Alessandro Dal Lago – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Espressioni urbane sui muri e conflittualità metropolitane https://www.carmillaonline.com/2022/08/02/estetiche-inquiete-espressioni-urbane-sui-muri-e-conflittualita-metropolitane/ Tue, 02 Aug 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72915 di Gioacchino Toni

Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia [...]]]> di Gioacchino Toni

Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia critica, l’antropologia e l’educativa di strada.

Come hanno avuto modo di evidenziare Alessandro Dal Lago e Serena Giordano (Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino 2016) attraverso un’analisi estetica, sociale e culturale, gli spazi urbani costituiscono un’arena di conflitti. Esaminato tanto le motivazioni che muovono i graffitisti ad intervenire, nell’illegalità, sulle mura delle città, quanto quelle che mobilitano il fronte antigraffiti, i due studiosi hanno evidenziato alcune contraddizioni che attraversano gli opposti schieramenti.

Suscitando probabilmente qualche malumore negli ambienti creativi underground, Dal Lago e Giordano hanno posto l’accento su come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche dal senso di impotenza provato nel subire una modifica estetica del contesto urbano in cui si trovano a vivere senza essere stati minimamente contemplati, come del resto avviene con la comparsa di insegne e cartelloni pubblicitari o, più in generale, come le trasformazioni urbanistiche calate dall’alto [su Carmilla].

Con riferimento alla scena urbana, di conflittualità si può parlare anche a proposito dei rapporti tra l’universo della street art ed il circuito artistico ufficiale. Nel suo contributo al volume Espressioni Urbane, Pietro Rivasi, ad esempio, soffermandosi sul rapporto tra arte urbana spontanea e istituzioni, nell’auspicare il superamento della logica che vuole i due ambiti per forza di cose conflittuali, ritiene necessario che il sistema dell’arte manistream si interroghi circa l’applicabilità al writing ed alla street art di criteri che si sono sedimentati nel tempo nella storia e nella critica d’arte accademica.

Nelle gallerie molte mostre che intendono dar conto del variegato universo dei graffiti urbani ricorrono a «lavori che riproducono su tela o su carta soltanto l’estetica di ciò che viene realizzato in strada. In questo modo le opere risultano prive delle qualità legate agli aspetti sito-specifici, performativi e caratterizzanti che entrano in gioco quando le opere vengono realizzate senza autorizzazione nello spazio pubblico» (p. 36). Il writing urbano, sostiene Rivasi, ha peculiarità che lo differenziano da molta pittura tradizionale; non è nell’aspetto tecnico e formale che andrebbero ricercate le sue caratteristiche artistiche e culturali più rilevanti.

Fabiola Naldi (Tracce di Blu, Postmedia books 2020), riprendendo le riflessioni di Miwon Know (One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press 2002) ha evidenziato come tanto gli studiosi quanto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento, altrimenti ne ricavano una lettura non solo superficiale ma anche “addomesticata” [su Carmilla].

Allargando il discorso, in un suo scritto Lorenzo Misuraca (Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale” 13 Maggio 2015) invita a prendere atto di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica trasformandosi, in diverse occasioni, da “luogo di critica” a “luogo di ratifica del potere” [su Carmilla]. Sono ormai frequenti i casi in cui le istituzioni ricorrono alle produzioni di street art esistenti, o a quelle da loro commissionate, per riqualificare l’immagine – e spesso solo quella – delle periferie.

Nel volume Espressioni urbane a soffermarsi su tale questione è in particolare Sarah Gainsforth, studiosa che ha approfondito i processi di gentrificazione urbana ed il ruolo assunto dal turismo nella produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce (Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, 2019; Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, 2020) [su Carmilla].

Nel suo contributo al volume Espressioni urbane, Gainsforth riprende alcuni episodi avvenuti nella città di Roma esemplificativi di come anche il contesto estetico urbano sia un terreno di conflittualità, dunque, a maggior ragione, come all’arte urbana si debba per forza guardare a partire dai suoi aspetti sito-specifici.

In occasione della visita guidata all’interno del quartiere romano San Lorenzo – “Street Art e Identità” –, organizzata dall’associazione Muri Sicuri nell’ottobre del 2019, che prevedeva una tappa in via dei Volsci per visionare alcuni murales sui palazzi in cui avevano sede strutture della sinistra antagonista romana, i visitatori furono preceduti dalla cancellazione delle opere da parte dei volontari del gruppo Retake nell’ambito dell’iniziativa “Magnifica San Lorenzo” organizzata dal Comune di Roma e finanziata da Unicredit. «La cancellazione dei murales, i cui temi erano politici, è avvenuta senza consultatore il territorio; probabilmente sono stati consultati i proprietari delle case in questi edifici, ma non il quartiere. In questa visione San Lorenzo, e Roma, non sono una comunità, ma un condominio» (p. 54).

Altro caso riportato dalla studiosa riguarda i murales sulle pareti di edifici bombardati nel corso della seconda guerra mondale all’incrocio di via dei Sabelli, in questo caso commissionati direttamente dal Comune di Roma e finanziati da una società immobiliare. Curiosamente il murale è stato intitolato “Kidz are the future” richiamando in maniera evidente il gruppo di artisti “Kidz” attivi un paio di decenni fa in San Lorenzo autori di un enorme murale rappresentante il quartiere stresso raffigurato nei suoi aspetti diurni e notturni. Il nuovo murale sorge proprio ove aveva campeggiato a lungo la scritta KIDZ sostituendola, nei fatti, con un’opera del tutto estranea al quartiere.

I due episodi, sottolinea la studiosa, si inseriscono all’interno di un processo di forzata ristrutturazione che sta subendo il quartiere romano di San Lorenzo rendendo evidente «un cortocircuito che negli ultimi anni si è creato sul tema dell’Arte urbana e della Street Art, la confusione e le contraddizioni insite nei concetti con cui ruota oggi il discorso sulla città: decoro e degrado, legalità e illegalità, i temi dell’Arte pubblica e della sua funzione, e quindi il macro-tema della rigenerazione urbana, e in particolare di quella cosiddetta culture-led ovvero di matrice culturale» (p. 58).

Tali contraddizioni, continua Gainsforth, sono esplose a Roma soprattutto in tre quartieri storicamente popolari – San Lorenzo, Ostiense e Pigneto – in cui si scontrano tentativi di “bonifica urbana” «voluti dai privati e dai nuovi abitanti» e «tentativi delle controculture di riappropriarsi e di definire il valore d’uso degli spazi e della città». Si tratta pertanto di «luoghi di conflitto sull’uso dello spazio. Il decoro, che viene sempre indicato come obiettivo della riqualificazione di città, non è un obiettivo ma uno strumento – di tipo estetico – per definire un uso – più esclusivo – della città a partire dall’estrazione di rendita urbana» (p. 58).

