Andrea Segre – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Welcome Venice” e il cambiamento dello spazio urbano https://www.carmillaonline.com/2021/10/25/welcome-venice-e-il-cambiamento-dello-spazio-urbano/ Mon, 25 Oct 2021 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68884 di Paolo Lago

Il protagonista del recente film di Andrea Segre, Welcome Venice (2021), è sicuramente lo spazio. Uno spazio urbano soggetto a un profondo cambiamento, come quello di Venezia. La storia è incentrata sui difficili rapporti fra tre fratelli, Piero, Alvise e Toni, pescatori di moeche (piccoli granchi che vengono pescati nel loro periodo di muta) dell’isola di Giudecca. Per una serie di circostanze, Piero e Alvise dovranno decidere se affidare la loro casa natale della Giudecca all’industria immobiliare che sta cambiando il volto di Venezia: Piero vorrebbe restare ma Alvise ha [...]]]> di Paolo Lago

Il protagonista del recente film di Andrea Segre, Welcome Venice (2021), è sicuramente lo spazio. Uno spazio urbano soggetto a un profondo cambiamento, come quello di Venezia. La storia è incentrata sui difficili rapporti fra tre fratelli, Piero, Alvise e Toni, pescatori di moeche (piccoli granchi che vengono pescati nel loro periodo di muta) dell’isola di Giudecca. Per una serie di circostanze, Piero e Alvise dovranno decidere se affidare la loro casa natale della Giudecca all’industria immobiliare che sta cambiando il volto di Venezia: Piero vorrebbe restare ma Alvise ha già preso la decisione di trasformare l’abitazione in un bed and breakfast per turisti.

Lo spazio veneziano tratteggiato nel film, come nel precedente documentario realizzato dal regista, Molecole (2020), è segnato nel profondo dall’emergenza pandemica e dalle conseguenti chiusure e viene mostrato mentre i suoi abitanti cercano di uscire da una situazione di estrema crisi. Merito del film è sicuramente quello di offrire una visione ‘alternativa’ di Venezia, una città da sempre oggetto di una sovraesposizione spettacolare nel cinema e nelle pubblicità. Non ci viene mostrata la parte più esteticamente attraente della città, quella divenuta una vera e propria icona dell’industria dello spettacolo e del turismo, ma la parte più popolare, meno nota, l’isola di Giudecca e le “barene” (terreni lagunari periodicamente sommersi dalle maree) dove si recano i pescatori di moeche. E comunque, nei rari momenti in cui vediamo Piazza San Marco e la Venezia più ‘turistica’, quest’ultima viene inquadrata da lontano, carezzata dalle luci del tramonto e incastonata perciò in uno sguardo poetico che la libera di qualsiasi incrostazione spettacolare.

Il cambiamento cui è soggetto lo spazio veneziano è lo stesso che investe i centri storici di diverse altre città ma Venezia ha la particolarità di essere costruita sull’acqua, un luogo in cui ci si sposta soltanto a piedi o in barca. Si tratta di un cambiamento sottoposto ai processi di gentrificazione (termine che traduce l’inglese gentrification), per cui uno spazio cittadino ‘autentico’ e proletario si trasforma in un luogo di pregio, dove le abitazioni originariamente semplici e popolari, una volta ristrutturate e riqualificate, diventano di lusso. Cambia quindi profondamente anche la composizione sociale di questi spazi: al posto degli abitanti ‘nativi’, costretti a emigrare fuori città o nelle periferie, subentrano ricchi abitanti stranieri che trasformano quelle case in residenze per le vacanze, perciò chiuse per gran parte dell’anno. Il film racconta assai bene questa trasformazione: Alvise vuole entrare a far parte della nuova industria immobiliare che sta trasformando Venezia mentre Piero cerca di opporre una resistenza che diviene anche una significativa resistenza culturale. Del resto, il personaggio di Piero non è tratteggiato in modo banale, non è l’ingenuo e ottuso pescatore che non vuole lasciare il proprio luogo natìo. Si tratta invece di una figura molto complessa, piena di contraddizioni, alle prese con un passato non facile (diversi anni di galera alle spalle), quasi egli stesso ‘straniero’ nella sua piccola comunità. Appare perciò simile alla figura di Bepi, soprannominato “il Poeta”, il pescatore di Chioggia che stringe amicizia con Shun Li, immigrata dalla Cina, in un precedente film di Segre, Io sono Li (2011). Come il “Poeta”, immigrato dalla Jugoslavia nella piccola comunità di Chioggia trenta anni prima, anche Piero, a causa della sua vita irregolare, sembra vivere ai margini della sua comunità, che comunque ama e sente sua. Proprio per questo, il pescatore veneziano sembra così ostinatamente attaccato ai suoi piccoli spazi di libertà.

Piero è vittima di un vero e proprio sradicamento dal suo spazio: come un nuovo migrante, vittima della gentrificazione, è costretto ad abbandonare l’isola di Giudecca per andare a vivere a Mestre. Si tratta “solo di dieci chilometri più in là, cosa vuoi che sia”, gli dice Alvise, ma sembra proprio che quei dieci chilometri rappresentino uno spazio insormontabile, una distanza incolmabile come quella che separa dai loro paesi di origine altre figure di immigrati raccontati dal cinema di Andrea Segre, come la già citata Shun Li, giovane cinese emigrata prima a Roma poi a Chioggia in Io sono Li, o il togolese Dani che, dopo aver attraversato il Mediterraneo a rischio della propria vita, è accolto con la sua bambina in una comunità del Trentino in La prima neve (2013). È in una prospettiva straniante che la macchina da presa ci mostra il risveglio di Piero nella sua nuova casa di Mestre, nel momento in cui si affaccia alla finestra e scruta i tetti cittadini solcati da fumi industriali mentre lo sfondo sonoro è occupato dagli invasivi rumori del traffico. È un altro mondo, estremamente lontano dagli spazi della casa della Giudecca, in cui Piero cucinava i suoi granchi all’aperto, in un affaccio sulla laguna.

Il mutamento cui è stato sottoposto lo spazio cittadino veneziano può essere leggibile attraverso la chiave di interpretazione offerta da Franco La Cecla in Mente locale, la cui analisi procede secondo un’ottica diacronica, prendendo in considerazione il cambiamento cui è stato sottoposto lo spazio abitativo cittadino. L’assunto principale è che il «nostro spazio», oggi, «è sempre meno nostro»1. La dimensione spaziale cittadina, dai marciapiedi alle strade fino agli spazi interni degli appartamenti, è stata sottoposta a un graduale processo di incasellamento, di creazione di griglie e di canali, di flussi preordinati entro i quali si svolge la nostra vita. La ricollocazione turistica degli spazi urbani ha agito quasi come le demolizioni e gli sventramenti cittadini operati nel corso del Novecento. Secondo La Cecla, «viene spazzato via dal paesaggio urbano uno spazio irregolare e invadente, quello di un abitare fuori e dentro la porta e di un modellare per casupole, banconi, affacci, tende, mercati, impasses e cortili lo spazio delle città, delle piazze e dei monumenti»2. La pratica di incasellamento cui le città sono state sottoposte – continua lo studioso – provoca un vero e proprio «spazio sradicato» generando negli ultimi decenni una sempre più frequente «mobilità volontaria o forzata», che «non è quella del muoversi dei nomadi, ma del vagare di chi si è perduto»3. Anche Piero vaga come chi si è perduto: al mattino lo vediamo seduto in un autobus diretto da Mestre a Venezia, in uno spazio non suo, solcato dagli impianti industriali. Il personaggio è stato sradicato dal suo piccolo spazio di libertà che, a fatica, si era riguadagnato dopo le sue vicissitudini esistenziali. È stato allontanato dalla laguna, dall’isola di Giudecca e dal suo microcosmo popolare.

Venezia è stata profondamente cambiata dall’industria turistica e il suo stesso spazio è divenuto qualcosa da ‘vampirizzare’, una bellezza da rubare e da portare via. La città si è trasformata in una sorta di non luogo: ai turisti che vediamo nel film e che hanno affittato il bed and breakfast, alla fine, non importa nulla vivere lo spazio veneziano. Se ne sono stati tutto il tempo del loro soggiorno chiusi in casa a mangiare pizza e sushi, anch’essi cibi che caratterizzano i ‘non luoghi’ perché si possono trovare ormai in qualsiasi parte del mondo globalizzato. Il turismo, come ha osservato Rodolphe Christin, velocizza e spersonalizza qualsiasi dimensione di viaggio compiendo una vera e propria «usura del mondo»4.

