Alice Cooper – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

]]>
Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace

]]>
Detroit è morta, viva Detroit! (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/09/detroit-e-morta-viva-detroit-prima-parte/ Thu, 08 Aug 2013 23:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8246 iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del [...]]]> iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure,eppure…

Heavy Music

 Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy  avviluppato da  una cintura esplosiva  sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.

 Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta. Tutti ricordano i luoghi sacri del rock’n’roll: Memphis e la Sun Records, San Francisco e la scena acida e psichedelica, New York e la provocazione delinquenziale dei Velvet prima e del primo, selvaggio punk poi; i fuori di testa texani e i compiti bostoniani indecisi tra psichedelia selvaggia e pop. Ma Detroit ragazzi…oh, Detroit!?! Fu la patria di quella che Bob Seger battezzò con il titolo di un suo brano: Heavy Music.

 Musica rock infarcita di blues e chitarre metalliche, di provocazione politica e incitamento alla rivolta. Piena zeppa di cantanti furiosi  e esplosioni soniche free form rubate al jazz più innovativo di quegli anni. I Motor City 5 (MC5) legati al White Panther Party e a John Sinclair, gli Up che si facevano fotografare armati fino ai denti con baionette e fucili M-1 (riparleremo più avanti di questo modello di fucile), Iggy che si contorceva sulla scena come un rettile mentre il resto del gruppo inscenava truculentissime gag a base di sangue (vero) e svastiche (false) come simbolo del potere dominante.

E poi Sun Ra che si spostava lì da Chicago, con la sua Arkestra, per partecipare al festival annuale della cittadella universitaria di Ann Arbor, più famosa per la riottosità dei suoi studenti che per la qualità delle sue accademie. E ancora Alice Cooper, incontrastato re del glam, benedetto agli esordi dal genio di Zappa che lo volle per la sua (fallimentare) Bizarre Records oppure la Tamla Motown (Motor Town) una delle grandi etichette di musica nera: innovativa, arrabbiata e fiera di esser tale.

I Rationals e il loro garage venato di  blues e, in seguito, i Grand Funk Railroad, in origine pesanti e metallici forse più dei veicoli prodotti dalla Ford della loro originaria Flint; la James Gang e gli assoli rock blues infiniti, Bob Seger con il suo Sound System ispirato al soul e alla cultura blue collar, fino ai catastrofici Destroy All Monsters di Ron Asheton (ex- Stooges) e della indemoniata cantante  Niagara nei primi anni ottanta. Senza dimenticare il grande Sixto “Sugarman” Rodriguez, i cui testi costituiscono sicuramente uno dei prodotti più genuini della street e class culture della Detroit di quegli anni. Qualcuno o qualcosa è stato certamente dimenticato, ma già questi bastano  a dar vita a un bel gruppo di kamikaze sonori e culturali.

Oggi la stampa nazionale e internazionale parla della crisi di Detroit come del fallimento del welfare e delle conseguenze della globalizzazione, ma ignora tutto ciò e quello che qui seguirà perché dovrebbe porsi domande imbarazzanti. Come, ad esempio: Da dove proveniva tutta questa energia? Quale era il tessuto sociale e culturale che la propagava? Perché è finita?

Società multirazziale, lotta di classe e laboratorio sociale

Nel 1820 la città, sorta sule rive del fiume Detroit nella regione dei Grandi Laghi, contava 1.422 abitanti; nel 1900 ne contava 285.704, nel 1920 ben 993.678, mentre nel 1950 raggiunse la cifra di 1. 849.568. Una crescita esponenziale, legata soprattutto all’industria dell’auto, da quando Henry Ford, nel 1904, iniziò a realizzare lì la prima vettura”di massa”: la Model T. Mentre, sempre nella stessa città, anche i fratelli Dodge (John Francis e Horace Elgin) e Walter Chrysler iniziavano a  produrre automobili. Crescita demografica dovuta dunque all’enorme massa di diseredati, bianchi e neri e di differenti nazionalità, che si riversò  nella città a caccia di un posto di lavoro.

