Alfredo Mignini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri https://www.carmillaonline.com/2019/04/26/qualcosa-di-meglio-biografia-partigiana-di-otello-palmieri/ Thu, 25 Apr 2019 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52257 di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico [...]]]> di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico Pontieri, hanno incontrato Otello Palmieri e attraverso le conversazioni, le fotografie e i ricordi si sono immersi, con il benestare del protagonista, nella sua vita rocambolesca. Si sono così ritrovati a combattere i fascisti, a scappare dall’Emilia alla Cecoslovacchia incolpati dell’uccisione dell’oste fascista di Oliveto, a migrare in Svizzera per sbarcare il lunario e in molte altre storie personali e collettive.. in un gioco di specchi tra passato e presente, politica e sopravvivenza, che solo all’apparenza può sembrare anacronistico. Chi è nei dintorni non perda l’occasione di ascoltare le storie di Otello e chiedere ad Alfredo ed Enrico perché storie come queste dovrebbero essere raccontate. Intanto, a seguire, un assaggio del loro lavoro. ss].


Crespellano, sabato 4 marzo 2017, mattina

Otello è titubante, restio. «Io penso che è già tardi… ai giovani non c’interessa più!». Rincara: «sono cose che io penso che non interessano più alla gente». Ecco, pensiamo noi, ci siamo di nuovo. Il novantenne che ha fatto il partigiano, la ferocia che si tramuta in febbre del fare, la Repubblica e la Costituzione, i giovani che non capiscono. Un copione già scritto. Forse. Ma intanto oscilla, apre qualche spiraglio: «le sapevo raccontare meglio», invece adesso la memoria, dice lui, non lo supporta più e «non vorrei che perdeste del tempo per niente». Sorridiamo e pensiamo a una prima domanda per rompere il ghiaccio. Come se non aspettasse altro, però, Otello inizia a raccontare senza preamboli e senza aspettare le domande. Riprende i fili di un discorso interrotto anni e anni fa. La sua è la storia di «quelli che erano incolpati per i fatti del-del-del… di Togliatti! Quando hanno attentato a Togliatti». Sembra un messaggio in codice, il suo modo di mettere le carte in tavola: sono uno che non sta lì a girarci intorno. E noi giù di penna, quasi mandiamo di traverso il caffè per trattenere qualcosa del suo slancio.

Altro che novantenne, ci diciamo con uno sguardo, questo qui va spedito.

Gli appunti si riempiono di righe frettolose, sigle, segni e numeri storti. Un enorme punto di domanda campeggia accanto alla scritta «14 luglio 1948». Quella mattina Antonio Pallante si presentò all’uscita di Montecitorio ed esplose quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista e punto di riferimento quasi indiscusso per chiunque avesse qualcosa per cui battersi. Per la base, e forse anche per i dirigenti, era «il Migliore». Dalle risaie e dai campi occupati per protesta e necessità a lui s’intonava, riadattato, un vecchio canto di lotta: L’Italia l’è malada / Togliatti l’è ’l dutùr. È per questo che quando si diffuse la notizia che Ercoli era più morto che vivo, lo sciopero fu la risposta immediata. Generale, spontaneo, rincorso dal sindacato. Di quelli che basta un niente per fare l’insurrezione. I giorni seguenti furono fra i più incandescenti della storia repubblicana, ma è chiaro che la pentola bolliva da un pezzo e le revolverate di Pallante non furono altro che un modo per sbarazzarsi del coperchio.

Una lunga freccia solca tutto il foglio e termina sulla parola: «Praga». Dal resto s’intuisce però che parliamo della fuga, non tanto della meta. L’espatrio suo, di Filippo e di Ivo – ma anche, scopriamo, di tale Nardi di Borgo Panigale – è ridotto a una sequenza di pallini ripassati una, due, tre volte. Primo «la Bastèrda (bosco vicino a Oliveto – andarci con Mario)», secondo «la Muffa», quindi «Portonovo (Medicina)», poi «via Fiume 15, Bolzano» e infine «San Candido (Dolomiti)».

Tornano e si moltiplicano i punti interrogativi: «Attentato a Togliatti – Bologna??». Siamo perplessi, è evidente. Sentirlo insistere sul 14 luglio ci sembra strano. Che la febbre dell’insurrezione abbia colpito anche le colline bolognesi? E tutti quei libri che ci spiegano che qui il partito è sempre stato il primo della classe, allineato, fatto di militanti disciplinati e quadri lungimiranti? Non erano quelli delle feste dell’Unità, della “falce e tortello”? Mica è l’Amiata!, sussurriamo appena, mica son le fabbriche milanesi, ma non osiamo interrompere. Il flusso di annotazioni sovverte le leggi della cronologia, gli stessi eventi tornano con una circolarità bizzarra, inspiegabile. […]

Otello è un fiume in piena. Regala frammenti, aneddoti, battute. Esplode in risate inaspettate, soprattutto raccontando delle volte in cui sarebbe dovuto morire e non è morto, durante la guerra, sempre col ritornello «e anche lì son stato fortunato». I suoi ricordi si accavallano a quelli di Mario, che ricompone i pezzi dei racconti di suo padre, o a Fabrizio che ci spiega la sua idea del libro che sarà. Noi per lo più ascoltiamo, una parola ogni tanto, a metà fra la voglia di entrare in confidenza e quella di vestire i panni dei professionisti. Dopotutto il progetto è solo abbozzato e a giocarsi male la prima impressione si fa presto.

