Andrea Pazienza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

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Estetiche inquiete. A volte (ri)emergono dal sottosuolo. Esperienze figurative underground dagli anni ’50 ad oggi https://www.carmillaonline.com/2022/09/09/estetiche-inquiete-a-volte-riemergono-dal-sottosuolo-esperienze-figurative-underground-dagli-anni-50-ad-oggi/ Fri, 09 Sep 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73447 di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug [...]]]> di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.

Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e realtivamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.

Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto od il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.

Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.

Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario.

Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.

Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kenedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.

In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».

Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.

Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.

Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flak, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.

Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».

Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.

Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.

Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.

Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso. [Su Carmilla:  1  2  3  4]

In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.

Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.

È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Urgenze sovversive. “Perché la pazienza ha un limite, Pazienza no” https://www.carmillaonline.com/2017/09/16/urgenze-sovversive-perche-la-pazienza-ha-un-limite-pazienza-no/ Fri, 15 Sep 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39885 di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a [...]]]> di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a definirsi un disegnatore indolente, in realtà in una decina d’anni ha prodotto parecchio materiale. Questa propensione dell’artista a descriversi svogliato deriva forse dall’ambiente di fine anni Settanta entro il quale si trova a vivere, decisamente ostile ad obblighi, contratti, scadenze e più in generale a tutto ciò che odora di lavoro.

Lo studio di Cristante prende il via dalla pubblicazione nell’aprile del 1977 su “Linus” delle tavole che danno vita alla prima storia di Pazienza, Pentothal. Lo stile adottato risulta decisamente caotico e servono quasi quattro anni all’artista per giungere alla tavola conclusiva mostrante la scritta «“Le straordinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario, come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del disegno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio» (p. 28).

La situazione vissuta da Pazienza è quella del ’77 bolognese, quella della città del Pci che finisce col fronteggiare il movimento con i blindati dell’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga. Cristante rintraccia in Pentothal le modalità con cui il giovane di origini pugliesi vive la turbolenta realtà bolognese: «La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal (che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato. È dentro le cose dei suoi giorni […] e simultaneamente buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna. Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il bagaglio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale» (p. 29).

Nel saggio si sottolinea come Pazienza inizialmente pubblichi non secondo le modalità della serialità narrativa ma, piuttosto, con la logica dell’esemplarità di ogni apparizione che si manifesta come un connubio «tra equilibrismo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una pagina dalla linea chiara a quella scura» (p. 29). Le tante fonti d’ispirazione vengono per certi versi da lui esasperate a livello esponenziale e le singole tavole finiscono per rappresentare un universo visionario autosufficiente che Cristante definisce efficacemente «Polaroid a fumetti di un proletariato giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza» (p. 29).

Nel periodo in cui lavora a Pentothal, Pazienza introduce «una neo-lingua fattona-terrona» (p. 30) che utilizzerà, successivamente anche su “il Male”. Lo stile narrativo e grafico del giovane autore risulta fortemente autobiografico ed esistenziale e ciò lo differenzia da quello del francese Moebius, spesso citato in Pentothal. Pazienza rielabora «il postmodernismo futurologico di Moebius in un presente stralunato» (p. 30); le strampalate automobili del francese vengono riprodotte da Pazienza non per viaggi nello spazio ma per girare in un altrettanto stralunato paesaggio terrestre quotidiano. Mentre i personaggi di Moebius si presentano come creature eteree in ambientazioni future misticheggianti, «quelli di Pazienza corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferimenti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un monologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario, audacemente lirico» (p. 31).

In Pentothal fanno capolino diversi personaggi e situazioni che si ritroveranno nelle produzioni successive dell’autore. Nel primo episodio si viene proiettati nella quotidianità del movimento bolognese del quale, per certi versi, Pentothal si sente sia parte che estraneo e, sostiene Cristante, a tale “bipolarità situazionale” finisce col rispondere con improvvisi “scarti laterali”. «Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!» (p. 32).

Pentothal si presenta come una serie di flash improvvisi legati l’uno all’altro soprattutto dalla presenza dell’artista nei diversi frammenti. Nell’atmosfera onirica e alterata messa in scena dalle tavole, il protagonista ha ormai abbandonato ogni velleità eroica. Sulla falsariga di quanto proposto da Moebius, Pazienza ricorre a stralunati riassunti delle puntate precedenti e gioca su molteplici piani narrativi ricorrendo a citazioni colte e reinterpretando l’immaginario proposto da “Métal Hurlant”. «Dopo un paio di tavole moebiusiane (tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici personaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta della rivista “Cannibale” e l’ammissione di essere appena arrivato da Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demenziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pentokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro” […] “Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato [Zanardi] e penso: E se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripensarci, come fa?”. “L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordinate e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da “Frigidaire” – ma il marchio del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visivo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”» (pp. 34-35).

All’avventura di “Cannibale” ideata da Stefano Tamburini, danno manforte autori come Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e, successivamente, Tanino Liberatore. Nell’inverno del 1977, nel secondo numero della pubblicazione, quello delle “quattro copertine possibili”, Pazienza pubblica una storia che ha per protagonista una variante fricchettona di Pippo, il celebre personaggio disneyano, ricorrendo ad un tratto grafico che, sottolinea Cristante, cita esplicitamente lo stile di Robert Crumb, uno dei maestri dell’underground americano. «Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro […] Lo fa immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto fricchettone in mezzo al deserto» (p. 38). Toccherà a Topolino riportare a casa Pippo ma, suggerisce Pazienza, nonostante sia rientrato nei ranghi, Pippo non manca di fumarsi spinelli. «Siamo dunque così all’immagine capovolta del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del carattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mistero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro “perché Pippo sembra sballato…” “Sembra sballato perché È sballato!”» (p. 40).

Sempre nel secondo numero di “Cannibale” Pazienza pubblica Prixicel!!, una storia in sette tavole di ambientazione fricchettona in cui acidi tagliati con la nitroglicerina fanno esplodere chi ne fa uso. Personaggi strafatti tornano anche nei numeri successivi di “Cannibale”: E per me un Anco Marzio (1978), Ma cosa succede? (1978), Agnus Dei (1979).

