Alessandro Manzoni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un viaggio in ucronia https://www.carmillaonline.com/2024/10/11/un-viaggio-in-ucronia/ Fri, 11 Oct 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84882 di Paolo Lago

Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.

C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira [...]]]> di Paolo Lago

Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.

C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira a ricostruire una sorta di universo parallelo in cui i fatti ormai appurati come ‘storici’ sono avvenuti in un modo diverso portando a diverse conseguenze. Ad esempio, due fra le ucronie più studiate riguardano due figure storiche come Napoleone e Hitler: allora, pensando ucronicamente, se così si può dire, ci potremmo chiedere cosa sarebbe successo se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo o se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale. Emmanuel Carrère, nel suo interessante saggio dal titolo Le Détroit de Behring, edito in Francia nel 1986 e recentemente uscito in italiano nella bella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco con l’azzeccato titolo Ucronia, ci guida attraverso un vero e proprio viaggio in un’altra dimensione, in un tempo che non c’è.

I più importanti esempi di ucronia verso cui ci conduce lo scrittore francese appartengono alla modernità culturale piuttosto che alla postmodernità. Come ha notato Fredric Jameson, infatti, nella cultura postmoderna la categoria di spazio è considerata come dominante, in opposizione a quella di tempo, assai più importante, invece, per la modernità. Se l’eterotopia, infatti, nell’analisi di Foucault, appare una caratteristica importante della postmodernità (ma non l’utopia, che è stata sempre importante dagli antichi ai contemporanei), l’ucronia, nella cui etimologia campeggia la parola “tempo”, appare intrisa di modernità. Ecco che Carrère ci presenta nelle prime pagine del suo saggio una importante ucronia, Napoleone apocrifo, creata nel 1836 da Louis-Napoléon Geoffroy-Chateau, figlio di un ufficiale dell’esercito napoleonico caduto ad Austerlitz. Da notare anche che si tratta di un’ucronia nata prima che Renouvier coniasse il termine. Geoffroy ci racconta appunto di un Napoleone che, non sconfitto, ha creato un impero universale fino a morire per un colpo apoplettico nel 1832, a 62 anni. Creando un Napoleone imperatore del mondo, come nota Carrère, l’ucronista Geoffroy “non può rassegnarsi all’idea della sua caduta, che lo tocca così da vicino” e si autoconvince che la storia che egli racconta sia quella giusta adoperandosi per screditare quella che conosciamo e per estirparla alle radici: “dal momento che non si può fare in modo che la storia sbagliata non abbia avuto luogo, e neppure che gli uomini la ignorino, bisogna prodigarsi, soli contro tutti, per screditarla”. E se la storia ‘ufficiale’ fosse un enorme inganno? Se fosse stata creata ad arte da alcuni occulti ‘reggitori dei fili’? solo mettendo in discussione la storia si può giungere a una possibile legittimazione dell’ucronia. D’altra parte, Carrère cita il grande storico Paul Veyne che così si esprime: “Non si è storici se non si avverte, attorno alla storia che si è realmente verificata, una moltitudine indefinita di storie compossibili, di cose che avrebbero potuto andare altrimenti”.

Certo, si potrebbe pensare che l’ucronista, sotto sotto, possa essere anche un oscuro creatore di fantasie di complotto dal momento che molti complotti, come nota Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto, si basano su “un gioco di realtà alternative divenuto mostruoso”. Perché non dobbiamo mai neanche sottovalutare, per utilizzare un’espressione di Carrère, “l’onnipotenza di chi ha in mano la penna” e basterebbe evocare un titolo come Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, in cui si infittiscono manoscritti criptati dai quali per gioco emergono piani e fantasie di complotto. E anche quest’onnipotenza – si potrebbe aggiungere – appare del tutto appartenente alla modernità: oggi, nel mondo digitalizzato, basterebbe forse sfiorare pochi tasti di un touch screen. Del resto, lo stesso Manzoni nei Promessi sposi, pur non creando un’ucronia, grazie al potere e alla maestria della sua penna (con la quale ci ha anche presi in giro creando la messinscena del manoscritto ritrovato) ha ritagliato all’interno della storia una vicenda fantastica (ma plausibile) con personaggi anch’essi fantastici ma anche profondamente realistici. L’ucronista-complottista, allora, quasi fosse l’oscuro killer di un romanzo noir, avanzerebbe cancellando prove e eliminando studiosi e testimoni, per creare il suo universo alternativo e per tramandarlo ai posteri, come in una versione moderna di Matrix.