L’ora che segue è un concentrato di tutte le storie che avremmo ascoltato in un mese di incontri, caffè e registratori. Ne emergono appena tratteggiati i contorni, si va formando una mappa di luoghi e spostamenti, sempre rocamboleschi. Man mano i toponimi si fanno oscuri e le due versioni di appunti sono più un intralcio che un’astuzia. Confini attraversati sempre di notte e sempre a piedi, passaggi in moto da una casa di compagni all’altra, paesi frammentati in zone d’occupazione. E poi uomini cui affidarsi sulla base di curiosi segni di riconoscimento, polizie occhiute che interrogano e controllano. In fondo al tunnel, České Budějovice e, finalmente, Praga. Lì c’è la scuola di partito, il lavoro agricolo delle “brigate”. Poi, i modernissimi impianti al confine con la Germania. Da Bologna notizie poco rassicuranti, il processo in stallo e gli «avversari» sempre pronti a screditare: «sono andati a rubare in qualche posto – a me, me l’ha scritto mia mamma perché io ero già in Cecoslovacchia – [e] un signore che abitava a Oliveto, al gîva par al paäiṡ: “Ah, ma i an da magnêr quî ch’i îran là int la Bastèrda[1]», dovranno pur mangiare quelli nascosti nel bosco, «la gente a Oliveto ci credeva […] banditi». E soprattutto li credeva a due passi da casa, nei rifugi partigiani.

Quelli, invece, stavano oltrecortina.

Spuntano finalmente le due valigie da dietro al mobile. Le sbirciavamo con la coda dell’occhio dal nostro arrivo, senza azzardarci a chiedere. Otello non ne è geloso, le apre e sparpaglia il contenuto sul tavolo. Saltano fuori i quaderni, pagine fitte con gli accenti sulle consonanti, testi brevi e termini copiati in sequenza, qualche disegno geometrico. «1953» si legge sull’etichetta sbiadita di un quaderno nero. Ci fiondiamo a sfogliarlo, magari troviamo qualcosa del 5 marzo. Cinque tre cinquantatré, il giorno in cui i comunisti di tutto il mondo piansero la scomparsa di Iosif Vissarionovič Džugašvili, al secolo Stalin.

Ma Otello è preso da altro. Legge, commenta, precisa i ricordi, aggiunge particolari e traduce all’impronta dal ceco. «Lavoro individuale, vedi? Se lo devo dire [non riesco], però se lo vedo scritto…» e ride. «È una lingua difficilissima, ci sono due-tre consonanti insieme» e non si sa come pronunciarle. Per impararla, quelli con la quinta elementare come lui avevano dovuto ripartire dalla grammatica italiana, riprendere la mano con gli esercizi. Ed è così che lui ha contratto la malattia della lettura e oggi legge tutto ciò che gli capita a tiro, come allora girovagava per Praga in cerca di biblioteche e vecchi volumi nella lingua ritrovata. A Bolzano, da fuggiasco, scoprì la Commedia, versi d’esilio che hanno percorso i secoli per acciuffarlo poco prima che passasse la frontiera. Le valigie riportano a galla i libri, per lo più manuali e qualche romanzo. Volumi che venivano «da casa», arrivati dall’Italia dentro plichi e doppifondi che i dirigenti di Botteghe Oscure, o i connazionali col passaporto in regola, recapitavano all’ufficio di via Opletalova, appena dietro piazza San Venceslao.

Casa. Passa mai la voglia di tornare a casa? Forse sì. Quando si va nel socialismo realizzato, quando si tocca con mano l’eden. «A dire che si era comunisti, noi eravamo orgogliosi, perché eravamo in un paese… quello che volevamo noi secondo il nostro…» e al diavolo se «invece non era così», se «non era il paradiso che pensavamo noi»! Comunque meglio dei processi ai partigiani e dei fascisti liberi di riprendere le posizioni di un tempo.

O no?

Certo Oliveto, o Bologna che sia, è qualcosa di diverso, è casa. E allora quando gli dicono che il processo è chiuso, lui non esita: «voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar[2]… la mia ragazza». Ci guarda e ride. Ma certo, come si fa a non capire? Meglio il buongoverno del sindaco Dozza a casa tua che una vita di sradicamento sotto il Patto di Varsavia. Ma allora perché nel ’54 non fa in tempo a tornarci, in quella casa, che se ne va in Svizzera?

Mario insiste sulle relazioni forti che legano i partigiani fra loro e alla loro terra, ci suggerisce l’inevitabilità del ritorno anche per chi ha scelto di invecchiare altrove. «Sì, sì…», fa Otello, «io sono rimasto legato qui, sennò non sarei tornato». Quindi la Svizzera è ancora meglio del Pci e di Giuseppe Stalin? cosa sta cercando di dirci?

[…]

Arriva il momento di salutarci e siamo frastornati. Una matassa di appunti fitti ma ci sembra di non capire nulla. Scorgiamo almeno tre vite – la lotta armata partigiana, l’esilio oltrecortina e l’emigrazione nel bernese – che solo in parte si spiegano l’un l’altra. […] Otello legge, impara, scrive, torna, si sposa, riparte, affronta un lutto terribile. Otello sceglie. E questa storia dell’esilio accettato con muta rassegnazione non convince, elude tutte le domande che affollano i nostri pensieri. È probabile che sappia, ma il suo non è martirio, questo è chiaro. Otello tirava (tira?) dritto, credeva (crede?), è determinato. Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti, ripeteva. Ma che c’entra il 14 luglio 1948 con l’uccisione di Mignani, più vecchia di quasi tre anni? Quello che ci sembrava un classico regolamento di conti con gli (ex?) fascisti perde centralità nel suo racconto, scolora di fronte al resto. Come lo spieghiamo nel libro?

