Allen Ginsberg – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 6: Sam Spade, detective be bop, e il Dottor Sax, che sussurra nelle tenebre https://www.carmillaonline.com/2023/06/21/esperienze-estetiche-fondamentali-6-sam-spade-detective-be-bop-e-il-dottor-sax-che-sussurra-nelle-tenebre/ Wed, 21 Jun 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77516 di Diego Gabutti

On the Road, fine anni quaranta. Sal Paradise, il protagonista del romanzo, vale a dire Jack Kerouac in persona, mette per la prima volta piede a San Francisco. Dean Moriarty, al secolo Neal Cassidy, guida spericolatamente l’automobile giù dalle colline. «Wow! Ce l’abbiamo fatta!» esulta, sovreccitato. «Giusto in tempo per non restare a secco di benzina!» Quindi «imbocca l’Oakland Bay Bridge», scrive Kerouac, «ed entra strombazzando in città. I palazzi di uffici del centro scintillano di luci. Non viene da pensare a Sam Spade?»

Quando lessi per la prima volta “Sulla strada”, intorno alla metà dei sessanta, [...]]]> di Diego Gabutti

On the Road, fine anni quaranta. Sal Paradise, il protagonista del romanzo, vale a dire Jack Kerouac in persona, mette per la prima volta piede a San Francisco. Dean Moriarty, al secolo Neal Cassidy, guida spericolatamente l’automobile giù dalle colline. «Wow! Ce l’abbiamo fatta!» esulta, sovreccitato. «Giusto in tempo per non restare a secco di benzina!» Quindi «imbocca l’Oakland Bay Bridge», scrive Kerouac, «ed entra strombazzando in città. I palazzi di uffici del centro scintillano di luci. Non viene da pensare a Sam Spade?»

Quando lessi per la prima volta “Sulla strada”, intorno alla metà dei sessanta, un Baedeker per gli adolescenti che anelavano alle emozioni forti dell’autostop, non so quante volte avevo già letto “Il falcone maltese” di Dashiell Hammett. Ex mozzorecchi dell’Agenzia Pinkerton, caporione in segreto (secondo la leggenda) della cellula hollywoodiana del Partito comunista americano, sempre attaccato alla bottiglia come Nora e Nick Charles nell’”Uomo ombra”, “The Thin Man”, il suo romanzo del 1933 dal quale fu tratto un fortunato serial cinematografico, Hammett non ho più smesso mai di rileggerlo (non spesso quanto Dickens e Rex Stout, ma sempre molto spesso). “On the Road”, invece, l’ho riletto soltanto una volta o due (in compenso ho letto molte volte, di Kerouac, “Il dottor Sax”, il suo libro più bello… ci torniamo tra un momento).

Oggi ci sono almeno altre tre o quattro edizioni del Falcone, ma ai tempi c’era solo l’edizione Longanesi, del 1953, che conoscevo quasi a memoria, come le poesie del Vate («Taci. Su le soglie del bosco») o di Carducci («La nebbia agl’irti colli») imparate in prima media. Quanto all’edizione del 1936, apparsa nella collana Il romanzo per tutti, che ho ricordato in chiusura del capitolo precedente, all’epoca non ne sapevo nulla. Ne avrebbe trovata una copia, molto prima di me, Paolo Pianarosa, al quale più d’una volta la chiesi in prestito, sempre senza successo (da uomo di mondo, egli sapeva bene che «tra i modi consueti d’acquisizione di libri il più adeguato è la richiesta di prestito con successiva non restituzione», come scrisse da qualche parte Walter Benjamin). Non so, per finire, se Sal Paradise avesse letto il Falcone. Immagino di sì. Ma certamente aveva visto il film.

Tutti abbiamo visto il film.
The Maltese Falcon è patrimonio universale (come le mischie di Titti e Silvestro, come il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, come Pinocchio e Like A Rolling Stone). Quindi era al film, verosimilmente, che pensava Paradise entrando a San Francisco con Dean Moriarty.

Kerouac all’epoca aveva per mèntore William Burroughs, gran consumatore di romanzi polizieschi, oltre che di sostanze stupefacenti (degli uni e delle altre più ce n’era e meglio era). Nel 1945, avrebbero scritto insieme, nella lingua gelida e impassibile dei pulp, un romanzo intitolato And the Hippos Were Boiled in Their Tanks (E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, Adelphi 2014). Questo, per capirci, l’incipit: «Il sabato i bar chiudono alle tre di notte così sono arrivato a casa verso le quattro meno un quarto dopo aver fatto colazione al Riker’s all’angolo tra Christopher Street e Seventh Avenue. Ho gettato il Mirror e il News sul divano, mi sono tolto la giacca di tela crespa e l’ho gettata sui giornali. Volevo andarmene dritto a letto. In quel momento hanno suonato al citofono». Volontario omaggio ai personaggi e alle atmosfere dei pulp, The Hippos eccetera era la storia (vera) dell’omicidio, avvenuto un anno prima, nel 1944, di David Kammerer, un omosex amico di Burroughs e suo ex compagno d’università ad Harvard da parte di Lucien Carr, un giovanissimo poeta amico di Kerouac. Per giudizio unanime di tutti i futuri campioni della Beat Generation, Carr era tra loro il più dotato di talento letterario, nonché il meno indulgente con i molestatori.

Kammerer, invaghito di lui, lo tampinava da tempo. Quella notte era salito su per la scala antincendio e, mentre Carr dormiva in compagnia della sua ragazza, gli era entrato in casa dalla finestra nel tentativo di sedurlo. Esasperato, forse anche un po’ strafatto, Carr aveva afferrato un serramanico e, dopo mesi di persecuzione, gli aveva saldato il conto, quindi era corso da Kerouac, sconvolto. Che fare, adesso? Costituirsi? Fuggire? Era un bel problema, che avrebbe dato da pensare anche a un postino di James Cain, o a un cliente di Michael Shayne, il detective di Brett Halliday, per non parlare d’un assassino pallido dostoevskiano. Era l’alba. Kerouac e Carr cominciarono a vagare per New York cercando una soluzione, consultando gli amici, Burroughs, Ginsberg, pensando che Carr, ecco, avrebbe potuto filarsela in treno, via Grand Central, ma no, il treno no, lo avrebbero beccato alla prima stazione… uhm, e allora perché non procurarsi un imbarco su qualche mercantile diretto a Rio, a Manila, oppure in Alaska, e se anche questa via di fuga era impraticabile, magari poteva perdersi per un po’ tra i barboni e i «vinos» del Lower East Side. Dopo ventiquattr’ore d’incubo Carr s’arrese e bussò al più vicino distretto di polizia.

And the Hippos Were Boiled in Their Tanks raccontava questa storia ed era un pulp triste e magnifico. Sarebbe piaciuto a Cornell Woolrich, noto altrimenti come William Irish, che in quegli anni (anche lui a New York, dove viveva da eremita) scriveva storie di panico e orrore metropolitano che avrebbero ispirato grandi film a grandi registi: Hitchcock, Truffaut, Siodmak, (La finestra sul cortile, La donna fantasma, La mia droga si chiama Julie, La sposa in nero). Vittima di un’aggressione sessuale, giovane e di buona famiglia, Carr fu condannato a una pena lieve. Uscito di galera dopo qualche mese, cambiò vita: basta con la poesia, con le droghe, e niente più bohème. Come Arthur Rimbaud, che dopo la Comune s’era lasciato dietro le spalle la sua stagione all’inferno, anche Lucien Carr passò ad altro, senza rimpianti. Si parla di lui, mascherandone l’identità con uno pseudonimo, nelle classiche opere beatnik degli anni successivi: in Urlo di Ginsberg, e in tutto Kerouac. Restò in contatto con i vecchi amici, che incontrava ogni tanto per una birra e quattro chiacchiere, ma a Burroughs e Kerouac, per quanto insistessero, negò sempre il permesso di pubblicare And the Hippos eccetera. Diventato un giornalista di rango, adesso sedeva ai piani alti dell’Agenzia Reuters, aveva famiglia, e non voleva che le vecchie storie tornassero a galla. Fu suo figlio, Caleb Carr, autore di polizieschi ambientati nella New York d’inizio secolo, il più famoso L’alienista, a concedere infine il permesso di pubblicare il romanzo nel 2009, quando sia gli autori del libro sia il loro personaggio principale erano ormai tutti scomparsi da un pezzo.

David Kammerer era andato incontro al grande sonno (per citare Raymond Chandler) il 13 agosto del 1944. The Maltese Falcon era un film di tre anni prima. Kammerer morì nell’ultimo anno di guerra; il film fu girato poco prima di Pearl Harbor, quando lo Zio Sam s’apprestava a prendere le armi. Non c’era che violenza nel mondo.
Di questo erano e sono metafora i pulp.
Bogart, in ogni modo. E poi John Huston, Mary Astor, Peter Lorre, Sidney Greenstreet, Ward Bond. Kerouac, come tutti, fu incantato dal film. E da Sam Spade, il poliziotto di Frisco.

Protagonista, nel 1941, del Mistero del falco di John Huston, che esordiva alla regia, Humphrey Bogart è stato il più iconico, ma non il primo, degli attori che in quegli anni interpretarono la parte di Spade in un adattamento cinematografico del Falcone. Nel 1931 un falso messicano (Ricardo Cortez, al secolo Jacob Krantz, viennese doc) era stato Spade in The Maltese Falcon, un film di Roy Del Ruth, oggi reperibile (in buone condizioni) sul web. C’era stato un altro Spade nel 1936: Warren William, che in un film del 1940 avrebbe braccato Lon Chaney jr nella parte di Larry Talbot, l’uomo-lupo, diede la caccia anche al falcone d’oro massiccio dei Cavalieri di Rodi in Satan Met a Lady di William Dieterle (dove, wonderly, la Dark lady è nientemeno che Bette Davis). Trovate anche questo su Internet. Ma Bogart era di un’altra classe.

Oscurò in via definitiva ogni Sam Spade passato e futuro quando stirò le labbra nel suo leggendario sorriso da caimano; quando disarmò Peter Lorre e lo stese con un pugno; e quando infine consegnò agli sbirri Mary Astor, la più perfetta delle femmes fatales, spaurita e spietata insieme, dicendole «forse io ti amo, forse tu mi ami», però ti mando lo stesso in galera perché è il mio mestiere… e perché hai ucciso il mio socio, che non mi piaceva, ma un uomo non può permettere che l’assassino del proprio socio la faccia franca; e se t’impiccheranno, okay, vuol dire che ti ricorderò per sempre, amore mio.
Fu a Bogey, al suo Borsalino calato sulla fronte, alla sua giacca doppio petto e ai suoi calzoni troppo larghi e svolazzanti sulle caviglie; fu a lui e agli occhi da cerbiatta ferita di Mary Astor; fu agli sguardi sfuggenti di Peter Lorre mentre tutti puntano contro tutti la pistola (e forse anche al Dottor Sax) che Kerouac pensò quando vide le «luci scintillanti» di Frisco oltre «l’Oakland Bay Bridge».

Alle origini del moderno poliziesco d’azione, c’è una rivista leggendaria, Black Mask, nata nel 1920 da un’idea del giornalista e critico di fede repubblicana Henry Louis Mencken, che ne fu il primo direttore. Come tutte le idee rivoluzionarie, era un’idea semplice: smetterla con i poliziotti solutori di rebus, con l’arsenico nel tè, con Miss Marple e Baker Street, per raccontare storie finalmente realistiche di veri poliziotti, d’autentici criminali e di veri, orribili delitti. Su Black Mask si fecero le ossa autori hard-boiled, duri e smagati come Raymond Chandler, George Harmon Coxe, Erle Stanley Gardner, Lester Dent, John D. MacDonald e naturalmente Dashiell Hammett, il più bravo di tutti.

Hammett, oltre a Sam Spade, aveva messo al mondo anche i coniugi Charles, già citati, e un altro detective privato: il Continental Op. Dieci chili di troppo, di mezza età, l’Op era un professionista, un cacciatore d’uomini di provata esperienza, e non era facile, per loffi e mafiosi, scrollarselo di dosso. Protagonista di Red Harvest (da noi Piombo e sangue) e di molti racconti, non aveva nome. Era noto soltanto come l’Operator della Continental Detective Agency’s, travestimento pulp dell’Agenzia Pinkerton, la polizia che aveva dato lavoro a Hammett prima che la tubercolosi e l’alcolismo lo togliessero dalle strade. All’epoca, quando l’FBI di Edgar J. Hoover non aveva ancora spiccato il volo, la Pinkerton (un’agenzia privata) era la sola polizia federale presente sul territorio degli Stati Uniti. Erano stati i «Pinkertons» a braccare il Mucchio Selvaggio di Butch Cassidy, a stanare Jesse e Frank James, a combattere i «rossi» e gli anarchici, a liquidare i «Molly Maguire», una banda armata clandestina di minatori irlandesi in guerra con i proprietari delle miniere della Pennsylvania. Quando Hammett raccontava storie di criminali e poliziotti, sapeva di chi e di cosa stava parlando: i suoi killer, le sue prostitute e pupe dei gangster, i suoi rapinatori e bidonisti, i suoi «mammasanta» e i suoi «soffia» erano autentici, ruspanti. Parlavano la lingua dei teppisti, niente smoking da teppista fotogenico, scrupoli zero, l’occhio sempre sul dollaro o sullo sgarbo da ripagare con gl’interessi, nelle tasche rasoi e pistole. È questo realismo da classi pericolose, lo slang incredibilmente sobrio ed efficace della voce narrante, a spiegare il successo delle storie di Hammett e l’eccezionale freschezza che ancora conservano, quasi un secolo dopo essere state scritte.

Protagonista della Trilogia Nova di Bill Burroughs è l’Ispettore J. Lee della Polizia Nova, che nei tre romanzi del serial – Il pasto nudo, La morbida macchina, Nova Express – è sulle tracce della Banda Nova, composta da criminali che hanno nomi da fumetto: Willy il Disco, Izzy la Spinta, Hamburger Mary, Johnny Yen, Tony il Busone, Mister Bradley/Mister Martin, il Dr Benway. Adesso confrontate questa lista con quella dei ricercati della Continental Detective Agency in un racconto del Continental Op: «C’erano il Gambetta, evaso da Leavenworth appena due mesi prima; Holmes il Sarto; Snohomish Whitey, ritenuto morto da eroe in Francia nel 1919; L.A. Slim, di Denver, senza calze e mutande, come al solito, con un biglietto da mille dollari cucito in ognuna delle due imbottiture delle spalle della giacca; Girrucci il Ragno, con un corsetto d’acciaio sotto la camicia e una cicatrice giù per tutta la guancia, ricordo d’anni prima del fratello; Pete in-Gamba, un tempo membro del congresso; Vojan il Nero, che una volta a Chicago aveva vinto ai dadi 175.000 dollari: portava tatuata in tre punti la parola Abracadabra; McCoy Pocheparole; Tom Brooks, cognato di Pocheparole, che inventò l’imbroglio alla Richmond e si comprò tre alberghi con i guadagni della truffa; Cudahy il Rosso, che rapinò il treno della Union Pacific nel 1924; Paddy il Messicano; Toro Mc Gonickle, ancora pallido per i quindici anni a Joliet; Denny Burke; Toby La Spugna, compagno di fuga del Toro, che si vantava di aver borseggiato il presidente Wilson in un vaudeville a Washington». Hammett e Burroughs: lo stesso cast. Nelle pagine di Hammett, poi nelle riscritture cut-up di Burroughs della tradizione dei pulp, il moderno poliziesco d’azione smette d’essere un genere letterario e cinematografico e diventa condizione antropologica.

