di difendersi dai propri carnefici.
L’alcol ha svolto, e svolge, per i nativi americani la stessa funzione della diffusione massiccia di droghe nei ghetti delle città metropolitane nei confronti degli afro-americani: “la guerra chimica” denunciata ai suoi tempi della Pantere Nere.

Per citare la strofa di un verso di una famosa poetessa chicano-americana Gloria Anzaldua: to survive the Borderlands / you must live sin fronteras / to be a crossroads…
Il regista sembra ispirarsi proprio a questa strofa e stimolato da un servizio, apparso sul Guardian, si reca – per produrre il film – due volte in Nord America, visita una trentina di riserve e compie la selezione degli attori attraverso un casting aperto tra i nativi americani, persone che hanno quindi vissuto sulla propria pelle quella condizione che vuole far emergere, rendendo il film una sorta di docu-fiction in stile iper-realista.

Siamo in uno dei tanti territori rimasti ai margini dello sviluppo economico americano, dopo esserne stato al centro, qui si tratta di quella frontiera mobile un tempo fondamentale per l’espansionismo statunitense, ma la condizione di esistenza potrebbe essere la stessa, mutando di paesaggio e di composizione “etnica”: la periferia di Detroit, un tempo Motorcity, un villaggio ex-minerario nei Monti Appalachi, un quartiere di New Orleans colpito dall’uragano Katrina, in una tante città della rust belt: umanità di scarto in qualsiasi di questi contesti…

È la storia di una famiglia di nativi americani che vive nella riserva, e che passa gran parte della sua esistenza fuori dal territorio nativo stesso: un fratello, Ray, ex alcolista e diabetico lavora con il figlio in un allevamento di bovini mentre un altro combatte nell’Air Force degli Stati Uniti in missione in Afghanistan, un altro, Wes, passa la sua giornata in uno store fuori dalla riserva a bere birra (l’alcol è vietato nella riserva) con la madre – cattolica praticante ma tutt’altro che remissiva e perno del nucleo familiare – che lo porta in macchina quando inizia la sua giornata e lo va a prendere al calar del sole, mentre un terzo, che sembra godere di una certa agiatezza, si dedica al contrabbando di alcol nella riserva e non vive nella casa familiare.
La narrazione filmica si svolge quasi esclusivamente dentro le mura domestiche della famiglia nella riserva, dentro e nelle vicinanze del negozio che vende prevalentemente alcolici, nell’allevamento di bovini e lungo le strade polverose che collegano questi punti.
La riserva è una specie di non-luogo, solcato raramente da chi non ci vive ed è raro che qualcuno l’attraversi per raggiungere “un’altra meta”: non è mai un approdo, se non per chi ci vive come fosse un quartiere dormitorio in cui l’autorità poliziesca è svolta dalla tribe police, il cui unico compito sembra essere quello di verificare la presenza di alcolici sulle persone che ritornano alla Riserva.

Fuori dall’esercizio commerciale la telecamera si adagia sui nativi che passano il proprio tempo a bere, ridotti ad uno stato larvale, mentre sulle pareti un murale raffigurante il prigioniero nativo americano Leonard Peltier, e alcune scritte murali come “native proud” non potrebbero dare un senso di maggior contrasto tra una storia fatta di resistenza e volontà di riscatto ed un presente di marginalità e rassegnazione, a cui nel corso del film i protagonisti reagiscono trasformando una narrazione distopica nel suo contrario.

Gli eredi dei cowboys, non sembrano essere meno aggressivi dei loro predecessori e la tensione è palpabile in ogni scambio verbale tra i membri della famiglia che gestisce lo store, tranne la già ricordata teenager (l’unica che si interessa del co-protagonista alcolizzato), e la famiglia di nativi americani: la linea di separazione tra le due comunità deve essere netta e invalicabile, l’ostilità reciproca il metro del loro relazionarsi, non ha caso alla ragazza viene impedito di frequentare Wes.
La linea del colore, per citare W.E.Du Bois è ancora una discriminante e demolisce le retoriche obamiane della società statunitense come post-razziale.
In questo tempo, fuori e dentro, la riserva il tempo sembra essersi fermato.
Sanno che con i fumi dell’alcol Wes, perde i suoi filtri, e riporta a galla la storia, anche recente, di sopraffazione che la giovane non deve ascoltare: ma è proprio dalla comprensione di ciò che è attraverso ciò che è stato che la ragazza diviene complice indiretta della reazione dei nativi americani, provando probabilmente quello stesso senso di identificazione che le prime abolizioniste provavano nella condizione degli afro-americani di fronte al potere degli WASP, come ci ricorda Angela Davis in un libro recentemente ri-tradotto e ri-pubblicato: Donne, razza e classe.

