Amy Winehouse – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I Put a Spell On You: Blues nero, lacrime bianche https://www.carmillaonline.com/2022/07/13/i-put-a-spell-on-you-blues-nero-lacrime-bianche/ Wed, 13 Jul 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72480 di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own Believe I buy a graveyard of my own Put my enemies all down in the ground (Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano. Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo. Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa [...]]]> di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own
Believe I buy a graveyard of my own
Put my enemies all down in the ground

(Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano.
Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo.
Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa di specifico ma per un malessere più generale. La causa può essere il lavoro (il “monday” o “morning” blues), la malattia (spesso più dell’anima che del corpo), il pensiero (più che la paura) della morte come irrimediabile destino di ognuno e la susseguente paura di essere dimenticati (“See that my grave is kept clean”), l’amore tradito oppure molesto oppure, ancora, mancato o troppo vanamente desiderato.

Ha poco a che vedere con il ritmo o il tempo, che pur è quasi sempre riconoscibile, ma a cui è troppo spesso e sbrigativamente ridotto. Come afferma Philip Tagg, in uno scritto apparso alla fine degli anni Ottanta, ridurlo ad una espressione “tipicamente” afro-americana significa limitarlo all’interno di un ordine razziale dato1. Anche se è evidente che gli stilemi e i ritmi del blues si adattavano, e si adattano ancora, per mezzo del riarrangiamento, ad ogni interprete che cerchi di fare sua o di creare una nuova variante di ogni sua espressione. Aprendo così la via al Jazz, alle sue variazioni e improvvisazioni su un tema dato, e al rock.

Secondo Janheinz Jahn, autore di Muntu La civiltà africana moderna2, l’interprete di blues non canta a partire da se stesso ma per dare voce alla comunità, per questo motivo quelli che usualmente siamo abituati a chiamare bluesmen furono invece spesso dei “songster”, musicisti girovaghi, non sempre e soltanto afro-americani, che iniziarono ad apparire nel tardo XIX secolo nel Sud degli Stati Uniti.

La tradizione dei songster precede e spesso coesiste con l’avvento del blues. Era iniziata subito dopo la fine della schiavitù e della Ricostruzione successiva alla guerra civile negli Stati Uniti, quando i musicisti afro-americani iniziarono a girovagare suonando per guadagnarsi da vivere. Musicisti bianchi e “neri” condividevano lo stesso repertorio, definendosi più come songster piuttosto che musicisti blues.

In genere eseguivano un’ampia varietà di folk song, ballate, brani ballabili, reel e minstrel song. Inizialmente, erano accompagnati da altri musicisti che non cantavano, che spesso suonavano il banjo e il violino. Più tardi, quando la chitarra divenne largamente popolare, i songster spesso iniziarono ad accompagnarsi con la stessa, motivo per cui molti chitarristi e cantanti, soprattutto blues, iniziarono a svolgere il compito di accompagnamento e solista con lo stesso strumento.

I songster ebbero una notevole influenza nello sviluppo del blues, che iniziò a svilupparsi in forme maggiormente definite a cavallo dei sue secoli. In tal modo ci fu anche un’evoluzione nello stile delle canzoni eseguite. I songster spesso cantavano canzoni composte da altri o ballate tradizionali, spesso riguardanti eroi e caratteri leggendari. I blues singers, per contrasto, tendevano ad inventare le proprie liriche (o riciclare quelle di altri autori/esecutori) e a sviluppare dei propri pezzi e un proprio stile chitarristico (o, talvolta, pianistico), cantando le esperienze e le emozioni direttamente vissute nel corso della propria vita.

Molte delle prime incisioni di ciò che adesso è riferibile come blues furono portate a termine registrando dei songster che avevano a disposizione un repertorio più vasto, che spesso andava dai successi popolari del momento all'”autentico” country blues.
E’ sempre più evidente per gli studiosi che la maggior parte dei più tipici artisti blues, inclusi Robert Johnson e Muddy Waters, eseguissero in pubblico una grande varietà di musica, ma finissero poi col registrare soltanto quella porzione del loro materiale che i produttori (bianchi) ritenevano originale o innovativo.

Non a caso il blues finì con l’integrare nel suo canone anche i field holler e le work song con cui gli schiavi e i condannati ai lavori forzati, oppure semplicemente braccianti sottopagati, ritmavano la propria attività di raccolta del cotone o altro nei campi, di spaccapietre oppure, ancora, di costruzione di opere pubbliche. In cui spesso, però, a dare il ritmo di fondo vero era lo schioccare della Black Betty, ricordata in tante canzoni e brani jazz: la frusta a disposizione dei guardiani di quegli stessi lavoratori.

Per altri aspetti il blues potrebbe essere definito come quella musica, quel canto che sfugge alla norma, dettata da Henry Krehbiel3 nel 1897: «Ciò che è indegno, ciò che è brutto e doloroso non è un soggetto adatto alla musica». Una formula che negava qualsiasi espressione artistica popolare legata alla vita reale e che istituiva non soltanto il canone della musica adatta al mondo e alle illusioni della borghesia, ma anche della futura pop music.

Ma il termine blues è riscontrabile anche in tanti titoli di canzoni appartenenti alla musica proletaria bianca americana che in seguito avrebbe dato vita alla prima country music, con autori ed esecutori quali Jimmie Rodgers e la Carter Family, degli anni ’20 e ’30. Musica, magari da ballo, ma nata tra braccianti ed operai, piccoli proprietari terrieri ed ex-schiavi che arrivò, per mezzo proprio del successivo rock’n’roll, anche tra i giovani adolescenti bianchi della middle class e del baby boom successivo alla seconda guerra mondiale.

Stevie Van Zandt, a lungo chitarrista e amico di Bruce Springsteen, per quanto riguarda l’inizio della loro collaborazione artistica sul finire degli anni Sessanta, scrive nella sua autobiografia:

Passavamo il tempo a scavare in profondità nelle radici del Blues. In quanto substrato della musica rock, il blues era presente in tutto quello che facevamo. Lo avevamo scoperto grazie ai Rolling Stones, […] Nell’appartamento tra Cookman e Kingsley, partimmo a ritroso dalle cover dei bianchi per tornare agli artisti neri pionieri del genere.
Ascoltavamo senza sosta Little Walter, Fred McDowell, Sonny Boy Williamson, Robert Johnson, Howlin’ Wolf, Son House, Elmore James e Muddy Waters4.

Il blues parla della condizione umana5 .

E in questo rimane e rimarrà l’autentica “musica del diavolo”, come è stata definita quasi fin dai suoi esordi, temuta dai perbenisti, bianchi o neri e di qualsiasi altro colore e classe sociale. Ed è per tutti questi motivi, e molti altri ancora, che può rivelarsi estremamente interessante ed avvincente la lettura del romanzo di Hari Kunzru Lacrime bianche, apparso in lingua originale nel 2017.

Kunzru è uno scrittore e giornalista britannico di origini indiane e il suo romanzo ruota intorno alla disperata ricerca del “suono originario” e dell’”autentico blues” (mito tipicamente bianco e relegato perlopiù all’ambito del collezionismo discografico). All’inseguimento di un suono e di un musicista fantasma che, indirettamente, nell’ambito di una trama che si dipana tra il presente e un lontano passato, rivela al lettore più attento anche il mistero della maledizione della morte a ventisette anni che ha se gnato la vita di tanti celebri musicisti.