Si tratta dunque di un uso dell’Arte Urbana, a Roma come altrove, volto a «rendere attrattivi i quartieri da rigenerare in chiave economica, prima che sociali. Il che, semplificando, significa, attrarre utenti e abitanti facoltosi da fuori anziché migliorare le condizioni di chi vi abita» (p. 59).

Gli interventi estetici soprattutto commissionati, ma a volte anche quelli realizzati spontaneamente, nelle mura dei quartieri, contribuiscono «all’elaborazione di retoriche e narrazioni, alla produzione di contenuti immateriali su cui si costruisce l’immagine della città attrattiva, dinamica, da vendere a turisti, investitori, e nuovi residenti. I quartieri rigenerati sono descritti come “rinati”, “vivaci” e “creativi”» (p. 59).

Trattandosi di una narrazione che, sottolinea Gainsforth, presuppone uno stato di degrado antecedente la rinascita, occorrerebbe chiedere conto delle responsabilità del degrado di tali quartieri. «Conoscendoli, direi, che in parte è inventato, in parte è dovuto proprio all’impoverimento del tessuto sociale ed economico che la trasformazione porta, alla carenza di servizi, di luoghi di socialità e cultura, di luoghi che non siano di consumo» (p. 59).

La muralizzazione delle periferie sempre più commissionata e finanziata dal connubio istituzioni-società immobiliari si sta rivelando un buon “cavallo di Troia” per sottrarre i quartieri popolari alle comunità che li hanno a lungo abitati e ciò è stato reso possibile grazie allo sfilacciamento del tessuto sociale che non si è di certo dato motu proprio.

Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i colori sulle pareti si rivelano armi contese. Non è nelle gallerie d’arte che si combatte questa guerra, è nelle nelle strade, un metro alla volta, mattone dopo mattone.


Indice dei contributi presenti nel volume Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art: Pierpaolo Ascari, Tensioni a Cyburbia. La città postfordista tra canoni e stili di espressione; Pietro Rivasi, Sul rapporto tra arte urbana spontanea ed istituzioni; Sarah Gainsforth, Addomesticare la città: consumo visuale e produzione di spazio; Tamar Pitch, Sicurezza, decoro e pandemia; Giorgia Silvestri, Lo scandalo dell’adolescenza nella città degli adulti; Francesco Spagna, Ho fatto della mia casa il mondo. Street art, comunicazione, controcultura; Claudio Musso, Rovesciare la prospettiva. Arti visive e cultura visuale nel Writing e nella Street Art; Fabiola Naldi, Per una responsabilità “illegale” dell’artista; Stefano Ascari, Parole, immagini e muri. Il fumetto come scrittura dello spazio urbano; Enrico Bonadio, Profili di diritto d’autore nel graffiti writing; François Chastanet, Sei scritture metropolitane; Luca Borriello, Per fare un Tavolo. Competenze e municipalizzazione della creatività urbana in Italia.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Culture e pratiche di sorveglianza. Internet in ogni cosa https://www.carmillaonline.com/2021/09/16/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-internet-in-ogni-cosa/ Thu, 16 Sep 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68144 di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla rete di oggetti e sistemi al di fuori dagli schermi come veicoli per la mobilità, dispositivi indossabili, droni, macchinari industriali, elettrodomestici, attrezzature mediche ecc… Oltre che con le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme di condivisione di contenuti in rete, ad introdursi nell’intimità degli individui concorrono sempre più oggetti di uso quotidiano in grado di raccogliere e condividere dati personali. Oltre a evidenziare come il cyberpazio premei ormai completamente – e non di rado impercettibilmente – l’universo offline dissolvendo sempre più il confine tra mondo materiale e mondo virtuale, tutto ciò induce a domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana o se invece si stia navigando a vele spiegate verso il superamento stesso del concetto di privacy.

Nel volume DeNardis espone alcuni esempi utili a comprendere come il contraltare del controllo esercitato sugli oggetti connessi ad Internet sia la loro vulnerabilità. Un esempio riguarda la possibilità che estranei da remoto possano accedere e manipolare dispositivi medici dotati di radiofrequenza impiantati nel corpo umano e connessi alla rete. Altro caso su cui si sofferma l’autrice concerne l’ambito dei “sabotaggi di Stato”2, come nel caso del virus Stuxnet individuato nel 2010 con buona probabilità progettato da statunitensi e israeliani esplicitamente per sabotare i sistemi di controllo dei sistemi nucleari iraniani, o del sabotaggio della rete elettrica ucraina presumibilmente per mano dei servizi segreti russi. Altro inquietante esempio riguarda la vicenda della “botnet” Mirai del 2016, probabilmente il più vasto cyberattacco dispiegato sino ad ora attuato attraverso il sabotaggio di semplici apparecchi casalinghi connessi a Internet che ha reso inaccessibili a vaste aree statunitensi oltre ottanta tra i siti più popolari (Netflix, Amazon, Twitter…). L’attacco è stato condotto prendendo il controllo di milioni di dispositivi domestici ricorrendo a una sessantina di username e password comuni o di default per impiantare malware attraverso cui inondare di richieste i siti e mandare in tilt il loro consueto traffico, dunque nei fatti rendendoli inaccessibili.

Oggi esistono più oggetti connessi digitalmente che persone e si tratta di un fenomeno in rapida espansione tanto da prospettare significative implicazioni, oltre che economiche, nell’ambito della governance e dei diritti dell’individuo.

Nel gergo dei sistemi cyberfisici, le cose connesse sono oggetti del mondo reale che integrano direttamente elementi digitali. Esse interagiscono simultaneamente con il mondo reale e con quello virtuale. Il loro scopo principale [è orientato a] mantenere i sistemi in funzione rilevando e analizzando i dati, e controllando automaticamente i dispositivi. […] Già oggi milioni di sensori monitorano le condizioni ambientali, i sistemi industriali, i punti di controllo e il movimento degli oggetti. Questi sistemi inoltre fanno direttamente funzionare i dispositivi […] I sistemi digitali sono oggi sistemi di controllo delle cose e dei corpi del mondo reale. I sistemi biologici fanno parte dell’ambiente degli oggetti digitali. L’internet delle cose è anche l’Internet del sé. Le “cose” dell’Internet delle cose comprendono anche i sistemi biologici delle persone, attraverso tecnologie indossabili, dispositivi di identificazione biometrica e sistemi di monitoraggio digitale medico3.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline si sta facendo sempre più labile; Internet si è esteso dal solo campo cognitivo degli utenti fino a divenire lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità momentanea tramite schermi ad una modalità costante attraverso oggetti di uso quotidiano. L’essere o meno online non dipende più da una scelta dell’individuo di operare o meno con un dispositivo con uno schermo.