Con la seconda guerra mondiale e lo sviluppo delle industrie belliche l’afflusso, soprattutto dagli stati del Sud, divenne gigantesco, finendo anche con l’aumentare le tensioni razziali e di classe che già si erano manifestate nel corso delle lotte sindacali degli anni trenta e delle race riot  del 1943. Ancora oggi una qualsiasi cartina stradale ci mostra, figurativamente, qual’era la posizione centrale di Detroit rispetto all’industria americana.

A circa 380 chilometri ad Est sorge Chicago, che era stato l’altro grande collettore di manodopera nera e immigrata più o meno negli stessi decenni e in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’industria della carne in scatola (con relativi mattatoi e macelli) aveva fato da traino. Un po’ più a sud, sulla riva opposta dello stesso lago, si trova Cleveland, con i suoi impianti industriali in disuso, e poche miglia più a sud di questa troviamo Akron, ex-capitale della gomma  e della produzione di pneumatici.

Scendiamo ancora e troviamo, non molto distante, Pittsburgh con le sue acciaierie e, verso est, Buffalo, centro portuale ed industriale da tempo riciclato in città turistica e “culturale”. Siamo nel cuore del cuore delle vecchie regioni industriali. Là dove il conflitto sociale può vantare decenni di storia e gli IWW avevano giocato le loro sorti e quelle del sindacalismo d’industria nei primi quarant’anni del XX secolo. Si potrebbe dire di essere in prossimità di quello che, in un tempo neppure troppo lontano, è stato  il cuore del conflitto sociale degli Stati Uniti.

Ancora nel 1972, Detroit costituiva  il quartier generale dell’industria dell’auto, quella che all’epoca dava lavoro ad un americano su sei. E proprio in quell’anno Lawrence M. Carino, Presidente della Camera di Commercio di Detroit, poteva dichiarare: ”Detroit è la città dei problemi. Se ne esistono, noi probabilmente li avremo. Sicuramente non ne avremo l’esclusiva. Ma certamente li avremo prima di altri…La città è ormai diventato il laboratorio vivente  per il più completo studio possibile sulla condizione urbana in America*.

Cinque giorni a luglio

Nel momento in cui rilasciava questa dichiarazione, Carino doveva ancora avere ben in  mente i cinque giorni del luglio 1967 in cui la città era stata protagonista della più grande rivolta urbana della storia degli Stati Uniti dopo quella di New York del 1863 contro la leva obbligatoria istituita nel corso della Guerra Civile. In quel caso fu l’artiglieria ad essere usata contro i rivoltosi nelle strade di New York City, mentre a Detroit si fece ricorso ai carri armati e all’aviazione in dotazione alla Guardia nazionale.detroitriot 1

Tutto era iniziato a causa di un intervento della polizia per chiudere un locale privo della licenza di vendita per le bevande alcoliche che si trovava nei locali della United Community League for Civil Action, sull’angolo della Dodicesima Strada  con Clairmount Street nel Near West Side. Gli agenti pensavano di trovare poca gente poiché erano le 3:45 del mattino di una domenica. Invece nei locali si trovavano 82 afro-americani intenti a festeggiare alcuni loro amici appena tornati dal servizio in Vietnam. Come la polizia tentò di arrestarli tutti, nelle strade si radunò una folla enorme che costrinse gli agenti ad una precipitosa ritirata sotto una pioggia di bottiglie e sassi. Era il 23 luglio.

Nel corso dei giorni successivi vi furono 43 morti (34 neri e 9 bianchi, tra i quali l’unico agente di polizia ucciso durante i disordini), 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Furono assaltati supermercati e negozi, mentre la polizia lamentò (senza mai provarlo veramente) la presenza di cecchini tra i manifestanti. Per sedare i disordini fu richiesto prima l’intervento della Guardia Nazionale, autorizzato dal Presidente Johnson il 25 luglio, e, successivamente, di reparti aviotrasportati dell’esercito.