Francesco Stella è invece indicato da Cristante come personaggio interstiziale che Pazienza fa comparire in svariate occasioni e sotto diverse vesti. Per la prima volta Stella compare in otto tavole pubblicate su “Cannibale” nel 1979, nelle vesti di un operaio che sogna di esportare i pelati negli Stati Uniti, poi lo si incontra nelle otto tavole della storia rock-fantascientifica Vita e gite (1981) su “Frigidaire”, fino a ritrovarlo nei panni del tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, protagonista delle quarantotto tavole di Aficionados (1981), «una storia piuttosto eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di misura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampatello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti. L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il trattamento è da racconto storico» (p. 44).

Su “il Male” del settembre 1979 compare, probabilmente per la prima volta, una vignetta di Pazienza ritraente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Da quel momento, di tanto in tanto, il personaggio viene riproposto dall’artista anche sulle pagine di “Frigidaire”. «Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti» (p. 52). Per qualche tempo Pazienza spinge sull’acceleratore del “rincoglionimento senile” del Presidente, dando vita a spassose vignette in cui l’ex-partigiano nel confondere le cose o i ricordi si lascia andare ad affermazioni surreali.

Nell’albo dedicato a Pertini il personaggio cambia e diviene un intransigente e collerico decisionista a cui Pazienza affianca «un altro personaggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato, psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione, codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chiama Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del “luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongruità spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione d’avanspettacolo» (p. 55). Su questa base l’artista inserisce una scrittura ricca di svarioni ortografici, giochi di parole e rime.

Nel 1979 Pazienza pubblica su “il Male” Il Partigiano, una surreale storia di resistenza all’invasione comunista nella sua San Severo nel foggiano di un personaggio dagli evidenti tratti autobiografici. Secondo Cristante «Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resistenziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclettico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano, inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori» (p. 63).

Nel racconto breve Giallo scolastico (1981), ove appaiono personaggi come Zanardi (Zanna), Colasanti (Colas) e Petrilli (Pietra), l’unità di misura generale, sostiene Cristante, è la tavola, ma è nella vignetta che si ritrova la precisione; «una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisionomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico» (p. 66). Il racconto è composto da quattordici tavole, ad alto numero di vignette per tavola, in totale sono quasi centosessanta, «anche se alcune sono in qualche modo doppie, perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano la portata» (p. 66). La serie prosegue con numerose storie fino all’incompiuta Zanardi medievale (1988).

Zanardi rappresenta un personaggio importante nella produzione di Pazienza. Con esso, l’autore non si accontenta di ritrarre il mondo giovanile dell’epoca all’interno di una cornice noir; Zanardi si trasforma «in una declinazione di stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio di imprese scaltre e buie […] brand di una devianza che si erge sopra ogni normalità» (p. 87).

Il personaggio Pompeo, un tossicodipendente capace di osservare il mondo in cui vive con un certo distacco, compare su “Alter” nell’aprile del 1985, pubblicazione che però, dopo poche uscite, decide di interromperne la collaborazione con l’autore. Grazie alle edizioni Grifo Pompeo giunge in libreria nel 1987. Gli ultimi giorni di Pompeo (1987) secondo Cristante può essere considerato un graphic novel di 116 tavole in cui a colpire, più che lo stile letterario, è «l’esibizione calligrafica realizzata con il pennarello [capace di creare] un lettering multiforme e attraente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatello maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tremolanti e oscure […] Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su foglietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale. L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una misteriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza» (p. 91).

Cristante analizza nei dettagli il mondo messo in scena da Pompeo a partire dalla prima pagina dell’opera definita dallo studioso metaletteraria e cross-mediale: metaletteraria perché viene citato un passo letterario all’interno di un’opera letteraria, e cross-mediale in quanto si cita il medium letteratura nel medium fumetto.

Campofame (1987) è invece un’opera, pubblicata in tre puntate da “Comic Art”, che Pazienza deriva da Hungerfield di Robinson Jeffers. Ad attrarre Pazienza, si sostiene nel saggio, è probabilmente il fatto che Jeffers con Hungerfield tenta di elaborare il lutto causato dalla perdita della moglie lo fa «affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield (Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere la Morte e di affrontarla» (p.123). Mentre la prima parte di Campofame è potente, le ultime sette tavole risultano un po’ approssimative con un finale affrettato che differisce sostanzialmente da quello di Jeffers.

Nella prima parte del saggio l’autore mette in evidenza soprattutto l’abilità di Pazienza nel concepire e trattare testi e aggiunge: «l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente all’olimpo dei comics […] Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli abbia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta» (pp. 140-142).

Il penultimo dei venti volumi dedicati all’opera di Pazienza, pubblicati nel 2016 da Repubblica-L’Espresso, intitolato Incompiute, presenta diverse tavole non finite. Tra queste ve ne sono alcune appartenenti ad Astarte, storia restata incompiuta a causa della morte dell’artista. Dalle dieci tavole, contenenti ottantacinque vignette, Cristante segnala l’altissima densità di inquadrature ed espressioni e la cura della lingua utilizzata, priva di strafalcioni ortografici o gramelot. «La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa, come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte, annunciata fin dalla prima tavola» (p. 146).

Nella parte finale del saggio viene riproposta per intero una lunga composizione scritta da Pazienza, probabilmente durante il suo primo periodo da studente del Dams, in quanto da essa è possibile derivare numerose informazioni circa la poetica dell’artista: «la smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli accostamenti demenziali» (pp. 152-153). Inoltre, grazie a questo scritto di Pazienza si possono ricavare alcuni tra i numerosissimi riferimenti artistici e culturali che hanno in qualche modo influenzato la sua produzione: Pratt, Wolinski, Pichard, Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz, Breccia, Claire Bretécher, Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Breton, Vladimir Tatlin, Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Sironi, Piero Manzoni, Pistoletto, Mondrian…

L’orizzonte espressivo di Pazienza è quello delle grandi trasformazioni che conducono agli anni Ottanta e l’artista testimonia i mutamenti «da una postazione inconsueta: quella del soggetto che si fa personaggio [entrando] nelle tavole a fumetti esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, portando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e universitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza rende pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della gioventù» (p. 185).

