Anabel Hernandez – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La vera notte di Iguala e il caso Ayotzinapa: intervista con Anabel Hernández https://www.carmillaonline.com/2017/03/15/la-vera-notte-iguala-caso-ayotzinapa-intervista-anabel-hernandez/ Tue, 14 Mar 2017 23:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37045 di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, Anabel vive da più di sei anni sotto scorta. Dall’agosto del 2014 e all’agosto del 2016, s’è dovuta rifugiare negli Stati Uniti, dove ha potuto vivere coi suoi figli grazie a una borsa di studio del programma di studi in giornalismo dell’Università della California a Berkeley. Ho conversato con lei delle sue scoperte sul caso dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, sulla corruzione delle autorità e il ruolo dell’esercito, sulla situazione dei cartelli del narcotraffico, sul muro di Trump e sulla legalizzazione delle droghe. Questa è la versione integrale dell’intervista di cui alcuni estratti sono usciti su Huffington e su Ctxt. Esce oggi su Carmilla in collaborazione con Frontiere News [Foto “Ayotzinapa” di Diego Simón Sánchez / Cuartoscuro].

Perché te ne sei dovuta andare dal Messico e com’è stato il periodo dell’esilio negli USA?

Prima di tutto va spiegato che il Messico è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per l’esercizio della professione giornalistica. Non sono solo parole al vento. In Messico sono stati assassinati più di 116 giornalisti negli ultimi dieci anni. Solo l’anno scorso sono stati sedici ed io, per sfortuna, sono una delle giornaliste che ha subito violenze e attentati come conseguenza del mio lavoro. In seguito alla pubblicazione del mio libro Los señores del narco (uscito in Italia col titolo La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga) nel dicembre del 2010 sono venuta a sapere da una delle mie fonti d’informazione che l’allora Ministro della Sicurezza Pubblica, Genaro García Luna, aveva organizzato un piano per uccidermi come rappresaglia per quanto avevo pubblicato su di lui e sulla rete di corruzione che operava dentro la Polizia Federale (PF) per favorire il cartello [organizzazione criminale] di Sinaloa e passava direttamente dallo stesso García Luna e dai principali capi della polizia. Questo ha provocato che la polizia organizzasse un complotto per assassinarmi. Me ne sono accorta in tempo e allora la Commissione Nazionale dei Diritti Umani ha chiesto al governo di Città del Messico di darmi una protezione. Da allora vivo 24 ore su 24 con la scorta.

verdadera noche iguala portadaDopo questi fatti, nel gennaio 2010, c’è stato un attentato armato contro la mia famiglia e s’è scatenato un inferno: alcune delle mie fonti d’informazione sono state ammazzate, crivellate di colpi per strada, come nel caso del Generale Mario Arturo Acosta Chaparro, che era stato una delle mie fonti principali per il libro Los señores del narco e mi aveva narrato l’incontro che ebbe con esponenti dei differenti cartelli della droga, compreso Joaquín “El Chapo” Guzmán, che all’epoca era latitante, per ordine dell’allora Presidente della repubblica Felipe Calderón. Contrariamente a quanto diceva in pubblico, cioè che c’era una “guerra contro il narcotraffico”, in realtà quello che faceva era essere corrotto dal narcotraffico e cercare di negoziare con diverse organizzazioni criminali. Questa informazione, in seguito, me la confermò anche Edgar Valdez Villareal, alias “La Barbie”. Si tratta di un narcotrafficante importante che [prima di finire in manette] lavorava per il cartello di Sinaloa, per quello dei fratelli Beltrán Leyva e per El Chapo Guzmán. Valdez mi scrisse una lettera nel novembre del 2012, raccontando come lo stesso presidente Calderón aveva condotto alcune di queste gestioni con i criminali, per cui invece di perseguitarli si sedeva a prendere un caffè con loro, e come gli risultasse che quel capo di polizia, che risponde al nome di Genaro García Luna, e altri dirigenti che avevo denunciato ricevesse denaro da lui e da altri cartelli.

Sono rivelazioni molto pesanti.

Questo ha fatto sì che le aggressioni contro di me fossero sempre peggiori e nel dicembre 2013 è successa una cosa molto delicata, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, per cui sono stata costretta a lasciare il Messico. E’ arrivato un commando armato della polizia federale con undici uomini armati a casa mia. Sono entrati nel condominio, hanno minacciato gli uomini della scorta, portandosene via una per malmenarlo brutalmente, e poi hanno minacciato i miei vicini, puntagli le pistole alle tempie, senza nemmeno risparmiare i bambini di sei o sette anni lì presenti. Infine sono entrati in casa ma io non ero là. Non hanno rubato assolutamente niente, ma questo crimine è rimasto impune e sono stata obbligata a pianificare un’uscita dignitosa dal Paese.

Dico così perché non volevo sembrare un “cattivo esempio” per i miei colleghi e compagni, scappando solo per scappare. Volevo veramente trovare un modo di avere uno spazio, di continuare a lavorare, ricercando e pubblicando informazione in Messico senza stare in Messico. Così ho trovato un programma di giornalismo d’inchiesta alla Università della California di Berkeley che mi ha che mi ha accolto per due anni dandomi una borsa per poter vivere coi miei figli in relativa tranquillità. Anche se era una piccola isola, per me era difficile pensare ai miei colleghi che continuavano a morire in Messico e alla situazione che non cambiava, così ho deciso di rischiare comunque e, nei due anni passati negli USA, ho indagato sul caso Iguala-Ayotzinapa e la desaparición dei 43 studenti, tornando una volta al mese in Messico.

Anabel Hernandez

Foto: la giornalista Anabel Hernández (su gentile concessione)

Quali sono le principali scoperte del tuo libro sulla “vera notte di Iguala” e il caso Ayotzinapa?

Dapprima vorrei dire all’opinione pubblica e alla comunità internazionale che il governo del Messico ha inventato la risoluzione del caso.

Quando succede questa terribile sparizione forzata degli studenti e l’omicidio di tre di loro e di altre tre persone, proprio quella notte del 26 settembre che tutti ricordano, il governo messicano ha cominciato a tessere una versione ufficiale che potesse coprire per sempre la realtà dei fatti accaduti quella notte. Durante un anno mi sono occupata di smantellare tutte le menzogne inventate dal governo federale, principalmente dalla Procura Generale della Repubblica (PGR), diretta all’epoca da Jesús Murillo Karam e dal responsabile diretto delle indagini, che era il direttore della Agenzia per la Indagini Criminali (AIC), il signor Tomás Zerón.

Questi due personaggi hanno inventato la cosiddetta “verità storica”, hanno fatto credere al mondo che gli studenti della scuola normale erano stati assassinati per ordine di un semplice e piccolo sindaco, quello di Iguala, José Luis Abarca, da un gruppo di poliziotti senza armamento né formazione sufficiente e da un piccolo gruppo criminale che era operativo nella zona. Questa è la storia inventata dal governo che ha detto al mondo che gli studenti erano stati cremati quella notte in una discarica della vicina cittadina di Cocula. E’ la storia che conosce il mondo, ma questa storia è falsa.

Ciò che ho scoperto in due anni di ricerche si riassume in cinque punti fondamentali che dimostrano, provano, che sono stati i funzionari pubblici del governo del presidente Enrique Peña Nieto, sono stati i militari, i poliziotti della federale e i federali-ministeriali, e sono stati alcuni membri della polizia statale [dello stato del Guerrero] a prendere parte a questo crimine. Ho trovato che sono stati direttamente l’esercito messicano, il 27esimo battaglione di fanteria, e l’allora colonnello responsabile del battaglione [José Rodríguez Pérez] che hanno orchestrato, disegnato, ordinato, coordinato e infine eseguito la sparizione forzata dei 43 studenti. Ho potuto anche scoprire che vi hanno partecipato attivamente almeno quattordici elementi della Polizia Federale. Nel libro cito anche i loro nomi nello specifico. Cito anche i nomi dei membri della Polizia Federale Ministeriale (PFM), ossia coloro che lavoravano al servizio di Tomás Zerón e hanno partecipato direttamente ai fatti, e ho prove contundenti del fatto che l’esercito ha sparato direttamente quella notte contro i cinque pullman su cui viaggiavano gli studenti. Hanno sparato in particolare sui due autobus della marca Estrella de Oro, i bersagli di quella notte.