«Non lo so» fa uno di noi due.

«Sarà il caso di tornare su a Crespellano a chiederglielo» fa l’altro mentre ci fiondiamo sulla provinciale in direzione est.

[1]     Diceva per il paese: “Ah, ma devono mangiare quelli, che saranno là, alla Bastèrda”.

[2]     Voglio andare a trovare mio padre e mia madre.

]]> Un lavoro da non sfruttare nessuno https://www.carmillaonline.com/2017/01/24/un-lavoro-non-sfruttare-nessuno/ Mon, 23 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36076 di Alfredo Mignini

9788854894563Perché io potevo mettermi a lavorare per conto mio? Io vado a prendere gli operai? Ho visto i miei amici che andavano a prendere gli operai e vedevo… che litigavano fuori dall’officina. Pàr l’amor di dio! E ho scelto un lavoro da non sfruttare nessuno, da sfruttarmi da solo, ha capito?

[Segnaliamo l’uscita di un libro scritto e curato da Alfredo Mignini, storico specializzato in lavoro autonomo e piccola impresa negli anni Sessanta e Settanta, membro della redazione di Storie In Movimento/Zapruder e dell’associazione Il Caso S. Nel suo volume “Un lavoro [...]]]> di Alfredo Mignini

9788854894563Perché io potevo mettermi a lavorare per conto mio? Io vado a prendere gli operai? Ho visto i miei amici che andavano a prendere gli operai e vedevo… che litigavano fuori dall’officina. Pàr l’amor di dio! E ho scelto un lavoro da non sfruttare nessuno, da sfruttarmi da solo, ha capito?

[Segnaliamo l’uscita di un libro scritto e curato da Alfredo Mignini, storico specializzato in lavoro autonomo e piccola impresa negli anni Sessanta e Settanta, membro della redazione di Storie In Movimento/Zapruder e dell’associazione Il Caso S. Nel suo volume “Un lavoro da non sfruttare nessuno. Storie di vita dalla periferia di Bologna” Mignini riporta, rielabora e contestualizza le voci di dieci soci e socie di ANCeSCAO – l’Associazione Nazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti – nate tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del ‘900.  Attraverso i ricordi e i racconti orali degli intervistati e delle intervistate l’autore accompagna il lettore in un passato recente che dialoga con lo spazio e il tempo presente, invita a riflettere sui mutamenti  sociali, economici e politici che hanno attraversato le città e le campagne emiliane e inserisce le storie individuali e personali in un universo più ampio, collettivo nella sua consapevole parzialità. Vi proponiamo di seguito la storia di Luisa Maccaferri, uno dei dieci movimenti che compongono l’opera. Buona lettura. s.s.].

6. Luisa Maccaferri

“A. Montanari”, Bologna

Io penso a mio padre, semianalfabeta, riuscire a scrivere con tutti i suoi errori […] queste lettere… questa sua volontà che mi ha trasmesso a me di coltivare il senso del sapere. Mio padre mi diceva: “tu devi imparare sempre a guardarti attorno, a conoscere […] io non ho potuto darti la possibilità di andare a scuola, però se tu vuoi, puoi migliorare te stessa attraverso la lettura”. Ecco io leggendo queste pagine penso all’emozione che può aver provato mio padre a un certo punto, semianalfabeta, a riuscire a scrivere.

Nel varcare la soglia di casa di Luisa cercavo di mettere in ordine le idee pensando alla situazione curiosa e un po’ insolita che si era venuta a creare. Di lei infatti, ancor prima di conoscere il timbro della voce, avevo potuto leggere un diario ricco di riferimenti alla sua vita privata, dai buffi aneddoti d’infanzia ai difficili episodi della quotidianità durante la guerra. Soprattutto, ero consapevole che per trovare risposta alle tante domande suscitate da quella lettura non mi sarebbe bastata una giornata intera. In tutta onestà, non so dire quanto di quegli spunti avrei potuto raccontare nelle pagine che seguono, ma devo ammettere che averli avuti in testa proprio mentre la ascoltavo, con la possibilità di interromperla e approfondire, mi ha permesso di cogliere frammenti che avrei sicuramente tralasciato. O almeno questa è l’impressione con cui sono tornato a casa.

Luisa è nata all’inizio degli anni Trenta in Bolognina, il quartiere operaio per antonomasia — quello con «le più grandi fabbriche famose» — a due passi dal centro storico, da cui lo separano i binari e la stazione, forte di una radicata identità sociale e politica. L’essere cresciuta di fronte all’ingresso del Mercato ortofrutticolo la rende inequivocabilmente una donna di città, come le dico quasi per scherzare, ma lei ci tiene a sottolineare che «le origini della mia famiglia sono contadine». Comunista per vocazione e convinzione, è stata iscritta al partito almeno fino alla svolta che prende il nome dal suo quartiere; suo padre, d’altro canto, era stato arrestato e condannato nel 1938 dal Tribunale speciale di Mussolini «per ricostituzione del Pci, appartenenza allo stesso e propaganda», prendendo poi parte alla Resistenza insieme al figlio. Per tutta la vita, Luisa ha lavorato a fianco di suo marito e sempre in quartiere, prima nella bottega della famiglia di lui e poi rilevando uno dei più noti bar del circondario.