Non soltanto io, che lo lessi nel 1968, appena tradotto da Magda de Cristofaro per Mondadori, 525º volume della collana «Medusa», ma anche lui, Kerouac, pensava che Il Dottor Sax fosse il suo romanzo migliore.
Non c’erano dentro soltanto gli amici di penna, di nuovo Ginsberg e Gregory Corso, ancora Lucien Carr, come in tutti gli altri suoi libri, oggi molto invecchiati e, francamente, leggibili solo a fatica. Non c’era dentro soltanto Burroughs, qui nella parte del «vecchio Bull Balloon», campione di poker e di biliardo, «Ridolini Bull Ballon», che ricorda il comico W.C. Fields e sputa sentenze taglienti come lamette da barba. Nel Doctor Sax c’era dentro Jack Kerouac bambino, cattolico, la sua origine franco-canadese. C’era dentro Lowell, Massachusetts, dove nel 1922 l’autore del Dottor Sax era stato battezzato e registrato all’anagrafe come «Jean-Louis Lebris de Kérouac», nome romanzesco, da moschettiere del re. C’erano dentro i fumetti che aveva letto da bambino, Mandrake, Flash Gordon, Arcibaldo e Petronilla, The Phantom, e i serial radiofonici che aveva ascoltato. Quelli di Doc Savage, scienziato senza pari e mister muscolo, la risposta metropolitana a Tarzan delle Scimmie, e quelli di The Shadow, l’Ombra, uno spietato vigilante al quale prestava voce e «risata cavernosa» (ma più precisamente terribilista) Orson Welles. «Sbalordiva», scrive Lebri de Kérouac, «che l’Ombra viaggiasse tanto, aveva una vita così facile facendo fuori gangsters sulla banchina del quartiere cinese di New York con la sua azzurra 45 (luccichio) — (forme abbattute di gangsters cinesi dalle giacchette attillate) (scroscianti guerre Tong del Gong) (l’Ombra scompare nella casa di Fu Manchú e esce sul retro di quella di Boston Blackie, colpendo con la sua 45 i curiosi sul molo, falciandoli, mentre arriva Braccio-di-ferro in una lancia a motore per portarli da Humphrey Bogart) uauh!» Ci sono anche, inventariati tra le letture predilette del sabato sera, «i giornali illustrati», vulgo pulp, «del Detective fantasma, col suo travestimento nella notte piovosa». All’Ombra, a Doc Savage e al Detective Fantasma, che imperversavano nelle serate radiofoniche, si aggiungevano i personaggi noti soltanto a Lowell, e a Lowell conosciuti soltanto da lui, Kerouac: il Serpente del Male o Gran Serpente del Mondo «la cui dimora sta nella giungla dell’Amazzonia e negli abissi dell’Ecuador» (o forse a Butte, nel Montana) e il Conte Condu, «alto, magro, col naso aquilino, ammantato, guanti bianchi, occhi biechi, sarcastico», giunto a Lowell da Bucarest, «un conte vampiro in mantello da sera». Su tutti spicca naturalmente il Dottor Sax, che Kerouac vede «la prima volta» nella sua «prima infanzia cattolica di Centralville: morti, funerali, la macabra atmosfera, la tenebrosa figura nell’angolo quando guardi la bara del morto nel doloroso salotto della casa aperta con un’orribile ghirlanda purpurea sulla porta».

Doctor Sax era una storia (per chiamarla così, una storia come tutte le storie di Kerouac, impossibili da afferrare per il capo o per la coda) con dialoghi, tuffi al cuore, descrizioni febbrili. Protagonisti del libro i bambini, come nei classici di Mark Twain, Tom Sawyer, Becky Thatcher, Huck Finn, ma più esattamente come in quelli di Stephen King, il massimo specialista dell’horror con protagonisti bambini, salvo che all’epoca di Doctor Sax Stephen King aveva appena imparato a scrivere. C’era anche un po’ del Buio oltre la siepe, il solo (ma grande) romanzo di Harper Lee, sempre che sia stato scritto proprio da lei e non dai suoi editor, uno dei quali era Truman Capote, che figura nel libro (e nel film) come il bambino strano. Ma anche qui: Il buio oltre la siepe (in originale To Kill a Mockingbird, dove con «mockingbird» s’intende il tordo beffeggiatore) esce nel 1960, un anno dopo Sax. Tirandola un po’ ma non troppo per i capelli, dirò qui che Kerouac, nella sconfinatezza delle sue pagine, repertorio generale della letteratura americana alta e pop, tutto anticipa e tutto ricapitola. Un giorno, dimenticato On the Road insieme alle sciocchezze zen, quando finalmente «Dio dirà: sono vissuto», forse capiremo di che rarissima specie fosse la sua grandezza.

Ma non si resta bambini per sempre. Viene il giorno in cui la magia svanisce e la paura non è più spassosa, come all’inizio, quando si leggevano in beata innocenza i pulp o si ascoltavano i radiodrammi dell’Ombra, e allora «ecco sorgere la testa grande come una montagna del serpente che filtrava lenta dalla terra come un verme gigantesco che esce da una mela, ma con una verde gran lingua saettante che sputa fiamme grandi come le fiamme delle raffinerie. A perdita d’occhio vedevo esserini minuscoli volare nell’aria e pipistrelli e aquile plananti e rumore e confusione, tempeste di rumore, cose che cadevano, e polvere, polvere. Il conte Condu stava nella sua cassa, inchiodato per l’Eternità alle braci del Pozzo dove insieme a diecimila gnomi era precipitato gemendo a testa bassa insieme a Baroque, Espiritu, la contessa, Boaz Junior, Flapsnaw, Blook il Mostro, innumerevoli anonimi altri. Polvere dei tumulti, un mondo tenebroso…». D’un tratto tutto svapora. «Gridai al dottor Sax: “È questo il Castello del Mondo?”» Ma d’improvviso non c’era più traccia «del marciapiede di Moody Street, Pawtucketville, Lowell, Massachusetts, dove nel mio sogno stavo seduto con carta e matita in mano» lasciando «vagare libera la mente».

Kerouac venne a presentare il libro in Italia, ospite della casa editrice, in cambio d’un pidocchioso cachet di mille dollari. Sembrava che anche lui fosse svanito, «risucchiato giù nel grande fiume» mentre cercava di «prendere al laccio qualcosa che galleggiava trasportato dalla piena». Era uno straccio. Si presentò in televisione ubriaco fradicio, smarrito. S’addormentava quando lo intervistavano. Una volta, svegliandosi, dichiarò d’essere più grande di Dante. 1968. A Napoli, per aver ricordato con ammirazione un amico della vecchia ghenga beatnik reduce del Vietnam, fu cacciato dall’università dagli studenti marxleninisti: «Fascista! Fascista!» Diventato adulto, aveva detto d’aver visto ancora «diverse volte il dottor Sax, soprattutto al crepuscolo, d’autunno, quando i ragazzini saltano su e giù strepitando. Adesso si occupa solo di cose allegre». Quarantasettenne, Kerouac andò incontro al grande sonno un anno più tardi, nel 1969. A San Francisco, vent’anni prima, le «luci scintillanti» di Frisco certamente illuminarono, insieme al Borsalino di Spade, anche la figura d’ombra guizzante di Sax. Che fosse Frisco il Castello del Mondo?

Presto San Francisco, la città che faceva pensare a Sam Spade e agli omicidi espressionisti nel violento black and white dei vecchi film, avrebbe abbracciato l’intenso technicolor della Summer of Love: murales, marijuana, hippie in giro a piedi nudi per Haight-Ashbury, artisti di strada, San Francisco (Be Sure to Wear Flowers In Your Hair) e altre song sdolcinate, la critica a bischero sciolto della civiltà industriale di Herbert Marcuse, che insegnava a San Diego, lì a due passi, e che in piena singolarità controculturale, nel 1964, pubblicò L’uomo a una dimensione, il suo libro più celebre, e il più dimenticato. Frisco, tramontata l’età del classico cinema noir, diventò la città della libreria City Lighs di Lawrence Ferlinghetti, nonché delle edizioni omonime, dove apparvero le più classiche opere della beat generation: Ginsberg, Gregory Corso, lo stesso Ferlinghetti, Charles Bukowski. E anche qui, fateci caso, sono le «luci scintillanti» di Frisco che la libreria di Colombus Avenue celebra con le sue insegne. Sono le stesse luci che pochi anni più tardi, passata in fretta (e furia) la festa del flower power, avrebbero illuminato il set dell’Uomo venuto dall’impossibile (il film di Nicholas Meyer in cui H.G. Wells viaggia nel tempo per dare la caccia a Jack lo Squartatore fuggito nella Frisco psichedelica) e quello di Killer Élite, uno dei cult di Sam Peckinpah, nonché le prime immagini à sensation del Black Panther Party, nato anch’esso in città: fucili a pompa, baschi, giubbotti di pelle, sguardi cattivi. Cacciato dalla porta, il pulp era rientrato dalla finestra, with flowers in her hair. Era stato l’arrivo in città, molti anni prima, di Sal Paradise e Dean Moriarty, sparati e festanti giù dalle colline, a gemellare noir e beat, swing e be-pop, pulp polizieschi e controcultura, Hippos e hippies, Polizia Nova e Continental Detective Agency.

Non sono mai stato a San Francisco, ma ho una tracolla che mio nipote, sapendo che mi sarebbe piaciuta, ha comprato ad Alcatraz, isolotto a nord della baia di Frisco, un tempo carcere federale, oggi tetra meta turistica, praticamente il memento mori (direbbe Marcuse) della società amministrata. Sul davanti della borsa ci sono scritte le regole della prigione da cui Clint Eastwood fugge nel film di Don Siegel (e dalla quale se la fila anche Sean Connery in un altro film, meno memorabile, The Rock, mentre l’impresa non riesce, e anzi neppure la tenta, però addomestica in compenso un passerotto, a Burt Lancaster nell’Uomo di Alcatraz). Stampigliato sulla borsa, il regolamento di Alcatraz (che in spagnolo sta per «pellicano») dice così: «Hai diritto a cibo, vestiti, riparo e cure mediche. Qualsiasi altra cosa è un privilegio».

Come chi non si decide mai a tagliarsi i baffi, benché lo rendano ridicolo, io porto tracolle da più di cinquant’anni. Ci sono tracolle, in giro per casa, che risalgono alle guerre risorgimentali, o almeno alla guerra del Vietnam. Un tempo ci tenevo libri, giornali e sigarette. Ma libri e giornali, da una decina d’anni, li leggo in versione digitale: sull’iPad quando sono a casa, sull’iPhone quando sono in giro. Inoltre, fiato premendomi, non fumo più da un pezzo. Quindi delle borse, sempre vuote, flosce come l’autostima d’un politico, potrei fare tranquillamente a meno, vista anche l’età (non sono soltanto i baffi a rendere ridicoli). Ma come rinunciare alla borsa di Alcatraz? È il riassunto generale d’un secolo di film noir, di canzonette, di pulp intramontabili, di zen della motocicletta, di Gran Serpenti del Mondo, di risate terribiliste, di vigilantes mascherati.

Come le mutande di Eta Beta, e come la Divina Commedia secondo Leo Longanesi, una tracolla può inoltre contenere «tutto». Chiudi gli occhi e peschi a caso nel mucchio: Nikolaj Nikolaevič Suchanov. (Qual è il contrario di tombola? Stombola?)

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NextNature. Siamo incapsulati dentro una tecnosfera? https://www.carmillaonline.com/2022/10/03/nextnature-siamo-incapsulati-dentro-una-tecnosfera/ Mon, 03 Oct 2022 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74097 di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale [...]]]> di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale integrata con la specie umana in un rapporto simbiotico e coevolutivo. Una battaglia continua proprio all’interno della Luna, mentre la prima AI cerca di spingere il satellite a scontrarsi con il pianeta e l’altra di mantenerne l’orbita stabile, necessaria alla vita biologica. Sembra di sentire parlare Koert van Mensvoort quando sostiene a proposito delle creature memetiche: «Le nuove specie, basate sullo scambio di informazioni, non ci rimpiazzeranno o subentreranno al nostro posto più di quanto gli alveari abbiano rimpiazzato le singole api. Formeranno invece una superstruttura in cui verremo incapsulati».

Con NextNature. Perchè la tecnologia è la nostra natura del futuro, pubblicato in Italia da D Editore in collaborazione con Future Fiction (2022), Koert van Mensvoort presenta una teoria interessante, che potremmo riassumere in questo modo: così come la biosfera si è sviluppata sulla precedente geosfera, le creazioni tecnologiche degli esseri umani hanno formato una tecnosfera, che cresce e interagisce con la biosfera, e che ha finito per modificare il mondo in cui viviamo al punto da instaurare quella che Mensvoort definisce una natura prossima. Il fatto che le attività umane abbiano alterato gli ecosistemi come nessuna altra specie, fino a causare il surriscaldamento globale e ad avviare una sesta estinzione di massa, portarono il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen a coniare il termine Antropocene. C’è ancora un dibattito aperto nella comunità scientifica su quando datare la nuova era geologica, che si sostituirebbe all’Olocene, se alla comparsa dell’Homo Sapiens, considerando di fatto la nostra come una specie manipolatrice per natura, oppure in tempi più recenti a partire dalle rivoluzioni industriali, o ancora più vicino fissando il chiodo d’oro allo scoppio della bomba atomica. Certo è che, a prescindere da quando sarà stabilita la nascita dell’Antropocene, il tempo per rimediare alle conseguenze delle nostre attività prima di arrivare a un punto di non ritorno è ormai molto poco, questione di qualche anno. In questo quadro, si collocano gli aspetti più problematici della teoria di Mensvoort, che invece considera obsoleto il modello dell’Antropocene e di cui cercheremo di illustrare le connessioni principali.

«Guardatevi attorno nella stanza in cui siete e trovate la cosa più naturale. Cercate con cura. Siete voi». Questo è il punto di partenza della teoria di Mensvoort: fin dalla sua comparsa, Homo Sapiens ha manipolato la natura a proprio vantaggio grazie agli usi della tecnologia, fino alla comparsa della tecnosfera. Ciò che preme per prima cosa a Mensvoort è dimostrare come sia sbagliato giudicare una simile manipolazione innaturale. C’è alla base una idea mutuata dall’antropologia che considera quello umano come un «essere carente»: mentre ciascun animale pare essere attrezzato per un ambiente specifico, noi sembriamo non essere adatti a nessun ambiente in particolare. Ecco allora che a colmare il vuoto interviene la cultura: siamo da sempre esseri culturali per natura. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale nascono assieme e interagiscono tra di loro. Ne consegue, che a essere naturale è allora anche la nostra attività plasmatrice: «Siamo artificiali per natura […] gli esseri umani sono impegnati in un rapporto evolutivo simbiotico con la tecnologia». Grazie alle nostre tecnologie siamo riusciti a diffonderci nella maggioranza del pianeta, rendendo abitabile anche ciò che per noi non lo era, a discapito di altre specie. La cultura è la nostra attrezzatura. Il problema per cui la tecnologia ci sembra innaturale secondo Mensvoort è che continuiamo a «pensare alla natura come a ciò che è rimasto inviolato dalla mano umana». Paradossalmente, il mercato contribuisce ad alimentare questa idea. «La natura è un ottimo prodotto, forse quello di maggior successo del nostro tempo»: se ci pensiamo bene, ci vengono venduti solo gli aspetti della natura in armonia con le nostre vite e mai quelli tragici. Ma anche i gruppi ambientalisti mantengono una idea di natura «conservatrice», riassumibile nello slogan dagli echi trumpiani: «Rendiamo di nuovo grande la natura». Qui Mensvoort è impietoso, ma è chiaro come voglia calcare la mano per arrivare al nodo cruciale: la natura come l’abbiamo sempre immaginata è in realtà un prodotto culturale, tanto quanto la tecnologia ha carattere naturale.

Che cosa significa che «la biologia sta diventando tecnologia e la tecnologia sta diventando biologia»? Dobbiamo cogliere alcuni passaggi importanti. Esiste una natura autonoma dal nostro controllo, come i vulcani o il sole, ed esistono tecnologie create e controllate dall’essere umano, come i telefoni o le auto. La differenza tra i due poli non riguarderebbe solo ciò che è creato da noi e ciò che è naturale, ma anche ciò che è vivo da ciò che non lo è. Si tratterebbe però di una polarizzazione sbagliata, per Mensvoort. «Tradizionalmente, vediamo la natura come tutto ciò che nasce (le piante, gli animali, il clima, l’universo) e la cultura come le cose costruite dall’essere umano. Con la convergenza tra nato e costruito, questo confine è sempre più labile». Ormai manipoliamo a tal punto le cose nate che «la natura diventa cultura»: pensiamo alle nostre coltivazioni, in cui abbiamo agito sulla natura per adattarla alle nostre esigenze. Allo stesso modo, alcune tecnologie che abbiamo creato sono sfuggite al nostro controllo, diventando autonome: «la cultura diventa natura». L’esempio più estremo di Mensvoort sono le corporation, che considera come creature vive. Nessuno infatti potrebbe davvero sostenere di riuscire a controllarne il comportamento.

Per spiegare che cosa intenda, Mensvoort riprende una teoria chiamata dell’operatore: «Jagers op Akkerhuius afferma che l’evoluzione sia progredita dalle particelle più elementari verso strutture di complessità sempre maggiore. Ogni livello prevede un cosiddetto operatore (qualsiasi cosa sia, da un quark a un animale) che possiede una chiara interfaccia in cui sia incluso il livello precedente. Sebbene il cambiamento avvenga anche all’interno dei livelli, questi atti di inclusione sono i gradini evolutivi più importanti. Ciascun gradino permette, a sua volta, l’evoluzione dello stadio successivo». Ci sono sette livelli di complessità naturali, in cui quello successivo ingloba il precedente, per esempio pensiamo alla cellula formata dalle molecole, oppure agli organismi pluricellulari formati dalle cellule. Ogni livello quindi ha in sé più forme di vita, tale per cui la somma delle parti non coincide mai con il suo insieme: noi non siamo la somma delle nostre cellule, ma siamo anche le nostre cellule. All’ottavo livello si collocano invece delle nuove specie che Mensvoort definisce creature memetiche, perché non si basano sui geni, ma sui memi, teorizzati da Richard Dawkins come «unità di trasmissione culturale». Questa tecnologia globale starebbe inglobando così i livelli precedenti, diventato però qualcosa di metamorfico: una tecnologia viva.