L’ucronista non è un folle, anzi, è estremamente lucido e intelligente perché ha trasformato la sua idea ucronica in un feticcio: il suo solo campo di battaglia – nota Carrère – è la memoria. Se l’ucronia a carattere ‘privato’ e personale può portare a speculazioni, appunto, dal carattere più o meno innocuo (del tipo, se io avessi studiato fisica nucleare probabilmente adesso non starei qui a scrivere questa recensione, ma non si sa mai), quella che ingloba grandi accadimenti storici può essere uno strumento di potere. Charles Renouvier, nella sua opera che si intitola appunto Ucronia, “non dipinge un idillio, non traccia, come Geoffroy, una curva trionfale tutta ascendente: ci sono guerre, invasioni, crisi, proprio come nella realtà” (e in questo modo l’ucronia appare più verisimile). Il filosofo francese costruisce un mondo in cui il cristianesimo non ha attecchito in Occidente, restando relegato in Oriente. In Occidente, anche nella modernità, continua a prosperare la potenza di Roma, rigorosamente pagana, perché gli imperatori hanno cercato di bloccare l’avanzata del cristianesimo in ogni modo (infatti, “se mai riusciranno a trionfare, dovremo rinunciare a tutto ciò per cui la vita è degna di essere vissuta: ai nobili piaceri, alla virtù disinteressata, alla libertà di cui godiamo, alla speranza di estenderla nel mondo…”). Sempre su questo tema, si potrebbero ricordare allora altri romanzi che Carrère nel 1986 non poteva conoscere, e cioè la trilogia ucronica di Sophie McDougall, composta da Romanitas (2005), Roma brucia (Rome burning, 2007) e Il sangue di Roma (Savage city, 2010), in cui si immagina appunto che l’impero romano non sia mai caduto arrivando fino ai giorni nostri.

Lo scrittore francese, nel suo interessante saggio, ricorda anche altre ucronie, tra cui Ponzio Pilato (1961) di Roger Caillois, in cui non solo l’Occidente, come nell’opera di Renouvier, ma tutto il mondo riesce a scongiurare il cristianesimo semplicemente perché Ponzio Pilato decide di non condannare e di liberare Gesù. Un altro importante romanzo ucronico è La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962) di Philip K. Dick, in cui lo scrittore immagina che le potenze dell’Asse abbiano vinto la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1960 siano diventati un protettorato giapponese. Come in un’ucronia che si rispetti, l’autore non indugia nel descrivere le circostanze che hanno portato a questi eventi: dal momento che si tratta della realtà (seppure fittizia), sono conosciuti da tutti e non è necessario descriverli. È con questa reticenza, con questo ‘non detto’ che l’ucronia si rafforza. E grazie al libro di Carrère, che oggi questa bella e appassionante traduzione ci permette di leggere finalmente in italiano, capiamo come negli interstizi della storia si possano celare spazi di ‘non detto’, delle ellissi che possono spalancare porte verso territori immaginari e immaginati: perché la storia e – si potrebbe aggiungere, vista la complessità che circonda da ogni lato – anche le vicende contemporanee, vanno sempre lette e sondate con estrema attenzione e lucidità e, perché no, anche con la giusta pacatezza e modestia.

