amnistia Togliatti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Resistenza: una lotta dimenticata e una vittoria tradita https://www.carmillaonline.com/2018/08/04/resistenza-una-lotta-dimenticata-e-una-vittoria-tradita/ Sat, 04 Aug 2018 21:12:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47740 di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea [...]]]> di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.

Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.

Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto. E perché sia successo questo lo si può spiegare con le stesse parole di Mussolini, che – riporta l’autore – aveva detto «per una volta non a torto: “Io non ho creato il fascismo, l’ho solo tratto dall’inconscio degli italiani”» (p.9).

In sostanza, per indiretta ed inconsapevole ammissione del suo duce, il fascismo sarebbe “l’autobiografia della nazione”, per dirla alla maniera di Piero Gobetti, la sintesi delle sue storiche malattie, che purtroppo non sono state sanate dal passaggio del Paese attraverso la lotta partigiana, ma si sono conservate per poi manifestarsi sotto diverso aspetto sintomatico nella storia repubblicana. Il fascismo – riflette Bellosi – «in sonno, ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente fino a quando gli apprendisti stregoni lo risvegliano», come può accadere ancora oggi in Italia, in «un Paese senza dignità e senza memoria» (p. 9).

E quello della memoria è uno dei grandi temi del romanzo di Cecco Bellosi, che ricostruisce e narra le vicende delle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi nell’area dell’Alto Lago di Como ed in particolare le cruciali giornate dei fatti di Dongo, dell’arresto e della fucilazione di Mussolini, dei gerarchi di Salò e della Petacci. E come spesso succede per i grandi eventi della storia, le molteplici versioni dell’accaduto non coincidono, talvolta addirittura divergono, talaltra si intrecciano e si confondono, soprattutto quando la memoria storica è in stretta correlazione con la narrazione politica che si vuole dare della realtà. Il libro che Cecco Bellosi scrive in forma di romanzo intende pertanto fornire un contributo alla ricostruzione dei fatti e delle vicende della Resistenza nella regione dell’Alto Lago di Como e lo fa partendo dalla ferma convinzione che siano soprattutto le memorie dirette, i racconti e le parole dei protagonisti a costituire il materiale più autentico con il quale ricostruire la cornice e il quadro del passato storico, per ovviare tanto alle storture di letture ideologicamente prevenute e tendenziose o semplicemente conformiste, quanto all’ufficialità cattedratica della storiografia accademica, rispetto alla quale Bellosi in più punti del libro tende a voler segnare le distanze. E forse eccessivamente, perché se è pur vero che il ricordo del vissuto di chi la storia l’ha fatta ha un valore prezioso, quasi inestimabile, è altresì evidente che il lavoro dello storico, per punto di osservazione, metodo di analisi e finalità di ricerca, sia e debba opportunamente essere altro dalla memoria diretta di chi fu attore di un evento storico, anche grande e di cruciale importanza come la lotta partigiana in Italia.

Sotto l’ombra di un bel fiore è un libro che si colloca in una posizione intermedia tra la narrazione e la ricerca storica: è un romanzo che per ricchezza di dati, per meticolosità di osservazione e ricostruzione dei fatti e per profondità di analisi assomiglia a un saggio di storia; ma un saggio reso coinvolgente ed avvincente dalla forma del romanzo in cui è scritto e dall’epica eroica delle vicende narrate.

La parte principale del libro è dedicata al ricordo e alla ricomposizione di momenti fondamentali della lotta partigiana attraverso le memorie e le conversazioni, ad anni di distanza dai fatti e quando ormai disillusione e frustrazione politiche si sono sostituite agli entusiasmi e alle speranze di un tempo, di due attori di quelle vicende: Pedro e Paolo. Pedro, ovvero Pier Francesco Luigi Bellini delle Stelle, nobile toscano, ma combattente con i comunisti della 52^ Brigata Garibaldi sulle montagne attorno al lago di Como e Paolo, nato a Como nel 1911, lavoratore emigrato in Svizzera come tipografo, antifascista, attivo negli ambienti del socialismo libertario italiano in Svizzera, rientrato in Italia dopo la Liberazione. I due in comune, oltre all’amicizia che li unisce, hanno soprattutto un obiettivo, quello di onorare la memoria, attraverso l’attenta ricostruzione dei fatti, di Luigi Canali, ovvero il partigiano comunista Neri – amico d’infanzia di Paolo  e capitano della stessa 52^ Brigata Garibaldi in cui militava Pedro – uno dei leader della Resistenza nella regione di Como e protagonista sia delle convulse giornate che hanno portato alla cattura e alla fucilazione di Mussolini sia di un’oscura vicenda di cui tragicamente ed ingiustamente è rimasto vittima assieme a Gianna, ovvero Giuseppina Tuissi, staffetta della 52^ Brigata e compagna del capitano Neri.