L’unica attività di svago sembra essere il combattimento tra galli, che la crudeltà umana piega alla sua etica di scontro mortale cingendo con una lama metallica affilata ricurva una zampa del volatile.
Il combattimento tra questi animali, che è una sequenza centrale di Land, è una metafora di questa lotta mortale tra discendenti dei coloni e quelli dei nativi su una terra arida, sullo sfondo di uno sviluppo che concede solo le briciole in quella terra di nessuno alla componente bianca e che continua quel rapporto di dominio iniziato con la “Conquista del West”.

Il motore filmico è la notizia dell’uccisione del fratello in missione in Afghanistan, e le vicende si svolgono lungo il tempo d’attesa della possibilità di riavere il corpo del defunto per celebrare il rito funebre.
La “locandina” del film riprende un frame della pellicola nella scena al confine tra il territorio degli Stati Uniti e quello della riserva, con la bara coperta dalla bandiera statunitense e cattura lo sguardo d’odio del padre verso la cassa da morto in cui un vi è il corpo senza vita del figlio.

I parenti di Floyd e gli abitanti della riserva attendono la salma, sostituendo la bandiera a stelle a strisce e il picchetto d’onore dell’aeronautica: uno dei dialoghi più intensi del film è quello della nonna e del padre con l’ufficiale dell’Air force che ha il compito di occuparsi del figlio morto.
Floyd è morto “per il proprio Paese” secondo l’ufficiale, mentre per la sua famiglia quello era solo il suo lavoro, saranno loro a seppellirlo e non i militari nonostante la prassi esiga il contrario.
I nativi americani sono tra coloro che sono destinati essere la “carne da cannone” per le imprese belliche dell’Impero americano, ed il mestiere delle armi è una delle poche possibilità, insieme al crimine, di emancipazione economica per le “minoranze razziali” statunitensi.

La cerimonia funebre è dilatata nel tempo a causa dell’inchiesta che deve rilevare i motivi del decesso, e se il militare si è attenuto al regolamento, il che permetterebbe di godere alla famiglia di una cifra pari a 100.000 di dollari di risarcimento come militare ucciso in combattimento, rispetto ad una decima parte che gli spetterebbe comunque come soldato in missione.
La voce dell’ufficiale sfuma in questa scena che si svolge nell’ufficio della base militare dell’aeronautica, mentre elenca i vari benefits di cui ha diritto comunque la famiglia a causa del decesso (tra cui l’accesso a cure mediche gratuite…).

Nel tempo dell’attesa l’aggressione fisica gratuita da parte dei figli dei gestori dello store nei confronti del fratello etilista è l’altro motore filmico che fa schizzare la tensione tra gli eredi dei cowboys e quello dei guerrieri “indiani”. L’attesa della vendetta e della possibile reazione a questa in un contesto in cui non c’è alcuna autorità legittima che tuteli l’incolumità dei cittadini e ne punisca i trasgressori proiettano la vicenda in un continuum storico in cui la violenza era e rimane il rapporto sociale tra questi raggruppamenti umani che si tratti dello stupro travestito da prostituzione, o del linciaggio vero e proprio come strumento per imporre con il terrore il proprio dominio se minacciato.

Ed è significativo che la violenza che si consuma su Wes da parte dei due giovani avviene a causa della sua insistenza nel volergli ricordare un linciaggio di due “cacciatori indiani” avvenuto in passato recente di cui loro padre dovrebbe serbare ricordo, cioè esserne probabilmente il responsabile e non è difficile supporre si tratti proprio dell’uccisione del padre di Wes, di cui non si parla mai esplicitamente nel film.