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Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Hanno la faccia come il Covid https://www.carmillaonline.com/2020/04/19/hanno-la-faccia-come-il-covid/ Sun, 19 Apr 2020 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59476 di Alessandra Daniele

“Gli ufficiali tornino ai loro uffici, gli schiavi alle loro schiavitù. E se sapete un inno, intonatelo” – Alberto Sordi,  Due notti con Cleopatra 

È la Ripartenza. Mentre gli esperti embedded blaterano di plateau come cuochi, e si continua a morire a centinaia nella Lombardia dell’orrore degli ospizi-lazzaretto, e in tutto il Nord dove non c’è mai stato nessun reale lockdown delle attività produttive, già Confindustria e Confcommercio scalpitano per riaprire anche quel poco che è stato chiuso, con la complicità di politici ed esperti embedded che hanno la faccia [...]]]> di Alessandra Daniele

“Gli ufficiali tornino ai loro uffici, gli schiavi alle loro schiavitù. E se sapete un inno, intonatelo” – Alberto Sordi,  Due notti con Cleopatra 

È la Ripartenza. Mentre gli esperti embedded blaterano di plateau come cuochi, e si continua a morire a centinaia nella Lombardia dell’orrore degli ospizi-lazzaretto, e in tutto il Nord dove non c’è mai stato nessun reale lockdown delle attività produttive, già Confindustria e Confcommercio scalpitano per riaprire anche quel poco che è stato chiuso, con la complicità di politici ed esperti embedded che hanno la faccia da Covid di attribuire i dati negativi a fantomatici “contagi avvenuti in famiglia”.
Attilio Fontana The Mask guida i governors leghisti annunciando una Fase Due all’insegna delle Quattro D (come la pellagra): Distanza, Digitalizzazione, Diarrea e Demenza.
Intanto al governo, PD e Movimento 5 Stelle si preoccupano di spartirsi le poltrone ai vertici delle partecipate statali. La partita delle nomine s’è giocata a porte chiuse.
Bisognerà smettere di citare I Promessi Sposi, le epidemie vere non finiscono come la Peste manzoniana, non sono i Don Rodrigo a morire, nessun Innominato si pente, piuttosto continuano a curare i loro affari insieme, mentre l’Azzeccagarbugli si dedica alle conferenze stampa in Tv.
Non sarà la Provvidenza manzoniana a salvarci, né l’UE del MES, Miliardi Europei a Strozzo, né “Il sole dell’Italia che non si arrende mai” come flauta melenso lo spot del cibo per cani, che arricchisce Urbano Cairo, insieme a quello dello yogurt che “rinforza le difese immunitarie”, e al condizionatore che “purifica l’aria”.
Bisognerà smetterla con questa anosmia che ancora a troppi impedisce di sentire tutta la puzza delle stronzate d’una classe dirigente di scarafaggi stercorari, e d’un sistema socio-economico di merda che ci sta letteralmente soffocando a morte.
E che strozzerà i superstiti con la recessione. Usando il distanziamento e il tracciamento anti-contagio come strumenti di controllo sociale.
Bisognerà imparare a salvarsi da soli.
E poi, ci chiameranno Provvidenza.

“- What genre is this?
– It’s reality, man”
Westworld, 3X05

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Cecco Bellosi: Con i piedi nel lago https://www.carmillaonline.com/2013/07/18/cecco-bellosi-con-i-piedi-nel-lago/ Thu, 18 Jul 2013 21:55:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7744 di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, [...]]]> di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, mari e foreste di una Malesia fantastica), quei due luoghi sono parte dell’inconscio collettivo di una nazione: ne costituiscono alcuni tratti identitari, in certo modo. Molti, in diversi modi, hanno spiegato che in quella selva oscura ci siamo dentro tutti, perché la selva è la nostra stessa vita: per questo la riconosciamo ovunque. Diverso è il caso del paesaggio che apre due delle pagine più famose del capolavoro del Manzoni, che si avvia per l’appunto su quel ramo del lago di Como i cui monti bisognerà poi che Lucia saluti col suo addio: monti descritti in punta di pennello, con una precisione estrema, ma che quasi tutti finiamo col conoscere solo per averne letto la descrizione, e non per averli visti o frequentati. Né sappiamo molto dei laghée che quei luoghi popolano: nell’immaginario nazionale, la Lombardia è Milano, e su Milano, falsamente, si appiattisce come su un luogo comune.