L’arte di Andrea Pazienza «è stata in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immaginario collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando se stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescelto, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello, erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascorso a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intorno a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimentale nelle chiese e nei musei toscani» (p. 187). La voglia di sperimentare e sovvertire non è mai venuta meno nel corso della breve vita dell’artista… perché se la pazienza ha un limite, Pazienza di limiti davvero non ne aveva.

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Paz! Tuttodunfiato su (e senza) Pazienza https://www.carmillaonline.com/2016/06/07/tuttodunfiato-senza-pazienza/ Tue, 07 Jun 2016 21:45:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30608 di Gioacchino Toni

paz_cover_particolareRoberto Farina, I dolori del giovane Paz. Contributi alla biografia negata di Andrea Pazienza, Milieu edizioni, Milano, 2016, pp. 176, € 14,90

«Andrea Pazienza è in balìa di chi ne vuole fare un mito da esporre su una t-shirt e da conservare in banca. L’arte in lavatrice, l’arte in cassaforte» (Prefazione p. 16)

«C’è in corso questo tentativo di fare di Pazienza un’icona del ‘77 bolognese, ulteriore segnale, questo, del vampirismo onnivoro della società del mercato globale, che non consente forme di antagonismo che siano al di fuori [...]]]> di Gioacchino Toni

paz_cover_particolareRoberto Farina, I dolori del giovane Paz. Contributi alla biografia negata di Andrea Pazienza, Milieu edizioni, Milano, 2016, pp. 176, € 14,90

«Andrea Pazienza è in balìa di chi ne vuole fare un mito da esporre su una t-shirt e da conservare in banca. L’arte in lavatrice, l’arte in cassaforte» (Prefazione p. 16)

«C’è in corso questo tentativo di fare di Pazienza un’icona del ‘77 bolognese, ulteriore segnale, questo, del vampirismo onnivoro della società del mercato globale, che non consente forme di antagonismo che siano al di fuori di essa. Sotto questo aspetto Pazienza rischia di essere vittima del percorso di ogni avanguardia: nato come forte rottura nei confronti del mercato, ne è poi riassorbito. Con la differenza che quello delle avanguardie storiche era un antagonismo intellettuale, mentre quello di Pazienza era soprattutto vitale» (Gianni Canova, p. 21) / «La verità porta con sé la contraddizione e la contraddizione è sempre sgradevole. Pazienza e quelli del gruppo di Frigidaire mostravano la verità della contraddizione e la contraddizione della verità. Lo facevano raccontando il mondo come lo vedevano, senza compromessi o mediazioni di comodo» (Daniele Luttazzi, pp. 25-26) / «Mi colpiva la violenza con cui si buttava nelle cose, i suoi eccessi. Però, mentre questa aura di dannazione di solito la si associa a qualche aspetto diabolico, nero, cupo, in lui era angelica: era un dannato circondato da nuvolette azzurre» (Claudio Lolli p. 28) / «Paz è agli antipodi della coglionaggine ottimistica che c’è in giro e di cui i media sono pieni, con tutta quella gente che fa finta di essere allegra per qualcosa che non merita neanche un secondo di attenzione» (Bifo p. 32) / «Andrea lo diceva, che i fumetti potevano arrivare a tutti e che invece i quadri finivano nel salotto dei farmacisti» (Roberto Perini p. 40) / «era un confusionario che impastava tutto e lo rovesciava sulla carta, con l’occhio del narratore» (Sergio Staino p. 42) / «Nella satira, prima, c’era poesia e speranza. Ora c’è al massimo rabbia e sarcasmo» (Roberto Vecchioni p. 50) / «Non aveva il senso del reale e andava avanti così, tanto il fisico glielo permetteva. Viveva senza volere rendersi conto che nella realtà le cose le paghi» (Jacopo Fo p. 53) / «Il Male, Cannibale, poco Alter e tutto Frigidaire: questo è il Pazienza che mi piace, tutto il resto sono stronzate» (Filippo Scòzzari p. 56) / «Se sei morto, poi, è facile finire in pasto agli avvoltoi del concetto, che ragionano all’interno di conformismi culturali di varia natura e che portano ad un altro conformismo, quello del giudizio, contro cui era tutta l’opera di Paz e della sua squadra» (Vincenzo Sparagna p. 60) / «La sceneggiatura negli ultimi anni gliel’ha scritta la siringa» (Jose Munoz p. 66) / «Gli anni Ottanta sono stati l’inizio della fine. Tutto è cambiato, le droghe non erano più solo divertimento, ma necessità. Quindi, tutte le miserie sono arrivate» (Emi Fontana p. 72) / «Per lui vita e arte erano inscindibili, rovesciava tutto nell’arte, e io ero arrivato al punto di stare attento a quello che gli dicevo, perché sapevo che poi sarebbe finito tutto dentro il suo lavoro» (Marcello Jori p. 78) / «Andrea me lo ricordo come figlio del Movimento, ma in modo spontaneo e non strettamente politico. In quanto artista con le antenne ben tese, raccontava ciò che captava» (Roberto “Freak” Antoni p. 82) / «Viveva come fosse sempre sul palcoscenico» (Luigi Daminai p. 85) / «Ma son tutte balle! Non bugie, però… voglio dire, ognuno avrà finito con il parlarti di sé o dell’Andrea Pazienza che più gli somiglia, o che più somiglia ai suoi rimpianti» (Sandro Matarazzo p. 90) / «Bisogna avere il coraggio di essere politicamente scorretti. Questa patina di perbenismo sta inglobando una cosa che era libera: l’arte. Una volta poteva essere trasgressiva, ora la vogliamo da salotto e da supermercato. La vogliamo vendibile» (Antonio Veneziani p. 98) / «Lui aveva la sensazione di avere un tempo veloce, come nel disegno… Io, invece, sono condannato a invecchiare e la cosa mi rattrista molto» (Vincino p. 103) / «Secondo me non è per ciò che raccontava che Paz ben restituisce la sua generazione, ma è per come raccontava» (Benka Macrobio p. 106) / «Discutevamo per ore utilizzando il nostro linguaggio di strada, sul quale però si innestavano le parole colte derivate dalle nostre passioni culturali. Andrea operò una magnifica sintesi di questo fenomeno di cultura alta e cultura bassa e io credo che stia in questa sintesi il segreto della sua forza e freschezza» (Reanto de Maria p. 116) / «Era un casino da restarci secchi, ma, credimi, quanto erano belle le strade di Bologna in quegli anni. Non erano mai state così belle. Chissà come sono adesso» (Enrico Fiabeschi p. 125) / «Poi, all’improvviso, nell’estate del 1978, dal fresco soffio del Movimento siamo precipitati nel freddo tombale della droga. Come successe? Successe che nella terra ubertosa dell’immaginazione condivisa, della voglia di vivere comunitariamente, di sperimentare nuove relazioni e nuovi linguaggi a un certo punto cadde il seme della paura e fu lì che attecchì la droga» (Massimo Pagliarulo p. 131) / «Nelle storie di Pazienza c’è il divertimento di mettere in scacco la provincia: quegli eroi sono molto più grandi del piccolo mondo in cui si muovono» (David Riondino p. 141) / «In questo scenario attuale che potrebbe fare Pazienza, se non fosse morto? Forse nulla, almeno nei fumetti intendo. Forse una graphic novel, come chiamano adesso i libri di fumetti, una volta l’anno. Ma non avrebbe più l’impatto che ha avuto all’epoca» (Francesco Coniglio p. 150) / «era quella, effettivamente, l’unica narrazione possibile. Perché quel movimento lì, ostile a ogni struttura formale, refrattario a qualunque politica di compromesso, imbevuto di desiderio fino al midollo, non poteva essere altrimenti rappresentato» (Oscar Glioti p. 155) / «In un’ora sola della sua vita sprigionava l’energia di un anno di una persona normale, e le sue migliaia di tavole ne sono la dimostrazione» (Marina Comandini p. 167) / «Francamente non saprei dire perché quei fumetti mi brillarono subito dentro in quel modo. Ma sapete perché i cani, come Pippo, sono i nostri migliori amici? Perché ci somigliano in una cosa: amano, e non si sa il perché. BAU» (Postfazione, p. 171)