L’equilibrio dato dall’impunità della sopraffazione si rompe e se ne stabilisce un altro in cui la possibilità di rispondere agli attacchi perpetrati nei confronti dei nativi americani non solo vendica un torto subito, ma stabilisce un precedente: ci sono ancora persone sobrie nella riserva risponde la madre zittendo la gestrice dell’attività commerciale che gli paventa rappresaglie per la giusta punizione inflitta ai suoi figli per ciò che hanno fatto a Wes.
Ed anche il figlio etilista, può farcela, se aiutato a disintossicarsi…

E in questa riaffermazione di sé e della propria storia di resistenza, che le parole dell’ex leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, citate all’inizio della recensione ritrovano la loro forza vitale.
Peltier ha scontato ingiustamente 40 anni di carcere e ora settantenne è chiuso dietro le sbarre di una prigione, per avere difeso armi in pugno la propria comunità dagli assalti alla riserva di Pine Ridge, sfuggita alla dinamiche “interne” di perpetuazione della dominazione dello Zio Tom.
La poesia citata si conclude con queste strofe: Voi siete le vostre azioni / voi siete il risultato delle vostre azioni / diventate il vostro messaggio / Voi siete il messaggio.

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“Un fiore è sbocciato” https://www.carmillaonline.com/2017/07/05/un-fiore-sbocciato/ Tue, 04 Jul 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39059 di Fiorenzo Angoscini

Davide Steccanella, Le indomabili. Storie di donne rivoluzionarie, Edizioni Pagina Uno, Vedano al Lambro (Mb) pag. 224, febbraio 2017, € 15,00

L’ultimo lavoro di Davide Steccanella, insieme a quello realizzato da Milton Danilo Fernàndez (“Donne, pazze, sognatrici, rivoluzionarie…”, Rayuela Edizioni, Milano, 2015), può essere considerato l’ unico libro scritto da un uomo, con al centro solo e tutte donne ribelli, che valga la pena di essere preso in considerazione. Donne si è detto: anticonformiste, ribelli, spregiudicate, indipendenti. E belle, al di fuori e al di sopra dei canoni fisici ed estetici ormai predominanti.

Steccanella, affianca alla [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Davide Steccanella, Le indomabili. Storie di donne rivoluzionarie, Edizioni Pagina Uno, Vedano al Lambro (Mb) pag. 224, febbraio 2017, € 15,00

L’ultimo lavoro di Davide Steccanella, insieme a quello realizzato da Milton Danilo Fernàndez (“Donne, pazze, sognatrici, rivoluzionarie…”, Rayuela Edizioni, Milano, 2015), può essere considerato l’ unico libro scritto da un uomo, con al centro solo e tutte donne ribelli, che valga la pena di essere preso in considerazione. Donne si è detto: anticonformiste, ribelli, spregiudicate, indipendenti. E belle, al di fuori e al di sopra dei canoni fisici ed estetici ormai predominanti.

Steccanella, affianca alla sua attività professionale, l’amore e la passione per alcuni argomenti e temi specifici che, spesso, finalizza in scritti e pubblicazioni. Così il suo amore per la musica lirica si è concretizzato con un libro sull'”ultimo soprano assoluto”, Montserrat Caballè, e con una serie di appunti per l’ascolto dell’opera lirica. Steccanella è anche un cultore di musica rock e appassionato tifoso (Interista-Leninista) dell’Internazionale, quella nerazzurra di Milano. Al calcio ha dedicato “Non passa lo straniero (Ovvero quando il calcio era autarchico)”.

Negli ultimi anni ha particolarmente analizzato e studiato le esperienze rivoluzionarie e di lotta armata. Frutto di questi approfondimenti alcune pubblicazioni, dalla prima bozza1 di quello che diventerà Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata2 fino a “Rivoluzionaria. 2017 Agenda 12 mesi”3 nella quale, per ogni giorno dell’anno, ricorda un avvenimento o un fatto particolarmente significativo: il trionfo della Rivoluzione Cubana, l’assassinio di Ernesto Che Guevara, il sequestro di Mario Sossi, l’evasione dal carcere di Pozzuoli (Na) di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, la vittoria dei No al referendum per l’abrogazione del divorzio.

Sull’esperienza militante e rivoluzionaria delle donne altri contributi, esclusivamente al femminile, hanno un particolare significato e valore.
Dal primissimo omaggio di Ida Farè a Margherita Cagol4 sino all’ultimo (per ordine cronologico di pubblicazione) di Paola Staccioli5 di cui sono state realizzate diverse ristampe. Senza dimenticare l’altro contributo di Paola Staccioli, scritto a quattro mani con Haidi Gaggio Giuliani con prefazione di Silvia Baraldini.6 Mentre su un piano, e in un’ottica, completamente diversi, si colloca “Donne oltre le armi”.7

L’autore, dopo aver dedicato la sua attuale fatica a Maria Elena, Paola e Valentina inizia la propria cavalcata storico-politica partendo da metà ‘800. Tra le prime ‘femmine ribelli’ ricorda Louise Michel (1830-1905) combattente durante le giornate della Comune. Per il suo carattere indomito e guerriero, dalla stampa benpensante venne definita ‘La belva assetata di sangue’ e Paul Verlaine le dedicò una poesia, “Lei ama il povero”.