Kurt Cobain (Aberdeen, 20 febbraio 1967 – Seattle, 5 aprile 1994), Jim Morrison (Melbourne, 8 dicembre 1943 – Parigi, 3 luglio 1971), Brian Jones (Cheltenham, 28 febbraio 1942 – Hartfield, 3 luglio 1969), Amy Winehouse (Londra, 14 settembre 1983 – Londra, 23 luglio 2011) , Janis Joplin (Port Arthur, 19 gennaio 1943 – Los Angeles, 4 ottobre 1970) e Jimi Hendrix (Seattle, 27 novembre 1942 – Londra, 18 settembre 1970) non sono nemmeno nominati nel romanzo, ma i loro fantasmi aleggiano attorno alla figura di un giovane bluesman che muore alla stessa età in uno dei terribili campi di lavoro forzato istituiti dal sistema penitenziario del Texas negli stessi anni in cui, Robert Johnson (Hazlehurst, 8 maggio 1911 – Greenwood, 16 agosto 1938), dopo aver inciso un pugno di registrazioni (poco più di venti) che avrebbero segnato indelebilmente la storia del blues e del rock bianco, moriva alla medesima età.

Il romanzo è una lunga cavalcata nella magia che circonda il blues e nell’oscurità che l’accompagna. Tra le sue pagine si può cogliere lo sguardo oppure la rabbia vendicativa di un fantasma appartenente a uno dei tanti bluesmen e songster neri, morti prima ancora che l’industria discografica potesse significare scalata sociale e benessere per chi incideva i dischi di ceralacca e a 78 giri, in un primo tempo, oppure in vinile e a 45 giri successivamente, di cui Charlie Shaw, lo spettro che agita le pagine del romanzo di Kunzru, non è altro che l’incarnazione letteraria.

Ma questa presenza/assenza di centinaia e forse migliaia di cantastorie “blues” è forse ciò che più ha affascinato sia i collezionisti che i cantanti e musicisti bianchi che, a distanza di decenni, ne hanno seguito le orme. Un incantesimo che si è protratto nel tempo passando di generazione in generazione. Tra tutti quegli interpreti che, pur non essendo dediti soltanto alla riproposizione della musica nera delle “origini”, sono finiti con l’essere posseduti dal demone oppure cavalcati da uno degli infiniti dei del blues. Dei o orisha che provenivano dal profondo della psiche umana e dal profondo della culla dell’umanità: l’Africa, da cui iniziò centinaia di migliaia di anni or sono la grande avventura della specie umana sul pianeta.

Se in qualche modo il blues avrebbe finito col rivelarsi come l’autentico fardello per l’uomo e la donna bianchi, soprattutto se giovani e sensibili, è dal continente africano che tutto ha avuto inizio. A partire da una tratta degli schiavi che ha preceduto l’arrivo e le conquiste dell’uomo bianco e della sua civiltà. Regni locali, spesso molto ricchi e potenti, e arabi avevano già contribuito a spogliare delle risorse umane più giovani e migliori l’interno del continente.

Le vie dei mercanti di schiavi seguivano varie direzioni sia dall’interno ai regni costieri del continente, sia in direzione del Sahara, dell’Oceano Atlantico o di quello Indiano.
Certamente l’arrivo dei bianchi, portoghesi prima e tutti gli altri dopo, incrementò enormemente tale traffico di carne umana. Per la prima volta non soltanto per farne servitori, valletti, prostitute o favorite di ricchi signori, ma, soprattutto, per trasformarli in lavoratori nelle grandi piantagioni, principalmente dell’America meridionale e caraibica prima e settentrionale in seguito. Si calcola, infatti, che tra il 1500 e il 1800 siano stati più di 23 milioni gli africani ridotti in schiavitù e deportati. Di questi 23.318.000 africani, prevalentemente giovani, sani e robusti, 17.418.000 furono deportati attraverso l’Atlantico6.

Questo spostamento forzato e il trattamento riservato agli schiavi, sia durante il viaggio per terra e/o per mare che una volta giunti a destinazione, fu indubbiamente fonte di grande dolore, violenza, imbarbarimento dei costumi e disperato bisogno di fuga e libertà. Ricordo che si sedimentò nella memoria collettiva profonda e che fu successivamente registrato, seppur indirettamente, nella musica che poi avrebbe preso il nome di blues. Ma che ricadde, come una sorta di vendetta, anche tra quelle schiere di giovani bianchi della middle class americana che tutto aveva fatto per tener lontano da sé la contaminazione del sangue, senza però poter evitare quella culturale.

Questo è il dramma che tinge di sangue e di dolore anche le pagine del romanzo di Kunzru, in cui alcuni giovani bianchi, di cui almeno uno di agiata famiglia, inseguono il sogno del suono originario definitivo, cadendo tra le mani di chi, dopo aver subito torti infiniti, non vuol far altro che vendicarsi, magari impadronendosi della personalità di uno di loro.

Forse perché la magia ha un vettore: il suono.
Che sia prodotto da uno strumento oppure una canzone o, ancora, soltanto da un rumore o da una parola e dalla voce. In fin dei conti per i filosofi antichi era la parola a creare il o dar senso al mondo, quindi la voce e il suono sono alla base di gran parte del mondo, non solo mediatico, che ci circonda. Così come le formule dei riti magici devono essere recitate per ottenere l’effetto desiderato.

Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, credeva che le onde sonore non si spegnessero mai del tutto, che persistessero, sempre più fievoli, coperte dal giornaliero frastuono del mondo. Marconi pensava che, se solo fosse riuscito a inventare un microfono sufficientemente raffinato, sarebbe riuscito a sentire il suono dei tempi antichi. Il discorso della montagna, i passi dei soldati romani che marciavano lungo la via Appia7

Se Marconi aveva ragione e certi fenomeni persistono attraverso il tempo, allora ai confini della percezione vengono continuamene raccontati dei segreti. Ogni segreto continua ad essere svelato8.

Segreto o incantesimo che sia, I Put a Spell On You (Ho messo un incantesimo su di te) cantava Screamin’Jay Hawkins nel suo più grande successo inciso nel 1956 e poi ripreso da un infinito numero di esecutori rock e blues, era ed è rivelato da un suono che lo sviluppo della registrazione e riproduzione fonografica, prima, e digitale, poi, avrebbe contribuito a diffondere nel mondo.

Speech has become, as it were, immortal (La parola, il discorso è diventato immortale). Queste furono le parole di Thomas Alva Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues, ma i neri che lo cantavano.

Fu la Victor Talking Machine Company, divenuta i seguito la più conosciuta RCA Victor, a registrare per la prima volta, nell’autunno del 1902, un gruppo vocale “nero”, il Virginia’s Dinwiddie Quartet. Il gruppo incise cinque canzoni gospel e un successo “pop” dell’epoca: Down At The Old Camp Ground.

Fu così la registrazione fonografica a liberare la memoria di un popolo e a “racchiuderla” per sempre nei solchi di un disco di ceralacca, adattandola, anche al gusto degli ascoltatori “bianchi”. Fu così che iniziarono a comparire gruppi Vaudeville dalla faccia tinta di nero (come quella di Al Jolson, nato come Asa Yoelson in Russia in una famiglia ebraica, nel film Il cantante di jazz del 1927) per proporre la “black music” senza offendere l’audience propriamente bianca.