paz_16_cover«Alcune di queste interviste sono state raccolte anni fa, con il desiderio di farne dono alla madre di Paz. Altre con l’idea di ripercorrere alcune tappe d’un percorso che mi aveva accompagnato nella mia adolescenza. Altre ancora per semplice curiosità. […] Incontrai molti cattivi maestri di quegli anni e misi insieme un bel po’ di materiale. Poi senza quasi accorgermene tutto finì nel cassetto, e poi all’improvviso tutto ne uscì. Non so perché. Forse, in fin dei conti, per non darla vinta al cassetto» (Postfazione, p. 169).

 

[Prima edizione, 2005, Coniglio editore. Nuova edizione aggiornata, Milieu edizioni, maggio 2016]

 

 

 

 

 

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Divine divane visioni (Urlando furioso 03/04) – 48 https://www.carmillaonline.com/2013/05/22/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0304-48/ Tue, 21 May 2013 22:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5865 di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare [...]]]> di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan
Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare le prese scart senza far casino e alla fine ce la faccio. Infilo una vecchia videocassetta, schiaccio rec e già che ci sono mi vedo pure il film in diretta. Ed è un buon prodotto dove si racconta un periodo solitamente travolto dalla semplificazione storiografica, punitiva e negazionista, che preferisce parlare di generici Anni di piombo o che, in perfetta e speculare banalizzazione, li sputtana beandosi del riflusso (come col fazioso Anima mia, e de li mortacci sua). Era una stagione ricca, di lotta politica, certo, e di generosità, dove la voglia di confronto e di esperienze erano lontane da ciò che la società voleva imporre. Reducismo e vittimismo hanno fatto un cattivo servizio alla memoria ma il bel documentario di Rastelli – che utilizza materiali diversi, tra cui i famosi nastri di Alberto Grifi – evita questi sentieri fuorvianti e restituisce il sapore di quell’elettricità raccontando il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro del 1976. Si parla di ideologia, di utopia e della sua morte. Nudi verso la follia però non è un film concerto e la musica è un mezzo di comunicazione politica e sensuale. Tra gli intervistati Stefania Maggio (che all’epoca era giovanissima, autonoma, e naturalmente nuda), Fabrizio Passarella (uno degli organizzatori), Alberto Camerini, Eugenio Finardi e lo splendido Patrizio Fariselli degli Area. Bello! La mia testolina passa repente ad altro: ieri è morto Ronald Reagan, un mio nemico. Non vinse affatto la Guerra Fredda, come titola Repubblica, con una falsificazione emblematica (non son sicuro di cosa, ci devo pensare). Era invece un caprone manicheo, un assassino, un bugiardo, uno spione e pure un attore cane. Però aveva nel suo staff dei buoni battutisti: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. Non mi mancherà per niente: adesso aspetto sulla riva del fiume la Thatcher e Andreotti e poi posso spirare tranquillo. (Diretta su Canal Jimmy; 6/6/04)

