androide – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 25 Apr 2025 13:14:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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WestWorld: la valle della disrupzione / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/08/westworld-la-valle-della-disrupzione-3/ Sat, 08 Apr 2023 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76566 di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark [...]]]> di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.

Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.

Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.

In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.

Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):

Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.

Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.

Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.

Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.

Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.

Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.

Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.

(3Fine)


  1. Si veda: Sontag S., (2003), Regarding the Pain of Others, Penguin, London.  

  2. M. Horkeimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Paperbacks Einaudi, Torino 1980  

  3. Baudrillard J., (1976), L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, p. 24.  

  4. È importante ricordare che i due tipi di produzione impongono l’uso, consumo e distruzione dei corpi. È interessante a questo punto anche ricordare l’analisi sull’uso dei corpi nella produzione industriale proposta da Marcuse. Infatti, come già notava negli anni Sessanta del secolo scorso, il contesto tecnologico lasciava intravedere la possibilità tecnologica di risparmiare l’uso del corpo nella produzione, il ché significava la completa trasformazione della forza lavoro. Davanti a una possibilità tecnologica capace di sostituire la forza lavoro incarnata dal proletariato, Marcuse metteva in luce il paradosso del capitale che continuava ad usare i corpi umani nella produzione. Questo paradosso comincia a diventare ricorrente nella fantascienza contemporanea. Pensiamo, per esempio, alla serie britannica Black Mirror, e soprattutto al secondo episodio della prima stagione Fifteen Million Merits. Su un’analisi di questo fenomeno, veda Duarte G.A., (2021) “Black Mirror. Mapping the Possible in a Post-Media Condition”, in Duarte G.A., Battin J.M., (eds.) Reading “Black Mirror”. Insights into Technology and the Post-Media Condition, Transcript, Bielefeld, pp. 25-50.  

  5. Williams R., (2005), Culture and Materialism, Verso, London, p. 37.  

  6. Agamben G., (2006), Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.  

  7. Anders G., (2003), Die atomare Drohung: Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, C.H. Beck, München.  

  8. Stiegler B., (2018), Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou?, Actes Sud, Arles, p. 71.  

  9. Per un’analisi approfondito su questi episodi di violenza e la loro relazione al contesto mediatico, veda Berardi (Bifo) F., (2015), Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini + Castoldi, Milano.  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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È il regolamento https://www.carmillaonline.com/2008/11/21/il-regolamento/ Fri, 21 Nov 2008 02:31:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2846 di Alessandra Daniele

Isola.jpgLa contessa Belinda Von Blurg aveva appena perso al televoto contro l’altro nominato, il tronista Teodosio. Secondo il regolamento del reality dell’anno, L’Isola dei Famelici, sarebbe perciò dovuta servire come pasto agli altri tre sopravvissuti. – Scendi da quella fottuta mangrovia, vecchia stronza! — Urlò Bignol, la pornostar, agitando la picca che s’era fabbricata col femore del precedente eliminato — tu sei la nostra razione di cibo per questa settimana, e abbiamo fame! – Quel cazzaro della settimana scorsa, l’opinionista Gelsometti, era così pelle e ossa che l’abbiamo finito giovedì — si lamentò Teodosio. – Io sono [...]]]> di Alessandra Daniele