Fu solo dopo il successo di vendite del secondo disco di Mamie Smith, Crazy Blues, nell’autunno del 1920, che le maggiori etichette discografiche iniziarono ad aprire le porte agli esecutori afro-americani. Fu ancora così che i temi cari a songster e bluesmen neri iniziarono ad entrare nel mercato dei race records, dischi principalmente di carattere Blues ma non solo, destinati al pubblico afroamericano che iniziava a costituire una più che valida fetta di mercato. Nel 1921 nacque infatti la prima etichetta discografica di proprietà afro-americana, la Black Swan, dedita ad incidere la più ampia gamma di musica nera senza limitarsi alle sole forme del blues. Ma le radici del blues, come si è già detto, sono nere, affondano nell’Africa, nelle sue culture e nei suoi dei importati (vudù).

Un autentico pantheon di forze che richiama quello delle religioni politeistiche meglio conosciute, attribuendo ad ogni caratteristica del comportamento umano una divinità specifica. Forze che, in maniera molto più vicina alla realtà delle religioni monoteistiche rigidamente dedite a dividere il bene dal male o a promettere premi o castighi, incarnano potenze che agitano l’essere umano nel suo profondo: il desiderio, la sessualità, la violenza, il riso e la gioia, il pianto e il dolore, la fatica del lavoro e la ricerca della libertà.

Nel pantheon Vodoun ci sono centinaia di orisha o loa (spiriti), a seconda della tradizione e della localizzazione geografica. Orisha che potevano essere richiamati dal suono di quei tamburi che , ben presto, i padroni protestanti si affrettarono a togliere ai loro schiavi.
Per impedire loro di evocare Erzulie o Ezili, divinità femminile della bellezza, della sensualità e delle grazie femminili. Oppure Baron Samedì o Baron Samedi (anche Baron Cimetière, Baron La Croix, Baron Krimminel), un potente Loa che, come spirito dei morti, ha molta influenza sul mondo vivente e che custodisce i cimiteri e controlla i crocevia tra la terra e i morti, che condivide con Papa Legba. È noto per essere corrotto, osceno e dissoluto. Inoltre egli è il Loa della resurrezione, in quanto è il solo barone che può accettare un individuo nel regno dei morti.

Ogun (noto anche come Ogoun, Ogou o in altre varianti) è, invece, semidio della guerra, del fuoco, del ferro, della caccia, dell’agricoltura. Tale divinità non è considerata malvagia, ma può rivelarsi severa e spietata, e questa sua natura, che riflette solo alcuni degli aspetti della guerra, non gli impedisce di assistere i suoi protetti a cui però, in passato, ha chiesto sacrifici umani. Mentre Papa Legba è il guardiano del crocevia. È il proprietario di tutti i percorsi, le strade e le porte per l’altro mondo. Un po’ imbroglione, possiede la strada per la tragedia, ma anche per il successo.

Tutti spiriti che necessitano di un “cavallo” umano che ne trasporti e trasmetta l’essenza. Non a caso si narrava che il bravo musicista blues, per esser tale, dovesse vendere la propria anima al demonio a mezzanotte, ad un incrocio. Come si diceva del già citato Robert Johnson uno dei più famosi esecutori di blues degli anni ’30.

Autentici demoni per l’immaginario cristiano, che arrivarono con i riti trasportati attraverso il Mar dei Caraibi sia in Louisiana che sulle coste del Texas che si affacciano sul Golfo del Messico.
Magari in quella cittadina di Port Arthur in cui era nata Janis Joplin, praticamente al confine con la Louisiana e sede, all’epoca, delle più grandi raffinerie di petrolio statunitensi ed oggi semi-abbandonata, come tante cittadine della Rust Belt. Città natale, in cui Janis, che era stata prima odiata, derisa, isolata e criticata per il suo anticonformismo nei comportamenti e nel modo di cantare, è diventata l’unica icona rivendicabile e rivendibile turisticamente dalla gente del luogo.

Anche James Douglas Morrison era nato non lontano dal Golfo del Messico, vicino a Cape Canaveral, figlio di un ufficiale di marina che sarebbe diventato ammiraglio durante la guerra in Vietnam. Non avrebbe più visto né lui né la madre dopo aver abbandonato la famiglia per cercare fortuna a Los Angeles. Fu poeta, studiò regia, amò gli scrittori europei più innovativi. Scrisse: «Tutti i bambini sono impazziti aspettando le piogge estive». Divenne un’icona del rock senza averlo mai veramente amato, preferendogli invece sempre il jazz e il blues.

Kurt Cobain, fu tra gli innovatori del punk trasformandolo in quel movimento musicale, originatosi a Seattle, che fu definito “grunge”. Insoddisfatto, disperato, insofferente dello stesso successo che lo circondava a che aveva ottenuto con i dischi e i concerti con il suo gruppo, finì come Heminqway, con un fucile in bocca. Ma la sua versione di In the Pines di Leadbelly dimostra che anche il punk e il grunge non sono stati altro che un’altra forma di blues.

Proprio quel Leadbelly, scoperto in carcere da Alan e John Lomax dove scontava una condanna per omicidio, che si rivelò essere uno dei maggiori conoscitori del repertorio dei songster e dei bluesmen della sua epoca e di quelle precedenti.

Il primo giorno nel campo di lavoro forzato della contea texana di Harrison, Huddie Ledbetter (meglio noto come Leadbelly) […] fu rinchiuso in una cella che misurava due per uno. Il letto era un mucchio di paglia marcia, circondato da feci puzzolenti e attorniato da mosche grosse quanto un’unghia. A metà mattina la temperatura sfiorava i 40°, eppure alla fine della giornata fu assai contento di tornare in quel tugurio.
Dal 1902 il numero di galeotti era di gran lunga superiore alla capienza dei campi di lavoro forzato del Texas: il sovraffollamento era un problema terribile. La soluzione era semplice e fruttuosa per lo stato: il carcere dava in affitto i detenuti per i vari progetti di lavori pubblici. Incatenati insieme in lunga fila, i forzati andavano a prosciugare paludi, a lavorare nelle cave e a costruire strade tra boschi ed acquitrini. Sotto sorveglianza armata, uomini, donne e persino bambini sgobbavano anche sedici ore di fila. Venivano incatenati insieme fino a trecento forzati, che dormivano di notte nei fossi. La catena era bloccata a intervalli regolari da grosse palle di ferro pesanti una decina di chili 9 […] In base alla legge, anche un reato banale bastava a spedire per mesi un uomo in quei campi di lavoro. Se non disponevi di mezzi di sostentamento o avevi anche solo giocato a carte sui un treno texano ti beccavi una sentenza di sei mesi di lavoro duro nella rovente piana del Brazos. Le chain gang erano quasi tutte formate da neri. […] nelle città c’era un costante memento della giustizia del Texas: le dita dei cadaveri dei detenuti linciati messe in mostra nelle vetrine dei negozi. […] Quando un uomo crollava per un colpo di calore nell’afoso Brazos, spesso veniva sepolto vivo mentre il lavoro continuava e si stendevano binari e strade[…] Appena smuovevi il terriccio venivano allo scoperto i teschi e gli oggetti duri contro cozzavano i badili erano spesso ossa umane10

Se il blues ci costringe, però, a un viaggio a ritroso nel tempo, chi meglio di Amy Winehouse potrebbe rappresentarne una delle ultime e im/pure interpreti? Come affermò chi l’aveva conosciuta direttamente, prima ancora del suo fulminante esordio: «A soli diciassette anni, Amy aveva la voce di un’anima antica, carica di emozione e lontanissima dallo spirito del tempo […] sembrava che la sua voce arrivasse direttamente dagli anni Cinquanta»11.