Neri e Gianna, catturati dall’Ovra e torturati, dopo l’evasione del primo e la scarcerazione della seconda, sono sospettati, ingiustamente, dai loro stessi compagni e dal partito comunista di tradimento; reintegrati nella Resistenza, partecipano ai fatti di Dongo, ma nel frattempo il Tribunale popolare del Comando delle Brigate Garibaldi ha emanato per Neri una sentenza di morte. Essa verrà eseguita agli inizi di maggio e alla fine dello stesso mese anche Gianna finirà uccisa – come Neri – per mano dei suoi stessi compagni di militanza politica e di lotta partigiana. Bellosi ricostruisce nei minimi particolari l’insieme delle vicende, sia quelle relative alla fucilazione di Mussolini sia in particolare quelle riguardanti il caso di Neri e Gianna, avanza le proprie interpretazioni dei fatti e ricompone il quadro, molto intricato e ancora oggi per nulla chiaro, dei differenti punti di vista e delle letture di entrambi gli episodi.

Ciò che complessivamente emerge dalle riflessioni di Bellosi è che della Resistenza, delle sue pagine gloriose come di quelle meno limpide, fin da subito siano state elaborate narrazioni distorte e si sia fatto un uso politico sfavorevole alla Resistenza stessa, teso a gettare fango o comunque a screditare e a dimenticare velocemente l’impegno ed il sacrificio, le battaglie, le speranze e i progetti dei partigiani italiani. Scrive Bellosi: «Nella guerra di Liberazione, chi ha vinto ha perso, chi ha perso è tornato, chi è stato a guardare ha conservato il potere di sempre» (p. 48). E a dare il via a questa tragica e venefica eterogenesi dei fini è stata la cosiddetta “amnistia Togliatti”, che Bellosi considera attraverso lo stupore e l’indignazione di Pedro e Paolo, che assistono alla mortificante sconfitta dei loro ideali in un’Italia in cui i fascisti di un tempo, svestita la camicia nera, riprendono le loro posizioni di potere e comando come se nulla fosse accaduto. L’ennesima pagina – la più grave – di trasformismo politico italiano, di tradimento degli ideali resistenziali di rinnovamento politico e morale del Paese, di suicidio della memoria storica italiana.

Nel viaggio di Bellosi attraverso i venticinque anni successivi alla guerra che hanno visto seccarsi e disperdersi inesorabilmente i fertili semi gettati dalla lotta partigiana, segue il momento del processo di Padova del 1957, quello per il presunto furto dell’“oro di Dongo”: un procedimento giudiziario i cui fini politici – screditare complessivamente la lotta partigiana, insinuare la tesi della differenza tra una Resistenza buona e una cattiva (quella comunista), individuare facili capri espiatori – sono evidenti non solo per lo storico che studia le carte a distanza di tempo, ma lo erano anche per i contemporanei, soprattutto per i partigiani che dovevano subire l’ennesima onta del disconoscimento del loro operato.

Il libro si conclude con l’analisi di due momenti della storia italiana, milanese, apparentemente diversi e cronologicamente distanti quarant’anni, che Cecco Bellosi però collega alla luce dell’intuizione visionaria di Jorge Louis Borges, per cui «sono i posteri a creare gli antenati» (p. 212): la strage di Milano del 12 aprile 1928, in piazza Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera Campionaria e in occasione del passaggio del convoglio reale, in cui morirono nell’immediato e nei giorni successivi venti persone e la strage di piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969, con i suoi diciassette morti ed ottantotto feriti. Dei due tragici episodi il più noto è senz’altro il secondo, mentre di quello di novant’anni fa – forse il primo esempio di quello stragismo come arma politica di Stato che l’Italia repubblicana ha ampiamente conosciuto – si sa pochissimo. Quasi certamente furono ambienti dissidenti e frondisti del fascismo repubblicano milanese e apparati dello Stato e della Polizia, attraverso l’uso di infiltrati negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto giellista, ad organizzare la strage. Un atto provocatorio poi ampiamente sfruttato, anche attraverso indagini depistanti, per accusare e screditare gli antifascisti, in Italia e all’estero, per perseguitare, arrestare, incarcerare e torturare centinaia di oppositori, in particolare comunisti, socialisti, anarchici, giellisti, repubblicani che finirono nelle grinfie del Tribunale speciale, dell’Ovra e della MVSN.

E proprio per questo, conclude Bellosi, si può dire che «Tra la strage di Piazza Giulio Cesare del 1928 e quella di Piazza Fontana corre il legame tra il passato remoto e il futuro anteriore, in cui il futuro anteriore è il modello del passato remoto» (p. 212). Insomma per comprendere più a fondo la strage di Piazza Giulio Cesare è utile partire da quella di Piazza Fontana di quarant’anni dopo. A conferma di quell’idea che attraversa tutto il romanzo di Cecco Bellosi, per cui il fascismo – nato nel 1919, salito al potere e divenuto regime per oltre un ventennio, caduto per ben due volte nel 1943 e nel 1945 e sconfitto dalla Resistenza – in realtà ha continuato in modo carsico ad attraversare la storia e la vita della nostra società e del nostro Paese, costituendo un paradigma politico di cui forse non abbiamo ancora concluso di conoscere tutte le possibili nefaste declinazioni.