È su quei monti, attorno a quei due ramo del lago, che Cecco Bellosi ha ambientato il suo Con i pedi nell’acqua. O meglio: sono gli abitanti che popolano quei luoghi ad essere venuti alla penna raffinata, colta ed elegante di questo quasi-esordiente che ha avuto, come i gatti, alcune vite da spendere e un po’ troppe cose da fare per dedicarsi alla scrittura, scegliendo una solo anagrafica terza età per rivelarsi narratore di razza e di spessore, inanellatore di vite e racconti pubblicati dalle Milieu edizioni, un’agguerrita casa editrice indipendente dal catalogo molto interessante.

Il fascino di queste storie di irregolari – “agli irregolari” è dedicato il libro: e a chi, se non?, verrebbe da chiosare – è la via tortuosa, le molte selve che al cittadino che non ne vede i segni e i sentieri possono apparire oscure e nelle quali ci si addentra con la consapevolezza che si sta entrando anche dentro un archetipo letterario; ed entrandoci lo si scopre tanto diverso dalla realtà quanto lo è dai tempi e dagli uomini narrati da Bellosi il nostro presente: un presente che ci viene da altri spacciato come immutabile, inevitabile, ineludibile.

cecco_b Con un incipit inaspettato, l’Autore [a sinistra] sceglie di introdurre il suo lettore non attraverso i sentieri degli sfrosatori, degli spalloni, dei contrabbandieri la cui epica, tra l’inizio del secolo breve e i primi lampi del Sessantotto, sarà il centro della narrazione: ma dalle cucine della scuola di chef di Arzegno, che «per buona parte del Novecento ha partorito la pattuglia dei migliori» (p. 15): il confronto con le cucine televisive odierne, con «le dilettanti allo sbaraglio che imperversano nelle case a tutte le ore dal digitale terrestre o dal satellite» (p. 33) passate senza colpo ferire dalla professione di sorelle minori a quella di riscaldatrici di surgelati o spadellatrici in quattro salti, mostra senza possibilità di mediazione la differenza tra due mondi inconciliabili. E ci fa capire, subito, che è in quell’altro mondo che stiamo per entrare, quando il lago non era ancora la meta dei nuovi ricchi: «Sullo scorcio di fine secolo si è passati velocemente, insinuando qualche debole traccia di cronaca rosa sui muri screpolati nei secoli, dallo stilista italiano all’attore americano al petroliere russo arricchito alla borsa nera della morte del comunismo: c’è chi il bandito lo interpreta al cinema, e chi lo fa per professione nella vita di tutti i giorni» (p. 75).

Mondo tosto, quello del lago e dei laghée. Al cui centro c’è il mestiere dello sfrosatore: un lavoro duro che può diventare un’arte senza addolcirsi, che consiste nel passare la frontiera per portare farina, caffè, tabacchi, zucchero, dadi, selvaggina. Attorno a quest’arte ci sono regole ferree, comportamenti che non ammettono deroghe o distrazioni, rituali:

«La partenza di ogni viaggio ripeteva un rito silenzioso: ognuno si costruiva con la iuta, la corda e l’ago i peduu d’invöi, le pedule rovesciate con la cucitura sotto il piede; poi ritagliava con il fulcìi le palene, le bretelle con cui si metteva in spalla il sacco ingombrante, spigoloso e odiato quando cominciava a picchiare con insistenza sulle gambe, marinandole nel dolore. Ma poi amato alla fine della corsa. Dentro, dai settecento pacchetti di sigarette per i meno abituati ai mille per i più forti. Come quel tronco di rovere del Bagaten, che i finanzieri provarono ad abbattere, senza riuscirci, anche sparandogli. Ognuno, nel momento della cucitura delle scarpe per il viaggio, stava solo con i suoi pensieri: la morosa, i figli, l’adrenalina che scendeva lentamente in ogni angolo del corpo. Poi, a un cenno, tutti in fila con passo attento, svelto, determinato. Ogni volta le pedule venivano costruite con sapienza da artigiani: gli spalloni dicevano di non volersele portare appresso perché nel passaggio di confine i doganieri potevano fare storie, ma la verità è che non volevano rinunciare al rito propiziatorio» (pp. 130-131).