Forse, gli unici spazi veneziani rimasti autentici sono quelli in cui si recano i pescatori a svolgere il proprio lavoro, caratterizzati da una natura ostile. La macchina da presa inquadra i personaggi inseriti nello scenario lagunare e sembra iconograficamente consegnarli alla propria solitudine, fra i pochi rimasti a svolgere il loro lavoro tradizionale, fra i pochi rimasti a potersi permettere di vivere in una città che da anni sta inesorabilmente cambiando. Perché ormai, come sottolinea il regista in un incontro col pubblico dopo la proiezione del film, sono davvero pochi i veneziani che possono permettersi di vivere a Venezia. Sono davvero poche le persone ‘normali’, con uno stipendio ‘normale’, che possono rimanere nella propria città, trasformatasi in una sorta di museo a cielo aperto e, per questo, ormai troppo costosa per essere vissuta a meno di non essere ricchi uomini d’affari o milionari americani o inglesi che comprano appartamenti per abitarli sì e no quaranta giorni all’anno. Il centro storico di Venezia si è ormai trasformato in un museo e in una boutique. Come sottolinea ancora La Cecla, alla luce dell’emergenza Covid, è necessario

liberare i centri storici dalla boutiquizzazione, che non vuol dire liberarli da negozi e mercati, ma farvi tornare una densa residenza. E poi l’insieme delle città dovrebbero prendere la strada del plein air, considerare come la chiusura della gente nelle proprie case sia il principio di diffusione dei contagi. La vita all’aperto, in centro, significa tornare a una città di gallerie, passages, pensiline, cortili, ponti sospesi, giardini pensili, campi da gioco, tavoli e sedie, esposizioni, padiglioni, chioschi, giardini, corridoi di piante, fruttivendoli, friggitorie, banchetti di venditori, barbieri, teatri e cinema di strada, fiorai, musicisti e funamboli, rigattieri. Se vi sembra una visione del passato, aggiungeteci quello che vi piace, dal digitale per strada all’intelligenza artificiale, ma attenzione perché le smart cities sono già un fallimento dentro alla pandemia, anzi sono quello che la pandemia ci offre, un surrogato di vita en plein air e in presenza5.

Non dimentichiamo, infatti, che la Venezia mostrata dal regista è anche uno spazio reso fantasma dall’emergenza pandemica, come già nel precedente Molecole. La troupe si trova a girare in spazi quasi surreali e intende testimoniare narrativamente la condizione quasi ‘surreale’ di una città attraversata da mille problemi e contraddizioni, anche legate alla stringente attualità. Il cinema di Andrea Segre si conferma ancora una volta potentemente militante, un cinema che riesce a parlarci del mondo reale e delle sue contraddizioni, qui e ora. A parlarci di spazi contemporanei in cui a dover fare i conti con la realtà sono, più che mai, esseri umani immersi fino al collo in quella stessa realtà, come ad esempio i migranti, coloro che per cause indipendenti dalla loro volontà sono costretti a lasciare i propri luoghi e i propri cari. Una realtà che però non suona mai banale, sempre guardata per mezzo di un filtro artistico e poetico. Un filtro che, comunque, non nasconde le sue mille problematiche e contraddizioni ma che, anzi, per mezzo di un sapiente gioco di contrasti, sembra metterle ancora più in evidenza.


  1. F. La Cecla, Mente locale, elètheura, Milano, 2021, p. 34. 

  2. Ivi, p. 36. 

  3. Ivi, pp. 62-63. 

  4. Cfr. R. Christin, Turismo di massa e usura del mondo, trad. it. elèuthera, Milano, 2019. 

  5. F. La Cecla, Mente locale, cit., p. 203. 

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L’ordine delle cose https://www.carmillaonline.com/2019/04/21/lordine-delle-cose/ Sun, 21 Apr 2019 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47962 di Alessandra Daniele

“Consiglio a Salvini di imitare un po’ più Minniti: fare di più, e parlare di meno” – Marco Travaglio, Tagadà, La7, 13 febbraio 2019

Corrado è un tipo efficiente e ordinato. La sua vita privata è serena. La sua reputazione professionale è ottima. L’ordine è la sua piccola mania. Colleziona souvenir dei paesi dove va per lavoro, bottigliette di sabbia che dispone per sfumatura di colore. Corrado è un funzionario del governo italiano, addetto a organizzare gli accordi con le milizie libiche, e il finanziamento dei lager in Nordafrica. Corrado è un uomo di legge. Alla [...]]]> di Alessandra Daniele

“Consiglio a Salvini di imitare un po’ più Minniti: fare di più, e parlare di meno” – Marco Travaglio, Tagadà, La7, 13 febbraio 2019

Corrado è un tipo efficiente e ordinato.
La sua vita privata è serena. La sua reputazione professionale è ottima.
L’ordine è la sua piccola mania. Colleziona souvenir dei paesi dove va per lavoro, bottigliette di sabbia che dispone per sfumatura di colore.
Corrado è un funzionario del governo italiano, addetto a organizzare gli accordi con le milizie libiche, e il finanziamento dei lager in Nordafrica.
Corrado è un uomo di legge. Alla domanda “Hai mai ucciso qualcuno?” risponde che sì, ha lasciato morire di fame un detenuto cercando di farlo parlare.
Corrado è Eichmann.
Con L’ordine delle cose (2017) Andrea Segre ha realizzato un film su Eichmann, sugli Eichmann contemporanei. L’unico film sulla dottrina Minniti-Salvini, e l’ha fatto prima che fosse ufficiale.
Con uno stile impeccabile, e grazie anche alla straordinaria interpretazione di Paolo Pierobon in un ruolo apparentemente semplice, e in realtà difficilissimo, Andrea Segre ha realizzato uno degli unici tre o quattro film italiani dell’ultimo decennio che valga la pena vedere, che dicano qualcosa di vero, attuale, e importante sulla realtà.

Secondo Salvini, in Libia la guerra non c’è, o comunque non ce n’è abbastanza.
Ci sono (testuale) “ancora pochi morti”. Quindi i profughi in arrivo dalla Libia non avrebbero il diritto allo status di rifugiati.
Il ministro che imbraccia il mitra assicura “I profughi veri vado a prenderli io in aereo”, scegliendoli come ha già fatto una volta, cosa che ci ricorda continuamente la propaganda leghista.
Periodicamente anche l’Italia sceglie qualcuno a cui riservare in via del tutto esclusiva la propria ipocrita, auto-assolutoria compassione condizionata. Un token: i ragazzini dell’autobus dirottato, la bambina esclusa dalla mensa scolastica.
Intanto, anche in materia di ordine pubblico e apartheid urbano, Salvini continua a seguire le orme di Minniti.

Boomtown (2005) di Russell T. Davies suggerisce un’intuizione geniale e inquietante: i carnefici di massa, i burocrati dello sterminio, quando scelgono occasionalmente qualcuno da risparmiare, usano all’inverso gli stessi criteri soggettivi e arbitrari adoperati dai serial killer per scegliere le loro vittime. Il colore dei capelli, degli occhi, uno sguardo, un sorriso, un incontro casuale con il carnefice basta a decidere il destino della vittima: sommersa o salvata.
Corrado è un carnefice di massa, un burocrate dello sterminio, abituato alla disumanizzazione sistematica delle vittime, che per lui devono restare solo numeri. Un incontro casuale, e un attimo d’empatia imprevista decideranno quale vittima del lager cercherà di risparmiare, ma solo per un attimo, prima di riconsegnarla all’ordine delle cose.
Perché Corrado è un tipo ordinato.

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Se il diverso migrante è simile a noi https://www.carmillaonline.com/2018/07/17/se-il-diverso-migrante-e-simile-a-noi/ Mon, 16 Jul 2018 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46717 di Paolo Lago

Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. [...]]]> di Paolo Lago

Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. Infatti, come leggiamo in una nota iniziale, «i personaggi e i fatti qui narrati sono interamente immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». La macchina da presa di Segre scava nel profondo negli interstizi sociali della contemporaneità, affrontando tematiche sociali e politiche complesse con uno sguardo contemporaneamente poetico e militante. Il regista (autore, tra l’altro, di numerosi documentari) realizza un impietoso affresco della «realtà sociale e ambientale» contemporanea, indagata nei suoi più drammatici risvolti legati al tema dell’immigrazione clandestina.