Ecco qui dove si piazza il focus più problematico della teoria sulla natura prossima. Torniamo sull’esempio delle corporazioni: sono formate da esseri umani, ma agiscono per proprio conto. Si riproducono, creando nuove corporazioni, o muoiono andando in bancarotta. Hanno un proprio metabolismo. Il loro scopo è sopravvivere, anche se questo potrebbe danneggiare i suoi stessi creatori: «Una volta superato lo sciovinismo al carbonio del genere umano e aperta la mente all’idea che le aziende siano un nuovo tipo di organismo sulla Terra, il motivo per cui sembriamo non riuscire a risolvere problemi ambientali come la deforestazione e il cambiamento climatico diventa chiaro. Le compagnie non respirano aria pura. Le emissioni delle fabbriche ne aumentano, in realtà, il fatturato e ne rafforzano il metabolismo». È vero che l’insieme non coincide con la somma delle parti, ma qui Mensvoort sembra proporci una forzatura retorica. Leggiamo un passaggio da Howl di Allen Ginsberg: «Moloch whose mind is pure machinery! Moloch whose blood is running money! Moloch whose fingers are ten armies! Moloch whose breast is a cannibal dynamo! Moloch whose ear is a smoking tomb! / Moloch whose eyes are a thousand blind windows! Moloch whose skyscrapers stand in the long streets like endless Jehovahs! Moloch whose factories dream and croak in the fog! Moloch whose smokestacks and antennae crown the cities!» Moloch vive, si nutre, respira. Noi siamo dentro Moloch, incapsulati in Moloch. E soprattutto, Moloch è sfuggita al nostro controllo. È una personificazione efficace, in poesia. Ma Moloch, come tecnologia senziente, esiste davvero? La stessa costruzione discorsiva potrebbe valere per le galassie: collidono, si mangiano a vicenda o si espandono. Una galassia non è l’insieme delle sue parti e potrebbe essere l’ottavo livello di complessità evolutiva più di una corporazione o una rete bancaria. Mensvoort opera una traslazione di caratteristiche biologiche su delle creazioni non biologiche, cercando di giustificare il gioco linguistico attraverso la sostituzione dei geni con i memi. Manca però, in NextNature, uno sprofondo accurato proprio nella teoria dei memi. Sono gettati là, come quelli di internet.

Uno studioso a cui Mensvoort deve molto, ma che non viene mai citato, è probabilmente James Lovelock con la sua teoria di Gaia, da cui le logiche della tecnosfera non sembrano essere differenti: l’idea cioè che il pianeta Terra sia un gigante vivo, che inglobi in sé altri livelli di complessità evolutiva che collaborano con la parte inorganica al mantenimento delle condizioni necessarie alla vita biologica. Leggiamo le parole di Lovelock: «La parola Gaia mi serve a indicare la mia ipotesi che la biosfera sia un’entità autoregolata, che stabilisca le condizioni materiali necessarie per la propria sopravvivenza […] e che risulta perciò distinta dalla pura somma delle parti che la compongono» (da Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, 2021). Per quanto affascinante possa sembrare, la teoria di Lovelock non è stata accolta dalla maggioranza della comunità scientifica, anche se è sopravvissuta nell’immaginario per la forza poetica con cui riesce a farci sentire più vicini al nostro pianeta. La problematicità di una simile traslazione è quella di attribuire una coscienza a delle logiche reticolari, come osserva Telmo Pievani nell’introduzione alla nuova edizione: «Su questo versante Lovelock cammina però su un crinale potenzialmente scivoloso […] Leggiamo per esempio che questa entità globale avrebbe facoltà e poteri superiori di molto a quelli dei suoi singoli costituenti, che Gaia cerca e costruisce un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita come sua finalità intrinseca, e così via, il che chiaramente è diverso dal dire che si è instaurata una regolazione biologica attiva che mantiene condizioni geofisiche relativamente costanti». Che si possa parlare di un debito di Mensvoort verso le teorie di Lovelock, sembra confermato anche dalla lettura di Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2019): qui lo scienziato a cento anni torna sull’ipotesi Gaia, immaginando un passo successivo. L’Antropocene sarebbe un modello di lettura del mondo già obsoleto, perché molto presto sarà sostituito da una nuova era: quella del Novacene, in cui homo sapiens e macchine super-intelligenti collaboreranno tra di loro in un rapporto co-evolutivo ed entrambi avranno interesse a mantenere su Gaia le condizioni necessarie alla vita organica. In poche parole, una tecnosfera; con la differenza, che per Lovelock avvierebbe con noi una collaborazione interessata.

La teoria della natura prossima ha senza dubbio degli aspetti interessanti, su cui vale la pena di interrogarci e che sono stati illustrati fino a qui. Se da una parte è illuminante il discorso attorno alla produzione culturale della natura, dall’altra quando Mensvoort scrive che «Con “cultura” indichiamo tutto ciò che viene creato dal genere umano» sembra essere più vicino a una definizione tyleriana di cultura, immaginata come un «insieme complesso» che include le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume eccetera eccetera, rispetto a quella «ragnatela di significati» di cui ha scritto Clifford Geertz nella sua Interpretazione di culture (1973) e che ha rivoluzionato gli studi antropologici, immaginando invece «la cultura come un testo» che l’antropologo deve interpretare. Forse sarebbe meglio indagare la tecnosfera attraverso la teoria delle reti, a partire dal lavoro dello scienziato Albert-László Barabási in Link. La nuova scienza delle reti (Einaudi, 2004). È proprio il paradigma della teoria delle reti, che ha trovato negli ultimi anni un felice campo di attuazione nell’informatica, nell’economia, nell’ecologia (pensiamo solo ai lavori di Stefano Mancuso sull’intelligenza delle piante), nella sociologia, nell’antropologia e nelle neuroscienze, a rappresentare uno dei paradigmi contemporanei su cui fare maggiore affidamento. Anche le teorie di Barabási partono dall’assunto che un insieme non sia la somma delle sue parti. Per formare una rete, c’è bisogno di un numero di nodi che siano in connessione tra di loro. Barabási però presta una particolare attenzione a un tipo specifico di rete, quella «a invarianza di scala»: la differenza è che nelle reti casuali ogni nodo ha la stessa possibilità di avere dei link rispetto agli altri, mentre la rete a invarianza di scala è regolata da una legge di potenza che presenta degli «hub», cioè dei connettori con un numero maggiore di link rispetto agli altri nodi e che con il tempo sono destinati ad averne sempre di più, secondo la formula per cui «i ricchi diventano sempre più ricchi». Gli altri nodi sono destinati invece ad averne sempre di meno. Una rete a invarianza di scala è caratterizzata quindi dalla presenza di un «collegamento preferenziale» formato da tutti i suoi hub e dal fatto che possa crescere. Sebbene si evolvano però le reti sono immaginate come modelli di «una tela senza il ragno». Sarebbe bello guardare all’Antropocene come a un’era da lasciarsi dietro. Siamo però intrappolati nella ragnatela del cambiamento climatico. E il ragno, in questo caso, esiste: il ragno siamo noi.

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Santi subito, di Antonio Veneziani https://www.carmillaonline.com/2022/05/09/santi-subito-di-antonio-veneziani/ Mon, 09 May 2022 20:38:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71587 Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. [...]]]> Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. I “santini” sono stati realizzati da Emanuela Del Vescovo, Simone Lucciola, Pietro Contento, Francesco La Penna (MB).

ALLEN GINSBERG

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Allen, grande cantore della beltà, del sesso, dell’essere contro il sistema, della strada, delle piccole cose.
Tu che scrivi: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”.
Tu che hai santo il cazzo, il culo, la bocca, la testa, le mani, gli occhi, il naso, i sogni, i sorrisi e la merda, aiuta, chi come me ti prega: a sopportare la ferocia dell’amore, spesso spinoso come il guscio di una castagna selvatica; la povertà d’animo di certe persone, ipocrita come la buccia di mela tirata a lucido; la mancanza perduta che sbiadisce i giorni come pioggia imprevista.
Tu che hai provato ad ampliare l’area della coscienza, tu che nel sudario leccavi le biglie di Jack, tu che guidavi sbronzo con Peter sui boulevard, tu che non hai mai amato le bandiere; aiuta noi, tuoi devoti a non spaurire di fronte alla magia della parola; a combattere con tutte le forze i pregiudizi razziali e sessuali, a sorprendere preghiere su cappelli a larghe falde e dentro a scarpe di gomma, magari un po’ puzzolenti; a salutare, con molta attenzione, i cani in branco all’alba, soprattutto se hanno le bocche larghe e polverose.
Tu, Santo Ginsberg che hai operato miracoli in tutto il globo terrestre e sei stella mattutina come Marlowe, Kabir5, Whitman, Wilde, Bellezza, Penna, l’amico Burroughs; aiuta i tuoi devoti, dal cuore infranto, dal culo rotto, dal cazzo stanco, a non tradire mai la gioia anche se minima, aiutali ad asciugare le lacrime dal cielo con
mani lievi, ma sicure; insegna loro a posare il corpo, senza fretta, su pance che avvicinano alle favole, a farsi imprigionare dalla libertà di un battito di ciglia.
O Santo Allen, tu che riuscivi a cogliere negli intonaci del Kansoso di Benares, la sanscrita preghiera dei leoni per recitarla poi a camerieri, spingendoli a sfogliare Platone e Buddha, aiutaci a sfilarci la pelle con grazia.
O Santo Allen, aiuta chi come me ha idee smagliate e lotta con la pagina bianca ed ha una vita stanca; aiuta chi spetala l’erranza e chi si attorciglia alle braccia cravatte sgualcite, che però contengono le mappe di isole dove la commare secca è morta stecchita.

JIM MORRISON

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Re Lucertola, che hai oltrepassato infinite porte, sempre con la purezza e la limpidezza dei giusti.
Tu che hai provato l’entità fisica e mentale di tutti i personaggi che diventavi sul palcoscenico, aiuta i tuoi poveri fedeli scissi, sbreccati, che si tagliano le vene per capire fino in fondo la consistenza del sangue, ad abitare, senza ornamenti, le loro anime e i loro corpi.
Tu che ogni giorno compi il miracolo di ridare speranza e respiro a qualche sfigato, come me; tu protettore degli schizofrenici, degli alcolizzati, degli eroinomani, risucchiati dai buchi, dei bipolari gravi, tu che hai detto che: “Nessuno uscirà vivo da qui” ed è semplice verità, aiutaci a rimanere vigili e vitali fino all’ultimo respiro, aiutaci a non annegare il nostro sorriso nella pioggia, neppure in quella estiva.
Tu, elettrico sciamano, tu re acido, tu imbevuto di sensi di colpa, più del più pio chassidim, consiglia i tuoi devoti in modo che riescano a scansare il senso del peccato, e fa’ in modo che i desideri d’amore non si trasformino, sempre o quasi, in cenere.
Tu che racconti sorella morte come pallida donna, salvaci dalla signora in nero e dai muri che ci sovrastano e ci imprigionano, permettici di giocare e offrici improvvisi rapimenti.
Tu che “avevi un sorriso da tenersi stretto” parole di John Desmore, aiutaci ad essere sereni, ogni tanto, quel poco che basta; anche se siamo costretti ad addossarci il feretro del mondo in piena New York, o nella Beirut sventrata, o nella gelida Mosca, o nella impossibile Roma.
Tu che hai buttato giorni come lattine vuote di birra; tu che restavi muto per lunghissimo tempo, di fronte a una parete umida e scrostata; tu che volevi vivere cento anni in un’ora.
San Morrison aiuta chi ti venera a capire che le risate degli amanti sono sempre portate via da qualche macchina, nave o aereo, che la violenza altro non è che un mozzicone mal spento. Tu che guidavi la voce nell’arsura del ricordo, guidaci fra le braccia smisurate dei cipressi. Tu, che come perfetto interprete artaudiano del disagio
offrivi coppe di lacrime agli amici; tu che con malinconici blues svelavi la magia di certe attese, aiuta i tuoi devoti a scrollarsi dai capelli la rabbia; a sopravvivere ai tradimenti e alle defezioni, ad accarezzare e afferrare l’effimero.
Allontana il letale sorriso degli stupidi, dilaziona il dolore e infrangi
gli orologi, tutti, tu stella lucente, tu puoi.

MARCO FERRERI

San Marco Ferreri, nel 150, in Cappadocia, dirige il circo Nitrato d’Argento, con settanta giumente turche, settanta cavalle baie, settanta leonesse, settanta gatte d’angora, settante volpi rosse, settanta pantere nere, settanta tigri del Bengala; questione di batticuore? Bizzarrie di santo?
Il circo Nitrato d’Argento Marco Ferreri lo porta nella tasca interna del rosso mantello, sta infatti racchiuso in un guscio di noce. Ulteriore stravaganza, lo possono vedere solo i poeti, i puri di cuore, i liberi di mente.
I santi sono strani.
San Marco Ferreri ricompare a Parigi nel 1643, dove aiuta la pia e buona Maria Magdalene de Blémont ad avere una vita. Maria Magdalene possiede: un ditale, un ago, una piuma d’oca.
San Marco Ferreri, conoscendo il terso animo di Maria Magdalene, inscena uno spettacolo nel quale passa ben settecento volte nella cruna dell’ago.
Nel frattempo è sopraggiunto anche il cavaliere Sebastian Salazar de Quechua1, che, esausto, si è fermato per chiedere un po’ d’acqua; ne sorbisce un ditale.
Salazar, profondamente impressionato, chiede la mano di Maria Magdalene, recitandole la poesia: “Io allevo una mosca / dalle ali d’oro, / dagli occhi di fuoco. / Vaga nella notte / come una stella; / ferisce mortalmente / con il suo bagliore rosso, / con i suoi occhi di fuoco.”
Con la piuma d’oca, Maria Magdalene Salazar Bondy compone il capolavoro, ancora inedito, Lo scrigno delle parole, dal quale hanno attinto e attingeranno tutti gli scrittori che, con le loro magiche parole, hanno saputo e sapranno innalzare il canto del mondo.
San Marco Ferreri, protettore della gola e della spola, dei cavalli scossi e dei cavalieri senza cavallo, dei fallofori, degli eccessivi, dei sans papier e dei senza fissa dimora, trascorse l’ultima vita terrena nascosto dietro un obiettivo, ritmando la sua preghiera quotidiana con un Ciak.
Gli fu strappata la lingua, come succede ogni giorno a tutti i dissidenti.
Fu per questo, forse, che si rifugiò nel cinema, saggiando i desideri più segreti, aprendo anime e tastandole con mano sfrenata, eppur casta, inseguendo, senza vergogna, poemi dissoluti.
I miracoli, le vite, i sorrisi, i sogni, i sospiri, i silenzi, i cammini di San Marco Ferreri furon più di settantamila e chi lo venera non morirà: di miseria, di fame, di discordia, di rabbia, di guerra, di bugie, di crepacuore. Anzi, non morirà affatto.

AMELIA ROSSELLI

Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi della vicinanza di Sant’Amelia, protettrice dei malati di Parkinson e dei violinisti, dei coloristi e degli anarco-comunisti, di enigmatici memorialisti e di granitrici sessual scambisti, di Fate Morgane e di Farfalle, le più strane. Uno dei primi miracoli di Sant’Amelia fu proprio quello di
ridare vita a migliaia di farfalle imprigionate su sadici spilloni, con la lettura di una sua sola poesia, eccone un frammento: “una musica insonne ci farà / sentinella nell’ora vertiginosa / mentre un sole pallido sfilerà / reti.”
Sant’Amelia protettrice dei perseguitati dalla CIA e dal Mossad e da qualsiasi servizio segreto, aiutaci ad allontanare la guerra, il sangue, la smania di potere, tu sorella di Rachmaninoff, tu che facevi ritmare le parole tra Campo dei Fiori e Piazza dell’Orologio, aiutaci a conquistare chi amiamo, tienici stretti gli amici, allontana da noi gli importuni, i noiosi, gli spocchiosi e soprattutto chi vuole ferirci nell’animo e nel corpo, e rendi impotente chiunque voglia sezionarci la mente e magari con “lacrime e sangue su cristallo, la serenità sfasciata e a rammendar l’esistenza, laicamente” aiutaci, tu che puoi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, perché Sant’Amelia saprà, impromptu, farci raggiungere, anche ai confini del mondo, la persona amata, lei rabdomante della parola ci guiderà dentro tutti i vocabolari e sceglierà con noi la parola giusta, sempre, e ci aiuterà a spolverare gli specchi dai nostri segreti.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi perché Sant’Amelia lei così vera, così nuda e cruda, ci insegnerà a non piangere per i tradimenti e ci dispenserà dallo scrocco di avverbi e aggettivi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, visto che lei riusciva ad apprezzare le rigide zinie abbarbicate ai muriccioli di sasso e le dalie rosse come gocce di sangue, saprà indicarci la via per arginare lo sfaldamento della natura.
Sant’Amelia ci sorveglierà per aiutarci a non porre speranza in persone dal cuore troppo duro e dalla testa troppo tenera. Sant’Amelia ci permetterà di dare animo alla carne, ci aiuterà a non aggrapparci al danaro, ma ci concederà di averne tanto da non
doverci prostituire.
Rallegratevi, amici, perché Sant’Amelia ci indirizzerà mentre ficchiamo le mani tra aggettivi e avverbi per spiegare la nostra ansia d’amore, perché è a noi vivi che tocca tenere la porta aperta e la poeta, sorella, Amelia, ben lo sa; e allora insieme “dentro una casa sibillina, lasciamoci sfuggire la morte, ubiqua”.
Rallegriamoci tutti, Santa Amelia è tra noi, al bar del Fico, su un foglietto ho trovato scritto: “Traluce nello specchio, / predestinata, l’alba: di lente figure, / in un angolo la notte / ci farà tremare di dimenticate febbri d’amore”.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegriamoci tutti, perché Santa Amelia ci svelerà il segreto dell’acqua che ci scivola fra le dita e del sangue che appanna la semplicità.