Ho scoperto che l’origine o la ragione dell’attacco, che fino ad ora è stato tenuto nascosto dal governo federale, è che l’esercito quella notte stava lavorando per conto di un boss molto importante che gestiva le operazioni nel Guerrero e che voleva recuperare il carico di eroina di due milioni di dollari che si trovava nei due pullman e che, per una fatalità, gli studenti avevano occupato ignari di tutto qualche giorno prima. Senza sapere che quei bus si sarebbero trasformati nelle loro tombe. E un altro degli elementi che ho potuto scoprire è che il governo del Messico era a conoscenza di tutto ciò.

fue el estadoCome?

A metà 2016 c’è stata un’investigazione interna alla procura. Il responsabile degli affari interni, l’Auditor Generale della PGR ha fatto un’indagine indipendente sulla stessa investigazione condotta dalla PGR nel caso e ha scoperto quello che avevo scoperto anch’io: che la presunta cremazione dei corpi a Cocula non è mai esistita, che la maggior parte degli arrestati per il caso, come racconto nel libro, erano stati brutalmente torturati per strappargli confessioni di delitti che non avevano commesso e che i due pullman Estrella de Oro erano realmente la chiave di quello che era successo quella notte. Per questo l’Auditor ha ordinato di investigare più a fondo questi fatti. E ha ordinato anche di indagare sul Capitano José Martínez Crespo, un personaggio centrale in questa tragedia, uno dei principali responsabili, accusandolo di presunti nessi con la criminalità organizzata. Ha ordinato anche l’arresto di vari poliziotti federali e un’investigazione totale sul 27esimo battaglione delle forze armate. Il governo federale era a conoscenza di tutta l’informazione e, per ordine del presidente Peña Nieto, queste due indagini chiave, sulla falsità dei fatti della discarica di Cocula e sul coinvolgimento dell’esercito, sono state tenute segrete per vari mesi. Per ordini presidenziali.

Dopo aver presentato il suo rapporto, l’Auditor della procura, César Alejandro Chávez Flores, è stato minacciato e s’è dovuto dimettere. Il documento è stato divulgato pubblicamente? Si può parlare della “riduzione al silenzio” di uno dei pochi funzionari onesti in questa vicenda?

E’ così. Il documento è finito nelle mie mani proprio quando stavo finendo di scrivere il mio libro. Mi ha confermato la bontà dei contenuti dell’inchiesta e ho pubblicato il suo contenuto nel libro, ma ora si può trovare anche alla pagina web verdaderanochedeiguala.com, che abbiamo creato con la casa editrice affinché tutti, compresi i genitori dei 43 studenti e i loro avvocati, possano consultare questi documenti. L’Auditor s’era preso l’impegno con i genitori dei 43 di condurre un’investigazione indipendente contro Tomás Zerón e nei riguardi dell’indagine della PGR, quindi sul lavoro dello stesso Zerón ma anche dell’ex procuratore di Jesús Murillo Karam.

Si suppone che c’era un impegno, nell’agosto scorso, della PGR a consegnare i risultati di questo rapporto ai genitori degli studenti, ma dato che l’auditing interno aveva scoperto tutte le irregolarità e la “bugia storica”, è per questo che per ordine del presidente la allora procuratrice di giustizia, Arely Gómez, ha ordinato di non dare il documento ai genitori di Ayotzinapa. L’auditor dopo ha subito pressioni da parte della stessa procuratrice e da altri funzionari della procura, tra cui il primo degli accusati, Tomás Zerón, affinché cambiasse i risultati del suo rapporto che distruggeva la “verità storica”.

La cosa più grave di questo documento, che poi è la più importante, è il momento in cui l’auditor, attraverso varie prove ricavate da perizie e testimonianze, con un’indagine molto profonda, scopre, riguardo ai fatti di Cocula, che gli studenti non sono mai stati assassinato e bruciati lì. E che le ossa dello studente Alexander Mora, che si suppone sia l’unico identificato tramite analisi genetico dei suoi resti, rinvenuti nel fiume di Cocula, sono stati collocate lì in realtà dallo stesso Tomás Zerón: si tratta della prova periziale più importante che coinvolge, incolpa e responsabilizza il governo messicano di questi fatti. Perché, se i fatti di Cocula sono falsi e le prove sono state messe lì nel fiume San Juan di Cocula, il signor Zerón e il governo erano in possesso dei resti calcinati di Alexander Mora? Questa è la parte centrale del caso, per questo il governo non poteva permettere che fosse diffuso pubblicamente il rapporto dell’auditor generale. Ed è per questo che lui è stato minacciato di morte ed è stato forzato a rinunciare.

vivos se los llevaronSarebbe possibile accusare di crimini di lesa umanità gli alti funzionari del governo e lo stesso presidente?

Non sono un avvocato né esperta nella materia, ma una delle parti più efficaci delle conclusioni che raggiunge l’auditor, dopo aver controllato la normativa internazionale, è che effettivamente, dato che è stato violato il diritto alla verità delle vittime, che è parte del diritto internazionale, visto che sono stati commessi selvaggi atti di tortura per inventare questa storia e presumibilmente “risolvere il caso, siccome sono state alterate le prove e la verità dei fatti e sono state compiute violazioni gravi ai diritti umani, si può considerare che se il governo del Messico, Peña Nieto e i funzionari pubblici coinvolti non risolvono questa situazione, possono essere giudicati internazionalmente se si integra un tribunale speciale.

Che resta del famigerato gruppo di narcotrafficanti dei Guerreros Unidos e dell’ex sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e di sua moglie, María Pineda, che inizialmente vennero indicati come i responsabili della sparizione degli studenti?

La gran maggioranza, l’80%, dei detenuti, compresi presunti membri dei Guerreros Unidos, il sindaco e sua moglie, sono stati torturati e i loro arresti sono stati illegali. L’ho saputo dai referti medici che ho controllato e che furono realizzati a tutti questi detenuti, ma anche da testimonianze che ho ottenuto da loro e dai loro familiari. Per vari mesi mi hanno mandato lettere dalla prigione, raccontandomi le brutali e selvagge torture che hanno sofferto, comprese le violazioni sessuali e le scariche elettriche su tutto il corpo per far sì che confessassero il falso. Secondo l’auditor generale l’incarcerazione della maggior parte di loro e dei principali accusati d’essere gli autori intellettuali e materiali della sparizione dei normalisti, come il signor Abarca e sua moglie, i quattro detenuti che hanno confessato d’aver bruciato gli studenti e i poliziotti locali che, secondo l’accusa, avrebbero orchestrato e organizzato tutto ciò, è stata illegale, il che significa che non dovrebbero restare in prigione. Il governo del Messico s’è preoccupato di fabbricare capri espiatori, falsi colpevoli, ed ha accusato persone innocenti di un crimine che non hanno commesso per proteggere i veri colpevoli, principalmente i funzionari pubblici di Iguala, dell’esercito messicano, della polizia federale e della stessa procura che hanno partecipato attivamente alle operazioni della notte di Iguala.

Al di là dei gruppi criminali piccoli del narcotraffico come i Guerreros Unidos, nel Guerrero chi comanda?