Le sfere ibride online-offline penetrano nel corpo, nella mente, negli oggetti e nei sistemi che collettivamente compongono il mondo materiale. Internet non ha più solo a che fare con le comunicazioni e non è nemmeno più un semplice spazio virtuale. La concezione aprioristica della rete come un sistema di comunicazione tra le persone deve essere superata. L’impennata di sistemi che integrano simultaneamente componenti digitali e del mondo reale crea condizioni che mettono profondamente in discussione le nozioni tradizionali della governance di Internet. Non ha più senso vedere gli spazi online come sfere distinte, tecnicamente o politicamente, all’interno di un mondo virtuale separato in qualche modo dal mondo reale. Online e offline sono intrecciati4.

Tale intreccio tra oggetti del mondo reale e ambito della rete richiede un ripensamento della categoria di “utenti Internet”; sarebbe riduttivo limitarsi a conteggiare gli esseri umani connessi alla rete – passati dall’1% (in buona parte concentrati negli Stati Uniti) di metà anni Novanta a circa il 50% della popolazione mondiale nel 2017 –, visto inoltre che il computo non discerne facilmente tra le persone reali e i “bot”, sistemi automatici come i web crawlers che passano in rassegna i contenuti di Internet per indicizzarli, o i “chatbot”, in grado di sostenere conversazioni con gli utenti. Si stima che una percentuale compressa tra il 9% e il 15% degli account Twitter sia composta da “bot” non di rado utilizzati per marketing, propaganda politica, attivismo e campagne di influenza. Al di là del fenomeno degli account automatici, gli oggetti connessi risultano oggi più numerosi rispetto alle persone e si tratta di oggetti che non hanno relazione formale con gli utenti umani, non sono dotati di schermo né interfaccia utente.

Anche individui mai stati online risultano coinvolti da ciò che avviene in rete; tutto è connesso e dirsi “non presenti in Internet” non ha più molto senso. Un attacco hacker nel 2013 ha colpito una importante catena commerciale statunitense ottenendo accesso ai dati personali (carte di credito, indirizzo di abitazione, numero di telefono ecc…) di circa 70 milioni di clienti sfruttando il sistema climatico del network aziendale. Ad essere violati non sono stati soltanto i dati dei clienti che hanno effettuato acquisti sul web ma anche quelli di chi si è recato esclusivamente nei negozi fisici della catena commerciale. Non è dunque indispensabile, sottolinea DeNardis, “essere su Internet” affinché la vita di un individuo possa dirsi in parte dipendente dalla rete. Maggiore è la diffusione delle tecnologie e meno queste si fanno visibili; più sono integrate nei sistemi materiali e meno necessitano di consensi espliciti.

L’integrazione di queste reti di sensori e attuatori nel mondo fisico ha reso la progettazione e la governance dell’infrastruttura cibernetica una delle questioni geopolitiche più significative del Ventunesimo secolo. Ha messo in discussione le nozioni di libertà e le strutture di potere della governance di Internet, e indebolito ancora di più la capacità degli Stati Uniti di affrontare sul piano politico queste strutture tecniche intrinsecamente transnazionali5.

DeNardis evidenzia le strutture di potere integrate nell’ambito infrastrutturale fisico-digitale insistendo sulla rilevanza che l’ibrido fisico-virtuale viene ad assumere a livello economico, sociale e politico. Facendo attenzione a non cadere nel “determinismo tecnologico”, l’autrice si dice convinta che la composizione dell’architettura tecnica sia anche composizione del potere. «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici son concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione»6. Per comprendere le politiche tecnologiche è indispensabile riconoscere tanto le realtà materiali ingegneristiche quanto le costruzioni sociali di queste.

Le leve del controllo della governance di Internet non si limitano affatto alle azioni dei governi tradizionali, ma includono anche: 1. le politiche inscritte nel design dell’architettura tecnica; 2. la privatizzazione della governance, com’è il caso delle politiche pubbliche messe in atto tramite moderazione dei contenuti, termini di servizio sulla privacy; modelli di business e struttura tecnologica; 3. il ruolo delle nove istituzioni globali multi-stakeholder nel coordinare le risorse critiche di Internet oltre confine; e qualche volta 4. l’azione collettiva dei cittadini. Per esempio, la progettazione degli standard tecnici è una faccenda politica. Sono i modelli, o le specifiche, che permettono l’interoperabilità tra prodotti creati da aziende differenti. […] Se i punti di controllo dell’infrastruttura distribuita danno forma, vincolano e abilitano il flusso delle comunicazioni (email, social media, messaggi) e dei contenuti (per esempio, Twitter, Netflix, Reddit), l’infrastruttura connessa con il mondo fisico (corpi, oggetti, dispositivi medici, sistemi di controllo industriale) è in grado di sortire effetti politici ed economici molto superiori7.

Nel rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso il web possa comportare un miglioramento della vita umana viene però spesso omesso come tali miglioramenti si riferiscano ai tempi e ai fini imposti agli individui dalla “società della prestazione”8 che, nella sua finalità disciplinare si preoccupa di «Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile9. Scrive a tal proposito Salvo Vaccaro:

Alle istituzioni disciplinari con i suoi innumerevoli regolamenti minuziosi e dettagliati, tipici di un apparato amministrativo in via di burocratizzazione e centralizzazione statale nel XVIII e XIX secolo, oggi le nuove tecnologie mediatiche consentono una verticalità abissale della potenza regolativa in grado di controllare persone e cose – basti pensare all’Internet of Things e alla regolazione remota della connessione di funzionamento reciproco umano-macchina specifico alla domotica. Come sempre in ottica foucaultiana, tale potere non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife. Una vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato […] e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia. La mercatizzazione della società in via di digitalizzazione automatizza la gestione manageriale degli individui sia come corpi fisici che come corpi virtuali, assegnando loro funzioni, standard, obiettivi, distribuendo loro incentivi e disincentivi, integrandoli o espellendoli secondo necessità, su scala mondiale, come ci insegnano i processi di delocalizzazione repentina. Questa nuova biopolitica digitale configura inediti assetti di potere ridisegnando le relazioni che ne tessono la trama e ne delineano forme plastiche, fluide, mobili, e tendenze dinamiche, vorticose, al limite caotiche. La velocità di evoluzione e trasformazione repentine delle innovazioni tecnologiche ne sono l’emblema, la cifra, sarebbe proprio il caso di dire, che si tratta di individuare al fine di cogliere il terreno su cui attualmente ci muoviamo, di intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere che la nuova tecnologia politica scatena, infine di sperimentare inedite forme di conflitto all’altezza con il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite10.

Al di là dell’auto-propaganda degli artefici della manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet, è impossibile non vedervi una potente forma di controllo, una «forma di manipolazione che può essere talmente prossima al corpo umano da arrivare fin dentro esso e tanto lontana quando lo sono dei sistemi di controllo industriale dall’altra parte de mondo»11.