A riascoltare la nostra chiacchierata — sarà per via del diario oppure per la presenza del figlio Andrea — mi rendo conto di aver tralasciato molte cose o di averle date per scontate. Al contrario, lei è convinta di aver detto troppo, come se non fossi andato lì per ascoltarla:

— Però io mi sono resa conto che… mi sono presa troppo spazio. Dovevo lasciarti più spazio alle domande, tu mi dovevi fare delle domande… — Non ti devi preoccupare — la rassicuro io — quando volevo chiederti qualcosa te l’ho chiesto, tu forse non ti rendi conto, ma io ti ho chiesto tante cose…
— No, mi dispiacerebbe che avessi approfittato troppo a parlare dei mie ricordi. — No, no, assolutamente… questo era tutto sui tuoi ricordi! — Sì ho capito, però dovevo lasciare più spazio a te… sei sicuro di aver…?
— Assolutamente! E tu — chiedo — sei soddisfatta?
— Io sì perché tutto quello che ti ho raccontato è tutta verità, perché non c’è niente di fantasia.

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Il mercato ortofrutticolo di via Fioravanti, foto tratta da «Due Torri. Quindicinale di vita bolognese», 5, 30 ottobre 1969.

Tutta circondata dai campi
Più di altri aspetti, mi incuriosiva il frequente richiamo alla mondo contadino e il legame con la terra di cui Luisa si mostra sempre molto orgogliosa. Proprio lei — mi dicevo — che in una sola battuta è capace di restituire un profondo senso di attaccamento al quartiere dov’è cresciuta, con la sua atmosfera fatta di palazzine e cortili, tram e classe operaia: «io sono nata qui, sono vissuta sempre qui e morirò qui… più tardi possibile!», mi dice col sorriso. Mi spiazzava, in realtà, l’idea di pensarla dormire su un letto di paglia o correre scalza sui prati della pianura bolognese, anche se avevo letto che i suoi genitori erano entrambi originari di Argelato e di Castel Maggiore, e che parte delle loro famiglie erano rimaste lì, a lavorare la terra. Quello che forse non riuscivo proprio a capire è che avere una famiglia contadina, in fondo, non era poi neanche così necessario perché lei si sentisse legata alla terra. È infatti la stessa Bolognina che, dietro all’immagine degli operai che timbrano il cartellino e si fanno risucchiare dai rumori degli ingranaggi, nasconde la sua natura di borgata di confine, a contatto diretto con i campi, i fossi e l’odore acre dei concimi. «Devi sapere», mi spiega Luisa,

che adesso voi la Bolognina la vedete così, ma la Bolognina era tutta diversa, […] era tutta circondata dai campi eh, era campagna. Perché pensa che io mi ricordo […] che […] tutto il terreno che fa angolo con via Gobetti e dove ci sono gli uffici adesso del Comune, tutta quell’area lì fino alla Villa Angeletti, dove adesso c’è il bellissimo parco, […] lì era tutto campo.

Ma il rapporto di Luisa con la terra, più che per il quartiere, passa attraverso la famiglia di sua madre che «dalle parti di Cadriano», nella «campagna attorno a Granarolo […] il Gomito, quelle parti là», conduceva un podere «che quando veniva alla fine dell’anno […] dovevano portare al padrone un tot di vino, le oche migliori» e così via. È qui che Luisa viene mandata ogni volta che, per l’estate o le vacanze di Natale, non è impegnata con la scuola. Di questi periodi di «vacanza» conserva ancora oggi «dei ricordi molto belli», perché «la campagna […] mi ha sempre attirato molto [e] poi secondo me è una scuola, perché ogni cosa che tu vedi in campagna ti porta… a me mi faceva riflettere». Mi racconta entusiasta di quando gli adulti lavoravano la canapa, dei gelsi e dei bachi da seta che scrutava ammirata nel retro dei casolari, e dei campi di granoturco e di suo zio che la portava avanti e indietro «col biroccino». Col passare degli anni le visite agli zii si diradano e, infine, con la guerra «non è stato più possibile andare in campagna, perché non ci si spostava più». Il resto è storia nota: i figli dei contadini tentano con ogni mezzo di abbandonare la terra e vanno verso la città, alla ricerca di un lavoro in fabbrica o nel commercio. «[M]olti avevano scelto anche delle altre vie», mi spiega Luisa, e l’esodo rurale sembra uno scenario inevitabile: «anche le famiglie in campagna vennero via perché non è che vivessero tanto bene, perché non erano dei proprietari». Gli zii di Cadriano, comunque, non sembrano intenzionati a lasciare e dopo la guerra, pur di migliorare le proprie condizioni, decidono di spostarsi. Avrebbero infine trovato un podere «in una frazione di San Lazzaro [che] si chiama Colunga», ma questa volta con un regolare contratto di mezzadria.