Per scrivere il libro Los señores del narco per dodici anni ho investigato sulle operazioni del cartello di Sinaloa e dei fratelli Beltrán Leyva [che prima della scissione del 2008 lavoravano insieme]. Una delle principali basi delle operazioni di questi gruppi era il Guerrero, specialmente la città portuaria di Acapulco. In quel libro racconto come l’allora comandante militare della zona, Salvador Cienfuegos, attualmente Ministro della Difesa, andava in giro in yatch per la baia di Acapulco in compagnia del boss Arturo Beltrán Leyva. Il libro è uscito ormai più di sei anni or sono e il Ministro non ha mai negato i fatti che vi sono narrati né ha sporto denuncia. Quando viene fuori questa storia del governo federale per cui presumibilmente c’era un gruppo criminale molto forte chiamato Guerreros Unidos e c’erano anche i rivali, Los Rojos, mi metto a cercare e ritiro fuori l’archivio che avevo usato per il libro e scopro che quell’organizzazione quasi non esiste, è praticamente minuscola. Ho potuto parlare personalmente con gente del cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva e mi hanno detto che in effetti sì esistono le bande dei Rojos e dei Guerreros Unidos, ma si tratta di cellule minuscole che non rappresentano nulla in comparazione con il potere che ancora possiede nel Guerrero l’organizzazione dei Beltrán Leyva. Quando Arturo Beltrán Leyva viene assassinato a Cuernavaca, nello stato del Morelos, nel dicembre 2009, varie parti della loro organizzazione iniziano a smantellarsi. Ci sono molti membri importanti di questo gruppo criminale i cui nomi non sono stati rivelati dal governo ma che continuano con le loro operazioni nel Guerrero. E sono diventati capi importante, magari non al livello de El Chapo Guzmán, però sì con la capacità di trafficare quantità significative di droga, di eroina, dal Messico agli Stati Uniti. Uno di questi capi, di alto livello, nel settembre 2014 controllava la zona di Iguala e dintorni ed è questo boss, il cui nome il governo non cita e che non è accusato o in arresto per il caso, che la notte del 26 settembre ordina al 27esimo battaglione dell’esercito di recuperare ad ogni costo l’eroina che si trovava in quei due pullman da cui sono stati sequestrati i 43 studenti.

ezln 43Quindi qual è il ruolo dell’esercito nel Guerrero?

Sono in possesso di fascicoli della stessa PGR, dichiarazioni di testimoni collaboratori di giustizia che adesso la procura non può smentire, in cui si segnala che per anni l’esercito messicano ha protetto e lavorato con il cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva. Questo è successo durante molto tempo, è una complicità antica. Particolarmente nel Guerrero c’era questa protezione. Ripeto: lo stesso General Cienfuegos, quando era a capo della zona militare di quella regione, è accusato di aver frequentato Arturo Beltrán Leyva e di averlo protetto. Ci sono molte accuse addirittura non solo contro l’esercito, ma anche contro la polizia federale e la federale-ministeriale, che allora era la AFI o Agenzia Federale delle Investigazioni. Quando Genaro García Luna ne era il direttore, nel 2004-2006, la stessa agenzia funzionava come “assassino mercenario” del cartello di Sinaloa. C’è un episodio che ricordo molto bene e ho i documenti che avallano quanto dico. E’ successo ad Acapulco, dove c’era un gruppo del cartello degli Zetas che voleva prendersi la plaza [la zona, il mercato] e toglierla agli uomini dei Beltrán Leyva e di Sinaloa. Quando i Beltrán Leyva vengono a sapere di questa operazione, non solo inviano i loro uomini armati a combattere gli Zetas m sono gli stessi membri della polizia AFI che agiscono come sicari agli ordini di Arturo Beltrán quella sera: sequestrano vari membri degli Zetas e dopo li fanno fuori registrando un video impressionante. E’ stato quello il primo video di un “esecuzione” dal vivo che poi venne diffuso in vari mezzi di comunicazione in spregio agli Zetas nel mezzo di una guerra selvaggia che stavano facendo col cartello di Sinaloa. Insomma, la complicità dell’esercito, dei federali e della polizia federale ministeriale col narcotraffico nel Guerrero, specialmente coi Beltrán Leyva, è antica e ci sono diverse prove al riguardo. Oggi purtroppo il caso dei 43 desaparecidos è un esempio ulteriore di questa collusione del governo, di questa guerra fallita in cui non solo l’esercito protegge i narco ma addirittura agisce da sicario.

Perché il caso Iguala-Ayotzinapa è emblematico?

Per varie ragioni. La più umana e allo stesso tempo più importante è che in effetti in Messico migliaia di famiglie hanno vissuto la tragedia dei desaparecidos. Oltre 25mila persone sono state “fatte sparire” nel periodo presidenziale di Felipe Calderón (2006-2012), ma per paura o per via delle intimidazioni molti dei loro familiari sono rimasti zitti, non han detto nulla, pero timore ad essere criminalizzati. I genitori dei 43 ragazzi hanno rotto questo schema e hanno dimostrato al Messico e al mondo che di fronte al crimine delle sparizioni forzate non si può mantenere il silenzio.

L’esempio che hanno dato questi genitori negli oltre due anni dalla sparizione dei propri figli non è solo di coraggio ma anche di profondo amore. Mi sembra che alla fine questo è quello che conta di più. L’esempio d’amore di questi genitori ha commosso il mondo e ha fatto in modo che in Messico questo caso non si dimentichi e che ci siano molte persone che continuano a cercare verità e giustizia.

D’altra parte questo caso è l’esempio chiaro del fatto che questa “guerra contro il narcotraffico” in Messico è una guerra simulata perché non si può parlare di “guerra” quando un battaglione è al servizio del narcotraffico. Non si può parlare di guerra contro i narco quando il presidente della Repubblica, invece di mettere in prigione un manipolo di pessimi funzionati pubblici, cioè 40 o 50 funzionari coinvolti nel narcotraffico che hanno determinato i fatti della notte di Iguala, e invece di processarli e dare un esempio per dire che “questo non lo possiamo permettere”, ecco al contrario il presidente ha tollerato la corruzione e la collusione, premiando i responsabili. Oggi il colonnello che era responsabile del 27esimo battaglione ha assunto praticamente l’incarico di sottosegretario alla difesa ed è diventato generale. Il Capitano Martínez Crespo e i federali che hanno partecipato agli attacchi continuano a “proteggere la società” ovunque essi siano, il che in realtà rappresenta un rischio per la società messicana.

Il caso è emblematico perché dimostra il fallimento della guerra alla criminalità organizzata.

Infine è un caso che ha scosso il mondo, ha fatto in modo che la comunità internazionale veda che in Messico in verità non ci sono né pace, né verità, né giustizia quando si tratta di crimini commessi dallo Stato.

ayotzinapa-somos-todosE’ proprio il ministro Cienfuegos che ora chiede l’approvazione di una Legge per la Sicurezza Interna che legittimi la militarizzazione della sicurezza pubblica, la presenza dei militari per le strade e la realizzazione di operazioni di polizia da parte delle forze armate. Che ne pensi?

Mi sembra che il Messico stia passando per un processo molto complicato. Da una parte abbiamo un esercito fuori controllo che vuole più potere e impunità.

Dall’altro abbiamo un presidente con i livelli più bassi di popolarità degli ultimi decenni, con indici minimi di approvazione, che è a punto di finire il suo mandato e non sa come uscirne fuori. E abbiamo una società che ripudia la presenza dell’esercito per le strade. E’ molto pericoloso che il caso di Ayotzinapa resti impunito perché permetterà che l’esercito messicano possa continuare a stare per le strade commettendo questo ed altri crimini. Non va dimenticato che i fatti di Iguala non sono il primo crimine di massa commesso dai militari. Appena qualche mese prima, a metà del 2014, nel Estado de México, a Tlatlaya, i militari hanno assassinato ventuno persone, le hanno ultimate in modo sommario. Il Ministero della Difesa ha provato a nascondere anche questo caso per vari mesi fino a che alla fine l’inchiesta giornalistica dell’agenzia AP e della rivista Esquire è riuscita a scoprire la verità e a rivelare che non s’era affatto trattato di uno scontro a fuoco tra l’esercito e alcuni delinquenti, ma un’esecuzione sommaria condotta dall’esercito. Siamo dinnanzi a una crisi terribile in cui sfortunatamente sembrerebbe che questo esercito boia permarrà nelle strade con tutto ciò che implica.