DeNardis pone l’accento su come la capacità di influenza tra digitale e mondo fisico si dia in entrambe le direzioni: se è ovviamene possibile manipolare il mondo fisco connesso attraverso la rete, altrettanto, agendo sulla realtà fisica collegata a Internet è possibile agire sulla realtà digitale. L’autrice si sofferma sulla questione della governance in un tale contesto a proposito di privacy, sicurezza e interoperabilità. In ambito di privacy vengono, ad esempio, analizzati non solo quegli ambiti – industriali, abitativi, sociali e persino relativi al corpo umano – un tempo nettamente sperati dalla sfera digitale, ma anche gli aspetti discriminatori, come nel caso del ricorso ai dati accumulati online ai fini lavorativi, assicurativi e polizieschi.

Nel volume viene evidenziata «la dissonanza cognitiva tra come la tecnologia si stia rapidamente spostando nel mondo fisico e come le concezioni di libertà e governance globale siano invece ancora legate al mondo della governance e della comunicazione»12. A lungo si è insistito sul ruolo dell’autonomia umana e dei diritti digitali nel contesto della web pensandolo come «una sfera pubblica online per la comunicazione e l’accesso alla conoscenza. L’obiettivo delle società democratiche è stato preservare “una rete aperta e libera”: un concetto acritico che è diventato più che altro un’ideale feticizzato»13. La questione della “libertà di Internet” ha certamente un suo sviluppo storico ma ha sempre teso a concentrarsi sulla libera trasmissione dei contenuti sottostimando tanto la questione dei diritti umani alla luce del contesto cyberfisico quanto il controllo dell’informazione esercitato non solo da parte del potere autoritario ma anche del settore privato14.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Dal Lago Alessandro, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Vaccaro Salvo, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Su Carmilla – Serie completa: Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021, p. 17. 

  2. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla

  3. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., pp. 23-24. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, pp. 32-33. 

  6. Ivi, p. 32. 

  7. Ivi, pp. 33-34. 

  8. Cfr.: Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012; Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  9. Michel Foucault, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998, p. 162. 

  10. Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020, pp. 141-143. Su Carmilla

  11. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., p. 35. 

  12. Ivi, p. 38. 

  13. Ibidem. 

  14. Cfr.: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017; Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

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Illusioni partecipative. Il populismo della/nella rete nell’era della post-verità https://www.carmillaonline.com/2017/09/24/illusioni-partecipative-populismo-dellanella-rete-nellera-della-post-verita/ Sat, 23 Sep 2017 22:02:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40564 di Gioacchino Toni

«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74)

«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11)

Dalla grave crisi economica e sociale contemporanea sono scaturite paure collettive e incertezze di cui hanno approfittato leader politici populisti e ciò avviene in un contesto caratterizzato dall’importanza assunta dalla comunicazione digitale nell’informazione e nella narrazione politica che, non di rado, non lesina di ricorrere a false notizie. Tali questioni sono al centro delle analisi di due saggi usciti recentemente: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Raffaello Cortina Editore, 2017) e Giuseppe A. Veltri – Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, (Mimesis, 2017).

Pur restando in Italia la televisione il principale strumento di informazione e intrattenimento, conviene riportare qualche dato per farsi un’idea della diffusione della comunicazione digitale in rete, tenendo presente che tra i più giovani quest’ultimo strumento è comunque già prioritario. «Secondo l’ultimo rapporto Censis-Ucsi [2016] sulla comunicazione, il 73,7% degli italiani sono sul web, con punte del 95,9% per quel che riguarda gli under 30 […] Facebook viene utilizzato dal 56,2% degli italiani, raggiungendo un’utenza dell’89,4% tra gli under 30. Nel mondo sono iscritti a Facebook 1 miliardo e 650 milioni di persone. A connettersi ogni giorno più di un miliardo, con 45 miliardi di messaggi scambiati nelle 24 ore. Youtube ha circa un miliardo di utenti, Instagram ne ha 500 milioni e Twitter 300 milioni» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 9). Tali dati suggeriscono le potenzialità dalla rete nei processi di orientamento dell’opinione pubblica contemporanea, soprattutto della sua componente più giovane. Le posizioni politiche populiste non solo hanno saputo sfruttare gli ambienti digitali, soprattutto i social media, ma, come vedremo, i populismi sembrano essere, almeno in parte, il risultato della logica prevalente prodotta da tali ambienti.

 

Il populismo della/nella rete…

Il volume di Dal Lago si concentra su quello che egli definisce “populismo digitale”: populismo in quanto i leader pretendono di agire in base al mandato diretto del popolo e digitale perché la relazione leader-popolo viene a darsi soprattutto nella rete. L’analisi prende il via dalla constatazione di come, da qualche tempo, il ricambio di leader politici sia rapidissimo e l’ipotesi avanzata dall’autore è che «l’imprevedibilità elettorale dipenda dal prevalere della politica digitale su quella reale» (p. 11). Visto che buona parte delle scelte della vita pubblica sembra essere ormai elaborata proprio nella rete, il prevalere della politica virtuale su quella reale avrebbe trasformato l’opinione pubblica in opinione digitale.

Esiste evidentemente un legame tra il declino dell’informazione tradizionale e l’ascesa della rete ma, sottolinea il sociologo, Internet non dovrebbe essere pensato come sostituto dei media nati precedentemente ma, piuttosto, come sistema d’integrazione di vari media, dunque di vari tipi di messaggio. Prima dell’era della rete erano soprattutto i giornali e la televisione generalista, con la loro capacità di definizione della situazione politica, ad influenzare l’opinione e pilotare il consenso. Tali media tradizionali avevano un ruolo importante nel determinare le crisi politiche e nell’orientare i cittadini-spettatori che, di tanto in tanto, venivano chiamati a partecipare esercitando la loro azione sul terreno politico attraverso il voto.

Non sono certo mancate stagioni in cui i cittadini hanno saputo forzare la scena politica prendendo direttamente la parola e imponendo l’agenda e l’indirizzo della politica al di fuori della delega elettorale; si pensi alla conflittualità che ha caratterizzato l’Italia deli anni ’60-’70, periodo in cui la classe operaia ha dato prova di autonomia decisionale e politica dotandosi anche di propri strumenti comunicativi. Tuttavia, è indubbio il ruolo di primo piano svolto dai mezzi di comunicazione di massa generalisti nell’orientare l’opinione pubblica.

Con l’affermazione di internet, sostiene Dal Lago, i media tradizionali hanno diminuito la loro capacità d’indirizzare i cittadini che, rendendosi relativamente più indipendenti da essi, hanno intravisto la possibilità di agire direttamente sul sistema politico proprio attraverso Internet. Gli apologeti delle potenzialità partecipative offerte dalla rete insistono solitamente nell’indicare come essa offra una pluralità di fonti informative senza precedenti, come gli utenti possano intervenire direttamente sulle questioni di pubblico interesse e sulla possibilità dei leader politici di comunicare direttamente con i cittadini-utenti bypassando la mediazione dei mezzi d’informazione tradizionali. Tali entusiasmi, però, evitano di fare i conti con il fatto che la rete non manca di svolgere un’attività di condizionamento; si pensi, ad esempio, alla non neutralità degli algoritmi utilizzati dai motori di ricerca o a come, attraverso la profilatura degli utenti, questi non solo sono indirizzati al consumo, ma finiscono per diventare merce essi stessi. Insomma, nonostante la libertà che si gode sulla rete sia assai minore di quella che molti credono, il web produce una notevole illusione di indipendenza.