In campagna — racconta Luisa — c’è sempre qualcosa da fare e per risolvere un inghippo o superare un ostacolo bisogna arrangiarsi, inventare soluzioni dal niente. Mentre la ascolto, ripenso alle pagine del diario dove ha immortalato le scene di suo zio che le costruisce un panchetto per farla arrivare all’altezza del tavolo, o delle mattinate in cucina con la zia a imparare come si chiudono i tortellini. L’arte di arrangiarsi e la possibilità di dare sfogo alla curiosità di bambina fanno sì che Luisa, ogni anno, torni in Bolognina con qualcosa in più, «perché è dalla natura che impari anche tanto a vivere, secondo me». In campagna, d’altra parte, avrebbe anche scoperto, per la prima volta, quei fatti ammantati di pudore di cui gli adulti parlavano sottovoce:

Cosa succedeva? Succedeva che […] questo campo molto vasto di granoturco non era recintato niente ed era vicino ad una piccola stradina bianca, quindi nel caso poteva entrare chi voleva, per dire. Solo che i miei zii si erano accorti che le coppiette… cosa facevano? Si introducevano nel campo di granoturco e andavano a far l’amore là, per cui rovinavano attorno le piante […], per il contadino anche solo una pannocchia faceva la differenza… e allora io tutte le sere, nel periodo appunto […] che le pannocchie erano già abbastanza grandine, a un certo orario gli zii — che dopo lungo lavoro si sedevano davanti casa dove c’è l’aia, si fumavano il toscano, programmavano il lavoro del giorno dopo — a un certo punto qualcuno — [con] quel mezzo chiarore che il sole è già quasi tramontato e sta per scendere la sera ma che c’è quella, come devo dire, quella piccola luminosità che a me piaceva tantissimo — e vedevo lo zio che tutte quelle sere prendeva un forcone e si avviava verso i campi di granoturco. Ma io, pff… non è che ci facessi caso. Però una sera lo zio […] andava a controllare, però vedendo che […] stava per venire il temporale, si vede che lui fece il pensiero di dire “non ci sono quelli lì”… e con me dice: «vuoi venire? Andiamo a vedere se ci sono i ladri di pannocchie!», la stessa frase eh! contenta io, via… corri corri con lo zio. Arriviamo al campo, mio zio mi dice: «aspetta un momento», mio zio si inoltra nel campo… dopo un po’ sento delle grida: “oddio cosa è successo?”, io penso. Velocemente vedo sbucare dal campo un ragazzo… un uomo e una donna insomma, abbastanza succinti, capito? Si capiva che i vestiti erano messi di fretta e furia [e] dietro lo zio col forcone, gridava…

Una famiglia operaia e antifascista
«Mio papà era un tranviere… è stato il primo, diciamo così, comunista», mi spiega orgogliosamente Luisa, cioè «ha fondato la prima cellula comunista dentro l’azienda del tram». L’azienda del trasporto pubblico, fra le due guerre, è infatti uno degli snodi del movimento operaio e antifascista bolognese e svolgere attività al suo interno significa quasi sicuramente esporsi alla repressione del regime. Lo sapeva bene il padre di Luisa, Vincenzo, che già prima di allora ha subìto «varie aggressioni da parte dei fascisti per gli aperti atteggiamenti d’opposizione», come riporta il dizionario biografico dei partigiani bolognesi. Comunista della prima ora e già noto alle forze dell’ordine, viene scoperto e arrestato mentre organizza una sottoscrizione in aiuto dei combattenti della Guerra civile spagnola:

In quel periodo c’era la guerra di Spagna e fecero una sottoscrizione per tutti quelli che erano degli antifascisti, dei socialisti… […] per aiutare chi era andato a fare la guerra di Spagna per liberarsi dal giogo della dittatura. Qui nella Bolognina c’era i fascisti che imperversavano e c’era tra l’altro la famosissima OVRA, che erano le spie […] fatte apposta da Mussolini per controllare queste cose. Morale della favola: mio papà una mattina smonta dal servizio e fu arrestato. Ed esattamente fu arrestato nel 1938, quindi io ero piccola, io ero del ’31. Poi mio papà […] per sei mesi non sapevamo dov’era, non ci avvertivano di niente.

Viene recluso per alcuni mesi a Castelfranco Emilia per poi essere trasferito a Roma, dove viene celebrato il processo nel giugno del 1939. La sentenza del Tribunale lo condanna a cinque anni di carcere più due di vigilanza speciale:

Poi, quando loro stabilirono che lo avrebbero mandato a Roma e ci sarebbe stato il processo, ci concessero di vederlo e io ho ancora l’immagine di quella stanza, dopo sei mesi, a rivedere mio padre emaciato [che] portava i segni delle bastonature, quest’uomo che si teneva solo i pantaloni perché gli avevano tolto tutto, gli avevano tolto la cintura, gli hanno tolto i cordonetti delle scarpe…

Scontati i primi cinque anni, nel 1943 torna a casa con l’obbligo «di andare a firmare dai carabinieri tutte le sere». Dopo qualche mese, tuttavia, è di nuovo in contatto con i vecchi militanti e prende parte all’organizzazione dei primi gruppi combattenti. Come molti suoi compagni che avevano conosciuto i tribunali e le carceri fasciste sulla propria pelle, avrebbe ricordato il periodo di detenzione come un momento di straordinaria maturazione politica, non da ultimo per i contatti con i più alti esponenti dell’antifascismo italiano:

Lui […] mi ha sempre detto che cinque anni […] è stato come fare l’università… ma è vero perché mio papà, venendo dalla campagna, lui aveva soltanto la seconda elementare. […] nel periodo che mio papà era in carcere, furono arrestati i grandi che poi fecero la Costituzione […] lui ha avuto la possibilità di stare in carcere con persone come Pertini! Perché poi Pertini era socialista, Pertini è riuscito a evadere dal Regina Coeli insieme a un suo compagno che poi lui fuggì in Francia. Quindi c’erano, in quel periodo che era incarcerato mio padre, […] c’erano quei personaggi che contavano moltissimo… c’erano tutti perché poi non furono arrestati solo dalla parte dei comunisti, c’erano anche degli altri, che erano dei liberali, erano della gente che però sentivano la necessità di formare un nuovo Stato. E io questo me lo ricordo e mio papà mi ha sempre detto: «io l’università l’ho fatta a Regina Coeli». E, delle volte. quando si diceva “ah sei stato… ah te babbo quando eri in galera…?”, non voleva [che] noi dicessimo… lui diceva: «non è vero, io non sono andato in galera, io sono andato all’università, perché se oggi io posso leggere e scrivere, lo devo al carcere!».