Gli Stati Uniti hanno promosso per decenni le politiche di “guerra alle droghe”, specialmente in America Latina, ma adesso la marijuana è stata legalizzata per uso ricreativo in ben otto stati americani e in altri quindici è permesso il suo uso medicinale. Che pensi di questo paradosso?

Tutto dipende dall’angolazione da cui guardiamo questa situazione. La mia posizione è contraria alla legalizzazione delle droghe. Mi spiego, se la giustificazione per la legalizzazione è legata alla salute pubblica, mi pare che sia una strategia sbagliata e ti do le mie ragioni. Prendiamo per esempio gli USA. Il principale consumo di droghe negli Stati Uniti non è di droghe illegali ma legali. Le medicine che si suppone che possono essere vendute solo su prescrizione medica, mentre in realtà c’è tutto un mercato nero immenso nel Paese che fa sì che giovani, bambini e persone adulte abbiano accesso a medicine allucinogene in modo illegale in una farmacia legale. Questo dimostra che la legalizzazione non è la soluzione. Se non c’è prima una vera cultura della legalità, se la legge che esiste attualmente non si applica, non si può pensare che la legalizzazione della marijuana, della cocaina, dell’eroina e delle metanfetamine sarà la soluzione, sempre ci sarà un mercato nero. E’ quanto stiamo vedendo con le medicine. Se il governo statunitense non è capace di controllare le imprese farmaceutiche, non riesco nemmeno a pensare come qualcuno possa solo sognare di poter controllare il business legale, i piccoli proprietari, le imprese che fabbricano droghe che prima erano illegali. E’ un sogno stupido, ingenuo, che non porta da nessuna parte. E’ dimostrato che la legalizzazione delle droghe, le droghe legalizzate dunque, non implica che, anche se sono legali, non sorga un mercato illegale, nero, di queste. Da una parte.

Dall’altra se si tratta di vedere la legalizzazione delle droghe come una maniera per controllare la violenza e il business multimilionario, di miliardi di dollari secondo il governo USA, del narcotraffico e dei cartelli, è una visione totalmente erronea. Quando in Colorado s’è iniziata legalizzare la marijuana, con questi posti in cui si può comprare apertamente, i cartelli della droga messicani, secondo quanto mi ha spiegato un agente de la DEA (Drug Enforcement Administration) [agenzia antidroga statunitense], hanno creato delle minipillole, piccole dosi di droga sintetica che fanno lo stesso effetto della marijuana ma a un decimo del costo di una sigaretta di marijuana legale. Stiamo parlando, quindi, del fatto che non è possibile controllare i cartelli perché per ogni droga che si legalizza, se ne inventano una nuova. I cartelli stanno nel business e stanno inventando costantemente nuove droghe per migliorare i loro affari, per renderli più efficienti e redditizi.

Inoltre dobbiamo tenere da conto che non trafficano solo droghe, ma anche persone o merci e si dedicano alla pornografia infantile, al taglio abusivo degli alberi e un mucchio di affari illegali. Allora pensare che la legalizzazione di alcune droghe controllerà il potere dei cartelli è un sogno ridicolo, è una cosa che non succederà. Solo con la cultura della legge, applicando la legge. Non mi riferisco a sparare. Mi riferisco al fatto che, se veramente si cominciasse a vedere una vera guerra contro il narcotraffico, prima di arrestare El Chapo Guzmán, si sarebbero dovuti arrestare tutti i suoi complici, dai governatori ai banchieri e agli imprenditori. Se le grandi banche continueranno a riciclare denaro sporco impunemente, ci saranno “Chapos” ovunque perché ci sarà sempre una parte del mondo “legale” disposta a convivere e fare affari con il mondo illegale. La recente estradizione de “El Chapo” negli USA non sarà una soluzione per il Messico nemmeno alla lontana, anzi, potrà generare ancora più violenza e instabilità.

marcha-ayotzinapaUn altro tema, diciamo, “frontaliero” è l’amministrazione di Donald Trump. Hai vissuto due anni negli USA come migrante-esiliata e conosci bene i due lati della frontiera. Che pensi della costruzione del muro e delle prime settimane di governo?

Devo riconoscere che facevo un po’ di fatica, quando vivevo là, a riconoscere certe attitudini, certi modi di essere del nordamericano. Perché da una parte c’è una comunità latina molto grande, di migranti, ma l’essenza, ciò che è l’americano bianco, anglosassone, beh, sono personaggi difficili da comprendere. Una cosa vera è che, per come l’ho sperimentato in carne viva là e l’ho visto, negli Stati Uniti c’è sempre stato un razzismo occulto, non detto, silenziato. Per un’epoca, lo sappiamo, c’è stato un razzismo aperto, selvaggio e crudele, però poi, col passare degli anni, questo razzismo è rimasto progressivamente all’interno degli americani anglosassoni. L’ascesa di Trump spiega questo: chi vota per lui è questa maggioranza bianca, e non mi riferisco solo a una maggioranza bianca economicamente benestante, ma anche all’esistenza di un’ampia maggioranza bianca formata da operai, gente comune che non ha abbastanza per vivere e che si sente scalzata dai migranti e sentono che questi sono arrivati a rubargli il loro paese. Poco tempo fa ho potuto parlare con un accademico molto importante della Università della California a Los Angeles, David Maciel, e lui mi spiegava una cosa che non avevo capito, perché c’è bisogno di essere americani per capire queste parole: quando Trump in campagna elettorale diceva “faremo di nuovo grande l’America” e “America per gli Americani”, significava tornare indietro di cinquant’anni. Alla “America grande” in cui c’era un gran razzismo e ciascuno se ne stava al suo posto e non si poteva muovere da lì. Restituire l’America agli americani si riferisce a questa classe, a questa razza fondatrice di ciò che sono gli Stati Uniti. A questo faceva riferimento Trump, per questo ha votato la gente, per tornare al passato. Siamo di fronte a una situazione critica perché chi pensa che si tratti solo di Donald Trump, si sbaglia. Tutto questo riguarda una buona maggioranza della società americana per cui c’è un piccolo razzista silenzioso che cova nel seno di ogni americano.

no-solo-ayotzinapaChe opinione ti sei fatta delle manifestazioni contro Trump in Messico, compresa l’iniziativa “Vibra México” che pretende di creare una “unità di tutti” contro il presidente USA? Ci sono alcuni settori e organizzazioni della società che l’hanno usata, piuttosto, per sostenere Peña Nieto internamente. Che pensi delle reazioni del governo messicano?

Credo che, ci piaccia o no, che siamo d’accordo o no come messicani da questa parte del confine, il presidente Trump sul suo territorio possa fare quello che vuole. E’ tra le sue prerogative farlo. Se lui pensa che con un muro impedirà che i messicani passino il confine e questa è la sua politica pubblica e gli americano lo sostengono, non c’è maniera di impedirlo. E’ assurdo, colpirà milioni di messicani, ma non si può impedirlo. Quando lui dice “i messicani finiranno per pagare il muro”, ci sono tanti modi con cui può fare in modo che i messicani paghino il muro e ti faccio un esempio specifico. La principale entrata legale di denaro, senza parlare delle droghe, che ha il Messico, più del petrolio, sono le rimesse dall’estero, ossia i soldi che inviano tutti i messicani che vivono negli USA ogni anno. Se Trump decidesse aumentare o introdurre una tassa a queste rimesse, noi messicani finiremmo per pagare il muro. Riguardo a questo discorso di “unità”, mi sembra che in Messico non vi sia unità, perché non può esseri unità intorno a un presidente assassino. Uno cosa è che Trump sia terribile e un’altra è che la gente pensi di stringersi attorno a un presidente che è stato terribilmente corrotto, come l’ha mostrato il caso della Casa Blanca [Casa Bianca, un’inchiesta giornalistica del portale Aristegui Noticias che messo in luce le opache relazioni tra l’acquisto della casa del presidente e sua moglie e contrattisti del governo del gruppo imprenditoriale Higa] e il fatto che ha permesso l’impunità, proteggendo per esempio i responsabili della sparizione dei 43 studenti nel caso di Ayotzinapa. E la gente questo lo sa! Come si fa a lanciare un appello all’unità quando è un governo assassino che convoca? Siamo in una situazione davvero molto polemica in cui vedo una società che ama il proprio Paese, in cui amiamo il nostro Paese, il Messico, ma sappiamo che il governo che abbiamo sarà capace di qualunque cosa affinché Trump non decida rappresaglie legale contro vari funzionari pubblici, per esempio adesso che El Chapo Guzmán è stato estradato negli Stati Uniti… Molti, incluso il presidente, devono essere preoccupati, anche se lui stesso ha accettato l’estradizione pensando che così sarebbe entrato nelle grazie di Trump. Ebbene oggi, osservando l’attitudine di Trump, mi pare che tutti debbano preoccuparsi perché il signor Joaquín Guzmán Loera possiede molta informazione non solo sui periodi presidenziali precedenti ma anche su quello in corso in cui, ricordiamo, è stata possibile la sua seconda fuga di prigione a metà 2015…