Assistiamo alla messa in scena di due spazi contrapposti, quello dell’Italia e, nella fattispecie, di Padova e dei suoi dintorni, e quello della Libia, dove la mdp ci conduce nell’inferno dei campi di detenzione per i migranti. Da una parte ci sono le immagini pallide e patinate degli interni alto borghesi e del quartiere residenziale dove vive Corrado con la sua famiglia, nonché quelle della monumentale piazza di Prato della Valle a Padova, sulle quali scorre placido e inesorabile l’«ordine delle cose», dall’altra i colori accesi della Libia, con le spiagge, il mare, le città, non ultimi i veri e propri inferni-lager dove sono ammassati i migranti che cercano di attraversare il mare per arrivare in Europa. La missione del protagonista è proprio quella di delimitare un confine, di chiudere lo spazio del mare rivendicando quasi una ‘proprietà’ su di esso, nel nome della politica internazionale degli accordi di Schengen (ma non certo nel nome dei diritti umani), atta a chiudere su se stessa, come un fortilizio medievale, l’Unione Europea. Ma qualcosa, in questo meccanismo, si spezza: Corrado entrerà infatti in contatto con Swada (Yusra Warsama), una ragazza somala che vuole raggiungere il marito matematico in Finlandia. Il contatto, che fa capire a Corrado di trovarsi di fronte ad un essere umano non troppo diverso dalla propria figlia o dalla propria moglie, instaura nel personaggio il desiderio di aiutare la ragazza a recarsi in Finlandia, anche in modo illegale, sfruttando il suo potere e i suoi contatti con l’ambasciata finlandese. Comprendere che anche chi ci è diverso, nella fattispecie una migrante clandestina rinchiusa in un centro di detenzione in Libia il cui disperato viaggio si cerca di contrastare, alla fine è proprio uguale a noi, con gli stessi desideri, le stesse ansie, le stesse paure, è ciò che mette in moto il meccanismo di ibridazione, di avvicinamento.

Alla fine, però, prevale «l’ordine delle cose» che sembra regnare sulla realtà, quell’inesorabile incedere della quotidianità che non può essere scardinato. Tornato nell’ambiente ovattato dell’elegante e ricca provincia del Nord Est dove abita, abbandonando ormai l’idea di aiutare la ragazza, il personaggio sembra rinchiudersi di nuovo nel suo ruolo, nel quadro sociale nel quale è incastonato, lontano da qualsiasi possibilità di ibridazione con l’altro da sé. Quel vecchio ordine da ancien régime di un Occidente capitalista sempre più chiuso sembra non potersi spezzare, neanche di fronte a migrazioni che recano forse in sé il germe di una rivoluzione culturale: la ragazza, infatti, intende raggiungere il marito che studia matematica e il suo desiderio, una volta arrivata in Finlandia, è quello di «stare seduta tutto il giorno a leggere tutti i libri del mondo». Il freddo meccanismo a orologeria del controllo di uno statico Occidente appare quindi una impenetrabile barriera di fronte al calore del desiderio mosso da istanze culturali e di crescita sociale legato al fenomeno della migrazione.

I due precedenti lungometraggi di Segre, Io sono Li (2011) e La prima neve (2013) mostrano invece la possibilità di un avvicinamento e di una ibridazione. I due film mettono in scena l’arrivo della figura dello ‘straniero’ (inteso come figura mitica, stereotipo culturale ma anche come condizione esistenziale) all’interno di una piccola comunità. L’aspetto probabilmente più interessante dell’incontro con l’Altro in questo caso sta proprio nel fatto che l’immigrato, il ‘diverso’ arriva all’interno di una comunità piccola e chiusa, più legata alla tradizione e al passato, piuttosto che in una grande metropoli, dove invece dominano le mescolanze dei tratti e i fenomeni di meticciato.

La protagonista del primo fra i due film, Shun Li (Zhao Tao), è una ragazza cinese immigrata in Italia. Dapprima operaia tessile a Roma, si sposterà successivamente a lavorare in un bar di Chioggia gestito da cinesi. È qui che conosce Bepi (Rade Sherbedgia), un pescatore istriano soprannominato «il poeta» per la sua abitudine di improvvisare versi. Fra i due nasce un sincero e profondo legame di amicizia forse proprio per il fatto di essere entrambi dei ‘diversi’, degli emarginati, per certi aspetti, dalla coesione sociale. Bepi, lui stesso un immigrato dalla vicina Pola, è scontroso e solitario, mentre Shun Li appare come la figura dell’immigrata, della ‘diversa’ giunta nel cuore del Nord Est. Inoltre, se Bepi è già di per sé un isolato all’interno della comunità dei suoi amici pescatori chioggiotti, la stessa Shun Li si trova emarginata all’interno della comunità cinese, estremamente chiusa, e segnata a vista per aver dato troppa confidenza al vecchio pescatore. Costretta dai suoi connazionali a lasciare Chioggia, vi farà poi ritorno soltanto dopo la morte di Bepi. Il contatto avviene dunque fra due personaggi, se così si può dire, ‘deboli’, emarginati, sofferenti. L’Altro, l’immigrato può probabilmente entrare in sinergia soltanto con un proprio simile, con chi fa parte della comunità e però, contemporaneamente, si trova anche ai margini di quella stessa comunità. Bepi e Shun Li sono due figure liminali, né dentro né fuori: la ragazza, cinese, nei confronti della comunità locale in primis e poi di quella dei suoi connazionali; il vecchio pescatore, croato, nei confronti della stessa comunità di Chioggia e dei suoi amici, circondato da una squallida solitudine. Estremamente importante, in Io sono Li (ma anche ne La prima neve), è poi l’ambiente, il paesaggio. Il regista, originario di Dolo, vicino Venezia, attua un interessante esperimento di geopoetica cinematografica, rendendo il proprio territorio quasi il vero protagonista del film. Così scrive il regista in alcune «note di regia» riguardo all’ambientazione del proprio film:

Ricordo ancora il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine, non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola. Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita. (iosonoli.com).

È una Chioggia cupa e invernale, sono lividi albe e tramonti e l’acqua della laguna ad avvolgere in modo sinuoso e poetico quasi ogni singola inquadratura del film.
L’ambiente è protagonista anche a livello linguistico: i pescatori si esprimono in dialetto, utilizzato in alcuni momenti anche dagli stessi cinesi, da lungo insediati nella località veneta. Shun Li appare come una sorta di angelo della poesia, straniera anche alla propria comunità, unicamente attraversata dal desiderio di far arrivare in Italia il suo bambino e, in futuro, di ritornare in Cina. Lo sguardo del regista, perciò, assume anche un piglio antropologico nel mostrarci le più diverse interazioni fra immigrati cinesi e comunità locale, nonché le varie forme di relazione fra gli stessi cinesi. In opposizione all’italiano e al chioggiotto, il cinese è la lingua della poesia, per mezzo della quale Shun Li scrive le sue lettere al figlio e al padre e legge toccanti poesie di un poeta cinese.

La poesia è infatti un importante mezzo di comunicazione e di ibridazione: l’avvicinamento fra i due avviene infatti anche in virtù di essa. Come già accennato, Shun Li appare come una sorta di angelo poetico che frequentemente recita versi nella sua lingua e celebra la «Festa del Poeta», una festa tradizionale cinese in cui vengono abbandonati miriadi di lumini accesi sulle acque di un fiume. Bepi, invece, all’interno della sua comunità è soprannominato «il poeta» per la sua propensione a inventare rime (e scriverà inoltre dei versi anche per Shun Li).

La poesia sembra poi avvolgere ogni inquadratura del film: la sinergia fra voce, suoni e immagini è molto netta e le stesse inquadrature sembrano scaturire dalla parola poetica recitata dalla ragazza. Lo sguardo vellutato della macchina da presa costruisce una vera e propria poesia visiva semplicemente guardando il paesaggio e l’ambiente, fino all’esplosione catartica del finale, quando, con tonalità che possono rimandare al cinema di Andrej Tarkovskij, Shun Li dà fuoco al casone di pesca di Bepi, all’interno della laguna, facendo così rivivere il rituale della cinese «Festa del Poeta», il fuoco sull’acqua, dedicato allo scomparso poeta Bepi.

Anche La prima neve racconta, con tonalità poetiche e malinconiche, il progressivo avvicinamento fra il profugo africano Dani (Jean-Cristophe Folly) e Michele (Matteo Marchel), un ragazzino ribelle ancora segnato dalla recente, tragica scomparsa del padre, che vive un rapporto conflittuale con la madre (Anita Caprioli), mentre appare legato da sincera amicizia allo zio Fabio (Giuseppe Battiston). Siamo a Pergine, un paesino sulle montagne del Trentino e Dani, originario del Togo e ospite di una casa di accoglienza insieme alla sua bambina, viene chiamato a lavorare da Pietro (Peter Mitterrutzner), un vecchio falegname e apicoltore della Val dei Mocheni. Dani, ancora traumatizzato dalla morte della moglie durante il viaggio dalla Libia, convinto di non poter allevare adeguatamente da solo la sua bambina, si avvicina progressivamente a Michele, segnato nel profondo dalla morte del padre a causa di una valanga. L’ibridazione fra il ‘diverso’, il migrante e il membro della comunità, qui, avviene fra Dani e Michele, quest’ultimo, un po’ come Bepi, segnato dal dolore e dalla consapevolezza di diversità ed esclusione (in questo caso, a causa della scomparsa del padre). Il giovane africano e il ragazzino ribelle che marina la scuola si ritroveranno a fare legna insieme nel bosco e i loro dolori troveranno una reciproca corresponsione.