Dentro al suo primo disco «ci sono le tracce di tutta la musica che Amy aveva ascoltato crescendo. La sua voce si portava dietro il peso di secoli di icone jazz (e blues) […] Se Etta James fosse cresciuta ascoltando Thelonius Monk e avesse cantato le pagine del diario di un’adolescente di Londra, avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di simile a Frank»12. Oppure il successivo Back To Black: eccessivo, sboccato, triste, autentico e romantico allo stesso tempo. Come ebbe a dire la stessa cantante: «Ogni situazione negativa è una canzone blues che aspetta di uscire»13. Quindi chi meglio di lei avrebbe potuto vivere sulla propria pelle, nella propria vita e riprodurre nelle proprie canzoni il rifiuto del recupero dalla tossicità e dall’alcolismo (Rehab) oppure la dipendenza sessuale e l’erotismo, per nulla mascherato, che sta alla base di ogni amore disperato e autodistruttivo (Back To Black) o ancora la ricerca esplicita di una notte di sesso (Fuck Me Pump)?

La voce di Billie Holiday, roca e alcolica, nel corpo di una ragazza martoriata da dipendenze di cui non era in grado di liberarsi (ma di cui i media erano affamati e alla costante ricerca) e disturbi alimentari gravi che l’accompagnarono fino ai suoi ultimi giorni. Come la cantante ebbe a dire: «Voglio essere ricordata come attrice e cantante, e per essere stata semplicemente me stessa».

Già, l’esser ricordati, oltre la morte. Un desiderio ricorrente tra i musicisti blues, di cui è testimone il brano See That My Grave Is Kept Clean, inciso da Blind Lemon Jefferson nel 1928 e poi ripreso da un’infinità di altri interpreti, dai Dream Syndacate a Bob Dylan o dagli Hot Tuna fino a Lou Reed. ”Guardate che la mia tomba sia tenuta pulita”, gesto antico, che si ripete ancora qui da noi nel giorno dei morti.

Ma, per far sì che ciò avvenga, occorre averla una tomba e da qui l’ossessione del fantasma protagonista del romanzo di Kunzru, Charlie Shaw. In fin dei conti i tanti musicisti neri non registrati su disco oppure dimenticati non sono altro che morti senza tomba, Così come capitò pure al selvaggio inventore del jazz, o jass, a New Orleans, a cavallo tra XIX e XX secolo: Buddy Bolden.

Quando ascolti un vecchio disco non puoi illuderti in nessun modo di essere presente alla performance. La musica attraversa il grigio gocciolare del ronzio statico, un suono simile alla pioggia. Non puoi dimenticare quanto tu sia lontano. In ogni momento senti il suon di quella distanza temporale. Ma qual è il legame tra l’ascoltatore e il musicista? Ha importanza che uno sia vivo e l’altro sia morto? E chi è vivo e chi è morto?
[…] Le cose viventi sono quelle che resistono all’entropia. Possiedono un limite di un certo tipo, una membrana o una pelle; un metabolismo in grado di reagire al mondo. E creare copie. Tramandare qualcosa. Era tutto ciò che Charlie Shaw desiderava, proiettarsi in avanti supplire all’urgenza vitale14.

“Sul tuo giradischi hai fatto risuonare la tratta atlantica, il più nero fra i suoni. Volevi la sofferenza che mai hai provato, l’ascendente che credevi ne sarebbe derivato”15 Così, se il fantasma vero protagonista del romanzo di Kunzru ha visto la sua morte arrivare per un destino atroce che ha privato il mondo della sua memoria, un altrettanto crudele e maledetto destino ha anche colpito tanti giovani interpreti bianchi morti, come lui, a 27 anni.

Forse perché si son fatti carico di un’impresa troppo grande e, alla fine, impossibile: quella di fondere culture e stili di vita che, in un mondo ancora troppo vecchio e troppo bianco, avrebbero finito col travolgerli, proprio attraverso il travaglio creato dall’appartenere a due mondi, senza in realtà esser più parte di quello di provenienza, ma anche senza la possibilità di vivere del tutto in quello effimero che si agitava ancora soltanto nei loro pensieri e nel loro disordinato stile di vita.

Giovani bruciati e cavalcati da forze e dei più grandi di loro e dagli ambienti da cui provenivano. Stritolati tra i comandamenti del severo Dio dei Puritani e le esigenze del corpo degli dei africani, tra l’essere rappresentanti dei moti istintivi di ribellione delle giovani generazioni e le esigenze del mercato, tra il proprio IO profondo e l’omologazione del mondo perbenista adulto. Alfieri, talvolta inconsapevoli, della ricerca di un cambiamento culturale e sociale che attende ancora di venire.

Se amate il blues e se avete amato il pugno di giovani angeli caduti di cui si è qui parlato, in questa ennesima lunga estate calda prendetevi la briga di leggere questo libro e poi, magari, di rileggerlo ancora. Non ve ne pentirete.

N.B.
Il testo costituisce una parziale trascrizione e un adattamento della conferenza tenuta dall’autore, il 9 aprile 2022, in occasione della rassegna “Pagine sonore, note randagie”, organizzata in collaborazione con Franco Ghigini, l’Associazione culturale Liber.Arti, l’Assessorato alla Cultura del Comune e la Biblioteca comunale di Paderno (BS).


  1. Philip Tagg, Lettera aperta sulla “musica nera”, “afroamericana” ed “europea”, «Musica/Realtà» n. 29, Agosto 1989, pp. 53-79  

  2. Janheinz Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, Einaudi, Torino 1961  

  3. Henry Edward Krehbiel (10 marzo 1854 – 20 marzo 1923) è stato un critico musicale e musicologo statunitense che è stato redattore musicale per il «New York Tribune» per più di quarant’anni. Fece parte della prima generazione di critici americani a fondare una scuola di critica americana. Krehbiel credeva che il ruolo della critica fosse in gran parte quello di sostenere la musica che elevava lo spirito umano e l’intelletto, e che la critica dovesse servire non solo come mezzo per fare il gusto, ma anche come modalità per educare il pubblico. Il suo libro How to Listen to Music (in stampa dal 1896 al 1924) è stato ampiamente utilizzato come guida didattica dal pubblico musicale negli Stati Uniti durante gli ultimi anni del 19 ° secolo e i primi decenni del 20 ° secolo.  

  4. Stevie Van Zandt, Memoir. La mia odissea tra rock e passioni non corrisposte, Il Castello, Cornaredo (MI) 2021, p. 57  

  5. Stevie Van Zandt, op. cit., p.263  

  6. Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa. Cinque secoli di storia africana attraverso le trasformazioni della schiavitù, Bompiani, Milano 2019  

  7. Hari Kunzru, Lacrime bianche, il Saggiatore, Milano 2018, p. 63  

  8. Hari Kunzru, op. cit., p.102  

  9. Ball and Chain ricordate? Scritta da Willie Mae Big Mama Thornton e cantata con incredibile intensità da Janis Joplin nel suo disco più famoso con i Big Brother: Cheap Thrills – N. d. R.  