E ci sono gerarchie dettate dalla capacità individuale di saper trovare ogni volta un passaggio ignoto ai burlanda (i finanzieri) e alla tribù (la polizia tributaria), di saper organizzare e tenere insieme una colonna: da cui le leggendarie vite e imprese dei capi del contrabbando. Il Ment, innanzitutto e prima di tutti: la leggenda, «l’ultimo grande sprazzo di una valle inquieta, mazziniana e valdese, anarchica e contrabbandiera prima di rassegnarsi a un docile tramonto. La leggenda ha contorni sfumati, è traccia di racconto ogni volta diversa. Quando si accenna al Ment, i volti dei vecchi sorridono luminosi e si soffermano per attimi assaporati lentamente, in cui passa la nostalgia» (p. 61).

E poi il Berto, che di soprannome faceva il Mucc, il più radicale e sfacciato: «La finanza aspettava gli uomini sui sentieri più impervi? Bene, lui andava sulle mulattiere, sulle strade sterrate, sulle vie più scontate. La sfrontatezza era il suo mestiere» (p. 212). Il Barogio, che «ha rivestito, nella sua carriera, tutti i ruoli previsti dal mestiere. Spallone, capo, padrone in proprio, pilota di motoscafi suoi e di altri, autista di machine potenti e veloci, sue e di altri» (p. 213). Il Cia Cia, sbattuto dalla guerra su un’isola Greca: che invece di bearsi nell’elogio della fuga, come in un film di Salvatores (roba da fighetti della borghesia meneghina, l’elogio della fuga), imbarcato per Atene, fugge verso il nord, s’inventa un mestiere da barbiere in Bulgaria, viene catturato dalle SS ma evade, per poi ritrovarsi in Jugoslavia «dalla parte giusta: in base all’istinto, non alla politica» tra i partigiani di Tito, finire la guerra sfilando tra gli applausi della città di Spalato, e infine tornare a casa, a Lezzeno, dove la sua casa neanche c’era più: «Ricominciare fu dura, ma per fortuna c’era il contrabbando. Un mondo dove la sua esperienza di movimenti furtivi nella notte, sguardi attenti e capacità di lettura del silenzio si rivelò subito decisamente utile» (p. 187).

E infine il Cinto, che dà la cifra al suo mondo e al racconto di questo mondo con la sua lucida consapevolezza:

«Nei primi anni Settanta tutti, capitalisti e operai, pensavano alla fabbrica come un luogo capace, allo stesso tempo, di innovazioni tecnologiche e di sogni rivoluzionari. Mandando a scuola i figli e andandoci essi stessi, gli operai si illudevano di conoscere le stesse parole del padrone anche se la parola senza potere resta un flatus vocis.
Il Clinto lo aveva capito sin da subito: meglio la libertà del contrabbandiere che la schiavitù della tecnica, con le invenzioni più suggestive della creatività operaia che finivano nelle mani altrui.
Il sapere operaio non è mai diventato potere operaio» (p. 168)

Non è un mondo benevolo quello del lago, né facile è viverci. Le storie dei contrabbandieri conoscono le tragedie della montagna, le fucilazioni, gli omicidi di Stato, i caduti per mano dei gendarmi. Ma anche le storie narrate attorno al mondo degli sfrosatori hanno talvolta il sapore della tragedia: come la morte della Gianna e Luigi, partigiani scampati ai fascisti e uccisi dal furore rivoluzionario, dalla grettezza personale, dall’ossessione ortodossa e inquisitrice dei loro ex compagni, sotto l’accusa, falsa, di aver parlato sotto tortura. O l’elegia di Elda, la più bella ragazza di Colonno, annegata nel lago d’Arzeno, il cui corpo fu cercato per quasi due mesi dal più esperto dei rampinieri, e infine trovato nella domenica di Sant’Anna.