Ancora una volta, i veri protagonisti sono il paesaggio e la poesia. Le montagne e i boschi autunnali sono l’anima del film, sublimati da inquadrature vellutate e pittoriche. Dani, che fa anche lo scultore, recita poesie indirizzate alla moglie morta nella propria lingua africana e non in francese, lingua che utilizza invece per comunicare con altri profughi africani. Lo spazio della poesia, perciò, come in Io sono Li, è quello della propria lingua, della propria tradizione che proviene dalle sfere più intime dell’esistenza. La voce poetica, pronunciata nella lingua africana, si distende sulle immagini dei boschi e delle montagne con una incisività sublime e toccante: non si potrebbe pensare a niente di più lontano della lingua africana e della stessa presenza di un africano dal dialetto, dalle montagne e dalle vallate del Trentino, ma nel contempo questa lontananza è sublimata da una continua vicinanza e ibridazione. Se in Io sono Li la funzione catartica dei momenti finali era affidata al fuoco, qui è la neve ad assumere quasi una valenza magica e onirica. Dani non la ha mai vista e, proprio nella neve, si troverà ad accompagnare come un nuovo e straniero angelo il piccolo Michele sul luogo della morte del padre e, nello scenario montano, i due si abbracceranno. Il momento finale in cui Dani abbraccia il ragazzino e quest’ultimo si abbandona al suo abbraccio segna l’abbattimento di ogni confine sociale, politico e culturale fra lo ‘straniero’ e la comunità. L’ibridazione e l’incontro raggiungono quindi i loro momenti più alti. Michele, forse, ha superato i suoi traumi e lo stesso Dani, probabilmente, rinuncerà al progetto di partire e di abbandonare la bambina perché si riteneva un cattivo padre. Il contatto e la comprensione fra due culture riesce a vincere e superare il dolore. Per mezzo dell’ibridazione e della distruzione di ogni forma di odio e di pregiudizio, forse si riesce a realizzare qualcosa di veramente nuovo e costruttivo. Perché, ed è probabilmente questo il messaggio più importante del cinema di Andrea Segre, pervaso di una limpida poesia militante, al di là di ogni diversità di cultura, di lingua, di colore della pelle, siamo tutti simili e vicini perché profondamente e dolorosamente umani.

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La narrazione delle migrazioni nel cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2017/11/24/la-narrazione-delle-migrazioni-nel-cinema-italiano/ Fri, 24 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40108 di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito [...]]]> di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito gli elementi distintivi e ricorrenti caratterizzanti l’immaginario emigrazionistico nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, elementi successivamente ripresi e inaspriti dal fascismo con l’intenzione di esprimere una decisa contrarietà nei confronti di tutti quegli italiani che abbandonavano la patria. Tra le opere letterarie che maggiormente hanno contribuito a costruire tale immaginario relativo alle migrazioni si possono indicare gli scritti di Edmondo De Amicis quali la poesia Gli emigranti (1881), il racconto Dagli Appennini alle Ande – contenuto nel romanzo Cuore (1886) – ed il reportage giornalistico romanzato Sull’Oceano (1889), i poemetti pascoliani Italy. Sacro all’Italia raminga (1904) e Pietole (1909), oltre alla novella pirandelliana L’altro figlio (1923).

Edmondo De Amicis, autore che ha affrontato l’epopea dell’emigrazione italiana di fine Ottocento verso le Americhe attraverso registri che vanno dal reportage di viaggio, al romanzo popolare fino alla poesia, in Sull’Oceano racconta l’attraversata transoceanica, compiuta alcuni anni prima, che gli ha consentito sia di osservare gli italiani a bordo di una grande nave durante il lungo viaggio sia di raccogliere testimonianze circa i loro stati d’animo di migranti che si allontanano dalla terra d’origine.

Lo scrittore descrive l’imbarco degli emigranti nel porto di Genova tratteggiando le differenze sociali dei passeggeri, la miseria dei più, la commozione e l’angoscia al momento della partenza.

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [il piroscafo], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. […] Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. […] Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano […] Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: – Chi non è passeggiere, a terra! Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia

Nel descrivere “L’Italia a bordo” De Amicis, oltre a soffermarsi su come la promiscuità forzata a cui sono sottoposte le famiglie funzioni da acceleratore di tutte quelle dinamiche conflittuali determinate dalla difficile convivenza, si dilunga anche sulla specifica composizione sociale delle diverse classi di viaggio.

Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere […] quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore […] Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe […]. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] Della Liguria il contingente solito […] diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. […] Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia

Dal racconto emergono anche notizie circa le incombenze burocratiche e le particolari tipologie contrattuali con cui sono sfruttati gli emigranti dagli stati in cui approdano.

tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perché se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione”. Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poiché quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò nonostante, i più accettavano

Raccontando l’imminente arrivo nel Nuovo mondo De Amicis trova modo di insistere su alcuni aspetti del carattere dei propri connazionali soffermandosi sul senso di dignità che, nonostante la miseria, caratterizza questa gente volenterosa di presentarsi in terra straniera con il necessario decoro e sulla tendenza ad ironizzare sull’italico pressapochismo. La parte finale è invece contraddistinta da un crescendo di retorica patriottica.

Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, che volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici […] tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo […] Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava entro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio […] — L’America! Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia […] al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti […] come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva né vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri […] cessato il primo effetto dell’apparizione […] scoppiò a prua un’allegrezza smodata […] Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là […] si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi (da E. De Amicis, Sull’Oceano, 1889).

Per quanto riguarda Giovanni Pascoli, il suo interesse per il fenomeno dell’emigrazione è testimoniato dal poemetto in due canti Italy. Sacro all’Italia raminga riprendente le vicende realmente accadute a due fratelli emigrati dalla Garfagnana in America che fanno ritorno in patria con la piccola Molly ammalata di tisi. I due fratelli sperano che l’aria di casa e le cure della nonna possano curare la bambina. Nonostante i problemi linguistici, che rendono difficoltosa la comunicazione tra Molly, che non conosce la lingua italiana, e la nonna, si crea tra le due un forte affetto. Tragicamente alla guarigione della piccola corrisponde l’ammalarsi, fino alla morte, della nonna ed a questo punto gli emigranti ripartono alla volta dell’America. Le difficoltà di comunicazione tra la nonna e la bambina permettono a Pascoli di sperimentare nel testo un curioso intreccio di parole ed espressioni inglesi, italo-americane e lucchesi. Nel Canto secondo, dove alla guarigione della bambina fa seguito la malattia mortale della nonna, Pascoli tratta del dramma di chi, trovandosi costretto a lasciare la propria terra, finisce per rifarsi un nido altrove. L’immagine del nido abbandonato dalla rondine-madre, ricorrente nelle opere pascoliane, viene qui utilizzata per rappresentare il dramma dell’emigrazione. Nell’opera viene stabilito un parallelismo tra la madre che desidera riunire a tavola i propri figli e la patria italiana – madre ancestrale – che con un suo grande ululo ai quattro venti richiamerà a casa il sui figli dispersi in terre lontane.

Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi

Il cinema muto attinge, dunque, da tali modelli letterari, enfatizzando gli elementi melodrammatici che presentano l’emigrazione come fenomeno di distacco traumatico dalla famiglia e del paese, come viaggio verso l’ignoto in cui è possibile perdersi per strada. Nella cinematografia italiana dei primi decenni del Novecento l’emigrazione appare decisamente contrassegnata da paura, lutto, fatalità e senso di colpa.

Al fine di ricostruite le modalità principali con cui il cinema italiano ha raccontato nel corso del tempo i fenomeni migratori risulta decisamente prezioso lo studio di Massimiliano Coviello curatore del lemma “Emigrazione” nel volume curato da Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Vol. 1, (Mimesis, 2014) [su Carmilla]. Sarà proprio all’analisi di Coivello che qui si farà costantemente riferimento.