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Brescia tu sei maledetta! https://www.carmillaonline.com/2016/05/27/brescia-tu-maledetta/ Fri, 27 May 2016 20:50:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30726 di Sandro Moiso

morte in piazzaFascism, wherever it appears, it is the enemy”. Philip K. Dick

Valerio Marchi, LA MORTE IN PIAZZA. Indagini, processi e informazione sulla strage di Brescia, a cura di Silvia Boffelli, Red Star Press, Roma 2015, pp. 355, € 22,00

A Brescia il fascismo sembra non essere mai morto. Ciò non soltanto per la contiguità geografica con i cimeli di Salò, l’ultima capitale del fascismo italiano, ma soprattutto per l’eredità di sangue, intrighi e violenze che quella esperienza aveva portato e ha continuato a portare con sé. Come la strage avvenuta in Piazza della [...]]]> di Sandro Moiso

morte in piazzaFascism, wherever it appears, it is the enemy”. Philip K. Dick

Valerio Marchi, LA MORTE IN PIAZZA. Indagini, processi e informazione sulla strage di Brescia, a cura di Silvia Boffelli, Red Star Press, Roma 2015, pp. 355, € 22,00

A Brescia il fascismo sembra non essere mai morto. Ciò non soltanto per la contiguità geografica con i cimeli di Salò, l’ultima capitale del fascismo italiano, ma soprattutto per l’eredità di sangue, intrighi e violenze che quella esperienza aveva portato e ha continuato a portare con sé. Come la strage avvenuta in Piazza della Loggia il 28 maggio 1974 ben contribuì a dimostrare e che in mille forme sembra essere giunta fino ai giorni nostri.

Proprio per questo motivo la riedizione del testo di Valerio Marchi, pubblicato per la prima volta una decina di anni prima della scomparsa dell’autore,1 si rivela ancora particolarmente utile. Non soltanto per riflettere sulla lunga serie di indagini, depistaggi e processi che da quel vile attentato presero il via ma, e forse soprattutto, per la riflessione che l’accurato lavoro di indagine svolto all’epoca dall’autore, oggi arricchito dalla bella ed aggiornata postfazione curata da Silvia Boffelli, costringe a fare sull’uso che di quella strage e della sua immagine e del suo ricordo è stato fatto non solo per ridisegnare i confini del conflitto politico tra le classi, ma anche della memoria collettiva.

Oggi, in tempi di referendum destinati a modificare pesantemente le garanzie costituzionali, in presenza di riforme del lavoro che riportano agli anni precedenti i conflitti degli anni sessanta e settanta la condizione dei lavoratori e dei giovani disoccupati e di criminalizzazione integrale di qualsiasi forma di dissenso che possa far anche solo balenare lo spettro della lotta di classe, si può tranquillamente affermare che quella strategia, troppo semplicemente definita fin da allora come “strategia della tensione”, ha vinto. Momentaneamente magari, come sempre avviene nel ciclo lungo dello scontro tra capitale e lavoro, ma sicuramente per il momento storico che stiamo attraversando. Non solo in Italia, ma a livello europeo.

Che il fascismo più criminale, dalla guerra civile iniziatasi nel 1921 fino agli anni del terrorismo nero oppure delle ben più recenti aggressioni ai giovani profughi riparati nell’Alta Valle Trompia, sia soltanto e sempre uno strumento al servizio del capitale, un tempo agrario ed industriale ed oggi finanziario, lo si poteva facilmente dedurre seguendone il percorso storico e individuale dei suoi rappresentanti palesi ed occulti oppure cogliendo il significato profondo della mancata applicazione di qualsiasi tipo di epurazione reale nelle file della burocrazia statale e dei rappresentanti più compromessi del mondo politico avvenuta fin dai tempi dell’amnistia Togliatti, promulgata con il decreto presidenziale n.4 del 22 giugno 1946.

Quello che, forse, fino ad ora non è mai stato colto nella sua interezza era, e rimane, costituito dal fatto che le strategie di uso della manovalanza fascista e dei servizi , tutt’altro che deviati, erano e permangono di lungo periodo. Periodo talmente lungo da far sì che anche la memoria collettiva possa essere cancellata e manipolata, fino ad essere rovesciata nel contrario di ciò che all’inizio era stata.

Sotto questo punto di vista l’attenzione prestata da Valerio Marchi e dalla “continuatrice” della sua opera, Silvia Boffelli appunto, al modo in cui gli strumenti di informazione e il mondo politico, fin dal primo giorno dell’attentato di piazza della Loggia, hanno presentato e ricostruito i fatti e le responsabilità effettive costituisce forse la parte più importante del libro. Perché il discorso pubblico portato avanti dai media e dai rappresentanti delle istituzioni, da allora in poi, ha contribuito a ridefinire i percorsi della memoria in una maniera distorta e fuorviante che, nella confusa e interclassista iniziativa delle formelle dedicate a tutte le vittime indistinte della violenza “politica”, ha raggiunto proprio a Brescia la sua concreta e piena formalizzazione.

E se si trattasse soltanto delle formelle sulle quali i bresciani e i turisti pongono distrattamente i piedi mentre passeggiano per il centro storico forse non varrebbe nemmeno la pena di parlarne ancora.2 Piuttosto rimane il problema, già sollevato da un vecchio comunista fin dagli anni del secondo dopoguerra3, di un antifascismo istituzionalizzato che “sarebbe stato il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo”. Questo tipo di antifascismo, che ha definito il fascismo solo in rapporto allo stato liberale e democratico e non in termini di dominio di classe, ha così contribuito, in tempi lunghi quasi quanto gli eoni evocati da Lovecraft nel suoi romanzi dell’orrore, ad assimilare il fascismo a qualsiasi forma di violenza o di azione tesa a spodestare il dominio del capitale sulla specie umana.