Il nuovo tipo di rapporto strutturato dalla rete tra leader e pubblico digitale viene definto da Dal Lago «double bind politico-comunicativo». Con double bind si intende, nell’ambito comunicativo, «il sovrapporsi di due ingiunzioni contraddittorie rivolte a un soggetto in condizione subordinata (one-down) da parte di un’istanza superordinata (one-up)» (p. 19). Un caso di double bind politico è, ad esempio, “Ti ordino di essere libero”. Il double bind risulta efficace anche nel controllo delle procedure politiche che formalmente si presentano come democratiche. «Finora il tentativo più interessante e in parte riuscito di trasformare il double bind comunicativo (o illusione di essere liberi in rete) in double bind politico (ovvero l’illusione di decidere in rete) si deve senz’altro all’italiano Gianroberto Casaleggio (1954-2016) e alla sua pseudo-utopia di una democrazia esclusivamente digitale» (pp. 18-19).

Se è bene ribadire che una delle cause principali dell’ascesa dei populismi, e della più generale deriva di destra, è da ricercarsi nell’incapacità delle sinistre di fare i conti con i processi di globalizzazione, è altrettanto vero che internet sembra offrire ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale.

I leader carismatici contemporanei tendono a prescindere dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità e dall’indifferenziabilità dei partiti tradizionali. «Inevitabilmente, questi leader neo-carismatici tenderanno a rafforzare i rapporti con il loro pubblico e quindi a perseguire politiche neo-nazionalistiche, protezionistiche in economia e ostili agli stranieri. Visto in questa prospettiva il populismo digitale è dilagante [e] capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo. Qui si manifesta un paradosso evidente. La digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti decisivi della globalizzazione, ma ora sembra che stia provocando un vero e proprio rigetto anti-globalizzazione» (p. 22).

Dopo essersi dedicato, nel primo capitolo, all’analisi delle categorie di popolo e populismo, nel secondo Dal Lago indaga l’affermarsi dell’illusione partecipativa grazie alla rete. La sensazione trasmessa agli utenti dal web è quella di abitare quello stesso mondo che si presenta loro sui monitor dei dispositivi digitali. L’autore si sofferma su come la velocità di trasmissione dell’informazione digitale possa incidere sulla realtà esterna al web, tanto che il capitolo è emblematicamente intitolato “La realtà come costruzione virale”. Secondo lo studioso si può parlare oggi di realtà virale «ogni qual volta la dimensione spazio-temporale della rete irrompe nella vita sociale» (p. 63).

La percezione di autenticità e democraticità trasmessa dal web, tende a trasformare qualsiasi notizia in notizia vera almeno finché non viene provato il contrario, ammesso che quando ciò avviene interessi ancora. «Nello spazio-tempo di Internet, una notizia, per il solo fatto di circolare, corrisponde a un fatto reale […] Una notizia può essere attivata da qualsiasi fonte, naturale, scritta, visiva o digitale: nel momento in cui entra nei meccanismi della diffusione della rete, può diventare virale e quindi vera, anche se non ha alcun fondamento reale» (p. 64). Si pensi, ad esempio, a come lo staff di Donald Trump ha lavorato sulla falsa notizia che voleva Barack Obama nato in Kenia, dunque non candidabile alla Casa Bianca. A Trump è bastato dichiarare via Twitter nel 2012 di avere ricevuto notizia della falsità del certificato di nascita di Obama da una non meglio precisata “fonte estremamente credibile”, per potersi permettere di ignorare le smentite documentate praticamente fino alla propria elezione, quando ormai la verità circa la candidabilità del rivale risultava del tutto ininfluente in termini elettorali.

Dal Lago sostiene che la versione Internet dei movimenti tradizionalmente sociali della vita pubblica si presenta non come comunità di individui in carne ed ossa ma come utenti della rete e ciò li rende paradossalmente simili e omogenei a prescindere dalle differenze ideologiche, geografiche e di genere. All’esperienza diretta si sostituirebbe «lo scambio di informazioni mediato, sullo schermo del computer, dalla scrittura, dalle immagini e da entrambi» (p. 69). In tale dimensione, continua lo studioso, non si appare come individui dotati di faccia ma come icone di se stessi.

Nell’invadere la sfera pubblica, la digitalizzazione la trasforma assorbendola nella rete e nel delegare le esperienze sociali alla rete si determina un’espansione della sfera privata a spese di quella pubblica. L’individuo in carne e ossa tende a delegare all’informatica la soddisfazione di bisogni reali perdendo la relazione sociale a favore di quella virtuale. Sarebbe dunque così che, secondo l’autore, la sfera politica viene assorbita all’interno di quella digitale e «i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (pp. 73-74).

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene Dal Lago, è la tangenzialità: raramente gli interlocutori entrano nel merito di ciò che commentano, solitamente si limitano a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale. Dunque si tratterebbe di un tipo di dibattito in cui si interviene senza argomentare. Molte discussioni, inoltre, non sono affrontate da una comunità duratura, per quanto virtuale, ma risultano del tutto occasionali. «È vero che su Facebook ci si può iscrivere a gruppi di discussione più o meno stabili e che spesso i commentatori degli articoli online sono sempre gli stessi, ma si tratta, appunto, della partecipazione a ritornelli o a cori, non della creazione di relazioni stabili» (pp. 80-81).

L’interattività offerta dalla rete finisce frequentemente col rafforzare la conflittualità all’interno di essa; «i ritornelli identitari e oppositivi lasciano spazio, dopo alcune decine di commenti e scambi, a iperboli negative e insulti» (p. 81). Da tali conflittualità in rete deriva una «cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale (evidente in personaggi come Trump e Grillo), la diffusione di pseudo-notizie e così via» (p. 84). I populisti contemporanei trovano dunque in Internet un valido alleato visto che «corrispondono perfettamente allo stile delle discussioni in rete. Ed ecco, perciò, come le inclinazioni degli utenti attivi di Internet incontrano quelle dei leader» (p. 91).

Nel terzo capitolo del saggio viene affrontata la diffusione del populismo digitale e il paradosso che vede proprio i politici digitali, i più attivi nel processo di virtualizzazione della politica, farsi paladini del localismo e dell’identitarismo. Dal Lago individua nei populismi contemporanei diverse analogie con il fenomeno peronista. In generale, i leader del populismo digitale tendono a far coincidere la propria persona con l’essenza della democrazia, a mostrare il proprio movimento come capace di superare la vecchia distinzione tra destra e sinistra, dunque, di fatto, a pescare delusi da entrambi gli schieramenti e a prospettare una società priva di conflitti, apolitica.