Un’idea delle modalità di rappresentazione degli emigranti italiani nel cinema muto dei primi decenni del Novecento è data dai film L’emigrante (1915) di Febo Mari e Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi. L’opera di Mari, primo film italiano senza sottotitoli, narra il fallimento di un emigrante che, recatosi in Argentina per garantire un futuro migliore alla famiglia, si trova costretto a far rientro a casa, dopo essersi trovato a svolgere lavori dequalificati e malpagati e dopo essere incorso in un infortunio. Il film di Paradisi, che riprende palesemente l’opera deamicisana, viene realizzato con finalità educative e celebrative del sacrificio compiuto per la Patria e la famiglia. Il viaggio del protagonista verso l’Argentina alla ricerca della madre, che ha abbandonato la famiglia ed il paese in cerca di lavoro, è connotato da sentimenti quali lo sconforto e il senso di solitudine. Una volta giunto nel lontano paese, il giovane riesce a cavarsela di fronte alle tante avversità incontrate grazie a qualche intervento della provvidenza. Dopo tante peripezie il protagonista ritrova la madre gravemente malata in balia dei rimorsi provocati dalla scelta di abbandonare la famiglia.

Circa la rappresentazione degli emigranti italiani tra gli anni ’30 e primi anni ’40, secondo l’analisi di Coviello

il cinema di regime addosserà alla figura dell’emigrante non solo i rimorsi per aver abbandonato gli affetti familiari ma anche l’imprudenza di aver minato la coesione nazionale e aver tralasciato gli obblighi verso la patria, colpe che potranno essere espiate solo attraverso un ritorno dai tratti epici. Nel riportare gli emigranti in patria, il cinema del periodo fascista ha sfruttato meccanismi melodrammatici per costruire l’immagine di un Paese finalmente coeso in cui diventava possibile riscattarsi e progettare il proprio futuro (p. 320).

In tali narrazioni i soggetti che fanno ritorno al paese d’origine dimenticano i motivi per cui sono emigrati e si ritrovano nel loro spazio di partenza senza alcun problema di riadattamento e consapevoli delle grandi migliorie portate dal regime durante la loro assenza. «I film del periodo fascista che raccontano storie di emigrazione sono innanzitutto una risposta alla sua causa principale, ossia la mancanza di terre coltivabili. Prima attraverso le bonifiche e poi con l’impresa coloniale, il cinema contribuisce alla costruzione di un mito della terra nel quale trovare la soluzione ai drammi dell’emigrazione» (p. 321).

Il film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano viene girato per celebrare il decennale della Marcia su Roma ed affronta il periodo che intercorre tra il 1914 e il 1932, tentando di esaltare tanto il progresso industriale promosso dal regime quanto il mito contadino. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende di una famiglia dell’Agro Pontino che passa dalla miseria nelle paludi insalubri alle bonifiche delle terre effettuate dal regime, dalla Prima guerra mondiale alla “vittoria mutilata” e dalla crisi economica di fine anni ’20 sino alla fondazione di Littoria, che consente agli emigranti di trovare un posto di lavoro ed un’abitazione. Forzano miscela materiale documentario e finzionale con intenti palesemente propagandistici e la narrazione tende ad essere scandita da alcuni elementi simbolici ricorrenti, come la bandiera italiana al cui cospetto avvengono le separazioni e le riunificazioni familiari. Come in altri film del periodo, la pellicola di Forzano insiste molto sul rapporto tra generazioni, al fine di mostrare il più possibile la continuità storica rispetto al passato.

Nel periodo coloniale, il fascismo, anche grazie al cinema, tende a riferirsi ai nuovi territori annessi come a lontane propaggini dell’Italia; il trasferimento in quelle terre remote viene pertanto presentato in maniera molto diversa rispetto agli spostamenti migratori verso altri paesi. Ad esempio, nel film Bengasi (1942) di Augusto Genina i coloni italiani che si oppongono alle truppe inglesi vengono presentati come difensori della madrepatria, della sua estensione coloniale.

Passaporto Rosso (1935) di Guido Brignone viene realizzato praticamente in concomitanza con l’inizio della campagna d’Etiopia. La pellicola è invece ambientata tra il 1890 ed il 1922 ed il titolo si riferisce proprio al documento di espatrio rilasciato dalle autorità agli emigranti. Il film è costruito su una serie di parallelismi tra gli eventi narrati e l’attualità coloniale, in modo da suggerire al pubblico una lettura dell’emigrazione come tappa necessaria, per quanto sofferta, in attesa del colonialismo fascista.
Il film narra le vicende di una coppia di emigranti italiani trasferirtisi in Argentina che si prodigano, insieme ad altri connazionali, nella fondazione della colonia Nueva Italia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il figlio dei due, che non ha mai messo piede in Italia, pur non intendendo mobilitarsi in favore della madrepatria, partirà per il fronte soltanto per sostituirsi al padre, invece intenzionato a partire nonostante l’età avanzata. Sarà la vita al fronte, sul Carso, a rivelare al giovane il significato ed il valore dell’essere italiano: «Mio padre aveva ragione, la patria l’abbiamo nel sangue». Caduto in combattimento, la medaglia al valore viene ritirata dal figlio che non ha fatto in tempo a conoscere. Ancora una volta nel cinema di epoca fascista si insiste sul passaggio di testimone tra le diverse generazioni.

Massimo Coviello, nella sua analisi, dedica spazio anche al film Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, in cui l’Africa Orientale diventa luogo d’incontro tra un padre emigrato per necessità, dopo aver servito la patria come aviatore nella Prima guerra mondiale, di cui si sono perse le tracce e suo figlio, anch’egli aviatore delle truppe fasciste e partito volontario in AOI. La guerra, nuovamente, diviene terreno di ricongiungimento generazionale. Per certi versi questa pellicola anticipa una serie di opere realizzate tra gli anni ’30 e ’40 che narrano storie sospese tra l’Italia e il continente latinoamericano, come La grande luce – Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Harlem (1943) di Carmine Gallone e Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. «In tutti e tre i film, nel pieno rispetto della struttura melodrammatica, l’emigrazione è uno spazio intermedio, più o meno temporaneo, in cui i personaggi attraversano vari stadi di trasformazione, nell’attesa che la tragedia ceda il passo al lieto fine» (p. 327).

Secondo lo studioso i melodrammi e le commedie degli anni ’30 e ’40, più che narrare di veri e propri fenomeni di emigrazione, tendono a sfruttare episodi di migrazione circoscritti nel tempo e utili all’evoluzione del racconto fino alla risoluzione dei conflitti iniziali.

Dagli anni del muto al cinema del periodo fascista, dallo sguardo deamicisiano all’obbligo morale del ritorno, sino al melodramma migratorio: l’emigrante è rappresentato come un soggetto incapace di emanciparsi e di ricollocarsi nei contesti di arrivo. I suoi drammi non si esauriscono con l’arrivo e, al contrario, si amplificano attraverso la colpa dell’abbandono (dei propri familiari, della terra d’origine). Si dovrà attendere la fine degli anni quaranta e l’avvio dei flussi migratori verso i paesi dell’Europa del Nord, l’Australia e l’America Latina perché il cinema rimoduli i sentimenti connessi allo spostamento, rivendichi la loro dimensione politica e si apra ad un cammino della speranza (p. 330).

Con il cinema neorealista cambiano diverse cose, sia dal punto di vista delle finalità che intende darsi il cinema, sia da quello delle estetiche scelte per perseguirle. A proposito di ciò scrive Coviello:

Nel regime estetico inaugurato dal neorealismo si attua una simbiosi tra la macchina da presa e il personaggio: i confini tra mostrare e vedere, tra la cattura passiva da parte di un occhio meccanico e la capacità immaginativa che si insedia nell’atto della visione, tendono a confondersi e a sovrapporsi. A partire da uno sguardo erratico ma mai inconsapevole, le logiche narrative riproducono sullo schermo il vagabondaggio, la deambulazione e lo spaesamento dei soggetti all’interno di ambienti che, deformati dalla guerra, restano ancora da decifrare (pp. 332-333).

È una realtà spaesata, quella uscita dalla guerra, quella che si trova a presentare il cinema neorealista, dunque una realtà erratica e fluttuante che fatica ad essere, che non può essere, più di tanto orienta. I personaggi di queste pellicole sono per forza di cose deboli, spaesati, erranti; sono spesso spettatori delle trasformazioni in corso e tendono ad agire in base a ciò che si trovano di fronte senza un fine consapevole.

All’illusoria riscrittura della storia, alla strumentale edificazione di un’epopea capace di coniugare le grandi opere di bonifica e l’urbanizzazione all’interno del Paese con la spinta coloniale con cui il fascismo ha tentato di estirpare le radici dell’emigrazione all’estero, il cinema neorealista contrappone una configurazione narrativa che individua nell’atto del migrare – inteso come movimento dominato dall’incertezza del soggetto che lo compie, ricerca di nuovi spazi vitali, negoziazione e riconfigurazione delle identità in rapporto ai mutamenti sociali – una delle principali forze trasformatrici, dentro e fuori i confini italiani (p. 333).