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472 – Sempre un piacere, Angel Heart, di Alan Parker, USA 1987
Questo è un mio personalissimo cult: all’uscita lo vidi tre volte in sala. La prima con Pier Paolo, dopo il Natale 1987. Poi, poco dopo, con Ferro e l’ultima volta a Champoluc, con la consueta compagnia di amici vacanzieri: degenerò in lite finale su senso e qualità del film. La vicenda, all’epoca, ci sembrava un rompicapo, oggi è limpidissima, quasi lampante nella sua evidenza, ma il film non ha perso un briciolo del suo fascino malato, ricco di temi visivi ossessivi: scale, ventole, pioggia, sangue. Harry Angel è di Brooklyn e non sopporta i polli: a New Orleans lo aspettano tip tap sinistri e incesto, l’aspra cultura cajun e il potere ambiguo della radice di Guglielmo il Conquistatore. Siamo catapultati in una Louisiana umida e sensuale, al suono del blues, tra riti voodoo e patti col diavolo: cosa voglio di più? In più c’è un cast da infarto: De Niro – manierato, sardonico, inquietante – si presenta subito come Louis Chyphre, citando i Rolling Stones. Lisa Bonet è di una bellezza stratosferica e cancella ogni ricordo televisivo dei Robinson: il destino le riserverà qualche pestaggio da parte di Lenny Kravitz e l’oblio, purtroppo. E infine c’è Mickey Rourke, l’attore in cui avevamo riposto ogni fiducia: un corpaccione pesante, ancora lontano da chirurgia estetica e orchidee selvagge. Diede presto segni di squilibrio consegnandosi alla Cavani per il tremendo Francesco e la conferma che c’era qualcosa di sbagliato arrivò con la strampalata carriera pugilistica. Ma era e rimane un grande, anche suonato. Il film è un pastiche di diversi generi (noir, thriller, horror), ma funziona ancora e pur conoscendolo a memoria (e non lo vedevo da 15 anni!), m’è filato veloce come un treno. A voler essere pignoli, forse Lucifero poteva escogitare un modo più semplice e veloce per ottenere il tributo dovutogli, ma evidentemente gli piacciono le cose ben fatte e adesso Harry Angel brucerà all’inferno (arrivandoci in ascensore). Visto in lingua originale: grandissimo film e grandissimo regista, capace sempre di lavorare su più registri. (Dvd; 16/6/04)

ddv4803473 – Molta Sympathy For The Devil, ci mancherebbe, di Jean-Luc Godard, Gran Bretagna 1970
Credo in poche cose e Keith Richards è una di queste. Giusto per chiarire. Poi: ho cominciato da poco a scribacchiare delle veloci recensioni per un mensile chiamato Rodeo che si occupa di fashion e arte e viene distribuito gratuitamente a Milano. Il diretùr è Massimo Torrigiani, lo stesso di Boiler, magazine estremamente hip dove invece vengo tradotto in inglese e distribuito su scala planetaria a fianco di contributors come Pete Townshend e Madonna: Massimo mi ha chiamato e anche stavolta non ho saputo dire di no. Ecco cosa gli ho rifilato. “L’estrema coolness del rock: Keith Richards. Pantalone di velluto attillato, piedi nudi, foulard, collana e sigaretta perennemente in bilico dal labbro. E la chiara visione di come dev’essere inciso un brano leggendario. Jean-Luc Godard, uno che non batte mai strade risapute, mette in parallelo la nascita di uno dei capolavori del rock, l’inno Sympathy For The Devil, con le istanze cinemarxiste di fine anni Sessanta. Ne esce un film logorroico, confusionario ed estenuante, tra piani sequenza interminabili e inafferrabili discorsi concettuosi. Ma poi arrivano i nostri e Jagger insegna gli accordi a un Brian Jones visibilmente stordito. Il pezzo non decolla e allora Keith imbraccia il basso e in mano a Bill Wyman lascia le maracas. Il Fender Precision diventa il propellente ritmico del pezzo che ormai è un sabba musicale sottolineato dalle voci degli amici che fischiano “woo wooo” come un treno. Ciliegina sulla torta, un assolo bruciante che esce da una Les Paul Black Beauty. Film indigeribile per molti, ma di straordinario appeal visivo e sonoro. Come nasce la Rivoluzione? Come nasce un capolavoro? Ineffabile, anche Godard alla fine avrà canticchiato It’s Only Rock’n’Roll”. Un po’ leccatino, eh? Vabbeh: qualcos’altro da aggiungere a questa miniatura? Se non è già abbastanza chiaro, gli sproloqui di Jean-Luc risultano micidiali: ho resistito mezz’ora poi ho lasciato il mezzo svizzero al suo delirante collage sonoro e ho smesso di vedere, guardavo soltanto: una fotografia notevole al servizio delle interminabile inquadrature; un’edicola come paradigma del consumo contemporaneo; tanti black panthers arrabbiati; Anna Wiazemsky intervistata che risponde per monosillabi; slogan come “Freudemocracy” e “Sovietcong” scritti per le strade. Film antinarrativo, non è sottotitolato, ma non vedo come potrebbe. In settimana volo per lavoro a Roma e seduto due posti davanti a me c’è l’onorevole Ugo Intini, un acerrimo nemico dei miei vent’anni, quando era ogni sera in tivù a commentare entusiasticamente ogni uscita del cinghialone. Oggi è eletto nelle fila dell’Ulivo. Vorrei aprire uno sportellone e buttarmi giù. (Dvd; 2/7/04)