NICO

Santa Nico, protettrice di usignoli, allodole, cinciallegre, voci bianche, rockettari, cantori gregoriani, ugole liriche; di tatuati e tatuatori, delle donne dalla pelle di luna e di chi non ha fortuna.
Santa Nico santificò la sua vita con gli amici Andy Warhol, Candy Darling, Holly Woodlawn, Lou Reed; a New York tramontava, oltre la strada, il ventesimo secolo.
Si martirizzava con spilloni e mollette, nascondeva nelle fossette dei bagni ero e morfina, donna divina.
Già nel periodo Assirobabilonese, Nico: dettava “usignolo lunare”, si contornava di poeti, danzatori, di suonatori di ocarine del desiderio, di rollatori che svelavano segreti, di organisti che pizzicavano, con tocco celestiale, animo e carne.
Una sera coperta di veli d’oro, d’argento e rame, con piume fra i capelli si strappò la pelle di braccia e gambe, dopo averci scritto: “C’è un tempo per nascere e uno per morire, / un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. / C’è un tempo per uccidere e uno per curare, / un tempo per demolire e un tempo per costruire. / C’è un tempo per piangere e uno per ridere, / un tempo per gemere e uno per ballare.”
La offrì ai presenti e fu subito miracolo: i ricchi calpestarono i loro vestiti, i poveri si strapparono gli stracci che indossavano e tutti si abbracciarono, si baciarono e si abbigliarono di rugiada e coralli.
Era il 1612: Nico, travestita da uomo, era in pellegrinaggio verso Roma, insegnava a un saltimbanco, mangiatore di fuoco, ad incendiarsi i capelli rasta, senza che prendessero fuoco. Suonarono insieme viole d’amore e sitar e tutto si fermò, ed il silenzio si mise ad ascoltare.
Le principesse: Carmilla, Millarca, Mircalla2, gelose fradice, la fecero cercare e poi condannare per stregoneria.
Mentre la stavano conducendo al rogo, Nico intonò: Femme fatale e tutti gli animali: uccelli, giraffe, cicale, pesci, persino i cani, risposero. Le piante e le foreste inneggiarono all’assoluto.
Passò una Balena Bianca e Santa Nico le saltò in groppa. Le tre sorelle Carmilla, Millarca, Mircalla si convertirono e diventarono le sue coriste.

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Un momento nell’eternità. Ricordo di Lawrence Ferlinghetti (1919 – 2021) https://www.carmillaonline.com/2021/03/12/un-momento-nelleternita-ricordo-di-lawrence-ferlinghetti-1919-2021/ Fri, 12 Mar 2021 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65148 di Sandro Moiso

Il 22 febbraio Lawrence Ferlinghetti, l’ultimo esponente della beat generation, ha abbandonato il nostro pianeta. Scopritore di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e tanti altri, è morto all’età di quasi 102 anni nella sua casa di San Francisco, la stessa città in cui aveva fondato la sua celebre libreria e casa editrice nel 1953: City Lights (Luci della città). Aveva visto giusto quando, ascoltandolo recitare Howl (Urlo), aveva chiesto ad Allen Ginsberg il testo per pubblicarlo; cosa che gli sarebbe costata un arresto e un processo per pubblicazione oscena nel 1956. Accusa da cui [...]]]> di Sandro Moiso

Il 22 febbraio Lawrence Ferlinghetti, l’ultimo esponente della beat generation, ha abbandonato il nostro pianeta.
Scopritore di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e tanti altri, è morto all’età di quasi 102 anni nella sua casa di San Francisco, la stessa città in cui aveva fondato la sua celebre libreria e casa editrice nel 1953: City Lights (Luci della città).
Aveva visto giusto quando, ascoltandolo recitare Howl (Urlo), aveva chiesto ad Allen Ginsberg il testo per pubblicarlo; cosa che gli sarebbe costata un arresto e un processo per pubblicazione oscena nel 1956. Accusa da cui fu assolto difendendosi da solo davanti al giudice che gli riconobbe libertà di parola e di stampa.

Raccontare la sua vita e la sua opera, dalla sua nascita a New York il 24 marzo 1919, in una famiglia in cui il padre, di origini bresciane, era morto poco prima della sua nascita e la madre era stata ricoverata in manicomio poco dopo il parto per uscirne soltanto dopo sei anni, sarebbe cosa lunghissima (e sicuramente appassionante), ma si preferisce ricordarlo qui con due poesie poco conosciute, scritte all’inizio di questo terzo millennio e pubblicate in Italia da una piccolo, ma eccellente editore bresciano1.

Storia dell’aeroplano
[Sulla musica dell’Inno Nazionale degli U.S.A. eseguito a metà della velocità normale]

E i fratelli Wright avevano detto che pensavano di avere inventato
una cosa che poteva portare la pace sulla terra
(se i fratelli sbagliati non ci avessero messo sopra le mani)
quando la loro meravigliosa macchina volante era decollata a Kitty Hawk
nel regno degli uccelli ma il parlamento degli uccelli era andato fuori di testa
per via di questo uccello fatto dall’uomo e fuggì in paradiso.

E poi il famoso Spirit of Saint Louis decollò verso est
attraversò in volo il Grande Stagno con Lindy alla cloche sotto il casco
di cuoio e con gli occhialini che sperava di avvistare le colombe della pace (e invece no)

Anche se volò intorno a Versailles

E poi il famoso Yankee Clipper decollò in direzione
opposta e attraversò in volo il terrifico Pacifico ma le pacifiche colombe
vennero spaventate da questo arcano uccello anfibio e si nascosero nel cielo d’oriente

E poi la famosa Fortezza Volante decollò irta di mitraglie
e testosterone per rendere sicuro il mondo per la pace e il capitalismo
e gli uccelli della pace non si riuscirono a trovare da nessuna parte prima o dopo Hiroshima

E così poi gli uomini geniali costruirono macchine volanti più grandi e più veloci e
questi grandi uccelli artificiali con le piume a reazione volarono più in alto di qualsiasi
uccello vero e sembrò che volassero dentro al sole e gli si sciogliessero le ali
e come Icaro si schiantassero al suolo

E i fratelli Wright erano dimenticati da un bel pezzo in quei bombardieri
d’alta quota che adesso cominciavano a infliggere le loro benedizioni su diversi Terzi
Mondi ma sempre dichiarando ai quattro venti che cercavano le colombe
della pace

E continuarono a volare e volare finché volarono dritti nel 21°
secolo e un bel giorno un Terzo Mondo si rivoltò e
sequestrò i grandi aerei e li fece volare dritti nel cuore
pulsante dell’America-Grattacielo dove non c’erano voliere né
parlamenti di colombe e in un lampo accecante l’America divenne parte
della terra bruciata del mondo

E un vento di cenere soffia sulla nazione
E per un lungo momento nell’eternità
c’è caos e disperazione

E voci e amori e pianti
e sussurri sepolti
riempiono l’aria ovunque

I denti del drago

Un uomo senza testa corre
per la strada
Ha in mano
la sua testa
Una donna lo rincorre
Ha in mano
il cuore di lui
Le bombe continuano a cadere
seminando odio
E loro continuano a correre
per le strade
Non le stesse due persone
ma migliaia d’altri & fratelli
Corrono tutti in fuga
dalle bombe che continuano a cadere
seminando odio distillato

E per ogni bomba sganciata
germogliano mille Bin Laden
mille nuovi terroristi
Come denti di drago seminati
dai quali germogliarono guerrieri armati
assetati di sangue

E le bombe intelligenti che seminano odio
continuano a cadere a cadere a cadere


  1. Lawrence Ferlinghetti, STORIA DELL’AEROPLANO e altre poesie scritte dopo l’11 settembre, a cura di Damiano Albeni, Edizioni l’Obliquo, Brescia 2008  

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Scommessa psichedelica, magia e favole per la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2021/01/25/scommessa-psichedelica-magia-e-favole-per-la-rivoluzione/ Mon, 25 Jan 2021 21:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64655 di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, [...]]]> di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, curato da Federico Di Vita, è considerato un po’ un vangelo, non lo so se è proprio il vangelo della psichedelia in Italia, senz’altro è un libro da leggere e rileggere, perché i contributi sono tanti, e gli evangelisti sono tutti formidabili.

Inizia Federico Di Vita con una efficacissima Breve storia universale della psichedelia. Così anche chi non ne sa niente entra nell’argomento. Suddivide in un’età dell’oro (quella dei pionieri Hoffmann, Huxley, Leary per capirci), un Medioevo psichedelico (dagli anni Settanta al nuovo secolo, dove personaggi più o meno sotterranei come Terence McKenna mantengono acceso il fuoco psichedelico sotto la cenere) e un rinascimento psichedelico (che si fa cominciare nel 2006, coi nuovi studi scientificamente ineccepibili dei vari Griffiths, Nutt, Carahart-Harris). Beppe Fiore racconta cos’è un trip report. Francesca Matteoni racconta una cerimonia sciamanica con ayahuasca che si svolge non in Amazzonia ma sulle colline toscane. Ilaria Giannini racconta perché tre o quattrocento milioni di depressi nel mondo (la popolazione degli Stati Uniti, per capirci) potrebbero giovarsi di psilocibina o microdosing di Lsd piuttosto che di farmaci SSRI da assumere a vita senza guarigione. Gli psichedelici, sostiene, riprendendo David Foster Wallace, potrebbero essere l’estintore che spegne l’incendio del grattacielo che induce le persone depresse a gettarsi di sotto per sottrarsi alle fiamme. Agnese Codignola, già autrice di LSD, altro importante volume sull’argomento, racconta, con la solita accuratezza, perché, tra molte molecole psichedeliche, l’ex presidente Trump si era fissato con la più scarsa di tutte: l’esketamina, la forma levogira della (più efficace) ketamina. Marco Cappato in Psichedelia e politica, ribadisce l’ineccepibile idea radicale: “il punto di vista libertario, in base al quale sono da rifuggire tutte le norme che limitano ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e mirano a imporre uno Stato Etico, per il quale ciò che è considerato moralmente giusto o opportuno da parte di chi detiene il potere può essere imposto con la forza a tutti i cittadini”. Lo leggevo e mi domandavo come si concilia il pensiero di Cappato con l’attuale pronunciamento di Emma Bonino in favore dell’obbligo di vaccinazione Covid. Vanni Santoni pone l’accento sul rischio concreto che il sistema (per mezzo di Big Pharma), non potendo più reprimerle, si risolva per inglobare le molecole psichedeliche. E, come ha fatto con la canapa light, depotenziata della visionarietà grazie alla sottrazione di Thc (la psichiatria accademica lo considera schizofrenogeno) lasciando l’innocuo cannabidiolo, possa arrivare “al paradosso degli psichedelici non visionari”: vale a dire togliere la visionarietà a psilocibina o ibogaina o Dmt. Per addomesticarle, farle diventare mero farmaco e non più tecnologia sofisticatissima in grado di cambiare coscienze e società. Operazione che, secondo Giorgio Samorini, denota non aver capito niente di psichedelia (togli la visionarietà, hai tolto la possibilità dell’estasi) oppure, dico io, vuol dire averla capita e volerla, proprio per questo, caricare a salve. Silvia Del Dosso e Noel Nicolaus scrivono di internet e psichedelia e magia, non dico altro perché non l’ho capito del tutto. Devo leggerlo meglio. Carlo Mazza Galanti suggerisce una serie di opere narrative che hanno parlato di droghe e grazie a lui ho appena iniziato a leggere Roma senza papa di Guido Morselli, una specie di Mondo nuovo dove i religiosi, non più celibi, invece che liquori alle erbe producono enteogeni. Federico Di Vita scrive di wahnstimmung nei festival di psytrance e Chiara Baldini racconta perché i festival psichedelici rappresentano una “versione moderna di qualcosa di molto antico” ovvero gli antichi culti misterici. Gregorio Magini, nel suo Pseudoglossario psichedelico, tra i vari temi affronta la morte dell’ego, il mito dello psiconauta, tutti ne parlano ma pochi forse hanno capito cosa sia ‘sta ego dissolution.

Gnosticismo acido, di Edoardo Camurri, è forse il saggio più difficile, molti ammettono di non averlo capito, alcuni gliel’hanno perfino confessato: Camurri, che hai scritto? E lui: mangia un po’ di fungo e rileggi.

A me pare dica questo (più o meno, ma senz’altro devo rileggere). Ci sono due eserciti gnostici, quelli buoni, noi, i maghi bianchi, dell’apertura, la cui tecnologia è la psichedelia, e quelli cattivi, i maghi neri, tra cui gli ingegneri lisergici cresciuti a pane e microdosi a Silicon Valley, la cui tecnologia è il medium digitale, ovvero l’imitazione della psichedelia.

La corrente ascensionale di dati, di informazioni, che vanno ad alimentare la macchina algoritmica che è il dio, e la corrente in discesa di dati, che ci confermano di essere ciò che siamo, ovvero il gatto di Canetti che gioca col topo (o meglio il topo giocato dal gatto), è nient’altro che la riedizione della doppia corrente, di discesa e ascesa delle anime, del pensiero gnostico: un dio veterotestamentario demiurgo omicida e irresponsabile ha creato un mondo carcere, dove forse nemmeno lui sa di avere, sopra la sua testa (essendo lui nient’altro che un “tirato a sorte tra gli angeli”, direbbe Cioran) il Dio supremo, il vero Dio, talmente trascendente da non essere conoscibile. Dunque, questa nostra anima, per azione di Demiurgo e delle sue potenze arcontiche, si incarna nei corpi, dimenticandosi la propria origine divina. Un mondo terribile e crudele. Ma grazie alla gnosi della propria origine divina, l’illuminato esce dal tempo, esce dalla storia, si risveglia, il suo tempo diventa eterno presente, ecco che la sua morte non esiste più.

Dunque, nella attualizzazione camurriana della dicotomia Demiurgo-Dio vero: il dio macchina è il dio demiurgico che crede di essere illimitato invece è, come quello della Genesi, una specie di i-dio-t savant, e Camurri, con Mark Fisher, propone di recuperare la tecnologia sciamanica (che questo è la psichedelia, nient’altro che una delle tecnologie, la più sbrigativa, se vogliamo, dell’arte sciamanica) questa ingegneria che sembra fuori dalla scienza, ingegneria che i signori del limite ovvero gli sciamani sanno usare, per democratizzare gli stati di coscienza espansi, e dunque la gnosi (che era poi l’obiettivo di Leary e non quello di Huxley, Huxley voleva illuminare le élite, Leary tentò di accendere tutti proprio tutti, e qui bisognerebbe passare direttamente all’altro contributo, quello di Andrea Betti, ma ci arrivo tra poco).

Per cui sì: se non puoi cambiare la storia, cambia il cervello di quante più persone. Rendere le persone dei comunisti acidi (dice Fisher) o degli gnostici acidi (dice Camurri) o dei mistici selvaggi (direi io) o, perché no, degli anarchici psichedelici (dico ancora io).

Ha ragione Camurri: la gnosis è autocoscienza, gli gnostici sono dei salvati per natura, la conoscenza libera, soprattutto (ecco il misticismo che consegue allo gnosticismo) libera l’amore, quello stato dell’essere che è la naturale conseguenza della gnosis.