Secondo la studiosa Stefania Parigi

Tutto il cinema del dopoguerra è un cinema della migrazione, intesa come riconquista del Paese e, allo stesso tempo, come perdita delle radici, come esperienza di spaesamento, come vertigine di un’identità dispersa o esplosa. Da una parte gli spazi urbani avvolgono i protagonisti in spirali di spersonalizzazione, di squilibri e di mancanze; dall’altra il territorio fisico e culturale dell’intera Italia mostra, insieme alle sue diversità, tutta la propria natura conflittuale (S. Parigi, “L’emigrante neorealista”, in: Italy In&Out. Migrazioni nel/del cinema italiano, Quaderni del CSCI – Rivista annuale del cinema italiano, n. 8, 2012, p. 56).

In film come Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, il fenomeno migratorio viene affrontato ricorrendo all’epopea del viaggio che rivela i grandi cambiamenti geografici e sociali che costellano i percorsi. Nei due film siamo di fronte ad emigranti irregolari, privi dei requisiti richiesti per l’espatrio, a testimonianza di un fenomeno di migrazione clandestina in crescita a partire dal secondo dopoguerra nonostante le politiche ufficiali di sostegno all’emigrazione basate su accordi tra le nazioni che prevedono l’invio di manodopera italiana in cambio di materie prime.

In Fuga in Francia, seguiamo il viaggio di un gruppo di individui verso il confine e tra questi, oltre a chi è in cerca di lavoro, non manca chi intende abbandonare il paese al fine di lasciarsi alle spalle un passato in cui si è macchiato di atrocità in seno al fascismo. Nel corso del viaggio un ex gerarca viene individuato dai compagni di viaggio e da quel momento entrano in conflitto la volontà di chi intende consegnarlo alla giustizia ed il cinismo del fuggiasco pronto, di nuovo, a qualsiasi nefandezza pur di assicurarsi la libertà a scapito degli altri. Sarà il figlio di questo fascista a rompere i rapporti col padre e a facilitare la sua cattura in Francia. Siamo così messi di fronte ad una rottura generazionale in cui i figli devono essere pronti a rompere i legami coi padri quando questi si sono macchiati di colpe indelebili. La nuova Italia deve saper recidere nettamente i legami col Ventennio fascista: è questo il messaggio che si palesa nell’opera di Soldati.

Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi

Nel film di Germi, Il cammino della speranza, la chiusura delle miniere nell’agrigentino obbliga intere famiglie ad intraprendere il viaggio verso la Francia, un cammino della speranza, appunto, che li costringe ad attraversare un’Italia del tutto ignota ed il film ci mostra come ad ogni tappa di questo interminabile viaggio gli emigranti si trovino a dover riconfigurare la loro identità. I personaggi del film di Germi rappresentano un popolo in cammino che prova a rinascere dopo la tragedia della guerra. «Se Paisà (Rossellini, 1946) ripercorreva da Sud a Nord il Paese per seguirne e testimoniarne la liberazione, nel film di Germi l’attraversamento coincide con una fuga verso uno spazio poco più che sognato» (p. 335). Secondo David Forgacs in entrambe le pellicole l’attraversamento del Paese diventa l’occasione per mettere a contatto le diversità regionali in una visione globale della nazione che rinasce (D. Forgacs, “Neorealismo, identità nazionale, modernità” in: L. Venzi, a cura di, Incontro al Neorealismo. Luoghi e visoni di un cinema pensato al presente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2007).

In Stromboli, terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini compaiono diverse soggettività migranti. La profuga lituana Karin, interpretata da Ingrid Bergman, che vive “da straniera” il territorio e le regole sociali in cui è proiettata, trovandosi di fronte al rifiuto del visto per emigrare in Argentina, finisce con lo sposare un militare italiano che la conduce alla propria terra natale, l’isola di Stromboli. La coppia si trova a doversi confrontare con un tessuto sociale deformato dai processi migratori: una terra che ha visto da una parte i giovani emigrare in Australia e gli anziani fare ritorno sull’isola dopo essere stati emigranti all’estero.

In Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi, qui all’esordio come regista, si racconta di una famiglia romana costretta dalla povertà a imbarcarsi verso il Sudamerica. Dopo la partenza da Roma e le trafile burocratiche presso il Consolato argentino a Genova, i protagonisti del film si imbarcano su una nave affollata per raggiungere l’Argentina ove, tra mille peripezie, riescono a sistemarsi. Scrive a tal proposito Coviello: «Il film di Fabrizi è una minuziosa ricostruzione delle fatiche dell’emigrante al quale non manca il lieto fine con tanto di matrimonio annunciato tra nazionalità e classi sociali differenti, tra la figlia del manovale italiano e l’ingegnere edile argentino» (p. 337).

Sempre attingendo dal prezioso studio di Massimiliano Coviello “Emigrazione” si tratta ora di vedere quanto accaduto a partire dalla seconda metà del Novecento iniziando dalla rappresentazione degli emigranti italiani proposta dalle commedie realizzate tra gli anni ’50 ed i ’70, periodo caratterizzato, oltre che dalla prosecuzione dell’emigrazione verso l’estero, dalla “grande migrazione interna”, cioè da un massiccio spostamento dalle zone rurali del Sud verso le città industriali del Nord e dal cosiddetto “miracolo economico”.

Scrive a tal proposito Coviello: «Industrializzazione, esodo, inurbamento di massa, modernizzazione, miracolo economico: mentre questa successione causale di fenomeni sociali ed economici pone gli italiani di fronte a grandi cambiamenti, il cinema […] scandaglia e svela i meccanismi tragicomici, grotteschi, alla base del progresso e della conquista “forzata” del benessere» (p. 339). A titolo esemplificativo si possono citare film come I vitelloni (1953) e La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, Il boom (1963) di Vittorio De Sica.

Molti personaggi che popolano le pellicole di questo periodo incentrate sulla questione migratoria soffrono di nostalgia ma, sottolinea Coviello, con gli anni ’60, la commedia inizia a mettere in scena la deflagrazione della società negli anni del boom economico.

La soggettività introflessa su cui si fonda la chiusura nostalgica è alla base della disseminazione degli stereotipi comportamentali che caratterizzano le forme di rappresentazione commediche, grottesche e quindi in bilico tra il comico e il patetico, dell’emigrante. La riconoscibilità dell’italiano all’estero, come del meridionale emigrato al Nord, è contrassegnata da una spessa patina di cliché, ma questi ultimi, al pari di una presunta capacità di adattamento (“l’arte di arrangiarsi”), lungi dal costruire quello spazio discorsivo necessario alla negoziazione di norme e valori, sono la causa di un volontario e fin troppo esplicito disadattamento o, all’estremo opposto, di un’integrazione subita o delegata (p. 342).

Numerosi emigranti messi in scena dalle commedie degli anni ’60 e ’70, si pensi, ad esempio, a diversi personaggi interpretati da Alberto Sordi, «indossano maschere della prestazione (l’immagine del sé proposta in pubblico) attraverso un eccesso di dissonanza» (p. 342). Si tratta sovente di personaggi impostori sia con gli altri sia con se stessi, veri e propri millantatori, «caricature afflitte dal peso delle origini nei confronti delle quali non riescono a creare uno scarto, chiusi all’interno di stereotipi che li rendono estranei rispetto ai contesti di arrivo» (p. 343).

Ne Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro

la trasferta di lavoro verso la Svezia viene “deformata” già a partire dal viaggio in treno, dove il finestrino dello scompartimento si trasforma in uno schermo sul quale la voce di Sordi proietta le sue attese e lascia trasparire bellezze nordiche. Il personaggio interpretato da Sordi è un catalizzatore di pulsioni plasmate dall’immaginario massmediatico – è una guida turistica acquistata prima della partenza a orientarlo nei comportamenti – che vanno alla ricerca di soddisfacimento. Ancora una volta, non si tratta di compiere degli aggiustamenti alla propria identità, ma di imporre una differenza e di subire gli scacchi dell’estraneità. Invece, quando il desiderio è di assomigliare all’altro, Sordi lo asseconda sfruttando modelli precostituiti, “indossando” stereotipi che risulteranno fallimentari (p. 343).

Coviello sottolinea come ne Il gaucho (1964) di Dino Risi si possano individuare due diversi modelli d’integrazione fallimentare dell’emigrante. Al primo modello è riconducibile il personaggio interpretato da Amedeo Nazzari, un esempio di nostalgia patologica per l’Italia, esplicitata come anacronistica. Il secondo modello, di cui veste i panni Nino Manfredi, è quello di chi, avendo fallito nel far fortuna, si torva a dover vivere nell’ombra, tentando di celare il più possibile il suo essere straniero e povero.