Nel suo ‘excursus’, passa poi a Rosa Rossa Luxemburg, ed arriva alla prima (novembre 1910) ‘rivoluzione’ del XX° secolo , quella messicana, con la sua protagonista femminile principale: Petra Herrera detta Pedro che “…andava all’assalto con tale ardore da trascinare con il suo esempio uomini e donne insieme”. Per addentrarsi poi nella Rivoluzione più significativa, simbolica e importante che ha caratterizzato il secolo scorso, quella Bolscevica d’ottobre (1917).

Parlando di essa, traccia il profilo di alcune protagoniste della stessa: Aleksandra Michajlovna Kollontaj, ‘Commissaria del Popolo per l’Assistenza sociale’, di cui Steccanella evidenzia come “…sia stata la prima donna al mondo a essere ministro di un governo”, promotrice, con molte altre donne Sovietiche, delle leggi su aborto e divorzio (1920). Nella patria dei Soviet le donne godevano già del diritto di voto e all’istruzione, di essere elette, e di percepire un salario uguale agli uomini. La Kollontaj, durante il suo incarico, dispose la distribuzione ai contadini delle terre appartenenti ai monasteri, l’istituzione degli asili nido statali e l’assistenza di maternità.

Un’altra ‘Bolscevica’ (“Bolscevica entusiasta e intelligente” la definirà Lenin) è Inessa Armand, nata Elise Stèphanne, che stabilì rapporti e instaurò relazioni politiche con i rivoluzionari russi fino al compimento e costituzione del governo degli operai e contadini. Quando (16 luglio 1914) “L’Ufficio dell’Internazionale Socialista convoca, a Bruxelles, una conferenza per ridiscutere della riunificazione di tutte le correnti dei socialdemocratici russi” Lenin, fiutata la trappola con cui si tentava di far approvare, dall’Internazionale, una mozione favorevole all’unificazione, consapevole delle capacità e doti della ‘compagna’, chiese ad Inessa di rappresentarlo, scatenando le ire di Kautsky, Luxemburg, Trockij, Plechanov e Marlov. All’ambigua risoluzione oppose una proposta che invitava tutti i socialdemocratici a unirsi al programma bolscevico. Nonostante la sua contro-risoluzione venisse respinta, Lenin fu più che soddisfatto: “Hai condotto l’affare molto meglio di quanto io avrei potuto fare. Io sarei esploso. Non avrei potuto sopportare quella commedia e li avrei trattati da canaglie”.
Brava pianista, eseguì La Patetica, la sonata preferita di Vladimir Ilic Ulianov (Lenin) e ai funerali di Paul Lafargue e Laura Marx (Parigi, 3 dicembre 1911) l’orazione funebre letta da Lenin fu tradotta in francese da Inessa che, oltre alla madre lingua francese, era un’ottima conoscitrice di altre lingue straniere.

Dopo Messico e ‘Ottobre’, Arriva Spagna!.
Il 17 luglio 1936 i golpisti, con a capo Franco, proclamano il ‘sollevamento’, l’attacco armato fascista alla Repubblica spagnola. Tra le principali figure della lotta al franchismo, spicca quella della Pasionaria, la basca Dolores Ibàrruri, amica personale di Stalin e, come si autodefinisce, una donna “di pura razza mineraria”. Nel suo libro autobiografico che riprende, nel titolo, il discorso pronunciato in difesa della Repubblica a nome del Partito Comunista Spagnolo il 19 Luglio 1936, “No pasaràn!-Memorie di una rivoluzionaria” 8 ribadisce come sia riuscita a modificare la “rabbia disperata e il sentimento di ribellione in consapevolezza politica e ideale, per quella trasformazione di una semplice donna del popolo in una combattente rivoluzionaria, in una Comunista”.