Anche Luisa ricorda la reclusione del padre come un momento molto importante, benché durissimo, di crescita personale: «da lì io ho imparato molto, ho imparato a sviluppare il mio carattere in un certo modo». Quando le chiedo di parlarmi di come ne è finalmente uscita, mi spiega che in quei cinque anni la famiglia è precipitata in una situazione economica disastrosa: «la mamma […] Marianna […] con quella cosa lì si ammalò di cuore», mentre lei è ancora troppo piccola per lavorare. L’ATM3 non è certo stata d’aiuto — anzi, «non ci diede [niente]… guarda caso [il babbo] doveva ritirare lo stipendio, non ci diedero nemmeno lo stipendio. Morale che noi rimanemmo così, come si suol dire, in braghe di tela, non avevamo una lira» — mentre la sorella maggiore, «che faceva la sartina, [è diventata] praticamente il capofamiglia» e suo fratello Enzo, che a quel tempo «faceva le Aldini» è stato costretto, «con grandi sacrifici, [a] interrompere perché non c’era più nessuna possibilità» di sostenere i suoi studi. In poco tempo trova da lavorare come fattorino alla Calzoni, una grande aziende metalmeccanica della città, ma nonostante tutti gli sforzi, «le entrate erano molto misere». È per questo che Luisa, finché può, se ne sta a Cadriano dagli zii:

Ché io là potevo mangiare qualcosa […] invece qua non si mangiava niente, si moriva di fame! Perché c’era la tessera che ti dava quel po’ di sopravvivere, e poi c’è quel problema che noi non avevamo soldi… perché molti hanno superato la guerra in un modo diverso, nel senso che c’era il mercato nero, però ci volevano dei soldi, perché il mercato nero era terribile: […] se avevi dei soldi trovavi al mercato nero, altrimenti non facevi niente!

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La Bolognina in guerra
Fra città e campagna la cesura è netta, e nel ricordo di Luisa viene accentuata dall’atmosfera idilliaca di cui è avvolto tutto ciò che ruota attorno al mondo contadino. Vista con gli occhi di una bambina, infatti, la vita degli zii contadini procede secondo i ritmi lenti di una vita serena, al riparo dalla guerra. In città, infatti, fra l’estate e l’autunno del 1943, il fronte si avvicina e, chi può, sfolla cercando rifugio nei paesini della “bassa”.

Per Luisa, al contrario, le bombe rendono sempre più difficile i suoi spostamenti verso Cadriano: «io non sono mai andata via di Bologna, da qui, anche nel periodo della guerra, ché la Bolognina era un cumulo di macerie eh… non c’era niente, non avevamo docce, non avevamo gas, non avevamo assolutamente niente». Non sono molte le famiglie che rimangono a vivere in quartiere e chi lo fa, per scampare al pericolo, dorme in cantina: «bombardavano anche di notte coi bengala», mi racconta infatti Luisa, perché «essendo la Bolognina così vicina alla stazione» si era subito trasformata in «un obiettivo [per] gli aerei». Ma la campagna non è sempre un luogo sicuro e l’anno successivo, dopo il pesante bombardamento di metà ottobre, sono i contadini a cercare riparo in città:

Siccome che questi delinquenti qui dei tedeschi razziavano […] nelle nostre campagne, portavano via le mucche ecc., allora molti contadini cosa fecero? Portarono gli animali, le bestie, qui a Bologna, in città. In modo particolare, per esempio, in Frassinago […], che non è molto lunga, però di qua e di là all’interno c’erano dei cortili, com’è famoso a Bologna, perché a Bologna vecchia ci sono […] tutti i cortili e lì parcheggiavano i contadini, allevavano lì le bestie perché le avevano messe al sicuro […].

Il fratello Enzo, intanto, col nome di battaglia “Macca” è diventato commissario politico del battaglione “Ciro” della brigata “Irma Bandiera”4. Vincenzo, invece, è «stato segnalato di nuovo come antifascista» e un po’ per questo, un po’ perché «aveva necessità», si fa ricoverare al Collegio San Luigi, «uno dei collegi dove la grande borghesia di Bologna mandava i figli a studiare». A seguito dei bombardamenti, però, la struttura era stata requisita e diventa un rifugio per feriti e combattenti: «lì, sotto al San Luigi», mi spiega infatti Luisa, «c’era una cellula partigiana che operava e ricoverarono lì mio papà per tenerlo un po’ nascosto». Da sempre «innamorata» di suo padre, me la immagino che cerca di passare più tempo possibile con lui, ora che finalmente è tornato a Bologna. «[P]rendevo da qui, da sola, e andavo al San Luigi», mi racconta entusiasta, «e stavo con mio papà tutto il giorno»:

Allora mio papà diceva: «quando suona l’allarme vai giù, vai nel rifugio». La prima volta che andai giù, feci questa scoperta, che il rifugio serviva anche come camera mortuaria. E io mi trovai nel rifugio vicino a già dei morti, già che quando camminavi per le strade li vedevi morti, bombardamenti tutti… quindi io ho conosciuto la morte in quella maniera lì.