In questo modo i morti di piazza della Loggia, quasi tutti militanti politici e/o sindacali, sono stati “affratellati” nelle rievocazioni più recenti ai fascisti caduti per mano della reazione di classe alle loro violenze e agli assassini di Stato dalle mani macchiate di sangue operaio e studentesco. Così l’anarchico Serantini, ucciso dalla polizia a Pisa, è affiancato, nel severo e osceno ordine cronologico del percorso, al commissario Calabresi dalla triste fama. Senza vergogna, impudicamente e con grande strombazzamento di discorsi sentimental-catto-patriottici. Falsi, tutti, come uno spin-off di Beautiful.

L’obiettivo di tale politica del ricordo e dello “strazio” pubblico diventa così quello di piangere gli assassini prezzolati insieme alle loro vittime, accomunando tutti nel grande mare della pietà e dell’interesse della riappacificazione nazionale. Magari quella a cui mirava già l’appello “ai fratelli in camicia nera” rivolta nel 1936 dai vertici del Partito Comunista ai fascisti. E di cui le attuali politiche renziane potrebbero essere il frutto supremo e finale.

Ma non corriamo troppo. Riprendiamo il discorso dal testo, per esempio là dove, sulla base degli studi di De Lutiis e Flamini sui servizi segreti e gli apparati politico-militari dello Stato italiano, Marchi sottolineava come “nell’ambito degli ambienti golpisti italiani, nel 1974 giunge a compimento una sorta di resa dei conti tra due differenti visioni delle strategie eversive da seguire: a confrontarsi sono da un lato quella che Flamini definisce l’«ala golpista radicale», che utilizza massicciamente l’estremismo neo-fascista e opera per instaurare in Italia una dittatura militare,e dall’altro quei settori che, pur utilizzando gli stessi sistemi, considerano questo tipo di regime ormai obsoleto,inadatto a gestire uno Stato a sviluppo industriale avanzato, e che operano attraverso la strategia della tensione per favorire l’avvento di una repubblica presidenziale, autoritaria, saldamente inserita nel modello occidentale non soltanto nel campo delle scelte geo-politiche, ma anche in quello delle forme istituzionali.” (pag.48)

Citando, poi, a conferma un testo di De Lutiis, là dove si afferma, quasi profeticamente, che: “I settori meno rozzi del «golpe invisibile» preparano una soluzione diversa da quella del colpo di stato militare. L’alternativa è un golpe incruento, che dovrà avere caratteristiche di riforma istituzionale e venature «di sinistra». Sarà appoggiato dalla parte più moderna del mondo industriale italiano e tenderà a inserire l’Italia – priva del «pericolo comunista» – in un contesto europeo più efficiente […] E’ il progetto noto come «golpe bianco […] che ha come propugnatori Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, ma gode di simpatie in un vasto arco politico […] oltre che l’appoggio determinante della Fiat. Per attuare questo piano è preliminarmente necessario sgombrare il campo dagli ambienti coinvolti nei progetti golpisti più rozzi4 “ (pag.51)

Fin qui, dunque, il discorso sul fascismo e sul suo uso è abbastanza chiaro: manovalanza terroristica buona sia per un golpe un po’demodé, come quello auspicato dai settori più arretrati dell’esercito e delle istituzioni, sia come soggetto su cui scaricare la responsabilità terroristica di una strategia che ha in ambienti più moderni i suoi ideatori che, proprio in nome della difesa della democrazia e dell’interesse nazionale (in realtà sovranazionale e finanziario), chiamano all’union sacrèe tra le classi contro ogni forma di violenza e di opposizione (soprattutto di classe).

Il fatto poi, come i vari processi hanno in seguito dimostrato, che non si sia mai davvero giunti ad una piena resa dei conti “istituzionale”, ma piuttosto ad una sorta di “Patto del Nazareno” ante-litteram e di opportunistica convenienza per le varie parti in causa non cambia di molto il senso del tutto. Se non che “il segreto di Stato” più volte invocato ed utilizzato per impedire, nel corso dei vari processi, di giungere alla piena affermazione della verità e deviarne invece le conclusioni, è oggi ancora estremamente di moda. Una sorta di “per il bene della causa” che tutto deve coprire e giustificare. Confermando così, senza neanche voler troppo stupire i lettori, che il capitalismo non può e non deve processare se stesso. Toccherà ad altri e in altri contesti storici e sociali farlo.

Resta però, sintetizzando forse fin troppo un testo la cui lettura è davvero molto interessante e coinvolgente, un problema in gran parte irrisolto: perché proprio Brescia fu scelta per costituire quasi il centro di una strategia che, comunque, si manifestò e colpì in più parti d’Italia? Come mai il fascismo era, e rimane ancora, così forte in tale realtà? Una realtà in cui lo squadrismo locale (si pensi soltanto al camerata Silvio Ferrari saltato in aria, con la bomba che stava trasportando sul suo scooter, pochi giorni prima della strage) si mescolava, come per certi versi ancora oggi, con le tifoserie calcistiche e gli uomini degli apparati di “sicurezza e disinformazione” oltre che con un tessuto economico ed imprenditoriale che, sia nell’agricoltura che nell’industria, rimpiangevano, e forse rimpiangono ancora, gli anni della repubblica delle camicie nere e del cattolicesimo più retrivo.