Dopo la Spagna, la montagna…
Davvero tante, e con ruoli di primo piano, le combattenti per la libertà italiane. Steccanella ricorda la numerosa rappresentanza: “70.000 organizzate nei Gruppi di difesa della donna; 35.000 partigiane combattenti; 20.000 con funzioni di supporto; 4.563 arrestate, torturate e condannate dai Tribunali fascisti; 2.900 cadute o uccise in combattimento; 2.750 deportate in Germania nei lager nazisti; 1.700 ferite; 623 fucilate; 512 Commissarie di guerra; 19 medaglie d’oro e 17 d’argento”.
Alcuni nomi, famosi e meno noti, per tutte: Irma Bandiera, Carla Capponi, Iris Versari, Joyce Lussu, Vandina Saltini, e molte altre ‘Stelle Rosse’.

Altre significative presenze, sono quelle delle donne protagoniste nella lotta per i diritti degli afroamericani, per l’emancipazione degli ‘ultimi’ e per il riscatto sociale, del nord America: Rosa Louise Parks, la Pantera Nera Kathleen Claver poi, quando rompe con il BPP, militante del ‘Revolutionary People’s Communication Network’; e il simbolo più conosciuto della ribellione dei neri d’America: Angela Davis. Nel volume viene ricordata la definizione che la Davis fornisce per ‘radicale’: “Radicale significa semplicemente comprendere le cose dalle loro radici”.
Forse, in questa sezione, sarebbe dovuta essere ricordata anche Ethel Rosenberg, capro espiatorio del maccartismo imperante.

Direttamente e indirettamente, l’America Latina forgia molte donne-guerrigliere. Ricordiamo Tania Haydèe Tamara Bunke Bider,9 uccisa ventinovenne a Puerto Mauricio dove era al seguito della spedizione boliviana del Che. Un’altra teutonico-latina è Monika Ertl Imilla,10 che il 1 aprile 1967, ad Amburgo, armata da Feltrinelli, vendica il Comandante Che, giustiziando il suo boia: Roberto Quintanilla.
Rimanendo nell’ ambito dell’isola caraibica, Steccanella ricorda come a Cuba, con molte altre donne che sono state formate ideologicamente e militarmente nell’ isola felice, abbia trovato asilo politico e continui a viverci la rivoluzionaria afro-giamaicana, militante del Black Liberation Army, Assata Shakur, nome da schiava JoAnne Chesimard, alla cui liberazione (non evasione, come tiene a specificare) ha partecipato, nella sua parte finale, anche Silvia Baraldini.11

L’autore dedica attenzione anche alle donne che hanno partecipato alle lotte d’indipendenza europea del secolo appena passato: Irlanda del Nord e Euskadi.
Nel conflitto Nord Irlandese hanno combattuto Bernadette Devlin, Mairead Farrell uccisa a Gibilterra, il 6 marzo 1988, da uno ‘squadrone della morte’ dell’esercito inglese.
Uno dei maggiori ‘simboli’, per autorevolezza e significato, della lotta del popolo basco, è senz’altro Eva Forest, artefice del ‘Piano Ogro’ (eliminazione di Luis Carrero Blanco, ‘capo’ del governo di Franco). Fatto saltare in aria con la sua auto a Madrid il 20 dicembre 1973. Nel suo “Operazione Ogro. Come e perchè abbiamo ucciso Carrero Blanco” 12 inizia il racconto così: “Carrero Blanco aveva un sogno: volare. Un giorno Eta ha reso il suo sogno una grande realtà”.

Nell’ampia rassegna di circa quaranta profili di rivoluzionarie (anche se ci sarebbe piaciuto fossero state ricordate Olga Benario, comunista ed ebrea, emissaria dell’Internazionale Comunista in Brasile, assassinata nel lager di Bernburg-Euthanasia Centre il 23 aprile 1942;13 la comandante Celia Sànchez della rivoluzione cubana: “quella che prendeva le principali decisioni”; 14 Genoeffa Cocconi, madre dei fratelli Cervi e Carla Verbano.15 ) Steccanella coltiva due ‘fiori rossi’ particolari: Margherita Mara Cagol (fondatrice delle Brigate Rosse, ‘giustiziata’, secondo la testimonianza di un militante presente al precedente conflitto a fuoco, con un colpo di pistola sparato alla nuca, quando era inginocchiata ed arresa, il 5 giugno 1975 presso la Cascina Spiotta frazione Arzello di Melazzo (Al). I suoi Compagni nel comunicato di saluto affermano: “Mara, un fiore è sbocciato, e questo fiore di libertà le Brigate Rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria! Lotta armata per il comunismo!”) e Ulrike Meinhof, giornalista e militante della Rote Armee Fraktion, morta ‘misteriosamente’ nel carcere di Stammheim la notte tra l’8 e il 9 maggio 1976. Un manifesto del Soccorso Rosso la ricorda così: “Un fiore è sbocciato. Lo coltiveranno i rivoluzionari di tutto il mondo. Lo coltiveranno fino alla vittoria”.16