ddv4804474 – Nido di vespe, una vaccata di Florent-Emilio Siri, Francia 2002
È il colpo perfetto: un deposito nella banlieue di Strasburgo, pronto da svaligiare. Santino, Nasser e company si sentono già ricchi quando, inseguito da una milionata di balcanici incazzati e armati fino ai denti, arriva un blindato con dentro quattro flic e il loro preziosissimo prigioniero: il boss totale della mafia albanese. Diventa Fort Apache, con rapinatori e “buoni” che devono unirsi per salvare la pellaccia. Sparatorie, adrenalina e una discreta costruzione. Però il film crolla quando dovrebbe tirar fuori le palle: gli assediati costruiscono una sorta di fortino con dei container e questo momento epico viene buttato via, dimenticando la lezione di tutti i film d’assedio. E fin qui, passi. Ma lo scempio si compie con la liberazione. Secondo i sacri manuali tutto il film dovrebbe essere una lenta e sapiente costruzione dell’orgasmico “arrivano i nostri”. L’intelligenza del bravo sceneggiatore sta nel saper giocare con la prevedibilità della ricetta, inventando qualche variazione e aggiungendo qualche ingrediente nuovo. Qui – oltre a rubacchiare fin troppo da Carpenter – si fa presto: si evita la liberazione e si vede direttamente il dopo, dovendoci bastare il sacrificio di uno dei resistenti che si immola ammazzando un po’ di avversari. E chi sa se li ha fatti fuori tutti o no. Boh: la polizia è arrivata e i nostri eroi sono pronti per il ricovero. Zero psicologia, zero relazione tra i personaggi, neanche qualche banale legame o chimica interpersonale, niente. E i dialoghi fanno paura per pigrizia inventiva. Peccato. Film a parer mio scarsuccio, di cui ricordo invece ottime recensioni da parte di critici distratti o disperati. In questi giorni ho anche visto diversi episodi di Friends: c’è stato uno scambio tra drogati (con Nuria, che ha ricevuto i miei Sex and The City) e ho messo le mani sui Dvd della prima serie dell’epocale sit-com. Con la scusa dell’esercizio linguistico e qualche non meglio precisato interesse professionale del sottoscritto, Barbara e io abbiamo polverizzato i 4 dischetti. Oggi, delle ultime serie del telefilm, m’importa poco: vicende stanche e ripetitive, chiaramente aggrappate al bisogno di soddisfare l’audience e onorare contratti milionari. Conosco la solfa: the show must go on e Misery non deve morire. I protagonisti sono diventati insopportabili, ma nel 1994 erano dei twentysomething – non sempre credibili – alla ricerca di un lavoro e di una posizione sociale e sessuale. Gli episodi sono scoppiettanti e il kick off è da manuale: la viziata Rachel è in fuga dal matrimonio e piomba a New York, dall’amica Monica, il cui fratello Ross è appena stato lasciato dalla moglie scopertasi lesbica. Di contorno gli altri tre amici: il professionista Chandler, l’attore Joey e la scapestrata hippie Phoebe. I tic, le manie, i sogni, i timori di sei ragazzi che rappresentano perfettamente la nazione americana, eterna fanciulla che rifiuta di crescere e deve fare i conti con l’età adulta. E che la rappresentano anche come vorrebbe essere: sempre giovane, generosamente ingenua, bianca, lavoratrice, positiva, felice. Anche se nella versione originale le risate sono molto presenti, ci si abitua presto e – vi assicuro – è una gioia ottusa ridere in tanti. (Dvd; 11/7/04)

ddv4805475 – Keep calm, raga, ma ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003, stavolta a Mantova
Mentre a Milano Fame chimica resiste in sala, la demenziale logica distributiva della Lucky Red è continuamente smentita dalle richieste di rassegne e cineclub: stasera sono assieme al regista Paolo a presentare il film a Mantova, in un attivissimo cinema d’essai, il Mignon. Lo anima Agostino, vecchio amico del mio mentore Davide Parenti, col quale anni fa organizzava rassegne. In qualche modo sembra di tornare a casa e la proiezione è all’aperto, con uno schermo che ricorda quello di Strategia del ragno. L’atmosfera è del resto bertolucciana fin dall’entrata del Mignon, con le foto di scena di Novecento, girato nei dintorni. Assieme ad Agostino c’è Claudio, suo compagno di ricognizioni cinematografiche. Questa è gente che vive di cinema: lo mangia, lo respira, lo sogna e non s’è ancora disillusa, nonostante distributori, produttori e spettatori distratti provino a rendergli la vita impossibile in ogni maniera. La sala resiste ed è un gioiellino, dove non è solo di prima qualità la scelta dei titoli ma anche la proiezione e il sonoro. E i mantovani devono saperlo: la città è deserta e fa un caldo sudanese, ma non c’è un posto libero. Durante la proiezione andiamo a mangiarci una pizza con gli organizzatori e si parte coi classici racconti da cineclub: le pellicole non arrivate o sbagliate, le tipologie di spettatori e le modalità di visione, gli abbagli critici, quell’esilarante volta che… e così via. Non posso esimermi dal raccontare della traduzione simultanea dei gelidi film tedeschi al Lumière (l’interprete, con la cadenza del Gabibbo, ci metteva una partecipazione nulla e aveva sempre la stessa intonazione, sia che fosse una scena comica o una sparatoria) o della volta che ho visto Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov con le didascalie in cirillico e la voce affranta da fondo sala che continuava a chiedere: “ma non c’è qualcuno che sa il russo?”. Torniamo in tempo per i titoli di coda e il dibattito, quanto mai piacevole. Pubblico attento, curioso e pieno di domande. Ed è bello, perché si conosce della gente e le loro motivazioni: come si viene a sapere di un titolo, perché si decide di vederlo, come lo si commenta. Viva il pubblico, perché suo è il regno dei cinema! (Cinema Mignon, Mantova; 20/7/04)

ddv4806476 – Il fragile Unbreakable di M. Night Shyamalan, USA 2000
Se non l’avete visto, non leggete oltre. David (Bruce Willis) vive come narcotizzato: non comprende il mondo che lo circonda, è ai ferri corti con la moglie, non riesce a stabilire un ruolo nei confronti del figlio. Ed è l’unico sopravvissuto in un incidente ferroviario con un pacco di morti. Il culo, eh? Lo rintraccia un collezionista di fumetti (Samuel L. Jackson) che crede che la mitologia dei comics abbia più di qualche aggancio alla realtà e gli chiede quanti infortuni abbia avuto in vita sua. E David si rende conto che non è mai stato male. Il suo interlocutore, invece, è il più debole possibile: lo chiamano Mr. Glass perché le sue ossa si spezzano soltanto a guardarle. David non vuole essere scocciato da questo matto, ma il dubbio è stato instillato: e se fosse veramente un super eroe, come insinua l’uomo di vetro? Perché, quando sfiora qualcuno, ha delle premonizioni e capisce se faranno del male o no? È pura suggestione? È vero che anche lui ha un punto debole (l’acqua), come l’epica (anche fumettistica) insegna? Shyamalan tenta una cosa molto difficile: ragionare sui meccanismi della narrazione popolare costruendo al contempo una vicenda che possa essere fruita come tale, secondo gli archetipi della cultura media, comprensibile da tutti. Gioca con le ossessioni americane, con la cultura popolare yankee, con le leggende metropolitane, col Caso che non è mai casuale. Il film risulta più sciocco delle idee che lo animano e ha alti e bassi (una certa lentezza, tra l’altro), ma l’idea mi piace, per cui lo promuovo. Forse David è un super eroe: potrebbe, gli elementi ci sono tutti. Ma forse no: l’unico momento che non ha giustificazione logica è quando intuisce che l’addetto alla pulizia della stazione dei treni è un assassino. Tutti gli altri casi (quando individua un attentatore o sospetta di altri) risultano plausibili, vuoi per intuito, fortuna o mera possibilità: questo invece è il solo momento in cui la regia non trova una motivazione attendibile per l’operato del protagonista. E quindi il dubbio rimane: non è un errore, è un’incertezza voluta, direi. Bruce Willis è abbastanza ligneo, come da trademark, pur tuttavia simpatico in questi ruoli dolenti, dove soffre perché non capisce che cazzo ci stia a fare lì, con un regista che una volta lo fa morto e l’altra superman. (Dvd; 24/7/04)