Pochi giorni prima del 21 aprile, quando la città viene liberata dalle truppe alleate e dalla brigata “Maiella”, il commissario “Macca” «sparì e non sapevamo dov’era, ma stavano organizzando la liberazione»:

Ricordo il 21 aprile, la liberazione di Bologna, piazza dell’Unità, [il] passaggio di tutti i carri armati che ti buttavano le caramelle, i polacchi […] io ero andata all’ospedale a prendere mio padre perché finalmente veniva a casa… e buttavano queste manciate, caramelle, cevingum, che io non sapevo neanche cos’era il cevingum… però io non l’ho presa la caramella! Non l’ho voluta! Guardai mio padre, mio padre non mi disse niente eh, non mi disse: “prendi”… Come? Fino a ieri ci avete buttato giù le bombe e oggi mi date la caramellina? No! […] Magari ho sofferto a rifiutare la caramella, ma io non ho preso la caramella, io non sono una scimmietta ad andare a raccogliere la caramella per terra!

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Zapruder: 13 anni di storie in movimento. Il 26 e 27 novembre l’assemblea annuale a Bologna https://www.carmillaonline.com/2016/10/22/zapruder-13-anni-storie-movimento-26-27-novembre-lassemblea-annuale-bologna/ Fri, 21 Oct 2016 22:01:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34139 di Simone Scaffidi

zapruder-with-his-camera«Dallas, 22 novembre 1963: il presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, muore assassinato a bordo della Lincoln limousine. Poco distante Abraham Zapruder filma con la sua cinepresa la sequenza dell’attentato. Zapruder rende la vita un po’ più difficile alle nuove “Commissioni Warren” istituite per stabilire le verità ufficiali».

Nel 2004, a un anno e quattro numeri dal lancio della rivista Zapruder e del progetto Storie in Movimento, Fabrizio Billi – uno dei fondatori del progetto, allora membro del Comitato di coordinamento dell’associazione – spiegava sulle pagine [...]]]> di Simone Scaffidi

zapruder-with-his-camera«Dallas, 22 novembre 1963: il presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, muore assassinato a bordo della Lincoln limousine. Poco distante Abraham Zapruder filma con la sua cinepresa la sequenza dell’attentato. Zapruder rende la vita un po’ più difficile alle nuove “Commissioni Warren” istituite per stabilire le verità ufficiali».

Nel 2004, a un anno e quattro numeri dal lancio della rivista Zapruder e del progetto Storie in Movimento, Fabrizio Billi – uno dei fondatori del progetto, allora membro del Comitato di coordinamento dell’associazione – spiegava sulle pagine di Carmilla la scelta del nome della rivista. Sono passati tredici anni dall’uscita del primo numero cartaceo (maggio 2013) e oggi Zapruder è un punto di riferimento per chiunque – dentro e fuori dall’accademia – senta l’esigenza di sguardi critici e trasversali sulla Storia e le storie, la contemporaneità e il passato, i movimenti e il conflitto.

Il 26 e 27 novembre a Bologna, presso il Vag61, si svolgerà l’assemblea annuale dell’associazione Storie in Movimento (Sim), un momento di riflessione e creazioni di contenuti attorno alla rivista cartacea Zapruder, alla rivista digitale in lingua inglese Zapruder World e all’organizzazione del SIMposio.

Abbiamo fatto alcune domande ad Alfredo Mignini, coordinatore della redazione multimediale di Storie in Movimento, per capire cos’è oggi Zapruder, come ha cambiato forma in questi anni e come si può partecipare attivamente alla scrittura e all’immaginazione dei percorsi presenti e futuri del progetto.

Raccontaci che cos’è l’associazione Storie in Movimento e da chi è composta.

Storie in Movimento è un progetto culturale nato all’indomani delle proteste contro il G8 di Genova del luglio 2001 a seguito di un appello sottoscritto da oltre 260 persone. L’idea era quella di mettere in piedi una rivista di “storia antagonista”, come si chiama ancora la nostra mailing list, che poi si è concretizzata nel quadrimestrale «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale». Il fine di SIM è fin dall’inizio offrire una riflessione approfondita sul passato a un pubblico più ampio di quello solitamente raggiunto dalle riviste di storia che nascono dentro le università. Volevamo una rivista capace di comunicare in tante forme diverse, da articoli medio-lunghi con il tradizionale apparato di note fino alle immagini, alle interviste, alle prese di parola. Soprattutto, volevamo una rivista in cui insieme al contributo di studiosi e studiose acclarati potesse trovare spazio anche – non in subordine – la riflessione di attiviste e militanti, studenti e studentesse, appassionati di storia che riflettono sul passato a partire dalle loro esperienze quotidiane e dialogano sulla base dei contenuti con chi per professione si occupa di ricerca storica. Per noi, infatti, studiare il passato non significa ritirarsi dal presente, ma l’esatto opposto. È per questo che abbiamo voluto una rivista che raccogliesse la sfida di confrontarsi col presente, a partire dai conflitti che lo attraversano e rifiutando nettamente le logiche che governano il mondo accademico contemporaneo.

copertina_zapCos’è rimasto e cos’è cambiato rispetto al 2002, anno di lancio del progetto?