padres ayotziCome pensi che possa evolvere l’organizzazione de “El Chapo” in Messico adesso? Potrà realmente il boss stipulare dei patti con la giustizia statunitense? Molti dicono che non ha più molte carte in mano o che comunque non riuscirà mai a uscire di galera con tutti capi di accusa che gli hanno dato.

E’ una domanda complessa a ampia, ma bisogna premettere che la fine de El Chapo è iniziata nel gennaio 2016, quando è stato ricatturato. La sua fine era già quindi determinata prima dell’estradizione del 19 gennaio scorso. Non era già più il capo del cartello di Sinaloa, quando viene estradato, e non aveva più nessun potere, era totalmente debilitato da una guerra interna. Ora negli USA lui sa che la sussistenza, la sopravvivenza della sua famiglia dipende soprattutto da lui e da quello che pensa di negoziare col governo americano. So che il governo statunitense lo vede come un’arma importante contro il governo messicano. L’aspettativa è che, sebbene non gli possano offrire una condanna minore e, per quanto ho capito e per le informazioni in mio possesso, gli daranno l’ergastolo, comunque ci sono altre cose da negoziare con lui come i soldi, la protezione per la sua famiglia, eccetera. Dunque in cambio di diversi benefici che il governo USA sarebbe disposto a concedergli, tra i quali non ci sarebbe una sentenza leggera ma benefici di indole economica e di altro tipo, loro si aspettano che El Chapo Guzmán cominci a denunciare i suoi principali protettori nel governo, in questo e nei periodi passati. E’ l’informazione che ho. Nel fascicolo criminale aperto contro di lui presso la corte federale del distretto est di New York, in cui sarà giudicato, si riconosce che nell’ultimo decennio il boss è diventato il narcotrafficante più potente del mondo grazie all’aiuto di funzionari dei livelli più alti del governo messicano che, durante questa presunta “guerra al narcotraffico”, hanno combattuto di più i suoi nemici per rafforzare il cartello di Sinaloa e consegnarli le plazas.

Tornando al caso Ayotzinapa. Nella presentazione del libro La verdadera noche de Iguala alla FIL-Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, nel dicembre 2016, hai parlato del caso di un militare del 27esimo battaglione a Iguala che stavi per intervistare, ma poi non è stato possibile perché la persona che faceva da tramite è stata assassinata. Stai ancora investigando sul caso?

Continuo a indagare sul caso e su quale sia la situazione legale dei detenuti che sono stati torturati. Anche la ONU e la Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) stanno investigando su questo. So che ci sono già state le liberazioni di alcuni reclusi. Mi aspetto che ce ne possano essere altre e di certo continuo a investigare su quale sia stato il destino finale degli studenti che è una questione ancora irrisolta. Per quanto riguarda il militare m’interessava parlare con lui perché mi aveva fatto arrivare una comunicazione secondo cui alcuni dei 43 studenti erano stati portati nella caserma del 27esimo battaglione nella notte del 26 settembre 2014. Non segnalo questo nel mio libro, non ne parlo, perché non ho avuto l’opportunità di parlare direttamente con il militare visto che la mia fonte che faceva da tramite è stata assassinata e, ora che ho provato a stabilire di nuovo qualche tipo di contatto con il militare, mi hanno informato che risulta desaparecido…

ayotzi 43 ya bastaChe messaggio vorresti far passare ai lettori in Europa?

Mi sembra che la comunità internazionale sia stata abbastanza debole col governo del Messico riguardo questo caso dei 43 studenti. Mi pare che la stessa Unione Europea e il governo statunitense vincolino il governo messicano all’adempimento di norme minime sul rispetto dei diritti umani per poter fare affari col Messico. Ciononostante il Messico nemmeno rispetta questi standard minimi sui diritti umani. USA ed Europa continuano a fare affari col Paese con un pragmatismo criminale.

Mi pare che la comunità internazionale deve iniziare a vedere il Messico con occhi più disincantati e a comprendere che è una polveriera. La comunità internazionale, magari, si sta fregando le mani, pensando agli investimenti e ai guadagni multimilionari che può ottenere in un paese come il Messico, soprattutto adesso che c’è stata la riforma petrolifera, per cui chiunque può investire ed estrarre petrolio nel Paese, ed è cambiata anche la normativa sul settore energico. Mi sembra che la comunità internazionale non capisce che il Messico è una polveriera in cui i suoi capitali e gli investimenti possono esplodere insieme al resto del Paese.


[*] Il titolo del libro in spagnolo è Los señores del narco. Lo sottolineo perché nella traduzione italiana si perde un contenuto importante: i “signori del narcotraffico” del titolo originale non sono solo i trafficanti di droga e i boss ma anche, e soprattutto, i “signori” del mondo politico che li proteggono o fanno affari con loro ed anche i riciclatori di denaro sporco che permettono al business di “ripulirsi” e proliferare. Migliore è il titolo della versione americana: Narcoland: the mexican drug lords and their godfathers (La terra dei narcos: i baroni messicani della droga e i loro padrini).

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Moltiplicazione della violenza e narco-caos: un bilancio della “guerra” ai cartelli secondo Anabel Hernández https://www.carmillaonline.com/2016/05/21/moltiplicazione-della-violenza-narco-caos-un-bilancio-della-guerra-ai-cartelli-secondo-anabel-hernandez/ Sat, 21 May 2016 21:04:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30631 di Elena Ritondale

Foto Antonio CruzConosciuta in Italia grazie alla pubblicazione di La terra dei narcos (Mondadori, 2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è [...]]]> di Elena Ritondale

Foto Antonio CruzConosciuta in Italia grazie alla pubblicazione di La terra dei narcos (Mondadori, 2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è sempre stata chiara: tutta la cosiddetta guerra al narco non sarebbe stata altro che un modo per aiutare quel cartello a fare piazza pulita della concorrenza.
Nel 2011 Hernández accusò in televisione il Segretario Generale per la Pubblica Sicurezza di aver ordinato il suo assassinio a membri corrotti della polizia, con queste parole: “Yo quiero denunciar desde esta tribuna que el Secretario de Seguridad Pública Federal, Genaro García Luna y su equipo siguen con la orden dada de matarme”.
Attualmente vive a Berkeley con i suoi due figli proprio per ragioni di sicurezza ma non rinuncia al lavoro di inchiesta in Messico, dove viaggia regolarmente.
Anabel Hernández è stata protagonista, insieme a Diego Enrique Osorno, di una serata al teatro Massimo di Palermo dedicata alla mattanza dei giornalisti in Messico e della ‘ndrangheta in Calabria, con la proiezione di Le strade del narcotraffico tra Messico e Italia di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello.
Ne abbiamo approfittato per chiederle un commento su alcuni aspetti di questi anni convulsi in Messico.