La commedia è un potente strumento per esasperare e deformare molti dei temi e dei correlati passionali legati all’emigrazione. Bloccato nei cliché, all’emigrante non resta che un destino parodico. L’orizzonte commedico non garantisce alcuna negoziazione ma solo il modellamento o lo scontro grottesco con un mondo ostile. Se la colpa aveva marchiato la figura dell’emigrante durante il fascismo e imposto una dinamica narrativa fondata sul riscatto attraverso il ritorno, nel modello sentimentale della commedia l’eccesso nostalgico si manifesta anche attraverso l’impossibilità del rimpatrio. Chiusura nel sé, incapacità di comunicare con l’altro o, al contrario, conformazione, assuefazione: le forme della commedia scandagliano i tratti patologici della nostalgia attraverso maschere consonanti o dissonanti rispetto a modelli sociali già infermi (p. 346).

Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola

In film come Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Tutto a posto e niente in ordine (1974), entrambi di Lina Wertmüller, il mondo operaio di chi ha lasciato il Sud per stabilirsi al Nord è presentato come esasperato dalle conflittualità tanto politiche quanto amorose. In Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola, attraverso la parabola di un pugile fallito che diviene minatore in Alaska, si racconta il desiderio di chi, intendendo riscattarsi socialmente, finisce travolto dalla frenesia consumistica lungo le strade di Chicago.

Coviello si sofferma anche su un paio di commedie dei primi anni ’80 in cui ravvisa il tentativo di abbandonare o di denunciare i cliché, dopo averli subiti: Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone e Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi. Uno degli episodi che strutturano il primo dei due film, incentrato su personaggi che attraversano l’Italia per recarsi a votare, ha come protagonista Ametrano, un emigrante lucano trasferitosi a Monaco di Baviera che fa ritorno in Italia proprio per recarsi alle urne al paese natale. Il tragitto compiuto da questo emigrante si rivela un incubo costellato da una serie interminabile di angherie: l’Italia si rivela del tutto inospitale nei confronti di chi vi fa ritorno, seppur momentaneamente, dopo essersi trasferito all’estero. Nella commedia di Troisi, invece, il protagonista tenta di opporsi allo stereotipo che identifica per forza di cose nel napoletano presente al nord un emigrante. Ad essere rivendicato dal protagonista è il “diritto al viaggio”, «la possibilità di trasformare la sua identità, senza per questo doversi allontanare dalle sue origini culturali» (p. 347).

Nell’ambito delle migrazioni comprese tra gli anni ’50 e ’70, le difficoltà di integrazione sono al centro di diverse pellicole che adottando prevalentemente il tono drammatico. Nel cortometraggio Il bar di Gigi (1961) di Gian Vittorio Baldi, ad esempio, vengono documentai gli incontri in un bar che funge da punto di ritrovo a Torino per molti emigranti, mentre in Fata Morgana (1962) di Lino Del Fra ad essere documentate sono le storie degli emigranti in viaggio sul treno che dal Sud li porta a Milano.

In Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti si mostrano le vicissitudini di una famiglia costretta a lasciare il Sud, dopo la morte del padre, in cerca di lavoro nella Milano industriale. A proposito di tale pellicola scrive Coviello: «Man mano che la trasformazione identitaria, le prospettive di integrazione e l’assorbimento nella vita urbana si manifestano […], l’integrità del nucleo originario, l’iniziale coesione familiare si disgrega» (p. 349). Se il contatto col nuovo spazio urbano settentrionale in cui viene a trovarsi a vivere segna il disfacimento della famiglia meridionale, nel film Così ridevano (1998) di Gianni Amelio c’è chi opta per una volontaria autoesclusione dalla città e dalla società in cui si trova proiettato e l’unico contatto che ha con esse è dato dal luogo di lavoro, mentre il resto delle giornate è trascorso frequentando solo gli scantinati fatiscenti abitati dai suoi pari. L’emigrante catapultato all’interno dei cancelli della grande industria del Nord, costretto a fare i conti con la catena di montaggio, è invece raccontato da Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat Nam (1973) di Ettore Scola, film che ricorre anche ad alcune immagini documentarie.
Se ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi si narra il trasferimento dalla campagna brianzola alla metropoli milanese, nel film I fidanzati (1963) il medesimo regista focalizza invece l’attenzione su un individuo che si trova a dover affrontare una trasferta lavorativa in una Sicilia rurale, passando le sue giornate tra la desolazione dei caseggiati industriali ed un mondo contadino a lui del tutto sconosciuto.

Non mancano nemmeno film che fanno riferimenti a tragici episodi reali che hanno toccato gli emigranti italiani all’estero. Nel film La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer, ad esempio, la lunga sequenza che mostra i minatori intrappolati rimanda palesemente al disastro consumatosi soltanto qualche anno prima, nel 1957, nelle miniere di Marcinelle, in Belgio, ove hanno lasciato la vita tanti emigranti italiani.

Nel cortometraggio Emigranti (1963) di Franco Piavoli viene mostrato lo spaesamento generato dalla grande stazione ferroviaria di Milano negli emigranti che

manifestano la loro incapacità di adeguamento, l’impossibilità di acquisire punti di riferimento. Lo spaesamento indica quella condizione di radicale incapacità di gestione dell’ambiente circostante, a cui si accompagna la consapevolezza di essere fuori posto. D’altra parte, la condizione di spaesamento contraddistingue anche il viaggio di ritorno e il reinserimento del migrante. A partire dall’interazione tra i ricordi personali e l’ambiente considerato familiare, il soggetto ha bisogno di rintracciare, attraverso quelle forme di interazione quali il discorso o la memoria collettiva, gli elementi che suturino il divario, temporale e culturale, accumulato. Il rischio è la percezione di un sentimento di duplice estraneità, all’interno e all’esterno della propria dimora (p. 352).

A partire dagli anni ’90 l’immigrazione verso l’Italia inizia a divenire un fenomeno importante, vissuto ed affrontato dal mondo politico, non senza una nutrita dose di demagogia, soprattutto come “emergenza da arginare”. Il cinema italiano nell’affrontare la questione di questo diverso e nuovo tipo di immigrazione ha spesso elaborato particolari modalità di rappresentazione, come ad esempio il miscelare fiction ed immagini documentarie di repertorio.

I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come vengono rappresentati gli zombie in molti film e serie televisive, come folla indistinta, come orda trasandata che avanza mettendo in pericolo la vita delle comunità civili. Si tratta di un vero e proprio processo di deindividualizzazione quello operato dai media nel rappresentare i nuovi arrivati che finisce con l’agire in profondità nell’immaginario collettivo.

Dai cinegiornali di epoca fascista al racconto cinematografico delle migrazioni, l’inquadratura oggettiva, il totale, è espressione del controllo sul territorio e sui corpi compressi nello spazio inquadrato. Il totale delle navi sovraccariche di migranti – inquadratura che esclude il punto di vista soggettivo – collabora alla costruzione della massa migrante, insieme compatto in cui le singolarità si annullano. I mass media nazionali mostrano, spesso attraverso le immagini prodotte dagli stessi apparati legalizzati di cattura ed espulsione, i profughi che da alcuni decenni sbarcano sulle coste italiane come un insieme ammassato su imbarcazioni di fortuna. Attraverso questo registro stilistico – esemplificato dal totale dall’alto che esprime un punto di vista estraneo alla diegesi (oggettiva irreale) – si realizza un processo di fusione che degrada e dissolve le identità in una massa (p. 356).

Lamerica (1994) di Gianni Amelio

Si può individuare una data precisa in cui i media italiani hanno iniziato a trattare i fenomeni migratori: l’8 agosto 1991, quando il mercantile Vlora approda al porto di Bari con a bordo ventimila albanesi in fuga dalla miseria ed attratti dall’immagine dell’Italia offerta dai canali televisivi italiani captati in Albania. A quell’evento si ispira il film Lamerica (1994) di Gianni Amelio, il cui incipit propone un parallelismo tra le immagini dei cinegiornali di epoca fascista che raccontano l’annessione “civilizzatrice” dell’Albania al Regno d’Italia (1939-1943) e l’arrivo degli albanesi lungo le coste pugliesi nei primi anni Novanta. In questo intreccio di immagini del passato e del presente, immagini documentarie ed immagini di fiction, si ha una moltiplicazione dei piani temporali utile a ricomporre i legami tra i fenomeni migratori. All’intreccio tra passato coloniale ed immigrazione albanese, si aggiunge la storia del protagonista del film, un militare italiano che alla fine della Seconda guerra mondiale non riesce a far rientro in Italia e resta in Albania sotto falso nome per evitare guai. Restato senza identità, il protagonista perde totalmente la nozione del tempo tanto che, pensando di trovarsi ancora negli anni ’40, s’imbarca su una nave stipata di albanesi in fuga dal paese immaginando di emigrare in America. Sul finale del lungometraggio Amelio inserisce un palese riferimento alle immagini televisive del mercantile Vlora preoccupandosi però di scomporre nelle sue singolarità la massa di emigranti sull’imbarcazione attraverso primi piani dei volti dei passeggeri e sguardi in macchina rivolti allo spettatore. L’autore si oppone così a quel processo di deindividualizzazione operato dai media nel mostre l’arrivo dei migranti.