Di fatto la città finì con l’essere occupata militarmente da 8000 soldati della Guardia Nazionale e 4700 paracadutisti del 32° Airborne oltre che da 360 agenti della Michigan State Police. Nei giorni successivi la presenza massiccia di truppe sul territorio urbano contribuì ad incrementare il numero degli uccisi, dei feriti e degli arrestati, ma rischiò anche di degenerare in scontri a fuoco tra soldati della Guardia nazionale (prevalentemente bianchi) e paracadutisti (prevalentemente neri). Tanto che  fu ordinato ai paracadutisti di far ricorso alle armi soltanto su ordine o in presenza di un ufficiale bianco.

Con il 27 luglio la rivolta ebbe termine e l’ordine tornò a regnare su Motor City, ma il segnale era stato allarmante e l’establishment politico ed economico si rese conto che le conseguenze sociali e politiche avrebbero potuto essere ben più gravi. Dopo quella rivolta la rabbia nera perse, però, le sue connotazioni esclusivamente razziali per conseguire una maggiore coscienza di classe che si sarebbe da lì a poco manifestata attraverso nuove e più politicizzate forme di organizzazione.

John Lee Hooker per primo si fece cantore della rivolta con il suo blues Motor City Is Burning, ma anche il cantautore canadese Gordon Lightfoot le dedicò la sua Black Day in July. Ma si può tranquillamente affermate che fu proprio la rivolta a cambiare l’attitudine di numerose rock band che fino a quell’anno erano state prevalentemente legate al garage per poi passare dopo quegli eventi ad un atteggiamento più rabbioso ed impegnato. Primi fra tutti i Motor City 5 di Fred Sonic Smith, Wayne Kramer  e Rob Tyner.detroit-riots

I danni furono calcolati intorno ai 500 milioni di dollari;  tra gli arrestati più di 6000 erano adulti e quasi un migliaio gli adolescenti. Il più giovane aveva 4 anni e il più vecchio 82, mentre 5000 persone rimasero senza casa. Quando agli inizi del XX secolo gli afro-americani erano emigrati dagli stati del Sud verso il Nord, in quella che è ancora de finita la Grande Migrazione, la popolazione cittadina, come si è già visto, si era enormemente incrementata, ma non così l’offerta e la disponibilità di case per nuovi venuti. In questo modo i neri di Detroit furono pesantemente discriminati sia sul piano sociale che su quello lavorativo.

Nei primi anni sessanta la loro condizione era parzialmente migliorata e si andava formando una classe media di origine afro-americana, ma alla vigilia della rivolta molti appartenenti alla comunità nera si ritenevano insoddisfatti o delusi dai lenti progressi di cui erano testimoni e/o attori. La commissione di inchiesta formata dopo la fine della rivolta accertò che, prima della rivolta, il 45% degli agenti di polizia operanti nei quartieri abitati prevalentemente da afro-americani erano decisamente “anti-negro” (come li definì la stessa commissione) e che un altro 34% era costituito da agenti significativamente marchiati dal pregiudizio razziale.

Nell’insieme il corpo di  polizia della città di Detroit era formato al 93% da agenti bianchi a fronte di un 30% di residenti neri nella città. Così era facile che gli agenti di pattuglia si rivolgessero ai maschi neri di qualsiasi età con il termine “Boy” e alle donne di colore con i termini confidenziali “Honey” o “Baby”. Queste ultime venivano poi spesso fermate ed arrestate per “prostituzione” se camminavano da sole per strada. Senza contare, poi, che un certo numero di residenti in città, non solo neri, dichiarò che uno dei problemi principali durante la rivolta di luglio era stato costituito dalla brutalità e dal comportamento aggressivo della polizia.

* Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying, South End Press, Cambridge, Ma, 1998, prima edizione 1975, pag.1

(Fine prima parte – continua)

]]>