Giovanni Falcone diceva che “le mafie, come il denaro, non hanno confini”. Sappiamo che è vero ma qual è oggi il rapporto tra i cartelli della droga e il territorio? Ai cartelli è ancora utile che resistano alcune frontiere?
Il traffico di droga è una delle espressioni più selvagge del capitalismo, si tratta di denaro, di fare affari. I consumatori sono ovunque e, come qualunque impresa capitalista (i narcos) cercano nuovi clienti. Per questo, anche se i consumatori più importanti sono negli Stati Uniti, per i cartelli messicani il Sud America e l’Europa sono i mercati che vogliono conquistare e che stanno conquistando poco a poco. Questo non implica assolutamente che questi affari non abbiano bisogno di un controllo territoriale, esattamente come avviene in molti altri settori dell’economia capitalista. In Messico, per fare un esempio, ci sono territori in cui si vende Coca Cola e non si vende Pepsi Cola e altri in cui si vende Pepsi e non Coca Cola. Voglio dire che anche il controllo territoriale è capitalista. I cartelli hanno bisogno del controllo del territorio, soprattutto per il trasporto della merce, ma anche per gestire attività parallele: l’estorsione, i sequestri, la tratta delle donne e chiaramente il traffico dei migranti. Questo controllo si estende anche in centro e sud America.

In un momento in cui il Messico sta liberalizzando un settore come quello dell’energia, legato all’estrazione del petrolio, quanto credi che questa capacità dei cartelli della droga di presidiare il territorio possa rivelarsi cruciale per quelle imprese che dovranno investire in luoghi “caldi”? Detto diversamente: gli imprenditori nazionali e stranieri dovranno scendere a patti con loro per poter operare “in sicurezza?”
In questo momento nessuno, in Messico, può garantire “ordine” o sicurezza, neppure i cartelli della droga. Ognuno di loro controlla zone concrete ma circoscritte e questo si nota, ad esempio, dal fatto che chi trasporta merci per lunghe distanze debba pagare qualcosa a gruppi diversi. Gli Zetas in alcune zone rubano petrolio e condotti e un’impresa che voglia investire in un’area sotto il loro controllo deve naturalmente farci i conti. Questo però non sarebbe sufficiente; fare un accordo con gli Zetas, in una situazione frammentata come quella del Messico di oggi e, anche, del suo mondo criminale, non esclude assolutamente che gruppi rivali degli Zetas attacchino un territorio da loro controllato per subentrarvi. Nessuno può garantire stabilità al momento, per questo gli investimenti stranieri sono tanto debilitati. L’atomizzazione del mondo della droga è stata una conseguenza diretta della complicità di Vicente Fox nella fuga del Chapo e poi della cosiddetta guerra al narco voluta da Calderón. Dal 1970 fino al 2000 tutto il territorio nazionale era spartito da cinque cartelli. Gli ultimi governi hanno debilitato gli avversari del cartello di Sinaloa, di fatto frantumandoli e moltiplicandoli. Ora esistono gruppi più piccoli e meno stabili ma altrettanto aggressivi e molto ben armati, grazie alla facilità con cui si possono reperire armi sul territorio proprio grazie alla loro massiccia diffusione durante il periodo di militarizzazione del paese. Oggi anche il gruppo più piccolo può entrare in possesso di un lanciafiamme. La fortuna è che non tutti sanno usarli.

Parlando della “guerra”, un capitolo a parte meriterebbe il modo in cui è stata spiegata ai messicani. Il lessico utilizzato è stato tutto volto all’esaltazione del “nemico”, alla promozione di una diffusa percezione di insicurezza che potesse alimentare la paura e giustificare una reazione violenta da parte dello Stato.
Prima di tutto bisogna dire che non è mai esistita una “guerra al narco”. Il Governo di Calderón ha mandato l’esercito in certe parti del paese e non in altre, perché i suoi interessi erano indirizzati a togliere di mezzo alcuni gruppi, non a risolvere il problema. Intorno agli anni ‘70 in Messico esisteva una sorta di regolazione del traffico di droga attraverso una corruzione diffusa, che includeva tutte le bande; così si è andati avanti fino al 2000. Da quel momento in poi l’interesse del Governo è coinciso con quello di un gruppo in particolare, che si è deciso di appoggiare nella sua guerra agli altri. Questo ha avuto i suoi effetti collaterali, ad esempio i governatori dei singoli stati non sono mai stati così potenti, perché i gruppi esclusi hanno trovato in loro delle sponde: il PRI in alcuni casi ha appoggiato cartelli osteggiati dal governo nazionale.

Qual è stato in generale il ruolo del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale)? La svolta del 2000 coincide di fatto con lo storico passaggio di consegna da questo partito (al governo da 70 anni) al Pan di Vicente Fox.
La verità è che la transizione non c’è mai veramente stata. Se si controlla il gabinetto di Vicente Fox si può vedere che esponenti priisti sono sempre stati presenti. Gli stessi priisti che c’erano con Zedillo e con Salinas sono rimasti cruciali anche durante i mandati di Vicente Fox, di Calderón e di Enrique Peña Nieto; parlo soprattutto dei luoghi in cui si controlla l’economia. Il PRI non ha mai lasciato i posti di potere in cui si trovava. Nella Secretaría de hacienda o al Banco de México ha continuato a essere presente.

Oltre alle parole “morte”, “guerra”, “nemico”, nell’ultimo decennio se ne è imposta una, con urgenza drammatica: “desaparecidos”. La scomparsa di decine di migliaia di persone è uno strumento di terrore ancora più efficace degli omicidi di massa?
A partire dalla “guerra” di Felipe Calderón abbiamo avuto almeno ventiseimila desaparecidos. Si tratta di un tema articolato. È difficile differenziare quante persone siano state fatte sparire dai cartelli e quante dal governo. In Messico è un argomento che non si è studiato a sufficienza, che rimane ancora sospeso. Quando ci sono casi come quello di Ayotzinapa, in cui si distingue più chiaramente la responsabilità della polizia federale, sorge chiaramente la domanda: “e allora gli altri?”. Ci stiamo rendendo conto che in alcuni casi l’autore dei sequestri è stato l’esercito, perché ce lo hanno detto i giornalisti con le loro ricerche. Ma nei casi – troppi – su cui non ci sono state indagini è difficilissimo capire se la responsabilità sia stata dell’esercito, dei narcos o della collaborazione fra i due. È complesso definire chi stia usando questo strumento del terrore. Mi pare comunque che il Governo non abbia voluto analizzare attentamente la lista dei desaparecidos e che continui a non farlo, anche se si tratterebbe di una cosa elementare, perché nella lista compaiono i nomi, le età, l’ora in cui sono stati prelevati, il sesso, il quartiere, la città. È incredibile che il Governo, dopo tanti anni, non abbia fatto un’analisi di tutte queste informazioni, anche a un livello molto semplice, per dire “in Messico il posto in cui spariscono più persone è questo, normalmente succede in questo modo e per queste cause”. Perché non lo fa?

Foto di Antonio Cruz

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Gli USA, il Messico e la cattura del Chapo Guzmán https://www.carmillaonline.com/2014/02/27/gli-usa-il-messico-e-la-cattura-del-chapo-guzman/ Wed, 26 Feb 2014 23:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13151 di Fabrizio Lorusso

chapo vote forIl capo dei capi dei narcos messicani, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, è stato arrestato da un gruppo scelto di militari della marina all’alba di sabato 22 febbraio mentre dormiva in un hotel di Mazatlán, località marittima della costa pacifica. L’operazione, realizzata in collaborazione con l’agenzia americana DEA (Drug  Enforcement Administration), è stata pulita, nessun colpo è stato sparato per catturare il re della droga messicano che è a capo dell’organizzazione più potente delle Americhe e probabilmente del [...]]]> di Fabrizio Lorusso

chapo vote forIl capo dei capi dei narcos messicani, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, è stato arrestato da un gruppo scelto di militari della marina all’alba di sabato 22 febbraio mentre dormiva in un hotel di Mazatlán, località marittima della costa pacifica. L’operazione, realizzata in collaborazione con l’agenzia americana DEA (Drug  Enforcement Administration), è stata pulita, nessun colpo è stato sparato per catturare il re della droga messicano che è a capo dell’organizzazione più potente delle Americhe e probabilmente del mondo, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Ora il boss è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Almoloya de Juárez, a un’ottantina di chilometri da Mexico City. Il potere e la fama del Chapo hanno superato persino quelle del mitico capo colombiano degli anni ottanta, Pablo Escobar, capo del cartello di Medellin ucciso nel 1993, per cui senza dubbio la sua cattura rappresenta un grosso colpo mediatico dall’alto valore simbolico. Ma le questioni aperte sono tante.