La rete si presenterebbe, dunque, come ambiente che unifica le politiche para-fasciste contemporanee rendendole comunicabili e comunicanti. Se i diversi leader attuassero ciò che propagandano potrebbero in diversi casi portare i rispettivi paesi in rotta di collisione l’uno con l’altro ma, sostiene Dal Lago, «tra tutti questi leader si sta affermando uno stile comune, circolano le stesse parole d’ordine, si sviluppa una sorta di simpatia politica globale. E qui c’è un paradosso. I para-fascisti odiano la globalizzazione, spingono tutto verso il nazionalismo più esasperato (“padroni a casa nostra!” è il loro slogan prediletto), ma si muovono tutti nello stesso ambiente virtuale» (pp. 116-117).

L’autore si mostra ben consapevole di come il fascismo digitale, pur sviluppandosi in ambiente virtuale, si nutra della crisi politica, economica, sociale e culturale ma, sostiene, «il punto è che virtuale e reale tendono a fondersi – o, meglio, il virtuale assorbe il reale e lo modella a suo piacimento. Poiché, in rete, le bufale più colossali sembrano verità per il solo fatto di essere pubblicate, non c’è da stupirsi che l’ondata para-fascista in questione se ne alimenti e le riproduca» (p. 117).

Il populismo digitale non è però riconducibile soltanto agli outsider che si presentano come sbucati dal nulla; lo si ritrova anche all’interno di partiti e movimenti tradizionali formalmente democratici. «Si tratta per il momento di correnti più o meno sotterranee, di un’evoluzione apparentemente pacifica e indolore della democrazia post-bellica, della creazione di formazioni politiche “unitarie”, consociative, non conflittuali» (p. 119). Qui l’autore fa riferimento al Partito della nazione di Matteo Renzi che, rimarcando l’abbandono della vecchia distinzione destra-sinistra, pretenderebbe di ottenere una maggioranza superiore al 51%, oppure, all’esperimento francese di Macron, presentato agli elettori come superamento delle vecchie divisioni ideologiche. In entrambi i casi citati si tratta di progetti politici che pretendono di combattere i populismi emergenti con le medesime armi. Insomma, tutti questi politici populisti, tali più o meno a loro insaputa, un po’ come Peron, sostiene Dal Lago, sognano una nazione pacificata, apolitica, sotto il comando di un uomo solo carismatico. All’ascesa del MoVimento 5 Stelle viene dedicato il quarto, ed ultimo, capitolo, dal titolo “Il fascismo travestito da democrazia diretta”.

 

… nell’era della post-verità

In Fuori dalla bolla Giuseppe A. Veltri e Giuseppe Di Caterino indagano le dinamiche che sono alla base del formarsi delle opinioni e delle decisioni degli individui in un contesto contemporaneo caratterizzato da un’epocale trasformazione tecnologico-comunicativa. Nel volume ci si rifà alla definizione di populismo data da Jan-Werner Müller che lo definisce come «una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. Gli attori politici non dediti a questa causa semplicemente non sono populisti. Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico. In altre parole non ci può essere populismo senza qualcuno che parli a nome del popolo nel suo insieme […] è questa la rivendicazione di fondo del populismo solo una parte del popolo è davvero il popolo […] ciò che distingue i democratici dai populisti è che i primi formulano le pretese di rappresentanza quasi come ipotesi che possono essere empiricamente confutate sulla base dei risultati effettivi di procedure e istituzioni regolari quali le elezioni […] i populisti al contrario, persistono con la loro pretesa di rappresentanza a qualunque costo perché essa è di natura morale o simbolica, non empirica, dunque non può essere confutata» (Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, 2017).

Alla vecchia idea che in economia, ma non solo, le decisioni prese dagli individui derivino da procedimenti sostanzialmente razionali, negli ultimi decenni si è affiancato il convincimento che vuole una parte delle decisioni derivare da forme prevedibili di irrazionalità. Secondo diversi studiosi gli individui prenderebbero decisioni soprattutto sulla base «di quello che gli psicologi chiamano “Sistema 1” o del pensiero veloce, che utilizza scorciatoie mentali ed è condizionabile dalle emozioni, anziché fare ricorso al “Sistema 2” o del pensiero lento» (p. 19). Gli individui si trovano in sostanza ad alternare decisioni ponderate, proprie del “pensiero lento”, in cui, ricorrendo a regole logiche, prendono in esame tutte le informazioni disponibili, a decisioni prese in modalità rapida, selezionando soltanto alcune di queste informazioni. È indagando tali modalità decisionali dell’individuo che Daniel Kahneman e Amos Tversky, approfondendo il comportamento economico individuale, ottengono il Nobel per l’economia del 2002 ma, più in generale, sostengono Veltri e Di Caterino, sono gli stessi governi a ricorrere sempre più spesso alla teoria dei due Sistemi per rendere le politiche pubbliche più efficaci.

Ad essere preso in esame dai due autori è anche il legame esistente tra le credenze di un individuo e la sua identità, una componente non irrilevante della quale è definita dall’ambiente sociale e, soprattutto, dai gruppi sociali a cui è legato, la cosiddetta identità sociale. I membri di ogni gruppo sociale hanno una base di credenze comuni che pare vengano elaborate in una parte del cervello diversa da quella utilizzata per il ragionamento razionale. «La conseguenza è che tali credenze sono molto resistenti alla logica o alle evidenze empiriche perché metterle in discussione vuol dire danneggiare la nostra appartenenza al gruppo sociale a cui apparteniamo, mettendo a rischio i benefici sociali che ne riceviamo» (p. 26). L’individuo tenderebbe dunque a prendere posizione in modo da assecondare la sua partecipazione alla rete sociale a cui appartiene e, nell’età contemporanea, occorre fare i conti, soprattutto per i più giovani, anche con la partecipazione ai social network.