Accade però che mentre sto per scrivere questo, e sto per scrivere qualcosa di Lucia la figlia di Joyce, e sto per scrivere qualcosa del Finnegans Wake (oddio, pure Biden l’ha citato), mi chiama Lucia, davvero, nel senso che mi chiama Gloria, la “schizofrenica” più florida e invasa di voci che io abbia mai conosciuto (e provato a curare). E mi attacca la ramanzina della telepatia, della telecinesi, del tempo, che in realtà – mi assicura – siamo nel 2039 e che di notte quelli vengono a farle visita (Chi? Gli esseri? Sembra vittima di una abduction notturna, Gloria). Ecco, dopo la telefonata di Gloria ripenso a Lucia la figlia di Joyce, e ciò che Joyce disse a Jung, ovvero che lui e sua figlia si erano saputi collegare (come spieghi se no l’anticipazione di parole future, google nike tigerwood) (Philip K. Dick, che la sapeva lunga su queste cose, l’aveva capito) con una coscienza cosmica, con un campo akashico direbbe Ervin Laszlo, o meglio con un campo morfogenetico direbbe quell’altro genio di Rupert Sheldrake (il padre di Merlin Sheldrake l’autore di un altro libro, L’ordine nascosto, di cui dovrei parlare ma non c’è tempo), per prendere parole che a noi, i coetanei, sembrano incomprensibili, glossolaliche, xenoglossia pura, ma che esistevano già, nel futuro. E Lucia, la schizofrenica figlia di Joyce, forse sa pescare nel futuro, nel registro akashico, ancora di più del padre. E l’insetto forbicina? Ma non faceva questo Burroughs col suo cut-up? Ma non facciamo tutto ciò, noialtri che scriviamo, non stiamo facendo gli insetti scrivani forbicina? Camurri ha sforbiciato Culianu Fisher Joyce io sforbicio Camurri Sheldrake Gloria, siamo tutti Earwicker. Noi infettati, parassitati, dal virus del linguaggio.

Gli schizofrenici sono (Joyce e sua figlia Lucia insegnano), forse, quelli che si sono spinti più in là, sono ormai fuori, sono salvi dalla macchina algoritmica, sono i salvati del secolo in corso però sono anche i sommersi del secolo scorso e di quello precedente, gli internati, troppo avanti erano, sono. Entronauti (direbbe Piero Scanziani) internati.

Lo stesso i dementi senili, pensateci, i parenti anziani degli schizofrenici (che dementi precoci venivano chiamati, a fine Ottocento, da Emil Kraepelin), entrambi fanno a meno della Default Mode Network (o huxleyana valvola della riduzione, che è più semplice) e riprendono possesso del cervello limbico e rettiliano o meglio dell’intero network gelatinoso di un chilo e mezzo per connettersi con gli altri mondi. Nietzsche, per esempio, che dicono impazzito per la demenza da treponema. Siamo sicuri che non abbia scelto di andare da Dioniso dopo averne così tanto scritto?

Siccome non c’è spazio e non c’è tempo vorrei dire qualcosa dello scritto di Andrea Betti, ex psiconauta che adesso non si arrischia perché non sa se la sua cardiopatia potrebbe risentire di un blotter pacco in cui non c’è Lsd ma chissà cosa. Lui mi piace molto, mi ci trovo proprio nel suo quasi fastidio per i rinascimentali, i rinascimentali che si sono svegliati ora e vorrebbero consegnarsi agli scienziati che fanno le ricerche ora sì ben fatte altro che quelle caciarone degli anni Sessanta, quelle sono da buttare, ricominciamo daccapo, i rinascimentali che danno addosso a Timothy Leary il più buffone di tutti, l’irresponsabile che voleva dare acido a tutti, e non soltanto alla “casta sacerdotale scientifica e letteraria che controlla, sintetizza e centellina il farmaco miracoloso ai ceti subalterni, microdosandoli” per garantirne la performance, la produttività macchinica. Giustamente, sottolinea Betti, qui è restaurazione altro che rinascimento. Ce l’ha con Michael Pollan, Andrea Betti, e io pure, quando ho letto il suo compito libresco ben fatto, tutto polarizzato sulla linea genealogica “aristocratico-farmaceutico-mistica” di Hofmann-Huxley-Osmond (diamo le molecole psichedeliche alle élite, sostengono i tre), minimizzando (o perfino biasimando) la linea genealogica “controculturale-rivoluzionaria” che fa capo a Artaud-Ginsberg-Leary-Kesey (accendiamo quanti più umani è possibile, e cambiamo la storia).

Rende giustizia, Betti, al genio di Antonin Artaud che nel 1936, in Messico, nel paese dei Tarahumara non ci va per guarirsi la dipendenza da laudano, e non ci va per incontrare Gesù Cristo, ma per trovare se stesso, ovvero Artaud, ovvero Dio. E sembra davvero che Artaud sia l’alfa della scommessa psichedelica laddove Mark Fisher sia l’omega. Questi due non proponevano un impiego di queste molecole per addomesticare gli umani e “creare persone docili in comunione col cosmo” ma (ecco Fisher) se non puoi cambiare la realtà del capitalismo, puoi cambiare la tua realtà, la tua coscienza, il tuo spazio-tempo, e ecco che la storia muta in ucronia. Questo fu l’esperimento magico degli anni Sessanta di cui dice Camurri, la psichedelia non era una novità, c’è sempre stata, da millenni, ma controllata da sciamani e alchimisti, negli anni Sessanta invece di colpo si democratizzò, la possibilità di modificare la propria coscienza e dunque la percezione della realtà fu un fenomeno accessibile a tutti.

*

A quel punto, però, il gioco psichedelico finì. E perché il gioco psichedelico finisce, verso la fine degli anni Sessanta, ce lo racconta un altro degli scapestrati protagonisti di quegli anni, Robert Anton Wilson detto RAW, in Sex, Drugs & Magik, libro che uscì la prima volta nel 1973 e che è stato appena ripubblicato da Spazio Interiore (a proposito, nella attuale celebrazione psichedelica c’è pochissimo spazio, in Italia, quasi niente anzi, per Spazio Interiore, ma questa casa editrice, in tutti questi anni di Medioevo psichedelico, è stata l’unica in Italia, insieme a Shake e Stampa Alternativa, a tenere accesa la fiammella, con le sue decine di pubblicazioni, da Stanislav Grof a Rick Strassman e, soltanto negli ultimi 3-4 anni, ha editato diversi testi importanti, ne cito solo alcuni: Frontiere della coscienza psichedelica di David J. Brown, Frammenti di un insegnamento psichedelico di Julian Palmer, o il bellissimo La via del fulmine dello sceneggiatore spericolato Marco Saura). Questo libro di RAW, come Il volo magico di Ugo Leonzio pure lui da poco ripubblicato per il Saggiatore, esce nei primi anni Settanta, subito dopo la messa al bando delle molecole brucia-cervello. Scrive RAW che il suo libro è “una storia informale di come certe pratiche segrete e a lungo nascoste […] si siano insinuate nel mondo occidentale durante il Medioevo, per essere schiacciate e/o ricondotte nel sottosuolo dalla Santa Inquisizione, e venire gradualmente riscoperte a partire dal 1900 circa”. “Esse sono emerse all’improvviso come una forza socio-rivoluzionaria negli anni Sessanta, per poi essere di nuovo schiacciate e ricondotte nel sottosuolo”. RAW pensa di aver compreso “il motivo per cui queste tecniche segrete di programmazione della mente siano state tenute nascoste così accuratamente e perché diventino oggetto di una persecuzione così feroce ogni volta che ne viene a conoscenza una più ampia fetta di popolazione in qualunque luogo del mondo”. Il Tantra, per esempio, “è riuscito a sopravvivere in Oriente proprio perché teneva nascosti i suoi segreti e non tentò mai di diventare una forza rivoluzionaria che avesse come conseguenza una qualche forma di cambiamento sociale. I tantristi, come gli altri buddisti, ritengono che liberarsi della coscienza o meglio imparare a modificare la coscienza tramite un atto di volontà sia possibile solo per una persona per volta, e che cercare di liberare il mondo intero sia controproducente”.

E’ l’errore di Leary, secondo RAW. Ammesso lo si voglia considerare un errore. E aggiunge: “Può darsi che non siamo ancora morti, ma solo ipnotizzati da filosofie morbose e moribonde. Forse i poteri della mente umana non si sono mai sprigionati pienamente a causa dei giochi paleolitici, neolitici, feudali, capitalisti o socialisti”. Insomma, deve ancora arrivare l’era buona perché gli esseri umani possano esercitare (per dirla con l’antipsichiatra Thomas Szasz) il “diritto all’autoprescrizione”. Diritto all’autoprescrizione grazie al quale tutti possano accedere alla grazia gratuita (direbbe Huxley) o a una peak experience (direbbe Maslow) o al satori (direbbero i buddisti zen) o al samadhi (direbbero gli indù) o al risveglio (direbbe Gurdjieff).

Questo si incaricò di fare Timothy Leary. Sottrarre queste tecnologie prodigiose ai pochi, per informare il mondo che “Dio era vivo e stava bene”.

E questo (torno allo scritto di Camurri) è un discorso puramente gnostico. Sono gli gnostici, che nei primi secoli della nostra era, propongono che l’uomo possa avere accesso ( ovvero conoscenza diretta) al paradiso, già da vivo, non solo da morto. Questo discorso gnostico, scrive RAW, non è mai venuto meno, ma si è trasmutato (alchemicamente) nel socialismo, nel comunismo, nell’anarchismo. Trovando l’acme proprio nella rivoluzione psichedelica degli anni Sessanta. Rivoluzione accesa da quegli “sciamani birichini e maliziosi” che furono Timothy Leary, Alan Watts, Aldous Huxley, Allen Ginsberg, William Burroughs, John Lilly, Humphrey Osmond e Ken Kesey. Sono questi moderni sciamani ad aver convinto milioni di esseri umani a diventare gnostici psichedelici capaci di penetrare l’Eden non per la porta principale (che per quella bisogna essere senza peccato, dice il Cristianesimo) ma per quella di servizio, non per la porta di Cristo, dunque, ma per quella di Dioniso.

Conclude RAW: il genocidio psichedelico che si è prodotto a partire dagli anni Settanta non è stato un caso unico nella storia, ma è soltanto l’ultimo episodio di caccia alle streghe. Perché “è in corso una guerra religiosa, ed è il pregiudizio teologico, più che l’obiettività scientifica” ad avere l’ultima parola.

*

Il libro di Stefania Consigliere è dedicato all’antropologo David Graeber, “diplomatico fra mondi reali e possibili e poeta dell’anarchia”, ora in viaggio in un altro mondo possibile, ed è “dedicato a chi ha avuto una volta sentore di un altro mondo fuori dalle mura di un diverso stato del tempo”. Per cui ho pensato, mentre lo leggevo, che Favole del reincanto (Derive Approdi) era dedicato anche a me.

Qualche mese fa, qui su Carmilla, non fui molto gentile col libro (Psicotropici, edito Meltemi) di un importante antropologo francese, Jean-Loup Amselle, perché? Perché aveva maltrattato, irriso perfino, quegli occidentali che erano andati ai tropici a bere l’ayahuasca. Mi aveva infastidito il modo con cui scherniva i suoi colleghi antropologi che, dopo aver bevuto l’ayahuasca, avevano in qualche modo lasciato l’antropologia e si erano sciamanizzati (Michael Harner è forse l’esempio più noto). Lo so, mi ero fatto prendere la mano in difesa degli antropologi maltrattati da Amselle (quelli che non ce l’hanno fatta a fare la sua carriera, scriveva lui) e l’avevo maltrattato (perché lui non ce l’aveva fatta a bere, scrivevo io). Mi dispiace. Non lo farò più.

Ma come faceva a non rendersi conto che l’Amazzonia è ciò che per oltre un millennio era stata Eleusi, dove “intere generazioni di uomini e donne, schiavi, padroni” andavano per essere iniziati ai Misteri. Dove, dopo aver bevuto il kikeon, vedevano. Eleusi fu, per i greci, “un dispositivo iniziatico di massa”. Di cui noi occidentali, nei secoli successivi, siamo stati privati, “i roghi delle streghe”, “le istituzioni totali”, “i genocidi, i totalitarismi, la depressione di massa”, malattia degli occidentali. Dov’è, ora, Eleusi? Là dove è andata Stefania Consigliere, l’antropologa che si spinge oltre la barriera della superstizione (superstitio: eccessivo timore delle divinità, ciò che non è cristiano è pagano, dunque è superstizione, o, potremmo dire oggi, ciò che non è scientifico, razionale, ateo, è superstizione), in una maloca, la grande capanna rituale, dove il taita prepara lo yagé, a bere il doppio decotto, e dopo fare il “lungo corpo a corpo con la pianta”, parlare a tu per tu con l’abuelita.

Non sappiamo, scrive Stefania Consigliere, “quando i popoli amazzonici hanno iniziato a usare la banisteriopsis caapi” bollirla insieme alla psicotria viridis o altre piante visionarie per produrre questa bevanda che apre la “scorza psichica” degli umani e li rimette in connessione con le piante, con gli spiriti, con gli animali (li reincanta, dunque, li guarisce dal disincanto). Sarebbe bello che fosse avvenuto proprio quando la missione reincantatrice di Eleusi è venuta meno, il testimone è passato all’altro emisfero. Perché, scrive, “Yagé nights e riti eleusini si affiancano”, si rassomigliano proprio per questa “squalifica etica, epistemologica e ontologica che la cosmovisione moderna vi getta sopra”. Abbiamo rimosso dalla Grecia, per renderla razionale e logica, Eleusi e Orfeo, Dioniso e le baccanti, gli oracoli e il daimon di Socrate.

Perché una delle caratteristiche della modernità è “non pensarsi etnica, popolo fra altri popoli, ma universale”. Ecco, eventualmente, un limite del discorso di Mark Fisher: non c’è alternativa al capitalismo, scrive. Dove? Nel mondo moderno, occidentale, là dove c’è storia. In altri mondi, fuori dalla storia e fuori dalla modernità e dove c’è spazio per altri stati della coscienza: hai voglia, quante alternative. Gli spiriti, gli antenati, i morti, ridono del capitalismo. E ridono della storia.

Per avere la certezza di ciò, basta fare l’esperienza che ha osato Stefania Consigliere e ha ricusato Jean-Loup Amselle: “Lo yagé porta visioni di una precisione assurda”. “La possibilità di stare contemporaneamente in due mondi”, all’improvviso è possibile. Ecco il reincanto.

Questi “misteri sono una liturgia” (infatti in gergo vengono chiamati cerimonie), sono “un servizio”, che “serve a far funzionare il mondo in modo accettabile”. Adesso mi viene da pensare che le cerimonie sono riti di cura incredibilmente più efficaci del rito stanco e ormai unicamente polarizzato sul dio psicofarmaco (il dio occidentale non è diventato malattia, è diventato psicofarmaco), che si svolge nei Centri di Salute Mentale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, e pure negli sterminati studioli privati di psicoterapeuti e psicanalisti (dove lo psicofarmaco serve da doping alla terapia parlata). Un dio psicofarmaco che restringe la coscienza e ottiene esattamente l’effetto opposto della molecola o pianta o bevanda che fa psiche + delos, allarga inverosimilmente il campo della coscienza. E super-incanta.

Il disincanto, che il mondo moderno ha prodotto, ha separato gli umani dal mondo, oltre all’Homo sapiens sembra che nient’altro ci sia, di pari dignità, nel cosmo: “Ninfe e spiriti scompaiono dai boschi”, “piante e animali smettono di interloquire”. Ovvio che un pianeta così depersonalizzato, si presti a essere depredato.

Scrive Stefania Consigliere che nel pamphlet di Jean-Loup Amselle “qualcosa non torna”: lui “racconta di gringos annoiati, hipsters alla ricerca di sensazioni forti, cowboy dello sballo”. Invece, la maggior parte delle persone che lei ha incontrato nella selva, le sono parse alla ricerca di qualcosa che, “a casa”, in occidente, non si riesce nemmeno a nominare. “Molti lavorano nelle istituzioni dei paesi ricchi, nei laboratori di ricerca, nelle università” (non sono tutti scappati di casa come nella narrazione di Amselle), sono “intellettuali raffinati addestrati allo scetticismo e al metodo scientifico”. E però sono andati nella selva, hanno partecipato alle yagé nights, per riconoscersi parte di un’esperienza iniziatica, che immaginavano antidoto al disincanto. O alla stregoneria capitalistica.

E non è forse stregoneria, magia nera, questo accumulo di ricchezza e potere che non viene rimesso in circolo? E non ha fatto proprio questo tipo di magia nera il capitalismo: sostituire la povertà (povertà è dove ancora c’è una quantità di beni materiali e c’è, ancora, la possibilità di procurarsi ciò che serve: coltivare il cibo o costruirsi la casa) con la miseria? Questo, dunque, è il capitalismo: magia nera. In Africa è stregone chi usa i propri poteri per il potere e la ricchezza, il plusvalore è magia nera.