Il lavoro d’intelligence per scovare il boss, ricercato numero uno della DEA, è cominciato nell’ottobre 2013, quando le autorità americane e la marina messicana sono venute a sapere che il Chapo s’era stabilito a Culiacán, capitale dello stato nordoccidentale del Sinaloa, ma solo nel febbraio 2014 i rastrellamenti, i sorvolamenti e i controlli si sono intensificati in diverse zone dello stato. Di fatto la stampa speculava sulla possibilità che venisse preso il numero due dell’organizzazione, “El Mayo” Zambada, e non Guzmán. I capi d’accusa contro di lui sono vari: delitti contro la salute e narcotraffico, delinquenza organizzata, evasione (di prigione).

El Chapo era latitante dal 2001, quando scappò, o meglio fu lasciato uscire impunemente, dal penitenziario di massima sicurezza di Puente Grande, nello stato del Jalisco, in cui faceva la bella vita e controllava tutto e tutti con laute mazzette in dollari americani. Classe 1957 (ma alcune fonti indicano il 1954 come anno di nascita) e originario di Badiraguato, la “Corleone messicana” dello stato di Sinaloa, Joaquín Guzmán comincia a coltivare e trafficare marijuana sin da giovane, quindi negli anni settanta e ottanta si unisce al gruppo fondato dai boss Ernesto Fonseca Carillo “don Neto”, Rafael Caro Quintero e Miguel Ángel Félix Gallardo, el jefe de jefes, cioè il capo del cartello di Guadalajara o Federación. Nel 1989 Gallardo viene arrestato e il suo impero spartito tra alcuni fedelissimi come i fratelli Arellano Félix, che prendono Tijuana, il “Señor de los cielos” Amado Carrillo, che si tiene Ciudad Juárez, e il Chapo che resta nel Sinaloa.

Negli anni novanta, El Chapo sconta una condanna per l’omicidio del cardinale Juan Jesún Posadas Ocampo, commesso a Guadalajara nel 1993, ma la sua “carriera” non può finire in una cella. La versione ufficiale, secondo la quale il boss sarebbe evaso con una mossa astuta, semplicemente nascondendosi in un carrello della lavanderia e facendosi portare fuori, apparve inverosimile fin da principio, ma ebbe il merito di dare inizio alla sua leggenda. Versioni giornalistiche più attente e realiste, come quelle fornite da Anabel Hernandez, autrice de “Los señores del narco”, parlano invece di una totale connivenza delle autorità carcerarie, che erano praticamente sul libro paga di Guzmán, e di possibili implicazioni anche del governo conservatore di Vicente Fox e del suo partito, il PAN (Partido Accion Nacional).

chapo_guzman_detenidoDopo la fuga Guzmán riorganizza gli affari dell’organizzazione criminale, che negli anni settanta e ottanta era nota come La Federación o Cartello di Guadalajara, e la trasforma in una multinazionale della droga, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Introvabile e inarrestabile, El Chapo diventa un fantasma che controlla traffici in tutto il Messico occidentale e centrale, negli Stati Uniti e poi in Europa, grazie ai porti e agli scali sudamericani e africani. Dopo la morte di Bin Laden diventa il ricercato numero uno degli USA, ma il mito del Chapo cresce ancor più quando entra nella lista della rivista Forbes dei 500 uomini più ricchi e influenti della Terra, avendo superato un patrimonio stimato di un miliardo di dollari, condicio sine qua non per figurare nella famosa lista.

Proprio nei due sessenni in cui ha governato il PAN, con Fox e il suo successore Felipe Calderón, il cartello di Sinaloa s’è espanso e s’è stabilito come egemonico a livello nazionale, malgrado le dichiarazioni di guerra che arrivavano da Los Pinos, residenza del presidente messicano. Oggi l’organizzazione di Sinaloa è globale, presente in almeno tre continenti, e rifornisce di cocaina, marijuana e metanfetamine i mercati più grandi del mondo: gli USA e l’Europa, ma anche l’Oceania e l’America del Sud. Inoltre è presente in almeno 54 paesi con imprese legali.

Alcuni quotidiani, un po’ in tutto il mondo, hanno descritto il leader di Sinaloa come il responsabile principale della guerra al narcotraffico e degli oltre 80mila morti e 27mila desaparecidos registrati nel periodo più cruento, corrispondente alla gestione di Calderón (2006-2012). E’ un’operazione mediatica che ingigantisce la portata e le conseguenze dell’arresto e, in qualche modo, cerca di chiudere idealmente un capitolo, quella della narcoguerra, per aprirne un altro, quello dei successi dell’attuale presidente, Enrique Peña Nieto, che secondo il Time sta “salvando il Messico”.

Invece ci sono intere regioni, come Michoacán, fuori controllo e la guerra continua tuttora: i morti legati al conflitto nel 2013 sono stati stimati in circa 17mila. La violenza non può certo essere attribuita a un unico “operatore” o alla spietatezza di una banda. Esistono al contrario molteplici cause e fattori (sociali, storici, economici, politici) che la spiegano, tra i quali bisogna menzionare la strategia di lotta ai narcos adottata da Calderón, e per ora seguita da Peña Nieto, che consiste in una militarizzazione massiccia del territorio, non accompagnata da una politica adeguata contro il malessere sociale ed economico e l’assenza istituzionale che stanno alla base di una tragedia umanitaria senza precedenti nel paese.

Ma queste realtà, “indegne” di un paese “emergente” che sta ripulendo la sua immagine e si presenta come nuovo “global player”, sembrano essere sparite dai mass media, soprattutto fuori dal Messico, grazie a un’offensiva mediatica e diplomatica che vede in prima linea il governo messicano e le sue ambasciate e consolati nel mondo. Insomma non si parla più della narcoguerra, ma solo delle riforme strutturali che, secondo la narrativa ufficiale, in un anno avrebbero modernizzato il paese e attireranno investimenti e prosperità. Intanto le teste mozzate continuano a rotolare per le strade, lasciando dietro di sé strisce di sangue pulite alla meglio da un esercito di spazzini e scribacchini.

Il più grande mercato del mondo, gli Stati Uniti, spartisce 3000 km di frontiera col Messico che è un paese di transito per le droghe sintetiche, come metanfetamine e allucinogeni, e per la cocaina colombiana, peruviana e boliviana. Ma è anche un territorio di produzione di marijuana e papavero da oppio, da cui si ricavano la morfina e l’eroina. Questi “vantaggi competitivi”, la connivenza delle autorità a vari livelli e la storica debolezza istituzionale del Messico hanno da sempre costituito un terreno fertile per la proliferazione delle imprese criminali, foraggiate già negli anni trenta e quaranta del novecento dalla domanda militare statunitense e dalla relativa tolleranza sia dei governi messicani, statali-regionali e nazionali, sia degli USA, bisognosi di sostanze proibite in patria.

chapo cartel-influence-mexico

In seguito le pressioni nordamericane contro la produzione e il commercio di stupefacenti si fecero più serie e negli anni settanta e ottanta, in particolare durante le amministrazioni di Ronald “Rambo” Reagan, la “war on drugs” s’affermò come retorica e politica di stato degli Stati Uniti verso l’America Latina, Colombia e paesi andini in testa. Il Messico non era escluso dall’interessamento americano e la DEA è sempre stata presente nel paese.