Lo scritto di Coviello, a proposito dell’arrivo del mercantile Vlora al porto di Bari, cita anche La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e Anija (2013) di Roland Sejko, due produzioni documentarie che ricorrono ad immagini di archivio rimontate e rielaborate attraverso zoom, rallentamenti e modifiche cromatiche per farle dialogare con racconti di alcuni protagonisti di quel viaggio verso l’Italia. «Queste interviste costituiscono il controcampo delle immagini di repertorio e se ne discostano non solo perché girate nel presente ma anche perché danno un volto e una voce agli individui prima compressi nella massa anonima, in quell’orda che i media dell’epoca hanno commentato e rappresentato come una minaccia» (p. 359).

Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese

Paolo Lago, nel libro La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016), nel capitolo dedicato alle “Navi emigranti e dell’esilio”, si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. A tal proposito scrive lo studioso: «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione” si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea Lago, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti.

Tornando ai migranti che giungono sulle coste italiane, Paolo Lago si sofferma invece su Terraferma (2011) di Emanuele Crialese. All’arrivo in Italia i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello subito un secolo prima dai migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi. Nel film viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

A proposito di Terraferma Coviello, nel suo studio, sottolinea come la figurazione dell’indistinto raggiunga i suoi estremi:

Mentre all’inizio del film il peschereccio sul quale lavorano alcuni dei protagonisti avvista in mare un gommone e porta in salvo un gruppo di migranti, nella seconda parte questi ultimi riappaiono nella notte, alla stregua di un banco di pesci. Eliminato il mezzo di trasporto, i naufraghi nuotano all’unisono nel mare buio non appena intravedono una fonte luminosa, per poi essere brutalmente allontanati a bastonate. La sequenza è speculare a una precedente in cui i turisti in villeggiatura affollano un’intera barca e, al ritmo di Maracaibo, ballano in attesa di tuffarsi. Senza soluzioni di continuità sembra possibile passare dalle navi che salpavano per il “nuovo mondo” [come nel film Nuovomondo] ai gommoni che approdano lungo le coste pugliesi e siciliane. Ciò che si sottopone al processo di indistinzione risulta facilmente assimilabile, “digeribile” oppure, proprio perché reso irriconoscibile, espulso. Pur producendo effetti opposti – nel primo caso il superamento del confine, l’esclusione nel secondo –, le due procedure non hanno conseguenze molto differenti. Infatti, in entrambi i casi, il processo di traduzione e negoziazione delle soglie tra le culture viene ostacolato e, nel caso dell’espulsione, annullato (pp. 360-361).

Con la globalizzazione non sono spariti i confini:

Pur mantenendo il suo statuto di tecnologia giuridico-politica utile a regolare il regime della legalità attraverso la dicotomia accesso/espulsione, il confine si è deterritorializzato, separando le sue funzioni di controllo dallo spazio cartografico, e diventando condizione esistenziale, dispositivo biopolitico in grado di determinare le possibilità di vita o di morte per coloro che tentano di raggiungere l’Europa. Il dispositivo di assoggettamento del confine implica meccanismi di soggettivazione che costringono il migrante a rendersi invisibile […], bruciando i documenti […] o nascondendosi nelle navi cargo e nei traghetti. I confini “virtuali”, deterritorializzati, sono le stesse imbarcazioni che trasportano i migranti nel Mediterraneo e che vengono monitorate e spesso respinte dagli organismi di sorveglianza delle frontiere (pp. 361-362).

Nel documentario A Sud di Lampedusa (2006), di Andrea Segre, Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, si racconta l’attraversamento del deserto del Sahara da parte di tanti migranti attraverso camion di trafficanti senza scrupoli. In Come un uomo sulla terra (2008), di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer, la migrazione libica è invece raccontata direttamente da Yimer che partecipa all’opera sia come testimone-narratore sia come regista che, con la sua videocamera, registra storie per poi compararle con i documenti televisivi.

In Mare chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti, si raccolgono le immagini e le voci registrate direttamente dai migranti con l’intento di mostrare punti di vista diversi da quelli messi in onda dalla televisione italiana a proposito dei flussi migratori. Il punto di vista dei migranti raccolto attraverso i loro smartphone documenta la disumanità dei respingimenti in mare. Dei CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, presenti in molte città italiane, si occupano alcuni documentari come, ad esempio, In nome del popolo italiano (2012) di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, La vita che non Cie (2012) di Alexandra D’Onofrio ed EU 013. L’ultima frontiera (2013) di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese.

Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi

Una serie di opere documentano gli ambienti degradati in cui si trovano a vivere i migranti ed il loro venire a contatto con gli ambienti benestanti delle città. Appartengono a tale filone opere come Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Terra di mezzo (1996) ed Ospiti (1998) di Matteo Garrone, Civico 0 (2007) di Francesco Maselli, Good morning Aman (2009) di Claudio Noce. Storie di solidarietà sono narrate da Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi, ove si racconta di una chiesa ormai chiusa al culto in attesa di essere sconsacrata che diviene rifugio per un gruppo di individui definiti “clandestini” dalla legge italiana ed “ospiti del Signore” dall’anziano parroco locale, ed in Isole (2011) di Stefano Chiantini.

Una parte della recente cinematografia italiana ha provato a raccontare l’attraversamento della penisola da parte degli immigrati, i loro sentimenti dello spostamento, scegliendo di restituire allo spettatore l’azione di uno sguardo “altro” che prova a collocarsi all’interno di un paesaggio spesso deturpato dall’azione umana, nella precarietà dei luoghi di lavoro, tra i pregiudizi della socialità (p. 366).

Pummarò (1990) di Michele Placido racconta di un immigrato ghanese che, intenzionato a raggiungere il Canada, decide di far visita al fratello in Italia. Durante l’attraversamento della penisola alla ricerca del fratello, il protagonista incontra le varie forme di sfruttamento a cui sono sottoposti i migranti. Una storia analoga è raccontata dall’opera documentaria Lettere dal Sahara (2005) di Vittorio De Seta ma, in questo caso, il protagonista, dopo aver subito le angherie riservate ai migranti, decide volontariamente di far ritorno in Senegal, ove racconta la sua tragica esperienza italiana ad altri suoi compaesani. Il resto è storia dei nostri giorni tutta da scrivere, filmare, raccontare e, soprattutto, determianre.

Ricapitolando

Il cinema italiano da inizio Novecento ai nostri giorni ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Nei film in cui la migrazione è considerata una colpa ed un rimorso doloroso, il ritorno si propone come via obbligata per la redenzione. Il cinema fascista e quello coloniale tendono a nascondere le cause politiche ed economiche del fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre invece esaltano la figura del colono in quanto artefice del progetto espansionistico. Tra gli anni ’30 e ’40, la cinematografia nazionale riduce l’emigrazione ad un fatto individuale, senza mai mettere in luce le dinamiche che determinano migrazioni di massa. Al termine della Seconda guerra mondiale, il cinema neorealista ha affrontato il fenomeno ponendo l’accento sul riscatto sociale cercato attraverso l’emigrazione. La commedia, dagli anni ’60 agli anni ’80, ha dato immagine ad una figura dell’emigrante schiacciata tra la nostalgia delle origini e l’integrazione forzata e ha dato vita ad una galleria di personaggi spesso grotteschi costruiti sui cliché dell’italiano all’estero e del meridionale al Nord. Negli anni ’90, il cinema nazionale ha iniziato ad affrontare le migrazioni verso l’Italia ed il confronto con l’altro ha spesso fatto ricorso a soluzioni espressive in cui immagini documentarie e finzione si sono spesso intersecate al fine di «costruire un immaginario con cui disinnescare le retoriche massmediatiche, le barriere culturali e i dispositivi biopolitici che relegano i migranti nella condizione esistenziale di confinati […] Attraversando la storia delle migrazioni e dei fili che le intrecciano sino al presente, il nostro cinema si affaccia sul contemporaneo e ci offre immagini in cui scoprire l’altro e ripensare la nostra identità» (p. 370).
 

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