I media tradizionali, per il loro essere gerarchici e unidirezionali, necessitano della fiducia dei fruitori e di una realtà sociale il più possibile omogenea. Aumentando la frammentazione sociale e venendo meno un nucleo omogeneo rilevante, diventa difficile per tale tipo di media rispondere a interessi e necessità a loro volta frammentate e differenziate. «Nella network society, il fabbisogno comunicativo viene soddisfatto dalla partecipazione di quelli che erano una volta gli utenti attraverso Internet, prima nella sua incarnazione 1.0 e successivamente in modo ancora maggiore attraverso le piattaforme del social web o Web 2.0» (p. 34). L’informazione via social media sembrerebbe risultare più attraente rispetto a quella dei media tradizionali perché i social media risultano meglio in grado di catturare la complessità ed appaiono più credibili rispetto ai media istituzionali in quanto composti da parigrado. Inoltre, nel suo complesso la rete viene percepita in grado di rappresentare equamente la pluralità dei punti di vista. Si tratta, evidentemente di una visione della rete idillica che non trova riscontro nella realtà dei fatti. «L’autenticità della comunicazione online è spesso basata sull’illusione di una similitudine con le forme di interazione offline: il fatto di poter interagire con individui specifici dà l’impressione di conoscere con chi si parla. Tuttavia, il problema principale delle aspettative sulla comunicazione in Rete dipende da una errata nozione di senso comune di rappresentatività delle opinioni. Visto che le varie voci presenti sui social network sono considerate come rappresentazioni genuine delle comunità da cui provengono, in contrasto con il contenuto prodotto dai media tradizionali, le si considera come rappresentative delle opinioni di una intera comunità, o quantomeno della loro somma. Questo vuol dire che una bassa fiducia in qualche singolo individuo non intacca la fiducia nel collettivo, perché ogni membro della comunità online viene considerato come indipendente e quindi non condizionato dai singoli non credibili» (p. 35).

Occorre, inoltre, tener presente che la percentuale di utenti attivi in rete nel produrre contenuto è molto bassa rispetto agli utenti fruitori e ciò significa che questi utenti attivi non sono assolutamente rappresentativi della comunità di cui fanno parte e che la comunicazione in Internet tende ad avvenire tra membri di una comunità tendenzialmente omogenea e propensa ad autoconfermare le credenze che già la caratterizzano.

Diversi studi hanno dimostrato come gli individui, nel condividere contenuti nei social network, diano scarso valore alla loro veridicità ed accuratezza: «contenuti affidabili e inaffidabili hanno la stessa probabilità di essere condivisi su Facebook […] Allo stesso modo, la vita media di una storia scientifica e di una teoria complottista online sono estremamente simili […] e concentrate in un arco temporale molto breve, a indicare anche come in Rete vi sia una limitata capacità di attenzione. Questa limitata attenzione incide sul fatto che nessuno abbia il tempo di verificare l’accuratezza delle informazioni condivise mentre si fa affidamento su una valutazione basata su scorciatoie mentali» (pp. 39-41).

Se in generale la valutazione della veridicità dell’informazione dipende dalla credibilità della fonte di provenienza, nelle reti sociali si finisce per condividere informazioni senza alcuna verifica semplicemente perché si ritiene che lo abbia fatto qualcuno degli altri appartenenti alla rete sociale di cui si è parte. Più la fonte di informazione è ritenuta “vicina”, maggiore è la credibilità che si è disposti a concederle. «Per questa ragione, tutti i principali attori tecnologici che operano nella Rete hanno investito per creare filtri in grado di articolare un flusso di informazioni rilevante per ciascuno. L’esempio principale è Google che nel 2009 ha introdotto la sua ‘personalised search’ […] In sostanza, l’uso del motore di ricerca di Google venne modificato per mostrare i risultati di una ricerca in base alla storia di navigazione web di ogni utente […] Negli anni recenti, Google ha ridimensionato questo effetto di filtro ma la tendenza generale non è cambiata: in tante piattaforme online, la personalizzazione delle informazioni è comunque presente […] ognuno si ritrova in una bolla in cui riceve solo informazioni che confermano ciò [in cui crede] Questa forma di algorithmic gatekeeping modifica il libero flusso di informazioni. Visto che un numero sempre maggiore di persone utilizza i social network per informarsi […], il timore riguardo gli effetti sociali di questi filtri appare giustificato. Per questa ragione si parla oggi di echo chambers, una metafora che sta a indicare il fatto che membri di una comunità online si possano trovare nella situazione in cui le proprie opinioni vengono rimbalzate, con conseguente effetto-rafforzamento» (pp. 42-43). Dunque, i contenuti che raggiungono l’individuo sulla rete sono in parte pre-selezionati ed il trovarsi all’interno di una bolla tendenzialmente rafforza il ricorso dell’individuo a quelle scorciatoie mentali a cui abbiamo fatto riferimento presentemente.

Una parte dell’analisi di Veltri e Di Caterino è dedicata al fenomeno della viralità di diffusione in rete di alcuni contenuti rispetto ad altri. Innanzitutto hanno maggiore possibilità di condivisione «contenuti di natura emotiva, umoristica e che ‘risuonano’ con interessi e aspetti salienti della vita di molte persone» (p. 47). In secondo luogo i processi virali sembrano dipendere «anche dal ruolo dei ‘network gatekeeper’, individui che sono in grado di diffondere informazioni a molti altri raggiungendo rapidamente una massa critica di condivisioni che innesca altre» (p. 47). Veltri e Di Caterino sottolineano come le possibilità di rendere virale un contenuto siano diseguali per i diversi appartenenti alle comunità di rete: su Twitter, ad esempio, si hanno pochi soggetti con milioni di followers e questi hanno sicuramente maggiori possibilità di rendere virali i loro contenuti rispetto ai milioni di utenti con un basso numero di followers. Tutto ciò non significa che non si possano dare eventi virali online generati dal basso, semplicemente mostra come non tutti abbiano le medesime possibilità di diffusione di materiali.

Sarebbe un errore pensare che l’influenza del web si eserciti soltanto sui suoi “destinatari diretti”; dalla rete attingono ampiamente anche gli operatori dell’informazione tradizionale. Innanzitutto il web è ormai individuato come luogo, al pari di altri, in cui accadono eventi che possono diventare notizie sui media tradizionali. Inoltre i giornalisti attingono dal web informazioni aggiuntive rispetto a quelle di cui sono in possesso (ad es. setacciando nei social network i profili degli individui di cui intendono parlare). Gli operatori dell’informazione tradizionale, poi, utilizzano la rete anche per captare gli umori dell’opinione pubblica senza dover affrontare inchieste sul campo. «In questo modo il clima respirato sul web si sedimenta nella mente degli operatori dell’informazione e degli opinion makers. Con la conseguenza che la websfera si trasforma in simulacro dell’opinione pubblica: quello che accade sulla Rete è equazione diretta di quello che pensano tutte le persone, è un segnale inequivocabile dei sentimenti che attraversano il Paese, delle sue domande, delle sue necessità. Un’equazione alimentata, e per questo rafforzata, anche dai politici per ragioni di propaganda politica o, perlomeno, nella speranza della profezia destinata ad autoavverarsi» (pp. 64-65).

Il web, sognato come strumento che, grazie alla sua supposta orizzontalità, poteva contribuire a migliorare la partecipazione democratica, sembra essersi tramutato in un luogo ove proliferano iniziative propagandistiche e di manipolazione dell’informazione. Ormai «la targettizzazione consentita attraverso i big data è di una tale precisione per cui si possono somministrare notizie diverse da individuo a individuo, con l’obiettivo di orientarne le decisioni elettorali. Inoltre perché nessuna autorità indipendente potrà mai controllare la dieta informativa che viene offerta a ogni singolo utente, e quindi la presenza o meno di fake-news» (p. 67).