Allora: perché si va nei luoghi dell’estasi, perché ci si affida agli sciamani signori del limite? Non certo per “scambiare l’ekstasis per il fine”, perché questo sarebbe molto triste, sarebbe nulla di più di una “mezz’ora d’aria concessa a chi acconsente alla gabbia”. “Non si va dove gli angeli esitano per aggiungere una tacca sull’atlante dell’esotico, per sballo o per darsi arie una volta tornati a casa”. Nella dimensione ek-statica occorre astuzia, metis e saggezza. Si va in quanto “rappresentanti di un gruppo” a cercare una notte di “preveggenza”, a “negoziare con le forze che, dentro di noi, ci piegano al meno peggio e all’acquiescenza”.

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Cinquant’anni fa, Jack Kerouac https://www.carmillaonline.com/2019/10/31/cinquantanni-fa-jack-kerouac/ Thu, 31 Oct 2019 22:06:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55736 [Il 2019 è il cinquantesimo anniversario della morte di Jack Kerouac, avvenuta il 21 ottobre 1969. E’ uno scrittore ancora attuale? Resta qualcosa dello straordinario flusso artistico-letterario che ha finito per essere uno stile di vita, un tipo di contestazione soprattutto esistenziale? I “beat”, ha detto Allen Ginsberg, in realtà non esistevano. Erano un gruppo di amici che volevano scrivere e pubblicare le loro cose. E soprattutto volevano vivere, essere liberi nell’America puritana e rigida del dopoguerra. Tutto è venuto dopo. Quel viaggio senza fine (e senza scopo, come [...]]]> [Il 2019 è il cinquantesimo anniversario della morte di Jack Kerouac, avvenuta il 21 ottobre 1969. E’ uno scrittore ancora attuale? Resta qualcosa dello straordinario flusso artistico-letterario che ha finito per essere uno stile di vita, un tipo di contestazione soprattutto esistenziale? I “beat”, ha detto Allen Ginsberg, in realtà non esistevano. Erano un gruppo di amici che volevano scrivere e pubblicare le loro cose. E soprattutto volevano vivere, essere liberi nell’America puritana e rigida del dopoguerra. Tutto è venuto dopo. Quel viaggio senza fine (e senza scopo, come ha detto Bob Dylan, un beat pentito), quella ricerca dell’innocenza perduta è esplosa come una coscienza collettiva, una reazione ipervistalistica e disperata alla solitudine pubblica che abbracciava i giovani di tutto il mondo occidentale come una creatura mortifera. E lo stile di Kerouac, che, non dimentichiamolo, era un letterato finissimo, ha “spaccato” gli stili di intere generazioni di scrittori. Basta leggere alcuni libri di Tondelli.

Sull’attualità, e l’inattualità, di Jack Kerouac pubblichiamo la testimonianza di una delle ultime scrittrici beat italiane, Dianella Bardelli. MB]

Attualità e inattualità di Jack Keoruac
di Dianella Bardelli

Ci sono scrittori che sono attuali, anzi necessari proprio perché inattuali rispetto al nostro presente. Sono come un faro che indica la strada in periodi di confusione come quello che stiamo vivendo. I sentimenti, le emozioni, i valori che trasmettono (senza volerlo, spontaneamente) derivano dalle storie che raccontano e dal tipo di relazioni tra i personaggi. Nel caso di Kerouac, ciò che è ancora necessario è la spericolatezza della sua scrittura. I rischi che continuamente si prende a partire da On the road, per inventare una nuova lingua letteraria che gli permetta di esprimere il suo mondo interiore, il senso dell’amicizia, la curiosità, ma anche un mare di disperazione.

On the road non è il romanzo del “come eravamo”, ma del come potremmo essere. Non è attuale, a mio parere, ciò che semplicemente parla dell’oggi, bensì ciò che ci riporta alla parte più profonda di noi stessi e che abbiamo perso di vista. Per me un romanzo, una poesia, un film sono attuali se chiedendomi “mi riguardano?” la risposta è sììì!

Sono passati più di 60 anni dalla prima pubblicazione di On the road. Era il 5 Settembre del 1957, ma per me è come se fosse ieri. Kerouac non è il frutto del passato, del suo passato storico, ma la materia viva di una mente che ha attraversato indenne i decenni, e ne attraverserà ancora molti altri. Perché? Perché il suo è il racconto epico dei tempi moderni e per quanto mi riguarda punto di riferimento di quel “rimaniamo umani” di cui abbiamo così bisogno oggi. Nel saggio Jack Kerouac e la composizione di Sulla Strada che appare come introduzione in Jack Kerouac/On the road – il rotolo del 1951, Howard Cunnell dice una cosa importantissima: “Assai più che una guida per hipsters Sulla strada è una ricerca spirituale… gli interrogativi che si pone sono gli stessi che ci tengono svegli la notte e scandiscono i nostri giorni. Che cos’è la vita? Cosa significa essere vivi mentre la morte è ai nostri calcagni? Potrà la gioia togliere di mezzo le tenebre?” In On the road questa ricerca punta all’unica – forse – modalità in cui si cerca se stessi: viaggiando. E con chi? Soli, o con un amico.

Kerouac aveva già scritto sei dei suoi capolavori più importanti prima di veder pubblicato On the road nel 1957, dopo che fu costretto a “normalizzare” la versione del 1951. Quando iniziò a pensare al romanzo decise che quella storia aveva bisogno di un nuovo modo di raccontare. Doveva essere la scrittura dei tempi moderni, così come il jazz di Dizzy Gillespie e Charlie Parker lo era per la musica, e l’espressionismo astratto di Jackson Pollock per la pittura.

Nell’America degli anni Cinquanta, ciò che stava accadendo tra i giovani artisti era che la coscienza diventava la protagonista dell’arte. Attraverso i fatti, i luoghi, i personaggi si rappresentava direttamente la condizione della mente, la vita interiore. Dall’esterno del sé si raccontava l’interiorità, senza mediazioni, senza censure. Kerouac voleva raccontare l’America dei “battuti e beati”, l’America dei giovani emarginati del secondo dopoguerra. Per fare questo, lavorando duro, inventò la prosa spontanea, che teorizzò nei saggi contenuti in Scrivere Bop, e in una miriade di articoli pubblicati sulle riviste dell’epoca. La prosa spontanea è il racconto della vita in diretta. E’ l’unità di mente e corpo mentre agiscono. Fu una grande scoperta. L’essere umano tornava a quell’unità originaria e innata di corpo e spirito che la società tiene separati.

Dopo aver scritto La città e la metropoli (il solo che gli fu pubblicato poco dopo averlo scritto, nel 1950), Jack si accorse che lo stile tradizionale che aveva appreso da Tom Wolfe e William Saroyan non gli bastava più. Ha dovuto creare un romanzo di 1000 pagine per rendersene conto. Qualcosa macinava, e maturava in quelle sedute alla macchina da scrivere che duravano tutta la notte. C’era un sotto testo che stava sbocciando, che avrebbe dato luogo alla tecnica dell’improvvisazione nella scrittura.

Oltre che dall’insoddisfazione rispetto al suo modo originario di scrivere, la tecnica dell’improvvisazione nasce da altre sollecitazioni. Prima di tutto dal Bop, suonato dai musicisti che Kerouac andava ad ascoltare nei locali di New York come il Minton’s: Dizzy Gillespie, Charley Parker, Thelonious Monk, Lionel Hampton. Jack li ascoltava e pensava: posso scrivere come loro? Posso trasferire sulla pagina quell’energia, quella fatica, quella bellezza? Presto divenne per Jack un’ossessione. E poi c’era la lettera di 40 pagine che il suo amico Neal Cassady gli aveva scritto. Quel testo di migliaia di parole era un grande, unico paragrafo che parlava della strada, delle sale da biliardo, delle camere d’albergo e delle prigioni di Denver. Ed è allo stile e al contenuto di quella lettera che si ispirano le storie raccontate in On the road. Senza quella lettera e senza i viaggi per l’America fatti a fianco di quel grande affabulatore che era Neal, Kerouac non sarebbe diventato lo scrittore che conosciamo. Il cowboy furiosamente entusiasta delle strade d’America divenne non solo un amico ma soprattutto un mito idealizzato, musa ispiratrice di una parte consistente della sua produzione letteraria.

In Kerouac non c’è trama, cronologia, filo logico. La scrittura ha una funzione completamente diversa, è l’estremo tentativo di “confessare tutto a tutti”. Questa fu la sua grande presunzione.

Il suo nuovo modo di scrivere fu fatto proprio da Allen Ginsberg, che lo trasferì nella poesia. Intorno a lui e a Kerouac si formò una cerchia di amici, come Burroughs e Corso, il cui interesse principale era scrivere, fare bisboccia, viaggiare, frequentare donne e locali. Questo fu la beat generation. Un gruppo di amici che insieme cercarono e trovarono un nuovo modo di esprimersi. E questo è un punto importante, che ne fa un aspetto attualissimo: sperimentare, cercare la scrittura dove apparentemente non è, nelle strade, nelle persone che vediamo per caso, quel “fuori” di noi che finisce per essere “dentro”.

Oggi io leggo romanzi piacevoli, anche belle poesie, ma se voglio davvero tornare alla parte più profonda di me stessa devo rileggere ancora e ancora Sulla strada, Visione di Cody, leggere le astruse poesie di Kerouac, anche quelle brutte, perché sfogliando i suoi Schizzi e i suoi haiku, la perla la trovo sempre. Non so cosa sia rimasto in America di quel movimento letterario definito beat generation. L’ultimo poeta beat che ho avuto l’onore di conoscere è James Koller, morto nel 2014. In Italia con la morte della Pivano dei beat e di quello che hanno rappresentato che io sappia non è rimasto niente.

(Dianella Bardelli scrive romanzi e poesie; ha insegnato lettere e guidato corsi di scrittura creativa. Appassionata di letteratura beat e hippy, soprattutto di Kerouac, Ginsberg e della poetessa americana Lenore Kandel. Ha pubblicato i romanzi Il bardo psichedelico di Neal, ispirato alla figura di Neal Cassidy e Verso Kathmandu alla ricerca della felicità. E’ appena stato pubblicato presso Parallelo 45 Edizioni, il suo romanzo 1968, sulla Bologna di quel periodo.)

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Due passi avanti nell’Underground e uno indietro nell’oblio. https://www.carmillaonline.com/2019/10/02/due-passi-avanti-nellunderground-e-uno-indietro-nelloblio/ Wed, 02 Oct 2019 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54843 di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, [...]]]> di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, ma anche per lanciarsi nel mondo dell’underground e della controcultura attraverso la sua parallela Zapple: “Apple è stata una manifestazione di ingenuità beatlesiana, di ingenuità collettiva: dicevamo che avremmo fatto questo e quello, che avremmo aiutato chiunque e via dicendo: E siamo rimasti fregati alla grande, proprio alla grande. Non si sono fatti vivi gli artisti migliori, nessuno che valesse la pena di registrare – ci siamo beccati tutti gli scarti, gente a cui tutti gli altri avevano chiuso la porta in faccia. E gli altri, quelli che ci stavano veramente dentro, sono rimasti alla larga perché erano troppo orgogliosi”.
Un’efficace descrizione di un fallimento forse annunciato ma che, allo stesso tempo, descrive e sintetizza le speranze, le ingenuità, le gelosie e l’inettitudine che caratterizzarono la breve stagione della controcultura, al di qua e al di là dell’Atlantico, sul finire degli anni Sessanta.

Barry Miles (classe 1943), autentico cronista di quella cultura a cavallo degli anni Sessanta e Settanta cui ha dedicato decine di testi, fu indubbiamente tra i protagonisti di quella stagione: fondatore di International Times, meglio nota come IT, la prima rivista underground inglese ed europea, gestore di librerie e gallerie d’avanguardia (tutte destinate a chiudere quasi sempre rapidamente i battenti), amico e sodale di musicisti, poeti e artisti sui due lati dell’Atlantico, oltre ad essere anche tra gli organizzatori del 14 Hour Technicolor Dream, il concerto tenutosi il 29 aprile 1967 presso la Great Hall dell’Alexandra Palace di Londra, che avrebbe lanciato definitivamente gruppi come i Pink Floyd e i Soft Machine.

Nel testo, uscito in lingua originale nel 2014 per la Elephant Book Company Limited e corredato da un apparato iconografico piuttosto ricco ed interessante nell’attuale edizione, con ironia molto british e molta partecipazione, con qualche tracci di antipatia nei confronti di John Lennon e Yoko Ono e di ammirazione per il giovane Pul McCartney, narra appunto le vicissitudini di un esperimento creativo ed imprenditoriale, quello della Zapple Records, destinato all’insuccesso probabilmente fin dai primi vagiti che ne accompagnarono la nascita, di cui ci rimangono soltanto due opere, criptiche ed insolute: The Unfinished Music no.2. Life with Lions di John Lennon e Yoko Ono, assistiti da due musicisti jazz d’avanguardia come John Tchicai al sax e John Stevens alle percussioni, e Electronic Sounds di George Harrison, destinate a vedere la luce entrambe il 9 maggio 1969.

Come afferma nella sua prefazione Enzo Gentile:

I solchi del primo vinile rilasciano rumori, feroci feedback chitarristici, singhiozzi, strepiti: in parte le registrazioni provengono dall’ospedale in cui Yoko era stata ricoverata per una minaccia d’aborto.
Sono macchie di vita, emozioni e virus potentissimi, da sprigionare tra lo stupore dei media e la sostanziale incomprensione dei fans dei Beatles: i quali contemporaneamente lanciavano sul mercato il singolo Get Back, seguito dopo qualche settimana da The Ballad of John and Yoko, mentre correvano a pieni giri anche i motori delle session di Abbey Road, previsto per fine settembre.
Uno tsunami continuo, inafferrabile, il precipizio e l’estasi dentro il perimetro beatlesiano che oggi pare irreale, quasi una sfida al buon senso comune…

Un’esperienza crepuscolare, sul finire della storia del quartetto che più ha segnato la musica pop degli anni Sessanta in termini di successo, creatività e innovazione, che non vide coinvolti soltanto altri musicisti ma, soprattutto, anche poeti e scrittori del calibro di William Buttoughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, Charles Bukowski, Ken Weaver (membro dei Fugs) e Charles Olson.

Sì, poiché mentre gli artisti che furono prodotti e raggiunsero il successo con l’etichetta Apple, o anche soltanto lo sfiorarono, furono piuttosto insulsi come Mary Hopkins oppure i Grapefruit, il piano della Zapple prevedeva la pubblicazione di dischi contenenti le registrazioni di tali altri poeti mentre recitavano o leggevano le loro opere. Pare oggi incredibile, quando anche le letture di Patti Smith sembrano stentare a raccogliere un minimo di successo, ma all’epoca la poesia registrata poteva raggiungere buoni livelli di vendita e i festival di poesia potevano essere affollati anche da migliaia di persone.

Barry Miles avrebbe dovuto essere il responsabile di tali registrazioni e di tale settore della Zapple ed effettivamente ne realizzò diverse, sia in patria che negli Stati Uniti. Ma quell’esperienza doveva essere fatta, shakespearianamente, della sostanza dei sogni e quelle che furono realizzate effettivamente furono pubblicate solo successivamente, alla chiusura dell’esperienza Zapple, su altre etichette (EMI-Harvest, Folkways, Fantasy), mentre quelle di Charles Bukowski uscirono soltanto nel 1988 come album doppio per la King Mob: At Terror Street and Agony Way.
La parte più consistente di questi diari è proprio quella dedicata a questi incontri e all’influenza che alcuni di questi poeti, principalmente Burroughs con la sua tecnica di cut-up e Ginsberg con le sue stravaganze, ebbero sui Beatles e su John e Paul in particolare.

Un libro sicuramente da leggere per conoscere e approfondire la storia, e non il mito, di un’epoca e di un gruppo fondamentali per l’evoluzione della musica popolare e della cultura contemporanea, attraverso la breve vita di un’etichetta e di un progetto (febbraio 1969 – giugno dello stesso anno) destinati all’oblio nei fatti e al culto nella memoria di chiunque li abbia conosciuti e apprezzati.

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Il Tuono Rotolante di Bob Dylan https://www.carmillaonline.com/2019/06/13/il-tuono-rotolante-di-bob-dylan/ Thu, 13 Jun 2019 21:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53110 di Mauro Baldrati

Martedì 12 giugno è stato proiettato, all’Arena Puccini di Bologna, in anteprima mondiale Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story By Martin Scorsese. Lunedì 18 sarà possibile rivederlo sullo schermo gigante di Piazza Maggiore. E poi, chissà quando e dove, nelle sale. Inoltre da ieri è su Netflix.

Dunque i dylaniati storici si preparino. Le emozioni non mancano. E sono forti. Ci sono molti materiali inediti, Scorsese ha assemblato, rimontato, restaurato le pellicole in maniera discontinua (era impegnato in altre opere), con un disegno preciso però: [...]]]> di Mauro Baldrati

Martedì 12 giugno è stato proiettato, all’Arena Puccini di Bologna, in anteprima mondiale Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story By Martin Scorsese. Lunedì 18 sarà possibile rivederlo sullo schermo gigante di Piazza Maggiore. E poi, chissà quando e dove, nelle sale. Inoltre da ieri è su Netflix.