  10. Edmond C. Addeo, Richard M. Garvin, Leadbelly. Il grande romanzo di un re del blues, Shake Edizioni, Milano. pp. 107-109  

  11. Kate Solomon, Amy Winehouse. Una vita per la musica, 24 Ore Cultura, Milano 2021, p. 28  

  12. K. Solomon, op. cit., pp. 31-32  

  13. Ivi, p.105  

  14. Kunzru, op. cit., p.329  

  15. ivi, pag. 330  

]]>
C’è del marcio in Danimarca /1: Dal rock’n’roll di Detroit all’insurrezione di Varsavia del 1944 https://www.carmillaonline.com/2022/01/17/ce-del-marcio-in-danimarca-1-dal-rocknroll-di-detroit-allinsurrezione-di-varsavia-del-1944/ Mon, 17 Jan 2022 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70112 di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe ispirato a sua volta altre interpreti femminili, non ultima, forse, Amy Winehouse.

Ma non siamo qui per scrivere un pur meritato e commosso elogio della cantante, il cui cognome ne indicava le origini ungheresi1, ma piuttosto per segnalare come in tale occasione i media e i social, non solo italiani almeno per una volta, abbiano riportato tutti che la cantante sarebbe morta all’età di 37 anni, senza cogliere l’evidenza dell’errore nel fatto che se la cantante fosse davvero nata nel 1984, come appunto si afferma da più parti, avrebbe avuto poco più di dieci anni al momento delle prime incisioni del gruppo avvenute nel 1995.

La storia della Nagy era più lunga e complessa di quella di una ragazzina di 11 anni, come sarebbe stata se l’età riportata fosse quella giusta, avendo la stessa esercitato l’attività di “danzatrice esotica” nei night club di Detroit prima di esordire nella carriera di cantante rock’n’roll, soul e blues che, con alterne fortune, non avrebbe più abbandonato fino alla fine dei suoi giorni. I Detroit Cobras erano infatti emersi prepotentemente alla metà degli anni novanta dalla scena garage di Detroit (qui) trovando come possibili rivali nel loro genere soltanto i californiani Bellrays di Lisa Kekaula che li avevano preceduti di qualche anno.

Ora però, sarebbe bastato affidarsi non soltanto al sentito ricordo di uno dei componenti del gruppo di Detroit in cui si afferma che Rachel sarebbe morta all’età indicata dalla maggior parte dei social media, per scoprire, sulla pagina facebook ufficiale dei Detroit Cobras, che in realtà la cantante era nata nel 1971.
Certo, nulla di grave sta nel fatto che l’amico l’abbia voluta ricordare all’epoca in cui Rachel aveva inciso l’ultimo album con il gruppo2, ma la superficialità con cui i media riportano la notizia rivela ancora una volta come la disinformazione imperante non sia frutto di volontarie e strumentali fake, ma soltanto dell’ignoranza e della faciloneria che dominano l’età della rete e dei blog fai da te.

Inutile continuare a stupirsi delle balle e delle narrazioni tossiche che circolano in rete, dalle scie nel cielo al terrapiattismo fino al fatto che il Covid-19 non esisterebbe oppure sarebbe strumento di chissà quale complotto, magari satanico ad ascoltare monsignori quali Carlo Maria Viganò: basta guardare alla dis/informazione ufficiale per capire dove hanno origine le montagne di bufale e frottole che ci accompagnano quotidianamente, specialmente sui social.

Se l’esempio della Nagy sembrasse un po’ riduttivo, varrebbe allora la pena di sottolineare uno svarione storico ben più grave, riportato senza alcuna nota di biasimo, in un libretto appena apparso in edicola, per le edizioni de «il Sole 24 ORE», dedicato all’insurrezione di Varsavia del 19443 e curato da Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università Cattolica di Milano, che si picca di promuovere la conoscenza storica attraverso il dialogo con il pubblico e l’uso di strumenti mediatici e letterari.

Beato chi gli crede se già a pagina 2 del suo libretto egli riporta, da un testo di storia contemporanea in uso all’Università4, una citazione in cui si afferma che l’insurrezione di Varsavia del 1944, successiva a quella del ghetto ebraico della stessa città del 1943, sarebbe avvenuta a partire dal settembre di quell’anno e non dal 1° agosto 1944 come effettivamente fu. Senza segnalare l’errore e senza, poi, riportare nemmeno in bibliografia gli importanti testi di Marek Edelman, comandante militare dell’insurrezione del ghetto, su quella del 19435.

In 63 giorni di insurrezione, i combattenti dell’esercito di liberazione polacco riuscirono a respingere gli occupanti nazisti dal centro cittadino, sotto lo sguardo immobile di Stalin e delle truppe sovietiche che si erano fermate al di là della Vistola, senza avanzare sulla città fino a molte settimane dopo che ogni traccia di resistenza era stata annientata dalle armi tedesche.
La città in quei due mesi fu distrutta all’87% (uno dei tassi più elevati di distruzione urbana dell’intero secondo conflitto mondiale) e due terzi degli abitanti, di una città che inizialmente ne contava un milione e trecentomila, furono eliminati dalla violenza, dalla fame e dalle conseguenze degli incessanti bombardamenti e delle rappresaglie successive alla sconfitta dell’insurrezione.

Se la vera età della Nagy è questione “leggera” e conta poco e se anche i morti polacchi, forse, pesano ancora meno, quello che conta allora davvero è il fatto che la verità mediatica scritta e divulgata, più per ignoranza e dabbenaggine che per un piano contorto, deve comunque sempre trionfare. Purtroppo però quello che rende tutto ciò invisibile e credibile, allo stesso tempo, è l’ignoranza uguale, e talvolta peggiore, di chi vi si dovrebbe opporre. Studiare, confrontare i fatti, verificare i dati, pensare sembrano attività diventate ormai difficili, se non addirittura impossibili, mentre parlare e scrivere costa ormai nulla, manco l’apprendimento delle conoscenze più elementari. Facendo sì che la legge del “copia e incolla” e dei “like”, resa possibile dagli strumenti di comunicazione elettronici e dalla rete, finisca con il dominare oggi ogni forma di riflessione (di fatto annullandola).

Ma come il triste principe danese torneremo ancora sul marciume ideologico e sull’ignoranza profonda che tutto circonda e pervade in questo periodo di emergenze armate e di movimentismo imbelle.


  1. Imre Nagy era il nome del primo ministro ungherese che per aver solidarizzato con gli insorti del 1956 fu impiccato per tradimento dai sovietici nel 1958  

  2. L’ultimo disco ufficiale dei Detroit Cobras, Tied & True, è infatti uscito il 24 aprile 2007, anche se lo stesso gruppo, sempre guidato da Rachel Nagy, ha continuato ad andare in tournée almeno fino al 2019  

  3. Paolo Colombo, Varsavia 1944. Storia della distruzione di una città, Il Sole 24 Ore – Cultura, sabato 15 gennaio 2022, pp. 85  

  4. AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997  

  5. Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia in lotta, a cura di Wlodek Goldkorn, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012; Hannah Krall, Arrivare prima del Signore Iddio. Conversazioni con Marek Edelman, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2010; Rudi Assuntino, Wlodek Goldkorn (a cura di), Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio editore, Palermo 1998 e Marek Edelman, C’era l’amore nel ghetto, Sellerio editore, Palermo 2009  