via mancini 1 Una realtà, però, fatta anche, all’epoca, di fabbriche e di forti sindacati, di fiducia nella sinistra istituzionale, di un cattolicesimo sociale che costituiva un po’ l’anima della sinistra DC, in cui la presenza della memoria della lotta partigiana, sia di sinistra che cattolica era ancora molto forte e presente. In cui, però, era forse assente un’autonomia di classe che permettesse nella città e nel territorio circostante quelle forme di auto-organizzazione operaia e giovanile che nelle vicina metropoli industriale di Milano non avevano comunque permesso uno sviluppo, in proporzione, altrettanto ampio del fenomeno e della militanza fascista. Costretta, in qualche modo, ad “emigrare” in quel di Brescia dove, evidentemente, si sentiva più sicura e protetta.

Insomma, forse la coscienza sinceramente anti-fascista della città e dei suoi lavoratori aveva trovato nel “semplice” anti-fascismo il suo limite stesso. Antifascismo spontaneo e sincero che si trovò a fare i conti con una delle stragi più odiose della storia d’Italia e, immediatamente, con una reazione delle forze dell’ordine, di una parte delle istituzioni e di alcuni giornali nazionali che miravano a negare da subito le effettive responsabilità. Ma che non seppe andare al di là della denuncia e dell’attesa di una giustizia di Stato e istituzionale che non avrebbe mai potuto soddisfare le aspettative dei famigliari delle vittime e di tutti coloro che al fascismo volevano opporsi. Favorendo così, indirettamente, anche quel progetto di lungo periodo che nelle manifestazioni istituzionali odierne e nelle scelte della Casa della Memoria vede ancora impegnati alcuni dei suoi protagonisti.

Ecco perché, ancora oggi, la maledetta strage di Brescia non può essere trattata soltanto come Storia oppure ridotta a mera vicenda giudiziaria o, ancor peggio, ad innocua memoria della paura e del dolore. Ciò che l’ha prodotta vive ancora oggi. In mezzo a noi e sui nostri schemi televisivi, sui social e nelle campagne forsennate di riforma istituzionale e del lavoro. Vive nel taglio della spesa sociale e nell’uso dei migranti come ricatto o come paravento. Vive nel lavoro sottopagato e nelle violenze impunite delle forze del disordine. Vive nelle aggressioni ai compagni e agli immigrati. Vive e non è ancora affatto morto.francia-scioperi
E se il suo nome è Fascismo, di cognome fa Capitalismo.
Sarà però la specie nel suo insieme a metterli entrambi in definitiva liquidazione.

N.B.
La foto in bianco e nero, sopra riprodotta, riguarda l’assalto di massa alla sede del Movimento Sociale Italiano di via Mancini a Milano, nell’aprile del 1975, quando la stessa fu incendiata e gravemente danneggiata.


  1. Valerio Marchi (Roma 1955 – Polignano a Mare 2006) è stato fondatore della “Libreria Internazionale” di San Lorenzo e interprete del conflitto giovanile oltre che sociologo estremamente attento alle dinamiche attraverso le quali l’informazione mainstream legge e deforma larealtà. Tra le sue opere si vanno ricordate Teppa (Red Star Press), Ultrà. Le culture giovanili negli stadi d’Europa (Hellnation Libri/Red Star Press), La sindrome di Andy Capp. Culture di strada e conflitto giovanile (2004) e Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio (2005 e 2014)  

  2. L’argomento è già stato affrontato su Carmilla in almeno due occasioni: https://www.carmillaonline.com/2016/05/24/le-formelle-della-memoria-corta-manipolata/
    https://www.carmillaonline.com/2015/06/10/formelle-di-stato/  

  3. Amadeo Bordiga  

  4. G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, editori Riuniti 1991, pag.196  

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“Andonno e l’ammazzonno”: Padule di Fucecchio, 23 agosto 1944 https://www.carmillaonline.com/2016/03/10/andonno-e-lammazzonno-padule-di-fucecchio-23-agosto-1944/ Wed, 09 Mar 2016 23:01:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29070 di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore. Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” [...]]]> di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore.
Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” oltre che ad altre pubblicazioni politiche e giuridiche, ha dedicato alla ricostruzione dell’evento molti anni di attività. Sia in veste di magistrato che di storico.

Ma assimilare il suo ultimo testo sull’eccidio del 23 agosto 1944 ad un’opera di carattere soltanto storico o giuridico sarebbe estremamente riduttivo.
Nell’arco dei diversi anni che l’autore le ha dedicato, la ricerca si è trasformata in un’autentica ricerca partecipata in cui in gioco non sono entrati soltanto i testi consultati, le sentenze emesse, le testimonianze degli accusati e degli accusatori (ovvero dei soldati ed ufficiali tedeschi autori diretti o responsabili della strage e dei superstiti della stessa), ma anche le sue personali memorie famigliari, la passione e la lingua dei sopravvissuti, le testimonianze inscritte nel paesaggio e nel tempo e anche quella, apparentemente muta, di coloro che egli chiama i diversamente vivi. I morti, appunto, che parlano ancora attraverso le parole, i sogni, gli incubi e gli stessi silenzi dei loro congiunti rimasti in vita.