Dunque i dylaniati storici si preparino. Le emozioni non mancano. E sono forti. Ci sono molti materiali inediti, Scorsese ha assemblato, rimontato, restaurato le pellicole in maniera discontinua (era impegnato in altre opere), con un disegno preciso però: non realizzare un No Direction Home 2.0, il precedente documentario colto e filologicamente corretto, ma un’opera apparentemente caotica, artisticamente libera e controcorrente, molto dylaniana appunto. Parecchie pellicole sono in 16 mm, copie di lavoro perché gli originali, pare, sono andati perduti, oppure giacciono dimenticati in qualche magazzino. Questo non fa che migliorare “l’effetto presenza”, per la grana, e i colori a tratti slavati a tratti sgargianti.

Sì, i dylaniati siano pronti. Come reagire infatti di fronte al loro cantautore preferito con la faccia dipinta di bianco in stile Kabuki, ma non solo, anche come i musicisti di strada del secolo scorso, compresi “gli italiani”, un cappello bianco carico di fiori e un’energia dirompente, da bluesman giovane e in salute?

Cantautore. E’ Dylan stesso a dirlo, quando Allen Ginsberg, da sempre innamorato follemente di lui, si esibisce sul palco, e vuole essere come lui. Ma non può. Perché è un poeta, un grande poeta che ha raggiunto tutte le vette internazionali, ma non è e non sarà mai un cantautore. E proprio come poeta le sue esibizioni richiedono troppo tempo, per le letture, le riflessioni (poetiche), i mantra. Così Ginsberg, e il suo compagno di vita Peter Orlovsky, diventano gli addetti ai bagagli. Ma non abbandona il tour. Grande ballerino, si aggira per i territori del gruppo-carovana come un padre che tutto sistema, tutto mette a posto. Così lo definisce il regista di gran parte dei filmati, Martin Von Haselberg, contraddetto, in puro stile dylanesco, da Dylan stesso: “Ma no. Allen non era affatto un personaggio paterno.” Se c’è una cosa che non può essere negata di Bob Dylan è che non sia stato un artista accattivante e diplomatico. Come quando un giornalista scrittore, uno dei tanti che seguono o cercano di aggregarsi al tour, gli telefona per un’intervista e gli pone una domanda sul concerto, cosa pensa del fatto che il pubblico gli chiede i classici mentre lui i classici li stravolge. E lui: “Cristo, mi hai beccato di prima mattina, non riesco neanche a pensare.”

Il tour, il Rolling Thunder, è una comune viaggiante che nel 1975 percorre gli States a bordo di un grande camper a tre assi con lui sempre alla guida (proprio come Ken Kesey sul Prankster-bus undici anni prima). Tocca piccole e grandi città, dove si aggregano amici e musicisti, come Patti Smith, che recita continuamente poesie ed espone il ritratto di Rimbaud, o Joni Mitchell, stupenda con la sua voce celestiale in un trio d’eccezione, lei, Bob Dylan e Roger McGuinn. E naturalmente Joan Baez, la sua ex fidanzata, con la quale può cantare “qualsiasi cosa”. In un faccia-faccia lui le dice che “mi sono sposato con la donna che amavo.” E lei: “Mi sono sposata con l’uomo che credevo di amare.” Facce sorridenti. Facce tirate. Facce imbarazzate. E poi Sam Shepard, nel ruolo inventato di cronista del tour (perché bisogna sempre trovare agli ospiti qualcosa da fare). O la giovane, bellissima modella Sharon Stone, che Dylan nota tra il pubblico, e la mette a lavorare nel back-office del tour, tipo servire da bere e da mangiare. Lei, che sogna di diventare una grande attrice, accetta, benché perplessa. Nessuno vuole perdere quell’occasione. Nessuno vuole starne fuori.

Si esibiscono preferibilmente in piccoli club, tra le proteste del tour-operator, che per coprire i costi dei compensi, degli alberghi, del catering ecc. avrebbe bisogno di spazi con almeno 20.000 persone, mentre i locali possono ospitarne 3.000. Ma le proteste sono inutili. Dylan vuole contenitori ridotti gremiti di spettatori, gente “calda”, affettuosa. Vuole qualcosa di “popolare”, in risposta allo sfarzoso tour precedente, seguito al fortunato album-capolavoro Blod on the Tracks. E anche politico. Si esibisce in una riserva indiana, e nel carcere dove è rinchiuso il pugile nero Hurricane, al quale dedicherà una canzone che contribuirà a farlo uscire dal carcere, smontando l’accusa di omicidio.

La comune è un’entità festosa, post hippy, circense, frequentata anche da personaggi improbabili, che da sempre costituiscono un motivo di ansia per Dylan, perché si sente assediato, minacciato. Il fatto è che tutti vogliono stargli vicino, parlargli, attirare la sua attenzione. Tutti vogliono bere un sorso alla fonte del suo successo. Lui è presente, allegro, ma anche riservato, diciamo pure distaccato. Come un semidio. Perché se nella storia dell’arte è esistito qualcuno che si è avvicinato allo status di un semidio greco, quello è stato Bob Dylan.

E questo, i dylaniati storici, lo sanno bene.

(N.B: Dylaniato è il titolo di un album di Tito Schipa Jr, composto da pezzi di Dylan. Ma io ho udito per la prima volta “dylaniati” dal mio vecchio amico scomparso, Valter Binaghi, un dylaniato di classe A; così per me questo concetto, che va oltre il dylaniano o dylanologo, l’ha inventato lui.)

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La fine dei tempi e la nave che verrà https://www.carmillaonline.com/2018/07/10/la-fine-dei-tempi-e-la-nave-che-verra/ Mon, 09 Jul 2018 22:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46685 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile. Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile.
Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a livello planetario che sembra aver superato le barriere dello spazio e del tempo, la diffusione della ricezione delle sue canzoni in Italia fin dai primi anni sessanta, il collegamento con la tradizione folklorica e musicale non soltanto anglo-sassone e, infine, l’immancabile richiamo al testo biblico.

A tutto questo, che già potrebbe costituire un materiale enciclopedico intorno alla figura di Dylan, si va ad aggiungere un puntuale e coltissimo riferimento alle origini e ai richiami della tradizione delle ballate popolari all’interno delle sue canzoni e una definizione, credo, finalmente esaustiva di ciò che costituisce una ballata e che la differenzia da altri generi musicali quali, ad esempio, la canzone politica.

Il tutto si articola intorno ad una singola canzone, la celeberrima A Hard Rain’s A-Gonna Fall che, come afferma Portelli, fu anche la prima canzone di Dylan ad essere trasmessa da una radio italiana nel 1964. Affermazione avvalorata dal fatto che fu proprio lo stesso Portelli a trasmetterla nel programma Rotocalco musicale di Adriano Mazzoletti che andava in onda, sul secondo programma della RAI, ogni mercoledì alle 17.

Un legame di antica origine e di lunga durata è quello che lega quindi l’autore del libro, oggi uno degli americanisti e studiosi di storia orale e di cultura e musica popolare più importanti (forse il più importante) d’Italia, al cantautore e poeta statunitense. Legame lungo, appassionato e serio che permette a Portelli di sviscerare autenticamente la canzone, le sue origini e tutti i suoi possibili significati e, allo stesso tempo, fare altrettanto con i suoi riferimenti culturali e musicali.

Se il viaggio con l’opera e il successo di Dylan inizia infatti in Italia nel 1964, esso poi continua nel deserto del Sahara dove una guida tuareg, nel 1969, fa ascoltare al fotografo Mark Edwards la voce di Dylan, attraverso un vecchio mangiacassette a batteria, mentre interpreta proprio Hard Rain. Per continuare poi, nel tempo e nello spazio, fino al festival che si tiene annualmente a Shillong, ex-capitale dell’Assam, in India in occasione del compleanno di Dylan il 24 maggio. Festival rock cui partecipano gruppi e spettatori di mezza India, pur non essendo mai andato il destinatario di quella manifestazione ad esibirsi in quel paese. Oppure a Calcutta nel 2016, dove cantautori locali, giovani o meno, continuano ad interpretare ed inventare canzoni tradizionali sulla base della musica o della poetica dylaniana.

Un viaggio che in Italia ha visto avvicinarsi fin dagli inizi alla medesima poetica, per trarne ispirazione, cantautori ed artisti quali Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, il Nuovo Canzoniere Italiano e molti altri ancora. Ma, come si è già detto, questo viaggio non è soltanto nel tempo delle canzoni di Dylan e della loro ricezione, ma anche nelle radici popolari e storiche delle stesse.

Per fare ciò Portelli utilizza la ballata che maggiormente sembra avere influenzato la struttura di Hard Rain: si intitola Lord Randall, di cui sono state individuate dagli studiosi «versioni e varianti tedesche, olandesi, svedesi, danesi, ungheresi, wendish, irlandesi, americane, boeme, catalane; ma la coesione più stretta e fra le versioni italiane e quelle anglofone».1

Ed è esattamente a questo punto che la storia di Hard Rain/Lord Randall torna ad incrociarsi con la canzone popolare italiana, si potrebbe dire con l’autentica canzone popolare; quella trasmessa oralmente attraverso i secoli, da un esecutore all’altro, e di cui si trovano tracce fin dal 1629. La versione italiana, che potrebbe essere addirittura la prima e la più antica, si intitola Testamento dell’avvelenato ed è ricordata da «un certo Camillo detto il Bianchino, in una raccolta di testi pubblicata a Verona ».2

L’antica ballata, che inizia in media res, racconta la vicenda di un giovane che allontanatosi da casa per trovare la sua bella, tornerà a morire tra le braccia della madre e dei famigliari dopo essere stato avvelenato dalla stessa donna di cui si era innamorato. Non vi sono spiegazioni sui motivi dell’omicidio, ma la metafora dei rischi legati all’abbandono dei luoghi conosciuti e famigliari è potentissima. Infatti, come afferma Portelli

“la pulsione verso il conosciuto, stabile, famigliare in tempi di trasformazioni tempestose ha anche una risonanza con il senso del tempo storico: la sensazione che il «nuovo» possa essere portatore non solo di speranza ma anche di pericolo.
Gli anni in cui fiorisce in Gran Bretagna la ballata epico-lirica sono quelli delle enclosures e delle leggi anti-vagabondaggio, in cui la modernizzazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni e nella cancellazione degli usi civici, impoverendo le famiglie rurali o trasformandole in poveri urbani itineranti e vagabondi illegali. Non sempre, per le classi non egemoni, il nuovo ha voluto dire progresso, miglioramento.[…] La canzone popolare è una delle forme che esprimono, per dirla con Vito Teti, antropologo del mondo rurale del Sud, «l’inquietudine di popolazioni mobili rese costitutivamente precarie, melanconiche, ma anche creative e resilienti dall’esperienza prolungata delle catastrofi naturali e dagli stravolgimenti storico-economici, dalla fame e dalla ricerca di un paradiso altrove»”.3

La canzone di Dylan, cantata in pubblico per la prima volta nel 1962 ed uscita per la prima volta su disco il 27 maggio 1963, nel suo primo album di canzoni originali The Freewheelin’ Bob Dylan, parla in realtà del pericolo di un fall-out nucleare destinato a distruggere il nuovo mondo di cui il blue eyed young man protagonista della canzone è andato in cerca incontrando soltanto morte e distruzione, compresa la sua. La canzone riprende i toni apocalittici ereditati dalla Bibbia da blues, gospel e spiritual.

Non è la sola nel disco poiché con essa è presente anche Talkin’ World War Blues che riprende il tema della possibile distruzione nucleare del mondo con versi ora drammatici ora ironici. Ma l’anno è importante poiché si tratta del 1962 e la crisi dei missili di Cuba ne è diventata il simbolo. Il senso del vivere sul limite di una catastrofe nucleare pervade le folk songs, i primi movimenti di protesta giovanili anti-militaristi e precederà di poco lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e di lì a poco il 1968.

Ma Dylan può affermare, a ragione, di non aver mai scritto una canzone politica, anche se molt, ieri e ancora oggi sono state accolte e sono ancora interpretate come tali. In questa affermazione l’autore americano non solo conferma la sua volontà di non essere mai inquadrato in un cliché, ma rivendica indirettamente il suo essere scrittore ed interprete di ballate epico-liriche tipiche della cultura popolare.

Infatti, ci spiega Portelli

“La ballata si occupa di quelle opposizioni in cui schierarsi non è possibile. Ciascuna ballata, o il sistema delle ballate nel suo insieme, enuncia un dilemma ma non lo risolve perché, come nella tragedia, le ragioni sono divise, sono tutte sia giuste, sia fatali: il nuovo è minaccioso ma come possiamo rinunciare al futuro? […] Ascoltare le ballate e prenderle sul serio ci aiuta a conoscere meglio Bob Dylan e a capire anche perché non sia solo il Dylan giovanile ma anche quello più recente a esserne intriso, come se quelle canzoni che esplorava come riproposta tornassero decenni più tardi, interiorizzate in forma di memoria.”4

L’argomento delle ballate, scrive ancora l’autore, sono le domande, non le risposte e questo può spiegare la loro sopravvivenza nel tempo e nello spazio poiché spesso fanno riferimento ai grandi temi e ai grandi archetipi dell’agire umano e dell’inconscio collettivo. Potendo essere di volta utilizzate e riutilizzate in contesti sempre nuovi, sempre diversi e allo stesso tempo costanti.
Cosa che le avvicina alla lirica e alla poesia e che in Dylan vede accumularsi, insieme alla tradizione folk, blues, gospel, biblica e tradizionale, elementi della poesia moderna dal Bateau ivre di Rimbaud a Howl di Allen Ginsberg, passando per la ribellione giovanile dell’autentico drop out quattrocentesco François Villon. Ed è stato proprio questo approccio che ha, di fatto, contribuito all’assegnazione del Nobel a Dylan proprio nell’anniversario della morte di un altro premio Nobel, questa volta italiano, che dell’unione tra colto e popolare aveva fatto il centro del suo Mistero buffo: Dario Fo.

Poiché un viaggio deve per forza concludersi con una nave che entra in porto, se nella canzone Hard Rain a trionfare può essere l’apocalisse, in un’altra canzone famosissima la speranza può arrivare con una nave, un’arca della salvezza oppure carica di angeli sterminatori per i malvagi: When The Ship Comes In. Inserita in The Times They Are A-Changin’, del 1964 e terzo lp del giovane Dylan, in essa si afferma che

“Tempo verrà; non se ma quando arriverà la nave.[…] When The Ship Comes In è un’altra profezia che rovescia e bilancia A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Siamo in quel momento sospeso in cui la pioggia sta per cadere, ma stavolta non è la fine del tempo: è un prodigioso tempo nuovo, un avvento liberatore che apre l’oceano e scuote la sabbia; persino i pesci e i gabbiani sorrideranno, persino le rocce si ergeranno orgogliose sulla riva, il sole finalmente non brucerà più i visi dei naviganti e le parole usate per confondere la nave si riveleranno in tutta la loro incomprensibile insensatezza. E’ una canzone intrisa di echi biblici. Ma quelle catene che si spezzeranno fanno pensare anche ad un altro testo sacro […] Quando arriva la nave non è più il tempo dei compromessi, delle mediazioni, delle concessioni; dalla prua della nave grideremo (ai nostri potenti nemici) «your days are numbered», i vostri giorni sono contati. «We’ll shout from bow» – Noi grideremo dalla prua; la nave non è un prodigioso deus ex-machina che viene a salvarci; sulla nave ci siamo noi; siamo noi, tutti insieme, la nostra salvezza”.5

Sarebbero ancora tantissimi i temi, le canzoni, i collegamenti contenuti nel libro, ma credo sia giusto chiudere qui, con un messaggio che è allo stesso tempo di vendetta e di speranza, esattamente come fa l’autore, che rinvia più ai drammi dell’odierno Mediterraneo colonizzato e insanguinato dall’imperialismo europeo che ai versi tratti dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini: «Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo, sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare. E poi la nave appare».


  1. A. Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, pag. 29  

  2. A.Portelli, op.cit., pag. 27  

  3. ibid. pp.120-121  

  4. ibid. pp. 124-125  

  5. ibid. pp.143-144  

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Dylan il trasfigurato https://www.carmillaonline.com/2018/02/01/dylan-il-trasfigurato/ Wed, 31 Jan 2018 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43025 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato agli anni compresi tra il 1988 e il 2012, che si intitolerà “Un nuovo inizio e la maturità” e comprenderà al suo interno gli indici delle canzoni, degli autori citati, dei temi, dei simboli e dei personaggi oltre a quelli delle Scritture citate in tutti e tre i volumi.