]]>
Hard Rock Cafone #1 https://www.carmillaonline.com/2015/07/02/hard-rock-cafone-1/ Thu, 02 Jul 2015 20:22:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23484 hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA  Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche [...]]]> hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA 
Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche sarcastici alcuni criticonzi pigri li imbarcarono nel filone demenziale. Esistenziale piuttosto. E non scherzo. Concerti, centri sociali e il rito domenicale della sala prove sfociarono in cassette e CD autonomamente prodotti e distribuiti. Ne riparlo oggi con Emanuele Gabellini, allora bassista, oggi artista e “ambasciatore dell’ordine dei confusionari”. Nessun rimpianto, perché erano liberi sul serio, tanto da finire agli arresti per la liberatoria e blasfemissima Santi Numi (vedasi Youtube: si astengano i bigotti, godano gli altri). A fianco alla caciara dell’inno alle fetentissime scarpe Mecap o al vertice geniale del surreale incontro con John Zorn “alla fermata del 23”, c’era anche l’insofferenza genuina per i politicanti (Manco si skiatti), per la Videocracy 15 anni prima del documentario di Gandini (Sti cazzi e Nostalgia di Khomeini) e per la tentacolare società dei consumi (Senza titolo).
hrc101Colpivano anche l’inquietudine e il disagio urbano di Sono depresso e di Sto come ‘na pigna, che parlava di droga come Vasco non è mai stato capace. Il loro manifesto anarchico era però nella rabbia autentica di Affanculo tutti che ben rappresentava il disorientamento dell’Italia del 1994, post Tangentopoli e nella merda come prima, col virus berlusconiano inoculato in vena. E non scrivo inoculato a caso. Hard Rock Cafone, autoprodotto nello studio PanPot e distribuito da Helter Skelter, vendette diverse migliaia di copie, sicuramente molte più di quante oggi servano per entrare nei primi posti in classifica. Ma la storia dei Santarita Sakkascia finì poco dopo, nel 1996, proprio perché lo si faceva per piacere; a se stessi e non a una casa discografica e rientrando giusto delle spese. “Non ci potevamo vivere, ci potevamo morire!”, ricorda Emanuele. Che, a chi mantiene in Rete un culto sotterraneo, annuncia che prima o poi si rifaranno vivi anche se “non si sa in che forma”. Ne abbiamo bisogno. (Dicembre 2009)

hrc102Fortemente illogico: LEONARD NIMOY
Conosco poco la mitologia di Star Trek – che m’è sempre sembrato uno sconclusionato pigiama party ambientato nello spazio – ma lo Spock di Leonard Nimoy era indubbiamente il riflessivo e soprattutto atarassico membro dell’Enterprise, contrapposto all’emotivo ciccione interpretato da William Shatner. Però nella vita la passione c’era, eccome: per la musica. Tanto che quando arrivò la proposta indecente di fare un disco, il buon Leonard colse l’occasione al volo. Teletrasportato in studio, sfornò la bellezza di cinque Lp di successo variabile, prodotti in maniera saccarinosa e ineccepibile, trasformando la duttilità della voce di Nimoy – elastico come un dolmen – in una recitazione ieratica e giocando sul suo ruolo televisivo, tanto che il primo album venne chiamato Highly Illogical. Forse in riferimento all’operazione, che però – e dal popolo che ha inventato Disneyland non mi aspettavo altro – è diventato un piccolo capolavoro di cattivo gusto, capace di resistere negli anni come l’arredamento afro tipico dei Sessanta. Ho assaggiato col brivido che si prova quando, in trasferta estera, ti offrono il cervello di scimmia al cucchiaio o le locuste arrosto. Un dieci per cento di curiosità e un novanta di schifo. La pasta dolciastra si fa calare: una droga a cui rimani sotto, ipnotizzato dalla voce incapace di estendersi oltre la mezza ottava e fantasiosa come quella dell’annunciatore della stazione quando dice la fatidica frase “treno locale, ferma a tutte le stazioni”.
2m8BXUfrifeheoheVEXk1Zl6o1_500Le canzoni sono spesso apologhi morali degni dei Baci Perugina o bozzetti satirici surreali, con occhi alieni, sulla vita terrestre e sulla condizione umana, alla faccia di André Malraux. Pulsar, arpe, echi e suoni siderali condiscono il tutto, senza dimenticare le versioni asmatiche di classici come Sunny o Proud Mary. Ma in questo obbrobrio c’è una straordinaria coerenza che ha reso le canzoni dei classici, tanto che l’uscita del film Il signore degli anelli ha riportato la briosa (diciamo così) Ballad of Bilbo Baggins in classifica. Oggi Leonard Nimoy ha assunto la fisionomia di un Toni Negri incazzato, ha pubblicato due indecise autobiografie (intitolate una Io non sono Spock, l’altra Sono Spock) e sporadicamente fa qualche comparsata, come nell’ultimo Star Trek cinematografico. Ma musica, basta. Del resto ci vuole orecchio, non necessariamente a punta. (Marzo 2010)

hrc103Ho provato a far perdere la pazienza a IAN PAICE
I batteristi sono un po’ come i portieri nel calcio: se non son matti, non ci piacciono. Ian Paice è l’eccezione: se John Bonham dei Led Zepp era un amabile attaccabrighe che poteva scolare litri e litri di vodka, e se Keith Moon degli Who era capace di entrare da un gioielliere ebreo vestito da gerarca nazista, beh, Paice è sempre stato the “quiet one”, quello che, in mezzo agli altri Deep Purple, era il bonaccione. Come si è dimostrato in un pomeriggio in cui avrei fatto saltare i nervi a un eremita buddista. L’appuntamento è a Marano Vicentino, in un confortevole bed n’ breakfest. Quando arrivo, a pomeriggio inoltrato, Paice sta dormendo e manager e promoter – clamorosamente fiduciosi o più umanamente pelandroni – me lo affidano. Mi dicono: lo svegli, lo intervisti e ce lo porti al soundcheck. Prendo nota della strada e attendo. All’ora stabilita mando a chiamare il batterista che si presenta poco dopo in t-shirt nera, pantaloni bianchi e stridenti mocassini color crema. La faccia è quella di sempre, i capelli – mi dicono – originali ma il dubbio rimane (mica come la certezza per Blackmore, che ha il tuppo dagli anni Ottanta); è in forma, giusto un po’ di trippetta, ma niente a confronto della mia che ho vent’anni di meno: si direbbe che lui abbia firmato un patto col diavolo. Consente che videoregistri tutto e risponde quattro volte alla prima domanda perché, nell’ordine: il microfono è spento, cede una gamba del cavalletto, trilla un telefono. Ad ogni modo è in Italia perché gli piace il posto, si mangia e si beve da dio e, onestamente – riconosce –, suonare dal vivo è il modo migliore per tenersi in forma, nelle pause che gli concedono gli incessanti tour mondiali dei Deep Purple. Il nastro gira e lui risponde amabilmente, simpatico e disponibile. Diplomatico quando vado sulla politica (non mi pare un extraparlamentare di sinistra, comunque) o su Ritchie Blackmore che crede di vivere in una fiaba tolkeniana (“If he’s happy, why not?”). Nel tempo libero sta in famiglia (le combinazioni: è sposato con la gemella della moglie di Jon Lord, tastierista fondatore dei Deep Purple), ascolta jazz classico e guarda il calcio in tivù, da tifoso molto deluso del Nottingham Forest. Dillo a me, che sono genoano in serie C. Probabilmente consapevole che i Purple abbiano prodotto alcuni tra i peggiori videoclip della storia, disprezza la logica commerciale di MTV, ammira la tecnica dei giovani batteristi (“Something that I can’t even understand!”) ma invoca originalità e sudore. Del resto, chi ha visto Live8 s’è reso conto dell’abisso drammatico tra i gruppi storici e la masnada di giovinastri che guadagnano la ribalta mediatica grazie a modelle e cocaina. Il nuovo album della band è nato nel giro di un mese, senza tergiversazioni: duro, compatto e potente. Non vede l’ora di andare a suonarlo in giro: è la classica frase promozionale ma dopo mezz’ora con lui, il suo entusiasmo pare sincero. Finita l’intervista partiamo alla volta della Gabbia, disco-pub con – pensa – un palco a forma di gabbia che rimanda più a fantasie S&M che alla musica, ma tant’è. Siamo già in ritardo e mi perdo nella pianura veneta, confuso da rotonde poco palladiane, dalla segnaletica enigmistica e stordito dalla concimazione dei campi (Paice: “Holy Shit! Move quick, please!”).
hrc10bIl ritardo aumenta e la situazione diventa uncomfortable, ma Ian conserva bonomia e humour. Gli dico che penseranno che l’abbia rapito e lui ribatte: “Usually, the kidnapper knows where to go!”. Alla fine ce la facciamo, dopo mezz’ora di panico: un ciula con la maglietta di In Rock a fianco di Ian Paice, persi tra i campi di radicchio… Dopo il soundcheck si cena in una birreria. S’è aggregata un sacco di gente e mangiamo tutti assieme sotto lo sguardo severo di un bassorilievo di Mussolini. Ian degusta birra e stufato e firma dischi tra una portata e l’altra. Sopra la cassa un fez nero e un manganello con scritto “Me ne frego”! Io faccio più fatica a fregarmene e trinco Soave, perdente al confronto dei commensali autoctoni che, da buoni veneti, bevono come dei SUV. Poi si va al concerto, dove il batterista si accompagna a una band locale di vecchie glorie, l’Altro Mondo, per un set tutto a base di Deep Purple. Nel break Ian risponde alle domande del pubblico (la differenza tra Blackmore e Steve Morse? “Well, Steve’s on stage every night!”) e si produce in un mirabolante assolo grazie al quale rimango sordo per tre giorni. Poi, alle due di notte, trionfa il vero rock n’roll: Ian si apparta cinque minuti, si asciuga il sudore e la fatica, cambia maglietta, stappa una birra e poi si concede con pazienza da miniaturista medievale alla scrittura di un centinaio di autografi su piatti, foto, rullanti, dischi, cd, magliette, bacchette e dvd: non gli risparmiano nulla e lui firma. Come il patto col diavolo tanti anni fa. (Settembre 2005)