È un mondo che si colloca non sulle linee di confine tracciate dai poteri e dagli Stati, ma nella frontiera, cioè nello spazio intermedio tra gli Stati e i poteri: «I luoghi di confine portano dentro di sé lo spirito d’avventura, l’incontro tra storie diverse, il dramma della divisione nel teatro del mondo. Se ne esce più liberi, più duri, più segnati» (p. 53). Nella frontiera, come in una terra di nessuno, vigono altre leggi e altre morali dettate dall’agire quotidiano, da un sapere condiviso sedimentato dalla vita in comune, da un senso di spontanea fratellanza e solidarietà che solo un’ottusa obbedienza può fraintendere per omertà: «L’omertà è sporca quando è suddita della paura e del potere, legale o illegale: in Italia, spesso, i due termini sono intrecciati. L’omertà può essere invece, come dicono i dizionari, solidarietà di popolo; in questo caso ha un volto pulito. Ed è dura a morire, perché non ha bisogno di sentirsi liberata dalla paura» (p. 96). In quel mondo più d’una Resistenza ha calcato quei sentieri: da quella, quasi ignota, dell’insurrezione anti-austriaca e repubblicana guidata nel 1848 da Andrea Brenta, «il Pisacane della Val d’Intelvi», a quella partigiana del 1943-45. E lungo quei sentieri fu guidato (ma questo nel libro non c’è) Giangiacomo Feltrinelli, per rifugiarsi in Svizzera all’indomani della strage di Stato del 12 dicembre.

Le storie di questo mondo vivono finché vive il mondo che le racconta: come aveva capito il Giorgio, quando intuisce che «terminate quelle storie, il lago si sarebbe asciugato negli egoismi senza prospettive di futuro. Come il resto d’Italia» (p. 172).

Perché, dunque, tornare a raccontarle?

Perché quelle storie alludono ad alte storie, che Cecco Bellosi ci racconterà, speriamo presto, in un nuovo libro; storie di rivoluzioni perdute, ma non inutili: «Le rivoluzioni non sono mai inutili, soprattutto quelle perdenti. Sono intrise del profumo inebriante della rivolta e imprimono la convinzione che il mondo possa cambiare davvero. Soprattutto danno senso alla vita» (p. 57). Come con quell’Aureliano Buendía che tutti siamo, o siamo stati, aver perso tutte le 32 rivoluzioni promosse non impedisce di assaporare il sogno della trentatreesima.

Queste storie ci mostrano un mondo diverso dall’attuale, contro il grigiore del presente, per dirci che un altro mondo è stato possibile, e che da quello possiamo imparare a rialzare la testa verso quel cielo cui dare, ancora una volta, l’assalto, «in attesa di una nuova storia con i piedi nell’acqua e la testa fra le nuvole» (p. 233).

Nota

A Con i piedi nel lago è stato assegnato il premio “Segnalazione 2013” – vale a dire “il premio della critica” – del Premio Chiara 2013, ex aequo con Andrea Gianinazzi, L’uomo che vive sui treni. Racconti ferroviari (Armando Dadò Editore, Locarno 2012) con questa motivazione: «Entrambi esprimono una sensibilità particolare per il proprio territorio; per Bellosi il Lago di Como, oggi terra di turisti, ieri di ribelli e artigiani, per Gianinazzi il ticinese, dove la storia con la S maiuscola si incontra con la precarietà di una vita sul confine».
Su Con i piedi nel lago leggi anche la recensione di Sergio Bianchi, qui.

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