E così anche la CIA che, per combattere il regime rivoluzionario dei sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi con Félix Gallardo e la Federación, il progenitore del cartello di Sinaloa, grazie ai quali poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della CIA e della DFS messicana (Dirección Federal de Seguridad, poi trasformata in AFI, Agencia Federal de Investigaciones, e oggi in PM, Policia Ministerial) coi narcos sono state riconfermate dalle rivelazioni, riportate dalla rivista Proceso alla fine del 2013, di ex agenti della DEA che lavoravano in Messico negli anni ottanta e vengono a chiarire almeno un po’ un quadro fosco e inquietante, rappresentato perfettamente dallo scrittore Don Winslow ne “Il potere del cane”: al noto scandalo Iran-Contras si aggiunge quindi quello Narcos-Contras.

L’operazione della marina armata messicana, ma soprattutto il lavoro d’intelligence previo, che ha portato all’arresto del Chapo Guzmán non ha coinvolto integralmente la procura o altri corpi della polizia e dell’esercito per un motivo preciso: la corruzione interna a questi organi e la filtrazione costante di notizie e informazioni riservate che compromettono le investigazioni.

Infatti, aldilà dell’impatto simbolico dell’arresto che probabilmente permetterà a Peña Nieto di prolungare ancora un po’ la sua “luna di miele” con gli elettori, la giornalista Anabel Hernández ha giustamente segnalato come la lotta ai narcos non sia affatto finita e non finirà presto perché il governo non sta toccando il sistema di corruzioni e connivenze che coinvolge politici, giudici, amministratori locali, prelati, burocrati, poliziotti, militari e alte sfere del governo e che ha permesso ai cartelli messicani di diventare quello sono durante decenni.

Inoltre non vengono toccati nemmeno i patrimoni personali dei capi, in Messico e all’estero, e tantomeno le migliaia di imprese legali attribuibili ai leader dell’organizzazione in tutto il mondo. Infine la successione è pronta, come suole accadere. Il cartello era ed è già gestito, in alcune sue diramazioni o “divisioni aziendali”, da diverse figure chiave riconosciute come Ismael “El Mayo” Zambada García e José Esparragoza Moreno, alias El Azul, due membri della vecchia guardia.

L’anno scorso era stata annunciata e celebrata in pompa magna la cattura del capo degli Zetas, il cartello nazionale più importante dopo Sinaloa, ma fondamentalmente le considerazioni e le critiche al trionfalismo andavano nella stessa direzione: continua la corruzione politica, non si attacca il riciclaggio del denaro sporco, né i beni dei boss, e la successione al vertice non sempre è un problema per l’organizzazione. Nel caso degli Zetas un vero e proprio vertice nemmeno esiste, ma si tratta di cellule, reti e alleanze locali collegate tra loro.

In questo senso ignorare le cause strutturali del fenomeno è controproducente così come lo è procrastinare un serio dibattito sulla depenalizzazione e regolazione della produzione, consumo e vendita delle droghe leggere e pesanti. Con l’Uruguay e due stati degli USA, il Colorado e Washington, che hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana, sarebbe il minimo. Il colpo mediatico di un arresto importante è facile, ma deve essere seguito dall’implementazione di una serie di controlli per riempire i vuoti di potere che in molti stati messicani sono la regola.

chapo-guzman-illustration-story-bodyEdgardo Buscaglia, accademico autore del saggio “Vuoti di potere in Messico”, parla di quattro tipi di controlli che mancano in Messico e senza i quali non è possibile combattere la delinquenza organizzata: giudiziari, patrimoniali, della corruzione e sociali, pensati sia a livello nazionale che internazionale. La costruzione iconica del Chapo Guzmán come “capo dei capi”, sul podio della storia criminale insieme ad Al Capone e Pablo Escobar, si chiude ora con la fine del suo regno, ma non dei suoi affari, e con la richiesta di estradizione che presto arriverà dagli USA. Ma il Messico vuole prima processare il suo capo che, secondo alcuni, potrebbe anche diventare un collaboratore di giustizia e scoperchiare il vaso di Pandora.

L’ex direttore dell’intelligence della DEA, Phil Jordan, sabato scorso sul canale latino statunitense UniVision, ha dato al mondo un assaggio del tipo di rivelazioni che probabilmente un boss mafioso del calibro del Chapo potrebbe fornire in gran quantità. Jordan s’è detto stupito dell’arresto del capo che si sarebbe “lasciato andare”, sicuro di un patto che gli garantiva protezione e che, sorprendentemente, si sarebbe rotto in questi ultimi giorni. Inoltre ha parlato di informazioni d’intelligence che confermerebbero un coinvolgimento diretto del cartello di Sinaloa in politica, di finanziamenti alla campagna elettorale del presidente Peña Nieto, insomma di un’alleanza tra parti del mondo politico messicano e i mafiosi di Sinaloa. Non è un’ipotesi nuova, ma ad ogni conferma, per ogni tassello del puzzle che si incastra, l’idea diventa sempre più realistica e credibile.

La pronta e simultanea smentita della DEA, dell’ambasciata americana e del governo messicano, attraverso il portavoce presidenziale Edoardo Sánchez, non serve a dissipare i sospetti. Evidentemente nessuno dei suddetti ha interesse a che si alzi un polverone politico-giudiziario che potrebbe rivelare al mondo trenta o quarant’anni di losche storie e “collaborazioni” da entrambi i lati della frontiera, oltreché l’ipocrisia di fondo della guerra alle droghe. I soldi in ballo sono troppi. Già ho menzionato le imprese legali, che sono migliaia, controllate dal cartello di Sinaloa in oltre 50 paesi, ma ci sono anche i capitali e gli investimenti finanziari depositati nelle banche americane.

Il 26 febbraio nel programma radio della giornalista Carmen Aristegui su MVS noticias Jordan ha rincarato la dose dicendo che “la verità a volte fa male” e che quando Caro Quintero, boss in prigione da trent’anni, è stato lasciato uscire nel 2013 in seguito all’ordine di un giudice, è sicuro che il PRI (Partido Revolucionario Institucional, al governo) lo sapeva, era ovvio. Per questo, secondo Jordan, “i cartelli hanno dato sempre del denaro ai politici per essere lasciati liberi di trafficare” e in passato il PRI “è sempre stato in buone relazioni coi trafficanti”, come confermato da documenti, testimoni e ricerche negli USA. “Il cartello di Sinaloa non è diverso da altri cartelli e ha messo soldi nella campagna del PRI, non dico direttamente a Peña Nieto”, ha dichiarato l’ex DEA che ha anche ribadito come “la corruzione c’è tanto in Messico come negli USA”.

“Spero che Peña non sia così coinvolto come i presidenti del passato, ma ciò che dico è che in passato il PRI stava nello stesso letto coi cartelli della droga”. Jordan ha fatto alcuni nomi di ex presidenti: Carlos Salinas de Gortari (1988-1994), suo fratello Raul, e Luis Echeverría (1970-1976), ma la lista potrebbe allungarsi. Lo stesso Chapo Guzmán era un sicario al soldo di Caro Quintero e degli altri capi negli anni 80. Quest’ultimo sarebbe stato rilasciato, secondo Jordan, in seguito al versamento di ingenti somme di denaro che avrebbero oliato il sistema politico e giudiziario, siglando un accordo, più o meno esplicito, con il crimine organizzato. Era impossibile, infatti, che Peña Nieto non sapesse che il boss Caro Quintero sarebbe stato rilasciato e non ha fatto nulla per impedirlo. Jordan ha lanciato l’ipotesi secondo cui se Guzmán resta in Messico, potrebbe prima o poi essere rilasciato, o lasciato fuggire, come Quintero. Il governo messicano nega categoricamente e definisce le dichiarazioni dell’americano come delle “sparate” non supportate da prove. Dunque la questione rimane aperta, irrisolta.

In un’intervista al giornalista Julio Schrerer García del 2010 il braccio destro del Chapo, “El Mayo” Zambada, aveva dichiarato: “Si me atrapan o me matan, nada cambia”, “Se mi prendono o mi ammazzano, nulla cambia”. Possiamo credergli.

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