hrc104Io sono amico di FABIO FRIZZI
Dietro l’ombra lunga di Ennio Morricone si nasconde una ricchissima generazione di compositori che hanno fatto grande il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. La riscoperta è partita dall’estero (le varie raccolte Easy Tempo, i recuperi di Tarantino) ma negli ultimi tempi s’è sviluppato anche da noi un gusto per quella musica libera e lo dimostra il felice esperimento dei Calibro 35 che, tra cover e composizioni originali, sono già al secondo album (bello, tra l’altro). Durante la mia gavetta tivù da schiavo tipo Boris, ho avuto la fortuna di conoscere uno dei Maestri del periodo suddetto, quando lui era un ragazzo capace di sfornare 4 o 5 colonne sonore all’anno. L’ho massacrato di domande e siamo diventati presto amici. Il suo nome vi sembrerà un lapsus di Luca Giurato, ma Fabio Frizzi (fratello di, esatto) ha firmato musiche che avete ascoltato e apprezzato tantissime volte: dall’immortale colonna sonora di Fantozzi a quella di Febbre da cavallo, quando il triumvirato con Tempera e Bixio era un marchio di garanzia. Da solo è presto il compositore di riferimento di Lucio Fulci, diventando famoso in Francia e USA. Quentin ha una passionaccia per lui: l’ha messo nella soundtrack di Kill Bill e solo per questioni di diritti non appare anche in Unglourious Basterds. Precocissimo, Fabio suonicchia in due musicarelli con Mal, ma esordisce realmente a 23 anni con Amore libero, pruriginoso (allora; oggi… pfui!) debutto di Laura Gemser. Da lì non si ferma più, tra poliziotteschi, horror, commedie sexy e qualche Monnezza. Ha scritto 80 film, 30 fiction, balletti, musical, composizioni per chitarra classica e anche la marcetta de I fatti vostri di RaiDue che, pensateci bene, ha una caratteristica virale degna del miglior Nino Rota. Basta? Macché: è direttore d’orchestra, docente e ha fatto cinque figli. In più è una bella persona, un artista e un artigiano, totalmente sereno anche se i maggiori riconoscimenti al suo lavoro gli arrivano dall’estero, dove non esiste certo intellettualismo da terrazza romana che dà patenti di artisticità solo agli amichetti del giro buono. Oggi che il cinema produce poco, Fabio compone per tante fiction e lo fa come un tempo: “tra Bach e Beatles, ma tirando sempre al classico!”. E lo dimostra quello che ritiene il suo esito forse migliore: la colonna sonora della fiction Il Capitano, con protagonista nel tema la voce della grande Edda Dall’Orso. Ecco, uno così non vi capiterà di trovarlo nel salotto della Dandini, ma in una colonna sonora di Hollywood sì. (Gennaio 2010)

hrc105A New Day Yesterday: JOE BONAMASSA
Dici blues e pensi solo al vecchio nero che, dopo una giornata a raccogliere cotone, canticchia sommesso il suo dolore sul portico di casa. Sbagli, perché il blues, in un secolo di vita, ha continuato ad evolversi. Come oggi dimostra Joe Bonamassa, un entusiasta ragazzone di neanche trent’anni ma con le capacità musicali di un veterano. Italiano di quinta generazione, torna – primo della famiglia – a casa. Lo intervisto nel front lounge del suo tour bus. Intorno ha iPod, un portatile sempre in Rete e un grasso sigaro cubano in bocca, l’unico vizio assieme a collezionare chitarre e bere Diet Coke a garganella. Il tour è andato bene ma ha mangiato da bestia ed è ingrassato. Con una chitarrina in mano a 4 anni e il benestare di BB King a dodici, ha già praticamente suonato con tutti ma crede (e ha ragione da vendere) che riproporre il blues come nel 1930, per la gioia dei puristi necrofili, sia la morte della musica del diavolo. Infatti lui imbastardisce il suo sound con diverse influenze e per rilassarsi ascolta la classica, per trovare idee i vecchi Genesis e per fare l’amore, niente: “Una cosa per volta, non voglio perdere la concentrazione”. Nei suoi dischi e dal vivo capita anche di ascoltare dei pezzi degli Yes, ma è quando parla di gente come Paul Kossoff, Rory Gallagher o Jimmy Page che gli brillano gli occhi. È un pacioccone con le idee estremamente chiare e sa che aver cantato di puttane e whisky a dieci anni non è stato esattamente realistico. Per sentire il blues bisogna un po’ vivere e siccome è in tour da vent’anni, adesso gli argomenti non mancano. E poi la storia si ripete: ha preso una vecchia canzone d’inizio secolo di Charlie Patton e l’ha trasformata in un canto di dolore per la New Orleans devastata dall’uragano Katrina. Allora si sospettava di dighe aperte per sgomberare i neri dai terreni da riedificare; lui qualche sospetto ce l’ha anche per il presente. Ma non c’è solo il blues, ci sono anche i piaceri della vita, come gli episodi dei Simpson o gli action movie di kung fu che guarda assieme a band e crew. Apprezza Zucchero (confessa che se l’è scaricato) e oggi vorrebbe fare una jam con Amy Winehouse. Insomma: vive nel presente. In serata il Transilvania di Milano è pieno da scoppiare. Giovani chitarromani, vecchi bluesman de noartri, il purista cagacazzo che si lamenta dell’uso degli effetti e pure il reduce di Woodstock che probabilmente non si fa una doccia da allora. Joe è uno showman smaliziato e appaga tutti: cita i maestri bianchi e neri e spazia dall’acustico all’hard. Ne nasce una sintesi dialetticamente marxista ed eccitante, moderna, viva: il blues ha un futuro. (Marzo 2007)