Forse non sono la persona più indicata per rispondere a questa domanda, perché solo da qualche anno sono diventato socio di Sim e ho iniziato a collaborare attivamente alla realizzazione del sito web. Mi sono però fatto un’idea leggendo i vecchi numeri della rivista e il materiale delle prime assemblea, ma soprattutto stando a contatto con chi è arrivato prima di me… Sim è stata per me anche un importante momento di confronto con una generazione che non ho potuto incrociare nelle aule universitarie e nell’attivismo politico. Nelle prime discussioni di Sim era molto forte l’accento sull’uso pubblico della storia, le strumentalizzazioni interessate del passato, le amnesie collettive. E questo anche in collegamento con i nuovi media e la dimensione sempre più allargata dei sistemi di trasmissione del passato. Un discorso che continua ad informare la nostra riflessione interna e che, per quanto presente in ogni uscita di Zapruder, ha dato recentemente i suoi frutti con un numero ad hoc (Di chi è la storia?), che registra anche le profonde trasformazioni intervenute nel frattempo. Senz’altro sono rimasti intatti i principi ispiratori del progetto, tanto sotto il profilo dei contenuti, quanto sotto quello organizzativo: sono fondamentali per noi l’autofinanziamento e il basso costo di abbonamenti e attività, l’apertura alle proposte esterne, l’autorganizzazione e il rinnovo continuo delle redazioni e del nostro comitato di coordinamento attraverso processi decisionali trasparenti e assembleari. È invece cambiata, e purtroppo in peggio, la situazione editoriale italiana e Zapruder vive solo grazie al continuo sforzo dei nostri gruppi locali nella promozione della rivista e in un’opera capillare di cura del rapporto con gli abbonati e una politica di differenziazione dei prezzi verso chi ha un lavoro precario o è giovane senza un reddito fisso.

Cosa sono e come nascono Zapruder, Zapruder World e il Simposio?

Alla rivista Zapruder, che rimane comunque il cuore pulsante del progetto, si è affiancato quasi da subito un incontro annuale estivo, che con un po’ di autoironia abbiamo voluto chiamare SIMposio. Questo è il tentativo di trasportare quello che facciamo con Zapruder nel contesto di un incontro residenziale in cui si discute di storia in tante forme diverse (discussioni, documentari, musica, teatro). Abbiamo scommesso sull’idea di promuovere degli incontri in cui il dibattito potesse essere intervallato da momenti di convivialità e siamo convinti che stare insieme produca non soltanto energie, affiatamento e coinvolgimento di persone nuove, ma anche idee originali e un’occasione di scambio e di condivisione dei saperi. Anche qui, la nostra politica di differenziare i prezzi – che riusciamo a fare solo chiedendo un contributo anche a chi viene invitato per esporre le proprie ricerche – ci aiuta a permettere la partecipazione attiva di chi non ha un lavoro o di chi è studente. Dal 2014, inoltre, abbiamo fondato una rivista digitale in inglese che ha preso il nome di «Zapruder World» e che ha da poco sfornato il suo terzo numero sul Welfare State. Infine, stiamo cercando di far decollare il sito, come spazio per raccogliere quello che non riusciamo ad inserire nella rivista, per lunghezza o per… formato (video, audio ecc.), ma su questo confesso che siamo ancora molto indietro!

Chi può partecipare attivamente al progetto e quali sono le forme e i canali per farlo?

Tutti e tutte! Chiunque voglia dare il proprio contributo al progetto Storie in movimento è sempre il e la benvenuto/a e ci sono tantissimi modi per farlo. Il modo più diretto è forse contattare e conoscere di persona chi anima i gruppi locali e collaborare a realizzare le presentazioni dei numeri, i banchetti, le discussioni, ma anche proporre la presentazioni di libri, fumetti, documentari e così via. Si possono poi proporre i propri articoli alle riviste oppure al sito, sia rispettando le richieste tematiche che di tanto in tanto vengono pubblicate, sia proponendo qualcosa di diverso e originale che rifletta sul passato in maniera critica. Si può fare un passo in più e proporre all’assemblea annuale il progetto di un numero intero delle riviste, iniziando così un percorso scrupoloso di cura dell’uscita e, infine, ci si può proporre come relatori/rici o coordinatori/rici di un dialogo del SIMposio. Infine, ci si può candidare a far parte delle redazioni (carta, digitale, sito), del comitato di coordinamento, del comitato organizzatore del SIMposio e contribuire così al progetto in ogni suo aspetto.

zw_logoL’assemblea annuale del 26 e 27 novembre è aperta a tutti/e?

Certamente! L’assemblea è chiaramente anche un momento di bilancio e discussione interna, che serve a rinnovare le strutture e a decidere i contenuti delle riviste e dell’incontro estivo. Questo per noi è fondamentale: le decisioni più importanti per il futuro del progetto si prendono all’interno di un’assemblea aperta al pubblico, in cui tutti/e prendono visione delle proposte arrivate e partecipano alla discussione da cui emergeranno i numeri da realizzare nell’anno a venire, i dialoghi del SIMposio, i progetti da intraprendere. Proprio per questo, l’assemblea è un momento che si nutre della partecipazione e delle proposte di chi è esterno all’associazione e vuole conoscerla meglio, capirne il funzionamento e portare un commento, una critica, un contributo. Quest’anno, grazie all’ospitalità dei compagni e delle compagne di Vag61, l’assemblea si terrà a Bologna dal 26 al 27 novembre e sarà possibile prenotare (entro il 27 ottobre) un posto letto e i pranzi delle due giornate a prezzo calmierato… perché anche per l’assemblea il motto è: “pagare tutti, per pagare meno”.

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