Più ancora che di fronte a un testo sulla presenza della Bibbia nell’opera del premio Nobel per la letteratura, ci troviamo davanti ad un’autentica Bibbia sull’opera di Bob Dylan, poiché per portarla a termine Giovannoli, ricercatore indipendente nel campo dei cultural studies ed autore di numerosi studi sul rapporto tra cultura popolare e cultura “alta”, ha osato fare ciò che nessun altro studioso aveva osato fare: analizzare l’intero corpus dylaniano sia mettendolo in rapporto con le sue radici popolari e dotte, sia andando ad identificare ogni possibile riferimento (frasi, canzoni, testi sacri) da cui il menestrello di Duluth ha tratto spunto per i suoi testi.

Una simile operazione era stata svolta in maniera sistematica soltanto da Greil Marcus nel suo Invisible Republic –Bob Dylan’s Basement Tapes nel 1997,1 che però si occupava esclusivamente delle circa 130 canzoni, scritte o rielaborate da Dylan e dai membri della Band durante il primo allontanamento dalle scene nel 1967, da cui sarebbero state poi tratte quelle che avrebbero dato vita nel 1975 all’omonimo album: The Basement Tapes.

Sempre Greil Marcus aveva scavato a fondo in una singola canzone di Dylan, Like a Rolling Stone, in un altro suo testo,2 ma nonostante le numerose opere dedicate all’autore americano, in Italia e all’estero, nessuno aveva mai osato spingersi così lontano e così in profondità nell’esegesi dell’opera dylaniana.

Come afferma Alessandro Carrera, un altro importantissimo studioso dell’opera di Dylan, 3

“Questo libro di Renato Giovannoli […] è una cosmologia di riferimenti, agganci, colpi di sonda, esplorazioni, ipotesi e dimostrazioni che stringono l’intera opera di Dylan in un solo covone, legato troppo bene per essere portato via da qualunque colpo di vento. Tante introduzioni sono possibili a Dylan; musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato, e questa mia premessa alla più generale introduzione articolata da Giovannoli non ha altro scopo se non inquadrare la religione secondo Dylan nel contesto dell’immaginazione spirituale della sua terra, in relazione ai tempi e al clima culturale che lo hanno formato come artista. Per l’esplorazione vera e propria, avrete a disposizione la mappa/territorio che Giovannoli ha approntato – un’opera unica, mai tentata finora in nessun’altra lingua, e che sarà molto difficile, se non impossibile, eguagliare.”4

Non a caso Carrera incrocia immaginario americano e religione, poiché se vi è una cultura che fin dalle sue origini, nel bene e nel male, sia a livello popolare che “colto”, è stata influenzata dalla narrazione biblica questa è stata sicuramente quella dell’America Settentrionale. In cui la data più appropriata per indicare simbolicamente il tempo dell’arrivo delle Sacre Scritture sembra essere quella dell’11 novembre del 1620, quando i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower, una nave partita da Plymouth in Inghilterra due mesi prima, sbarcarono erroneamente sulle coste del Massachusetts, essendo in realtà diretti verso la prima colonia del Nord America, Jamestown in Virginia fondata nel 1607.

Si trattava di rigidi puritani che si proponevano di purificare il culto della chiesa ed erano del parere che non bastasse separarsi dalla Chiesa di Roma, ma che si dovesse eliminare ogni traccia del cattolicesimo romano.
Perseguitati sia sotto il regno di Giacomo I Stuart che, successivamente, in Olanda, dove inizialmente avevano trovato rifugio, decisero di lasciare l’Europa e di iniziare una nuova vita in Nord America. Da qui è facile comprendere come il discorso biblico della Terra Promessa, e successivamente del Popolo eletto, avrebbe finito con l’influenzare le comunità che andarono istituendosi lungo le coste dell’Atlantico.

Anche se tale discorso finì troppo spesso col costituire una giustificazione per le prevaricazioni e le violenze nei confronti dei nativi americani, delle donne, degli schiavi africani là deportati e di tutti i rappresentanti delle ondate migratorie successive non appartenenti al gruppo WASP (White-AngloSaxon-Protestant), va però compreso come tale promessa di realizzazione collettiva ed individuale in una terra libera dalle catene dell’Ancien Régime finisse col tracimare all’esterno della cultura “bianca” e benestante dei commercianti e dei possidenti terrieri ispirati dal calvinismo, per cui l’accrescimento delle ricchezze collimava con il progetto divino di premiare i migliori, e riversarsi anche nell’immaginario degli strati più umili e non solo bianchi della popolazione.

Il gigantesco serbatoio mitopoietico della narrazione biblica, costituito da eroi, profeti, re, fughe dalla schiavitù, malvagi, guerre, traditori, donne dissolute, popoli in cammino nel deserto, vendette, punizioni divine, sacrifici, fede, promesse di salvezza, demoni, sepolcri, cadute dal Paradiso terrestre, redenzioni, diluvi e visioni apocalittiche ed ultramondane fornì quindi un materiale immenso per le narrazioni, le poesie, le canzoni, le ballate e gli insegnamenti per un popolo ancora disperso lungo le pianure del Midwest o della Valle del Missouri. Dalle Montagne Rocciose al Mississippi e alle piantagioni del Sud dove, spesso, padroni e schiavi, privati della loro iniziale identità culturale, finivano con l’attingere ispirazione dalla stessa fonte. Motivo per cui ancora oggi i membri del Tea Party e gli afroamericani appartenenti alle differenti congregazioni religiose possono far riferimento, da sponde opposte e con obiettive diversi, agli stessi inossidabili versetti.

Così mentre i contenuti illuministici della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana sembrarono rimanere relegati alla Costa orientale, lungo la quale si erano diffusi tra i nuovi ceti borghesi, la Bibbia accompagnò gli spostamenti verso Ovest in un contesto in cui la cultura era ancora prevalentemente orale e le forme giuridiche della società traevano ancora spunto dalla consuetudine più che dal diritto scritto. In un contesto naturale e geografico in cui l’uomo bianco cristiano sarebbe andato incontro ai suoi demoni e a quelli suscitati in lui dalle poche letture che si sarebbe portato dietro.

Che poi, di volta in volta, il testo delle Scritture e il significato stesso delle parole potesse essere piegato o storpiato per motivi di interesse o di scarsa comprensione (talvolta anche e banalmente linguistica) non impedì al testo biblico di liberarsi dall’esegesi di carattere religioso per farsi carne e sangue di una cultura umile, rigida e condivisa in cui, probabilmente, a trionfare fu spesso il dio vendicativo del Vecchio Testamento più che quello della salvezza dei vangeli. Motivo per il quale, nella stessa, rimase costante la presenza della morte, del castigo e della lontananza, forse dell’impossibilità, del perdono e della salvezza se non per i pochi predestinati. Una visione drammatica del destino individuale di cui molte canzoni popolari statunitensi costituiscono ancora la testimonianza.

Forse anche per questo, come ebbe a dire D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”. Lo prova tutta la grande letteratura statunitense. Dal capitano Achab di Melville ai fantasmi di Edgar Allan Poe (rispetto ai quali i fantasmi europei di Horace Walpole sembrano i personaggi di un innocuo racconto per ragazzi), fino alle inquietanti storie di Nathaniel Hawthorne e ai mostri di H.P. Lovecraft oppure al vitalismo impregnato di morte di Hemingway e alle violente, e prive di speranza, storie western di Cormac McCarthy.

Ma anche nella popular music, da Hank Williams a Elvis Presley, dagli spiritual a Johnny Cash, dal gospel e dal blues a Bob Dylan, dalla musica soul alle murder ballads dell’Ottocento e del Novecento, non vi è ambito che non sia stato in qualche modo investito da quella tradizione. Motivo per cui Dylan, come autorevole rappresentante della cultura americana del ‘900, non ha potuto né tanto meno si è mai sognato di sfuggire a quel pressante imperativo della cultura popolare.

Bob Dylan, vero nome Robert Allen Zimmerman, è come tutti sanno di origini ebraiche ed è chiaro che per molti versi la narrazione biblica del Vecchio Testamento appartiene forse più a quella cultura che non a quella cristiana, ma più che questa supposta, e mai chiarita, vicenda dell’influenza religiosa sulla famiglia Zimmerman,5 certo è che fin dai suoi primi anni il giovane futuro poeta e cantore è stato immerso nella cultura proletaria e provinciale della piccola città del Minnesota che gli ha dato i natali, dove ancora nel 1920 erano stati linciati tre afroamericani accusati dello stupro di una donna bianca (con successiva e relativa vendita della cartolina ricordo dell’evento qui riprodotta). L’incontro non ancora ventenne con la musica di Leadbelly e successivamente dei neri americani e dei folk singer bianchi ha poi fatto il resto. Di cui il lettore potrà trovare tutti i percorsi e le tracce nella dettagliatissima ricerca e ricostruzione filologica condotta da Giovannoli.

Se questa costituisce la parte più copiosa e rimarchevole del testo, ce n’è un’altra, che si sviluppa proprio a partire dalla sua “conversione” dichiarata al cristianesimo evangelico, altrettanto utile per comprendere ed inquadrare quella che è e rimane una delle figura più contraddittorie e sfuggenti della musica e della cultura, non più soltanto popular, americana.
Ed è ancora una volta Carrera ad introdurla quando, ricordando le stesse parole di Dylan a proposito della sua repentina, conversione alla fede cristiana, parla di trasfigurazione ovvero di rinnovamento totale, spirituale e fisico, del neo-convertito. Che dopo essere stato battezzato nel gennaio del 1979, si iscrisse ad un corso trimestrale di lettura biblica in una chiesa di Reseda, in California. “Avevo sempre letto la Bibbia, ma per me era letteratura. Non ero mai stato istruito in maniera tale che per me divenisse significato”, avrebbe ancora affermato in seguito.6

La trasfigurazione nel discorso biblico ha direttamente a che fare che la rivelazione del carattere divino di Gesù agli Apostoli, ma serve anche benissimo a chiarire, credo sinceramente e una volta per tutte, il vero segreto del peregrinare musicale e personale di Dylan. Dal suo incontro col rock’n’roll di Buddy Holly quando non è ancora diciottenne ai dischi di Leadbelly che lo condurranno verso Woody Guthrie e gli altri eroi del folk americano; dalla scoperta del comunismo attraverso la famiglia militante di Suze Rotolo (la ragazza fotografata insieme a lui sulla copertina del suo secondo album Freewheelin’ Bob Dylan) alla rinuncia al suono acustico a favore di quello elettrico che lo farà andare incontro alle ire di Pete Seeger e dei suoi fan tra il 1965 e il 1966. Dalla riscoperta della country music di Nashville attraverso l’amicizia con Johhny Cash alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Review che lo vedrà andare ancora in tour con Joan Baez, Ramblin’Jack Elliott, Allen Ginsberg e Sam Shepard (solo per citare alcuni dei comprimari di quella storia) in una sorta di riscoperta dei Medicine Show dell’Ottocento e del vagabondare dei Beat degli anni cinquanta. Dalla riscoperta della musica nera, in tutte le sue forme o quasi, all’attuale passione per il grande American Songbook degli anni Trenta e Quaranta e la senile passione per l’interpretazione delle canzoni di Frank Sinatra.

All’interno di questa storia di continue, vertiginose e inaspettate mutazioni, la vicenda della conversione religiosa tra il 1978 e il 1981 è sicuramente centrale. Da questo punto di vista il cofanetto di 8 cd recentemente pubblicato dalla Sony nella Bootleg Series, di cui costituisce il tredicesimo volume, è particolarmente utile per comprendere l’impeto, la passione, la forza creativa con cui Dylan affrontò questa ennesima e centrale trasformazione. Poiché è proprio attraverso le riprese dei concerti dal vivo tenuti in quel periodo, contenute nel film-documentario Trouble No More che accompagna il cofanetto dallo stesso titolo, è possibile vedere, sentire , comprendere quella autentica energetica e vitale trasfigurazione che accompagnò quel momento.

“Dylan ha attraversato una fase di attivismo predicatorio nel biennio 1979-1980, quando i suoi spettacoli erano diventati una successione di canzoni, prediche e invettive nella più pura tradizione dei preacher afro-americani degli Stati del Sud, che sono pastori e performer allo steso tempo.[…] Il quietismo non è mai stato parte di ciò che Dylan è, qualunque cosa Dylan sia, ma molte altre fasi sono seguite, caratterizzate da un uso a volte confuso ma sul lungo periodo sempre più consapevole, sottile, spesso poeticamente e teologicamente polivalente, delle fonti bibliche e del loro uso nella tradizione musicale americana. E’ qui che abbiamo bisogno dell’aiuto di Renato Giovannoli” 7

Giovannoli ci guida infatti in un’autentica Biblioteca di Babele folk-rock-blues-gospel in cui il fraseggio biblico si accompagna alle voce delle coriste afro-americane che accompagnarono Dylan durante le tournée di quegli anni e al fraseggio delle chitarre elettriche che sottolineavano brani come Solid Rock oppure al suono dell’organo Hammond che sottolinea i versi di Slow Train o Gotta Serve Somebody.

E allora si comprende che tutto il percorso di Dylan è il frutto di una continua trasfigurazione, in cui tutto cambia: le canzoni, la voce, l’aspetto fisico dell’ex-menestrello. Non per calcolo, ma per autentico cambiamento, in cui il protagonista è trascinato da una forza più grande, che di volta in volta si manifesta sotto forma di autentica passione: per il rock’n’roll, la musica nera, il folk, la spiritualità del gospel e del soul, la voce di Sinatra o le parole di Woody Guthrie, ma che ogni volta Dylan deve fare completamente sua per poi esaurirla e passare ad altro. Like a Rolling Stone, come una pietra che rotola.

Ecco allora anche la spiegazione del suo rifiuto di interpretare sempre le stesse canzoni e allo stesso modo (magari quello desiderato dai fan), la sua noia nei confronti dei giornalisti, dei critici e di tutti coloro che lo vorrebbero inquadrato una volta per tutte in un clichè. Da cui rifugge da sempre non come poseur, per snobismo o per amore della trasgressione, ma per semplice desiderio di ricerca e di cambiamento. Mai sazio. Mai finito. Mai definitivamente soddisfatto.

Conscio, come si coglie ancora dal testo in questione, di avere un destino da compiere. Come Dylan stesso ha affermato in un’intervista rilasciata a Ed Bradley della CBS, il 5 dicembre 2004: “E’ la sensazione si sapere di sé stessi che nessun altro sa, di sapere che quell’immagine di te che hai mente si realizzerà. E’ una cosa da tenere per sé, perché è una sensazione fragile, Se la si mette in mostra, qualcuno la ucciderà”8

Verrebbe da dire di Dylan ciò che Glenn Gould, altro genio sfuggente, ebbe a dire di Richard Strauss: “un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna”.9 Mentre questa sua inafferrabilità lo avvicina ai personaggi del Mito, che lui stesso ha per così tanto tempo impiegato e rimaneggiato nelle sue canzoni, sempre inavvicinabili e mai completamente comprensibili se non per un simbolo forte e sempre riconoscibile: nel suo caso la canzone popolare in tutte le sue possibili declinazioni.

Vorrei, alla fine di questo excursus, ringraziare sinceramente non soltanto l’autore ma anche la casa editrice Àncora per la coraggiosa scelta di pubblicare un’opera fino ad oggi impensabile, mettendo a disposizione del pubblico una ricerca utilissima per tutti coloro che non solo vogliano avvicinarsi al “mistero” Dylan, ma più in generale ad una migliore, meno superficiale e meno scontata conoscenza della cultura americana. Popolare e non.


  1. Tradotto in Italiano come Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana Editrice 1997  

  2. Greil Marcus, Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroad, 2005, tradotto in Italia come Like a Rolling Stone, Donzelli 2005  

  3. Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures all’Università di Houston, in Texas, e ha tradotto per Feltrineli tutte le canzoni di Dylan nel monumentale Lyrics in tre volumi (2004 – 2016 – 2017), il primo volume delle Chronicles (2004) e revisionato la traduzione di Tarantula (2007) sempre di Dylan, pubblicati dalla stessa casa editrice, oltre ad aver pubblicato, sempre per Feltrinelli, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (2001). Ha inoltre curato un’antologia di articoli e saggi, Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, pubblicato da Interlinea Edizioni nel 2008 e l’edizione italiana della Nobel Lecture di Dylan ancora per Feltrinelli nel 2017  

  4. Alessandro Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, saggio introduttivo a Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Volume I, pp. 7- 8  

  5. Lo stesso Dylan avrebbe affermato in un’intervista rilasciata nel 1978: “Non mi considero né ebreo né non ebreo. Non ho una formazione ebraica. Non prendo partito per nessun atto di fede. Credo in tutti e in nessuno”. Cit. in A.Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, pag. 10  

  6. Cit. in A. Carrera, op. cit. pp. 11-12  

  7. Alessandro Carrera, op. cit. pag.19  

  8. Citata in A. Carrera, op. cit. pag. 8  

  9. cit. in Mario Bortolotto, Equivalenze puritane, prefazione a Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi 1988 (ottava edizione 2013), pag. XXII  

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