ddv4807477 – Neanche troppe, Sei donne per l’assassino, di Mario Bava, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1964
Siamo a Brisino per una settimana, prima di dedicarci al Tour de Corse, e le serate sono perfette per quella straordinaria invenzione che è il Dvd. Considerato sia il primo body count che il primo slasher della storia del cinema, Sei donne per l’assassino è una sinfonia di morte, colori e musica clamorosamente orchestrata dal talento visivo di Mario Bava. Il plot è lineare e perverso ed è stato concepito e sceneggiato da quel Marcello Fondato già co-autore di Tutti a casa e poi insuperato regista di …Altrimenti ci arrabbiamo (un uomo, un genio, insomma): in una fashion house romana vengono fatte secche una modella dopo l’altra. Chi è stato, tra i tanti (uomini) che razzolano l’ambiente? Il mistero attizza e Bava sa come tenerti sulla corda: ogni uccisione è inventiva e raggiunge un nuovo grado di efferatezza. Dario Argento deve essere cresciuto su questo sacro testo che usa tutto alla perfezione per costruire un universo allucinato veramente de paura. Due anni fa mi aveva colpito l’incredibile irrealistica fotografia de La frusta e il corpo; qui il lavoro di Ubaldo Terzano è a livelli spaziali e ogni inquadratura è studiata nei minimi particolari cromatici, una tavolozza accesa da rossi violentissimi ma anche ammorbidita da luci di contrasto perfette. Rustichelli poi sottolinea il tutto con una musica inquietante e ineludibile. Certo, gli attori non son granché e la storia va via veloce, ma che pacchia per gli occhi e le orecchie: Bava si dimostra uno stilista eccezionale. Satisfaction! (Dvd; 25/7/04)

ddv4808478 – Il capolavoro, cosa te lo dico a fare?, Rear Window, di Alfred Hitchcock, USA 1954
Questo La finestra sul cortile me lo rivedo ogni volta che posso e la versione restaurata in lingua originale su Dvd è occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Il film è splendido e intelligentissimo (io molto meno e potrei contestare solo due o tre scelte di montaggio, con delle giunte sgradevoli) ed è molto più di un semplice thrilling. È un’incontestabile difesa della scopofilia: Jeff (James Stewart), altrimenti fotoreporter scavezzacollo, è immobilizzato su una sedia a rotelle e passa il tempo osservando i suoi vicini di casa che gravitano sul cortile del retro. È insofferente, vuole liberarsi del gesso e ricominciare a girare per il mondo. Ma c’è un altro ostacolo: l’altolocata ed elegantissima fidanzata Lisa (Grace Kelly) vuole impalmarlo e addomesticarlo. L’ossessione guardona distoglie la coppia dai bisticci: la massaggiatrice Stella e Lisa sono all’inizio indignate della curiosità di Jeff, poi vengono tirate dentro: c’è un delitto da smascherare! Ma il delitto è l’occasione per riflettere anche sul matrimonio e sui rapporti di coppia. Tutti i vicini rappresentano una diversa tipologia di vita condivisa (o meno): c’è la triste donna sola; ci sono gli sposini che ci danno dentro, la petulante zitella e la desideratissima ballerina. E poi c’è Burr che risolve il suo matrimonio in maniera drastica, dandoci letteralmente un taglio. Hitchcock è malizioso e tutto il rapporto tra Jeff e Lisa è attraversato da una forte tensione erotica. Lei se lo magnerebbe vivo, ma lui è immobilizzato, impotente, ingessato. E il premio per l’intraprendenza di Lisa (che aiuterà a risolvere attivamente il caso) saranno ben due gessi, con Jeff (forse) definitivamente prigioniero. Hitch misogino? Mah! Forse sul set, ma nei suoi film si divertiva un mondo a prendere per il naso il pubblico maschile, blandendolo e compiacendolo, per poi dimostrargli l’incontestabile superiorità femminile. Certo: la coppia Kelly/Stewart è un po’ improbabile… lei è una macrognocca, angelica nell’aspetto ma col fuoco nelle vene. Lui un vecchio gatto di ghisa, dal ciuffo tinto, per nulla ipotizzabile come avventuroso fotoreporter. Com’è possibile che lei sia innamorata di lui? E com’è che di fronte a questa irreale possibilità, lui, impiazzabile sul mercato, offra ancora delle titubanze? Che gran cosa il cinema! Film superlativo, buon Dvd, ottimi extra. (Dvd; 26/7/04)