Un’opera unica nel suo genere, che scatena nel lettore un’autentica tempesta di sentimenti, passioni, dolore e orrore. La stessa che lo stesso Baiada non nasconde di aver vissuto sia come magistrato che come ricercatore e scrittore. “Scrivo con le lacrime agli occhi” afferma ad un certo punto l’autore e in un’altra parte spiega: “L’esito di questo libro riconduce all’impossibilità e insieme alla necessità di dire l’indicibile, perché questa contraddizione è un altro volto della necessità e dell’impossibilità di dare un senso all’insensato, del rischio di giustificare l’ingiustizia. Il testo è nato per accumulo, poi per frammentazione, e so che non esaurisce i fatti, e che per questo si rifiuta di riordinarli in un andamento lineare. E’ una caratteristica che rivendico e che in fondo mantiene la promessa, quella appunto di non dire l’ultima parola su una strage fra le più gravi dell’occupazione tedesca in Italia, forse la più assurda. L’incompiutezza può sfidare a proseguire il cammino, la memoria non si ferma” (pag. 306)

La precisione non è la verità” aveva affermato in un suo testo Henry Matisse e, anche se il contesto della pittura moderna e quello della ricerca storica sembrano così distanti, è vero che la trasmissione delle realtà umana, sensibile ed extrasensibile (quella dei ricordi, del dolore, dei sentimenti e delle passioni), non può avvenire soltanto attraverso la fredda rappresentazione o catalogazione dei fatti mentre la loro interpretazione non può sfuggire all’influenza dell’inconscio collettivo, o anche soltanto di chi scrive o dipinge, e dei suoi percorsi. Tutti elementi che introducono in qualsiasi rappresentazione più di un elemento contraddittorio che soltanto una necessità di riordinamento e aggiustamento, detta altrimenti spiegazione, istituzionale o politica che sia, può far finta di rimuovere oppure cancellare del tutto.

C’è un sentiero del lavoro intellettuale che è difficile da percorrere, ma che è più solido e più piacevole, proprio perché non è dell’intelletto ma del sentimento. Pochi riescono ad attingerlo […] Persino le ricerche e gli studi , a volte, tradiscono questa consapevolezza, quando verificano ossessivamente i dettagli, illudendosi che la maggiore esattezza significhi migliore memoria e più condivisione” (pag.290)

E’ un tema scottante quello che Baiada, con estrema lucidità, porta alla ribalta e che contiene al suo interno diversi elementi di carattere giuridico, politico, conoscitivo e di classe. Perché anche la verità può non coincidere con la realtà. Troppo spesso, infatti, la ricostruzione delle storie delle lotte oppure delle violenze del potere diventano retoriche, pur essendo magari partite con le migliori intenzioni. Mentre le spiegazioni che vogliono essere definitive o complete, troppo spesso finiscono col giustificare, anche indirettamente, ciò che è ingiustificabile. La brutalità dell’oppressore viene così inserita in una strategia spiegabile, forse addirittura condivisibile; al contrario delle strategie di resistenza messe in atto dagli oppressi, che continuano ad essere molte volte considerate irrazionali o inadeguate, sia nel caso in cui prevedano l’uso della violenza sia nel caso opposto. Diciamolo pure: una mal interpretata obiettività del lavoro storico rischia così, molte volte, di colpevolizzare le vittime quanto i carnefici.

Nel leggere il testo sulla strage del Fucecchio vengono in mente in continuazione riferimenti ad episodi a noi più vicini, dalle stragi americane in Vietnam, agli agenti di polizia che ingiuriano e umiliano e torturano i giovani della scuola Diaz oppure ai tormenti dei milioni di disperati che cercano di sfuggire a guerre odiose ( ma quando mai una guerra non lo è?) finendo col ritrovarsi soltanto in una terra di nessuno (Calais, la frontiera macedone o ungherese o qualsiasi altro luogo in Europa o nel Vicino Oriente) dove, così come gli sfollati, gli sbandati, i disperati e i renitenti alla leva rifugiatisi nel padule, potrebbero essere in qualsiasi momento trasformati in corpi da eliminare e rimuovere. Con qualsiasi mezzo.

Episodi talvolta altrettanto gravi ed altre no, ma che sempre vedono tra i loro esecutori uomini e soldati comuni. Nel caso di Fucecchio soldati dei reparti esplorativi meccanizzati della Wermacht. Non delle SS che la vulgata popolare, troppo spesso, tende ad individuare come uniche colpevoli degli atti di crudeltà; mentre dal magnifico saggio “La banalità del male” di Hannah Arendt in avanti abbiamo imparato che sono troppo spesso proprio gli uomini, e talvolta le donne, comuni1 a perpetrare i crimini più orrendi soltanto perché hanno burocraticamente ricevuto un incarico

E’ la guerra” sembra essere spesso la spiegazione più ricorrente, in cui il pur sotteso intento morale finisce sempre con lo sfociare semplicemente in una giustificazione. Generale e non vera, perché, come afferma chiaramente Baiada, non si tratta soltanto di guerra.
Certo le truppe tedesche nel 1944 stavano abbandonando Firenze (dove la battaglia con gli insorti italiani appoggiati dagli Alleati si era protratta fino al 20 agosto), dopo aver già abbandonato Roma il 4 giugno.