hrc106La voce nera di MARC STORACE
La “Notte della chitarre” svizzera non è un film dell’orrore, ma la celebrazione elvetica della sei corde, un concertone fantastico tenuto a Berna questa primavera, nonostante una nevicata di proporzioni siberiane. E senza alcun ritardo, figurati. In mezzo a tanti guitar heroes locali, c’era anche un vocalist d’eccezione: Marc Storace. Se vent’anni fa avevate vent’anni, ricorderete quando sul vagone dell’heavy metal mondiale saltarono su anche quei rockettari dei Krokus: nome sinistro, ma attitudine gioiosa, all’assalto del mondo dagli alpeggi di Heidi. Ma Marc – voce a metà strada tra Bon Scott e Robert Plant, ma più nera – in realtà viene da Malta ed è un perfetto mix anglo-siculo. Non ha più la capigliatura da Napo Orso Capo degli Ottanta, ma il sorriso levantino è sempre lo stesso. E anche la voce, dopo oltre tre decenni di carriera, conserva quell’amabile raucedine da bocconata di sabbia nella strozza. Nei Sessanta, il nostro cavaliere di Malta passa l’adolescenza sull’isola e viene folgorato come tutta la sua generazione da Elvis e Beatles. E vista la vicinanza geografica, ammette, anche da Celentano e Fausto Leali. E conosce presto l’amore (si sa: le ragazze maltesi amano far visitare La Valletta, ah ah). E allora Marc non ha più dubbi su cosa farà da grande: a vent’anni è a Londra e poi in Svizzera, nel cuore dell’Emmental. Che non produce solo caciottelle, ma anche la musica dei Tea, misconosciuta formazione con cui il brevilineo Marc gira l’Europa. Ancora esperienze, un’audizione coi Rainbow e poi l’occasione della vita: la chiamata dei Krokus. L’abbinamento è perfetto: i “big noses” Fernando Von Arb (chitarra) e Chris Von Rohr (basso) e la voce scartavetrata del tozzo e irruento Storace fanno dei Krokus una band hard coi fiocchi che conquista prima la Confederazione, poi il mercato anglossassone. Il rock’n’rolex funziona e i Krokus vendono dieci milioni di dischi mentre MTV passa a rotazione i loro videoclip che sfoggiano impunemente patatone, tutini attillati, teste laccate e gonfie e anche una discreta ironia. Seguono le consuete massacranti tournée in USA e Giappone, fino all’inevitabile sipario: finiscono gli Ottanta e la musica che gira intorno è ancora più dura e violenta. E i Krokus si mettono a riposo. Non Marc, che suona pop e soul assieme a Vic Vergeat e poi, quasi per caso, lancia il fortunato progetto degli Acoustical Mountain, scarno combo che rilegge il rock con due chitarre e la sua voce. Doveva essere la schitarrata da dopo-sci, complice il grappino, ma il gruppo diventa un must in tutte le località sciistiche svizzere. Nel 1994 c’è la prima reunion dei Krokus, anche se i tempi non sono ancora maturi. Il successo vero torna nel 2001, passati definitivamente grunge e condonati i crimini sartoriali a base di lurex. Storace è orgoglioso del suo passato, ma non è un nostalgico. Ammette i compromessi col business, riconosce il male (“the evil, my dear”) che si annida nel successo, dispensa buonumore e autoironia. Come sul palco, dove gioca coi cliché del rocker mai cresciuto, in tutti i sensi. Marc ha una voglia di musica e di vita straripante, è tuttora pieno di progetti (tra cui l’immancabile sogno cafonissimo di un’incisione con orchestra sinfonica) e il resto dell’anno lo vedrà impegnatissimo ancora coi Krokus. Ventisei anni dopo l’esordio, di originale nella band c’è solo lui, ma se i Queen si riuniscono senza voce, sarà mai un problema se i Krokus hanno solo quella? (Settembre 2006)

hrc107Il vangelo secondo MAURIZIO SOLIERI
Se uno fa due calcoli e sa di cristologia, Maurizio Solieri si accompagna a Vasco Rossi da 33 anni ed è la pietra angolare su cui il Blasco ha costruito la sua chiesa. In occasione dell’uscita di un vangelo (Questa sera rock’n’roll, scritto con Massimo Poggini) incontro il chitarrista davanti a un rosso di pregio, dopo una presentazione del libro di fronte a una platea un po’ desolante ma agguerrita. Lui è uno splendore: chioma fluente, giacca da motociclista, abbronzato e con la lingua tagliente, addolcita solo dall’accento sornione e dalla “R” arrotata. Il libro appena pubblicato è la sua storia, ma anche quella di chi ha fatto rock nei primi anni Ottanta, quando si potevano avere in scaletta Albachiara, Siamo solo noi e Colpa d’Alfredo e fare il pienone in Emilia e il deserto a Campi Bisenzio, il famoso “gran suzzèsso” davanti a dieci spettatori silenti. Maurizio – oltre a dividere il palco con Vasco – chiaramente, fa le sue cose (un album solista l’anno scorso, diverse date con la sua band) incurante di come sia cambiato la discografia, anche se “morta” sarebbe la parola giusta. “Di un disco di Solieri di 57 anni non gliene frega un cazzo a nessuno… mentre di un quattordicenne punk: figaaata!”, mi dice, ridendo. Non è una lamentela, è una constatazione, di fronte a un mercato dove il supposto indie che urlacchia su due accordi (è quello che pensate voi, sì, lui) ha più possibilità ormai di chi suona da anni. È anche atterrito dai reality show: “Va bene 15 minuti di notorietà, ma non di più, dài! Di quante cantanti che imitano la Pausini abbiamo bisogno?!”. Nel libro c’è l’entusiasmo e la disillusione, le classiche “maialità” in tour – come le chiama lui – come gli abusi (alcolici, nel suo caso), il ricordo affettuoso di Massimo Riva e il rapporto non sempre idilliaco col Vasco, raccontato con sincerità e senza leccare il culo. E a parlargli, Maurizio è franco e non accampa scuse, pigliandosi responsabilità e dandole, per una carriera felice, con soddisfazioni personali (la Steve Rogers Band) e anche qualche momento buio, con la fortuna ma anche la sfiga di essere la chitarra per antonomasia di Vasco, status che dà lustro ma non troppo lavoro usciti dall’orbita del rocker di Zocca. Tra un tour e l’altro Solieri viaggia molto, ascolta (dai Gov’t Mule ai fantastici Black Country Communion, passando per Jeff Beck e Derek Trucks), legge di musica –specialmente stampa estera perché le riviste italiane gli fan girare i coglioni – e soprattutto vede una paccata di film. Ha goduto con il documentario chitarristico It Might Get Loud e con l’ultimo Polanski, ma l’emozione cinefila più grande gli è arrivata l’estate scorsa, quando ha incontrato Bernardo Bertolucci: “Oh: sapeva TUTTO! Di me e Vasco, di Hendrix e di Jack White!”. Questo è essere giovani (BB, intendo). (Dicembre 2010)

(Continua – 1)

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

]]>