Per solidarietà militante, rispetto ed apprezzamento, le ultime due donne ricordate nel libro sono “Nonna Mao”-Cesarina Carletti, ex partigiana, libraia dell’usato al mercato di Porta Palazzo a Torino, arrestata il 15 luglio 1975 in quanto sospetta brigatista: “C’è proprio da ridere, con quest’ultima sono ventuno volte che sono stata in galera. E non mi sarei mai immaginata di ritrovarmi con le stesse imputazioni di trentatrè anni fa, quando ero partigiana: appartenenza a banda armata”.

Caterina Rina Picasso, classe 1908, ‘la nonnina delle BR’, viene ricordata così da Prospero Gallinari: “Caterina Picasso è un pezzo del nostro passato. Un volto della città profonda, dell’intensità antifascista e comunista della storia genovese”. All’età di 72 anni è “condannata in primo grado a tre anni e quattro mesi , aumentati in appello a quattro anni . Fuori dalla sua cella espone una rudimentale bandiera rossa cucita con vari pezzi di stoffa”.

Infine, ma non assolutamente ultima, va ricordata una, a modo suo, ‘combattente’ che mai nessuna antologia, libro di biografie o rassegna di donne menziona: Anna Magnani. Quando, ormai segnata dalle ‘offese del tempo’, incurante dell’estetica ribadiva: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele
Un’assunzione di consapevolezza molto diversa dagli attuali stereotipi estetici ed artistici, non solo, femminili.


  1. Davide Steccanella, Le Brigate Rosse e la lotta armata in Italia. Cronologia degli eventi che hanno contrassegnato 15 anni del nostro paese, Simplicissimus, Loreto (An)-Catania, 2012  

  2. Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Bietti, Milano, 2013  

  3. Davide Steccanella, Rivoluzionaria. 2017 Agenda 12 mesi, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2016  

  4. Ida Farè-Franca Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie interviste riflessioni, Feltrinelli, Milano, 1979  

  5. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  6. Haidi Gaggio Giuliani-Paola Staccioli, Non per odio ma per amore. Storie di donne internazionaliste, DeriveApprodi, Roma, 2012  

  7. Rosella Simone, Donne oltre le armi. Tredici storie di sovversione e genere, Milieu Edizioni, Milano 2017  

  8. Dolores Ibàrruri, Memorie di una rivoluzionaria, Editori Riuniti, Roma, 1963  

  9. Marta Rojas-Mirta Rodriguez Caldiron, a cura di, Tania la guerrigliera, Feltrinelli, Milano, 1971  

  10. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  11. Assata Shakur, Assata, un’autobiografia, introduzione e cura di Giovanni Senzani, CONTROInformazione internazionale, Erre emme Edizioni, Roma, dicembre 1992  

  12. Marco Laurenzano, a cura di, Eva Forest, Operazione Ogro. Come e perchè abbiamo ucciso Carrero Blanco, Red Star Press, Roma, dicembre 2013  

  13. Ruth Wener, Olga Benario. Una vita per la rivoluzione. La storia di una vita coraggiosa, Zambon Editore, Francoforte, 2012  

  14. Dieci donne rivoluzionarie…che non appaiono nei libri di storia, Kathleen Harris, 2014 https://www.bibliotecapleyades.net/sociopolitica/sociopol_globalupraising81.htm  

  15. Carla Verbano con Alessandra Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli, Milano, 2010  

  16. La morte di Ulrike Meinhof, Rapporto della Commissione Internazionale d’inchiesta, traduzione di Petra Krause ed Elisa D’Ambrosio, Tullio Pironti Editore, Napoli, settembre 1979 – Ulrike Meinhof, Bambule. Rieducazione, ma per chi?, Edizioni della battaglia, Palermo, gennaio 1998  

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

Altre Visioni su Twitter, pensa che gggiovane: @DzigaCacace
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