Così “Si può immaginare che in un angolo buio la percezione della disfatta inducesse i tedeschi a lasciarsi dietro una scia di lutti […] in cui i superstiti avrebbero letto un monito indelebile: anche vincendo una guerra, mettersi contro i tedeschi costa troppo sangue […] Potrebbe esserci il sangue delle stragi nel fatto che nel volgere di un secolo la Germania, pur avendo perso due guerre, ha un peso che nel 1914 sarebbe stato inimmaginabile. La domanda sul perché, insomma, potrebbe nasconderne un’altra: per chi?” (pag.263)

Perché “intorno al Padule di Fucecchio, soprattutto lungo i suoi margini settentrionali e orientali, i tedeschi irrompono nelle case, percorrono i campi, invadono le aie, e uccidono e uccidono, anche donne, bambini, vecchi.[…] L’eccidio è in un’area povera, con legami tra vaste famiglie “ (pag.11), ed evitano accuratamente di addentrarsi nel cannellaio, il centro della palude, dove effettivamente si nascondono i membri di una formazione partigiana. “Per i tedeschi la distinzione tra partigiani e italiani è confusa quando si uccide. Ma nitida quando c’è da combattere. Non entrano nella palude, sopravvalutando la formazione partigiana, ma uccidono nella zona circostante dove non rischiano nulla […] Qui gli armati si dirigono contro i disarmati e ne fanno strage” (pag.60)

Ma all’autentica festa di morte svoltasi nel padule non partecipano nelle vesti di aguzzini soltanto soldati ed ufficiali tedeschi: ci sono anche italiani. Fascisti, in veste di interpreti, informatori, spie e guide. Spesso mascherati, con divise tedesche e cappucci per non farsi riconoscere da coloro che saranno uccisi o che vedranno le loro famiglie massacrate. Gli stessi che dopo essersi ritirati al seguito delle truppe germaniche, ritorneranno di lì a qualche anno sul luogo del delitto. Impuniti e ancora capaci di incutere timore tra i superstiti. Alla faccia di tutti i piagnistei della destra e dei “pacificatori democratici” sugli omicidi di fascisti e le vendette che sarebbero state consumate dopo la Liberazione.

La cosa più straziante e allo stesso tempo bella del libro è costituita dal fatto che a narrare i fatti, gli omicidi, gli stupri, l’assoluta arbitrarietà della violenza, la paura non è quasi mai la voce distaccata dello storico o del giureconsulto, ma la voce dei testimoni diretti, nel loro dialetto così distante dal fiorentino esibito dall’attuale premier o dai comici di regime. L’uno così vivo, nonostante tutto, e l’altro così morto.

E’ la lingua dei poveri e degli incolti a narrare, cioè proprio di coloro la cui testimonianza è spesso rimossa dai testi di storia, scritti quasi sempre dai depositari di una “istruzione” lontana dai meno abbienti. Privarli della parola può costituire infatti, troppo spesso, l’ultima e più crudele forma di espropriazione e di esclusione, facendo così che anche la memoria dei “vinti” della storia diventi patrimonio dei “vincitori”.

Ne è consapevole una delle testimoni superstiti, Maria Grazia Gallegani, che rileggendo, nel 1997, gli atti del 1945, quando fu sentita dai britannici, si domanda: ”La storia viene sempre poi, cioè, artefatta, perché non riporta mai le cose vere, non capisco perché. Come fanno i posteri poi a sape’ la verità?” – Intervistatore: “Beh, guardando questi documenti” – “Eh, lo so. Ma non corrispondono sempre, alla verità” (pag.292)

Non è il caso di Baiada che, al contrario, organizza un saggio di autentica storia orale ricostruita attraverso le testimonianza rilasciate in tempi diversi prima agli ufficiali britannici incaricati di indagare sulla strage nel periodo immediatamente successivo alla stessa, poi a carabinieri e in seguito ai magistrati dei processi. Ma raccolte anche dallo stesso autore tra i superstiti o i loro famigliari ed eredi ancora in vita.

Famigliari ed eredi cui i vari processi non hanno dato reali soddisfazioni. Così è possibile notare che “Una larga parte della strage avviene nella tenuta dei Poggi Banchieri, e stermina le famiglie dei loro contadini, dei parenti e degli sfollati che vi hanno trovato ospitalità. All’edificio padronale si accede dalla via Francesca, è una grande villa con giardino, e una targa dice: «Villa Banchieri Castelmartini, restaurata con il contributo dello Stato»; è probabile che lo Stato abbia dato più per il restauro della villa che per il risarcimento alle famiglie delle vittime” (pag.24)

A riassumere le vicende giudiziarie inerenti l’eccidio, successive alla fine del conflitto, basterebbe il titolo di uno dei capitoli: Settant’anni e quattro processi. Giustizia no.
I primi tre processi sono militari, “nessuno può chiedere i risarcimenti e di responsabilità dello Stato tedesco non se ne parla neanche; le condanne sono miti o espiate solo in parte” (pag.266). Tutti e quattro i processi, comunque, riguardano soltanto i militari tedeschi, mentre per i fascisti prosegue l’impunità iniziata con l’amnistia Togliatti.