ddv4809479 – Purtroppo, L’amore è eterno finché dura, di Carlo Verdone, Italia 2004
La residenza estiva a Champoluc viene santificata con una visitina al cinema che mi ha regalato capolavori come Fantozzi, Anche gli angeli mangiano fagioli e …Altrimenti ci arrabbiamo. L’unico film decente è l’ultimo di Verdone e andiamo a subire una cocente delusione. Intendiamoci: in quasi due ore di film ci sono almeno cinque scene molto divertenti, perché Carlo sa far ridere, eccome. Però punta più in alto: non gli basta il comico, vuole la commedia di contenuto, che sappia indagare il costume. Ci prova, ma non gli riesce: dopo la prima azzeccata mezz’ora L’amore è eterno… va spegnendosi, come il rapporto tra Verdone e la moglie Laura Morante, che è (tanto per cambiare) isterica, bidonata e imbidonita. Verdone la lascia e trova una nuova compagna (Stefania Rocca). Ma anche lì non filerà tutto liscio, perché le relazioni affettive sono terribilmente complicate. Verdone è attore fantastico, capace di tic, facce, espressioni assolutamente comiche. Come regista però è meno felice: musiche, montaggio, fotografia, direzione degli attori e soprattutto controllo della sceneggiatura e del ritmo della messa in scena sono molto discontinui, con frequenti cadute di tensione. Peccato. E da carogna noto anche l’utilizzo mal dissimulato di tappo di sughero in testa. Durante il mese d’agosto, mentre eravamo in Corsica, abbiamo anche visto la cerimonia olimpica inaugurale ad Atene, con invenzioni scenografiche semplici ma d’effetto. Emozionante la sfilata degli atleti: io mi commuovo sempre anche perché credo ancora a cazzate come la pace nel mondo, la solidarietà, l’onore sportivo etc. Poi, una sera abbiamo visto mezz’ora di Paz! e ci è parso tremendo, tutto sopra le righe: la regia insegue la geniale anarchia fumettistica di Andrea Pazienza. Ma se ci sono i fumetti che sono dei capolavori, che senso ha rifarli – e male – al cinema? Potrà mai venire bene un balletto di Béjart scolpito? (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 18/8/04)

ddv4810480 – Maestosi Rush In Rio, di Daniel E. Catullo III, Brasile/Canada 2003
Siccome a metà settembre i Rush arrivano in Italia, mi metto avanti col lavoro, guardandomi un recente doppio Dvd che li riprende in concerto. Musicalmente è eccezionale, da un punto di vista produttivo è invece troppo montato. Il palco è buietto e non sempre la definizione è al massimo, ma è tale il coinvolgimento che chi se ne frega? A corredo c’è il bel documentario The Boys in Brazil che racconta come sia nata questa tournée carioca. Conosciamo la segreta alchimia del gruppo (al trio piace la zuppetta!), gli hobby personali e come venga vissuta l’estenuante routine del tour. Tra stadi zeppi, acquazzoni tropicali e commossi fan argentini e cileni, un bel modo di raccontare la musica. Ma chi sono i Rush? Eccovi il pezzo che scriverò tra un mese per Rolling Stone dopo averli visti in concerto a Milano (è un cortocircuito spazio-temporale, lo so: faccio miracoli, embeh?). “È l’ultima sera d’estate e 8000 persone hanno deciso di passarla assieme: sono progster, metalhead e nerd assortiti. Sono fan dei Rush: non una band, una fede. Cieca. Come dimostra anche il passato atteggiamento sartoriale del trio canadese: kimono, caffetani, pantacollant, vezzosi foulard e eyeliner. Oggi vestono come persone normali e vantano un’invidiabile autoironia, sconosciuta ad altri dinosauri del rock: si presentano sul palco con delle lavatrici (!), a centrifugare trent’anni di un repertorio che spazia schizofrenicamente dall’hard anni 70 fino al nu-rock (qualunque cosa significhi) del nuovo millennio, avendo costeggiato il pop synth anni 80 e soprattutto il progressive più fantascientifico. Geddy Lee è forse il frontman meno glamourous della storia del rock: brutto come pochi (sembra la strega Nocciola), segaligno e dotato di una voce incredibile, come se avesse i testicoli in una pressa. Mette subito le cose in chiaro: “suoneremo un milione di canzoni”. Lo accompagnano il pingue e pacioccone chitarrista Alex Lifeson e il very cool Neil Peart, tecnicissimo batterista attorniato da un kit rotante che sembra una centrale termoelettrica e farebbe la gioia di una decina di garage band. Amati in USA, di culto in Europa, i Rush devono la loro gloria a concept visionari (talvolta amabilmente cialtroni) e a una miriade di canzoni, ormai classici, decisamente imprevedibili. Come quella che racconta della lite nel bosco tra aceri e querce, per dire. Bellissima. Ma la vita è dura e al buon Peart, nel giro di un anno sono morte figlia e moglie. Dopo una comprensibile pausa lavorativa i tre amici si son guardati in faccia: questo san fare, suonare. E allora, via!: vai di tour, dischi e dvd. Loro si divertono e il pubblico – a giudicare anche dal successo della data milanese – anche di più: un vero show, generosissimo, divertente, vario, ricco di luci e immagini dai mega schermi. E tra i tanti loghi della band ne spunta anche uno vecchio come loro, ma altrettanto attuale: fate l’amore, non fate la guerra. Ed eviterete l’estinzione.” Bel Dvd, grandissimi musicisti e belle persone. Ma occupiamoci dell’Italia, va’! Cesare Battisti s’è dato alla macchia e ci son grandi polemiche, con la sinistra che – adesso – se la piglia con Castelli perché non è stato abbastanza cane da guardia. Siamo proprio un paese di merda. In Iraq è stato assassinato il prigioniero italiano Enzo Baldoni, pubblicitario, traduttore di fumetti, blogger, viaggiatore, reporter, volontario. Una persona curiosa che si intuisce splendida dal ricordo addolorato di tutti gli amici e conoscenti. Il foglio di merda che è Libero si distingue come al solito e non nasconde la soddisfazione che un pacifista sia finito ammazzato, un “amico dei terroristi”, uno “che se l’era andata a cercare”. Uno, aggiungo io, che il giornalista non lo faceva dalla poltroncina al soldo del padrone e con le agenzie embedded, ma andandoci, in Iraq, anche e soprattutto per aiutare. E à la guerre comme à la guerre, tutte le vite dei giornalisti di Libero non valgono dieci minuti dell’esistenza di Baldoni. Con rancore. (Dvd; 23/8/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 48)

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