Isola.jpgLa contessa Belinda Von Blurg aveva appena perso al televoto contro l’altro nominato, il tronista Teodosio. Secondo il regolamento del reality dell’anno, L’Isola dei Famelici, sarebbe perciò dovuta servire come pasto agli altri tre sopravvissuti.
– Scendi da quella fottuta mangrovia, vecchia stronza! — Urlò Bignol, la pornostar, agitando la picca che s’era fabbricata col femore del precedente eliminato — tu sei la nostra razione di cibo per questa settimana, e abbiamo fame!
– Quel cazzaro della settimana scorsa, l’opinionista Gelsometti, era così pelle e ossa che l’abbiamo finito giovedì — si lamentò Teodosio.
– Io sono ancora più secca — piagnucolò Belinda, aggrappata ai rami — la mia ottava di reggiseno è fasulla, lo sanno tutti, e il silicone non è commestibile — si sfilò la dentiera — e pfoi ho offanffanni!
– Cosa?
– Ottant’anni — ripeté la contessa, rimessa la protesi — ne dimostro cinquanta, ma in realtà ne ho ottanta.
– Gallina vecchia fa buon brodo — sentenziò Gippo, pranoterapeuta, arrotino, barzellettiere, e riconosciuto leader del gruppo.
Un fitto sciame di nano-telecamere svolazzanti seguiva ogni movimento degli pseudo-naufraghi per trasmetterlo via satellite.
– Scendi o ti veniamo a prendere! — Strillò Bignol.
– Hai firmato un contratto! — Disse Teodosio.
Gippo lanciò la sua rudimentale accetta d’osso mascellare, ricavata dalla scucchia di Gelsometti. Colpì un braccio di Belinda, troncandolo di netto.
L’arto schizzò via con uno strano sfrigolio.
La contessa perse l’equilibrio, e precipitò ai piedi dei colleghi, che la fissarono basiti. Dal suo moncherino spuntava un ciuffo di fili elettrici, fibre ottiche, e tubicini.
– Sei un androide? — Chiese Gippo.
– Assolutamente no! — Proclamò Belinda, cercando di coprirsi il troncone col fogliame.
– Forse era solo un’altra delle sue protesi – disse il tronista — io ho tre cazzi di ricambio.
– Tutti mosci — Bignol conficcò di colpo la sua picca nel petto di Belinda, producendo un altro sfrigolio, e una scarica di scintille.
– Oh no! — Disse la Von Blurg, ostentando enorme stupore — sono davvero tutta finta!
– E adesso noi cosa ci mangiamo? — Guaì Teodosio.
– Cosa vuoi farci credere — ringhiò il leader, tirando un calcio alla contessa — che non sapevi d’essere un androide?
– Ho dei falsi ricordi…
– Stronzate! — Gridò Bignol — lo sapevi benissimo, hai mentito per aggirare il regolamento e partecipare all’Isola invece che alla Fattoria dei Rianimati, che è il tuo posto!
– No — la corresse Teodosio — quella è per gli zombie. E tu, schifoso ferrovecchio — chiese poi a Belinda – ti sei illusa che non t’avremmo scoperto?
– Ero sicura di vincere, Pullicini me l’aveva promesso…
– Il direttore di rete? – Sogghignò Gippo – l’hanno fatto fuori.
– Sono riusciti a farlo dimettere?
– No, non ci sono riusciti, per questo l’hanno fatto fuori – precisò Gippo, passandosi il pollice di taglio sotto la gola. Poi recuperò la sua accetta.
Belinda bestemmiò fra i denti smontabili.
– Ma se sei fatta di metallo e plastica, perché poco fa avevi tanta paura di essere sbudellata e mangiata? – Chiese Teodosio.
– Mangiata no, ma sbudellata sì, questo corpo androide nel quale ho scaricato la mia personalità è un regalo del mio diciottesimo marito, il generale Ersatz — la contessa si rialzò strappandosi la picca dal costato meccanico — lo rubò per me dall’arsenale dei droni sperimentali, e lo fece modellare esteriormente a mia immagine. Però non riuscì a rimuovere il nucleo centrale col dispositivo di autodistruzione — indicò lo squarcio nel suo petto — Autodistruzione nucleare.
A Gippo cadde l’accetta di mano.
Vide il piccolo display del countdown che spuntava dalle costole di Belinda.
– Disattivalo!
– Manometterlo è impossibile, il dispositivo è miniaturizzato, solo uno sciame di nanobot ci si potrebbe infiltrare, e bloccarlo.
– Le nanocamere! – Urlò Bignol.
– Ma dove sono finite?
Tutti si guardarono attorno freneticamente.
– Sharonaaaa! – Gridò Gippo, rivolto all’iperconduttrice del reality collegata via satellite – abbiamo bisogno delle nanominchie, o saltiamo per aria! Noi,  e pure il villaggio dei pezzenti nativi!
Passarono alcuni lunghissimi secondi di silenzio, segnato solo dallo sciabordio della risacca. Poi la voce dell’iperconduttrice risuonò nei ricevitori auricolari impiantati nel cranio degli pseudo-naufraghi.
«Mi dispiace, ma le nanocamere sono state appena disattivate».
– Perché? – Strillò Bignol.
«Avete bestemmiato».
Il timer della bomba arrivò a zero.
«È il regolamento».

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