Non a caso però nel processo di Firenze del 1948 a carico di uno dei comandanti dei militari coinvolti nell’eccidio si invocano e si ottengono le attenuanti “per coloro che, pur non appartenendo alle forze armate italiane, hanno, nel corso di un’alleanza, versato il loro sangue in una guerra comune”. Insomma poiché prima dell’8 settembre 1943 i tedeschi erano alleati degli italiani, ciò che hanno compiuto dopo quella data a danno delle popolazioni italiane può essere ritenuto meno grave. “Il giudice relatore è Enrico Santacroce: diventerà procuratore generale militare, e il 14 gennaio 1960 firmerà la sconcia «provvisoria archiviazione degli atti», lucchetto dell’armadio della vergogna” (pag.272)

Soltanto nel 2006, con il processo per le stragi di Civitella, Cornia e San Pancrazio, arriverà una prima condanna della Germania a risarcire i danni causati ai cittadini italiani in quei drammatici eventi. Ma già “nel 2008 la Germania ricorre alla corte internazionale di giustizia dell’Aia, che dopo un lungo procedimento le dà ragione, a febbraio 2012, con una sentenza che fa notizia […] Comunque, ancor prima della pronuncia della corte internazionale, per il solo fatto che Berlino ha proposto ricorso, l’Italia penalizza gli interessi dei suoi cittadini con due leggi. Non negano il diritto al risarcimento né la responsabilità tedesca: si limitano a sospendere l’esecuzione. Con le dovute proporzioni, lo stesso effetto della mancata estradizione degli imputati: condanna sì, esecuzione no” (pag. 274) Cosa che il riconoscimento, dalla municipalità tedesca di Engelsbrand, a uno degli uomini che si macchiarono di una delle peggiori stragi naziste, quella di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, Wilhelm Kusterer oggi 94enne, non fa altro che confermare con l’aggravante dell’autentica beffa per il dolore di chi quella strage la subì.

Germania che sembra rivendicare, nonostante le prese di distanza della Cancelliera Merkel dall’ultimo fatto, una sua precisa continuità d’azione, come ben dimostrano gli stretti rapporti con il regime turco del presidente Erdogan che sembrano rinnovare i fasti dell’alleanza tra Impero Ottomano e Impero Guglielmino ai tempi del primo conflitto mondiale e della strage degli Armeni2 che servì da modello alla successiva “soluzione finale” per gli Ebrei dell’Europa Orientale occupata dalle truppe naziste.

Nel dicembre del 1942, Hitler aveva dichiarato. “A chi porta le armi deve essere assicurata assoluta copertura, affinché il povero diavolo non si debba chiedere se poi sarà ancora chiamato a rispondere delle sue azioni” (cit. pag.194) La decisione sembra funzionare ancora oggi, tanto che con il decreto del 10 febbraio scorso, secretato per motivi di sicurezza, i nostri militari di unità speciali, per missioni speciali decise e coordinate da Palazzo Chigi, avranno le garanzie funzionali degli 007 e, dunque, licenza di uccidere e impunità per eventuali reati commessi.

All’epoca la Germania massacrava non per difesa o per costruire fortificazioni, come si è sentito ripetere dai difensori degli imputati in tanti processi, “ma per il controllo del territorio, in funzione del saccheggio e della deportazione” (pag. 278), in funzione primariamente terroristica. Ma l’imperialismo non si può processare, così “la giustizia negata è una prosecuzione del crimine con altri mezzi” (pag.249)

padule 1 Il grande merito di Luca Baiada e del suo terribile e magnifico libro, è proprio quello di voler mantenere aperta la ferita, di non volerla lasciar richiudere facendo finta che suturarla sia l’unica cosa utile e saggia da fare; perché quella suturazione consisterebbe soltanto nel buttare altra terra sui cadaveri delle vittime, cancellandone la memoria e favorendo una presunta pacificazione che non c’è mai stata e mai potrà esserci. Perché il tempo dei “vinti” continuerà a scorrere diversamente da quello dei vincitori fino a quando sopravviveranno le differenze di classe.

Vittoria Tognozzi, un’altra testimone superstite, nel 1999 affermava: ”Dice bisogna scusare, dice chi ha fatto male, dice, bisogna. Perdonare, dissi io? Io non farei altro, se l’avessi davanti all’occhi, dissi io, l’ammazzerei, subito immediatamente” (pag.154). Ricordando, successivamente, la morte di Ugo Romani, ucciso il 6 luglio 1944 mentre cercava di difendere la sua famiglia dallo stupro e dall’omicidio che i tedeschi intendevano mettere in atto, ricorda “E allora lui l’ammazzò un tedesco, lo spezzò col pennato 3 e lo buttò nel pozzo nero. E lui lo ‘mpicconno in cima alle scale” . Il tedesco fu tagliato in due, racconta Vittoria allo stesso Baiada e sorride soddisfatta mostrando come l’arnese possa andare su e giù. Mentre alla domanda perché secondo lei non ci sia stata giustizia , risponde: “Perché non c’è sangue nelle vene degli italiani” (pag. 45)


  1. Si legga anche in proposito il saggio di Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi 1999  

  2. Si veda La questione della complicità tedesca e Il genocidio armeno raffrontato all’Olocausto e ai processi di Norimberga in Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, Guerini e Associati 2003  

  3. roncola  

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