Secondo Veltri e Di Caterino, in Italia, i primi a comprendere le possibilità della rete per orientare il consenso sono stati Grillo e Casaleggio. I due sono stati capaci di costruire, sull’onda dell’indignazione diffusa, «un’architettura di siti, in grado di presidiare differenti hub della rete, attraverso un meccanismo ben descritto da una recente indagine della testata BuzzFeed news [qua], che ha spiegato anche il peso delle false notizie in questa loro strategia […] Anche il leader leghista Salvini negli ultimi anni ha concentrato i suoi sforzi comunicativi sulla Rete, con una strategia diversa ma non dissimile da quella del M5S. Il ricorso alla fake-news appare limitato a quei temi che sono il cavallo di battaglia del posizionamento leghista, a cominciare da quello degli immigrati ospitati in strutture di lusso con tutti i comfort (e gli italiani, invece, lasciati soli ad affrontare le durezze della crisi economica)» (pp. 69-71). Nonostante la strategia del leader leghista appaia meno organizzata rispetto a quella del M5S, pare comunque essere di una certa efficacia. In generale Salvini tende ad utilizzate la propria pagina personale sul web per «veicolare l’immagine di persona semplice, simile nei comportamenti e nei gusti a tantissimi italiani, e quindi distante da un certo stereotipo del politico di sinistra inconcludente ed elitario» (p. 71).

La modalità con cui i politici populisti dei diversi paesi presenziano in rete è tutto sommato abbastanza simile. «Una modalità di straordinaria efficacia, che fa leva sulle emozioni, che rispetta tutti i principi dello storytelling e delle sue figure prototipiche, l’eroe e l’antieroe, i rispettivi aiutanti, l’oggetto di valore. Ma soprattutto una narrazione che attinge e alimenta bufale funzionali a conferire a tutto questo credibilità e verosimiglianza» (p. 71). In effetti le bufale si rivelano estremamente utili alle politiche populiste che fanno costantemente leva su una narrazione dell’antipolitica costruita sulla sfiducia nei confronti dei partiti e dei media tradizionali: «da un parte ci sono le élite, inconcludenti e disoneste che vivono in condizioni di privilegio; dall’altra ci sono le persone normali che non arrivano alla fine del mese; delle élite fa parte anche il sistema d’informazione che non vuole che i cittadini sappiano come stanno le cose; per questo ci fanno anche la morale, ma noi non dobbiamo più crederci, perché tutto quello che dicono è funzionale solo ai loro interessi, adesso è il momento di ribellarsi» (p. 72).

Soprattutto nella sua parte finale del saggio, Veltri e Di Caterino ragionano circa la possibilità di una cultura politica del web alternativa a quella populista a partire dalla convinzione che così «come l’avvento della Tv pubblica ha fornito un impulso decisivo alla costruzione del racconto sulla società di massa, come le Tv commerciali hanno permesso la legittimazione di nuove soggettività sociali che ben presto si sono tramutate anche in un’offerta politica, anche le nuove tecnologie sociali stanno svolgendo una funzione omologa; attorno alle grande trasformazioni mediatiche si possono leggere in controluce le fasi della vita repubblicana, le trasformazioni nel rapporto tra società e partiti, la nascita di nuove soggettività politiche, la trasformazione di vecchie. Le tecnologie sociali si sono inserite nella crisi dei soggetti e delle forme della rappresentanza tradizionale accelerandone la dinamica» (p. 12).

La rete ha reso obsolete le forme di intermediazione esistenti nella politica tradizionale mettendo a contatto diretto, o almeno dandone l’illusione, politici e cittadini. I partiti di sinistra, sostengono gli autori, sembrano restare ancorati all’idea di matrice francofortese che percepisce l’opinione pubblica totalmente acritica e passiva in balia della manipolazione esercitata dai media, soprattutto la televisione. Tale convincimento, continuano Veltri e Di Caterino, ha comportato un atteggiamento della sinistra nei confronti della televisione di tipo contenitivoregolatore e tale idea pare essere stata mantenuta anche nei confronti dei social network. Il rischio di tale approccio normativo, sostengono i due studiosi, è quello di non prendere in considerazione il fatto che «i media non sono (solo) strumenti, ma luoghi in cui vive la contemporaneità e maggiormente aleggia lo spirito del tempo» (p. 13).

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

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Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

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Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico https://www.carmillaonline.com/2016/07/22/31544/ Fri, 22 Jul 2016 21:30:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31544 di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come [...]]]> di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.

Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).

Nel Primo capitolo il writing contemporaneo viene collocato all’interno di una lunga tradizione di scrittura ed arte murale. Se la prima è un tipo di espressione che risale ad antiche culture, come quella egizia, le forme di rappresentazione parietale si trovano già nel Paleolitico superiore. Gli autori non intendono proporre improbabili paragoni tra le pitture rupestri preistoriche e le forme contemporanee, ma sottolineare come il gesto di quei lontani antenati costituisca una sorta di universale antropologico. Nelle decorazioni rupestri, in un ambiente collettivo, viene rappresentato il mondo nei suoi aspetti considerati significativi; attraverso quelle pratiche il mondo viene dunque condiviso. Da quando, attorno al XV secolo, l’arte inizia ad essere intesa come espressione individuale, si è via via persa l’idea «dell’attività artistica come opera collettiva, nel doppio senso di qualcosa creato in comune e rivolto a un uso collettivo» (p. 47). Secondo Dal Lago e Giordano, al di là di improbabili altri paragoni, come detto, il writing contemporaneo ha in comune con il graffito rupestre l’idea di dar vita ad una forma di comunicazione pubblica.

Il saggio si sofferma anche sul muralismo messicano che, riprendendo la tradizione figurativa preispanica, palesa forti intenti pedagogici. Tale movimento presenta diverse contraddizioni a proposito del rapporto arte/potere, tanto che dal ruolo sovversivo rivestito nella prima fase della rivoluzione, passa ben presto ad avere un mero ruolo celebrativo una volta che le istituzioni rivoluzionarie si sono stabilizzate. Gli autori mettono in luce come l’ambiguità dei muralisti messicani derivi anche dall’adesione ad un’ideologia progressiva positivistica e questo è proprio uno dei motivi per cui tali artisti esercitano una certa attrazione anche nel capitalismo statunitense. A tal proposito gli autori ricordano come lo stesso Diego Rivera, nel 1931, venga chiamato dall’industriale Ford per illustrare il Detroit Insitute of Art con l’opera Detroit Industry or the Man and the Machine. «L’ambiguità si rivela nella celebrazione del matrimonio tra uomini e macchine proprio nel momento in cui la società americana era attraversata da aspri conflitti tra operai e industriali (si dice che tra i lavoratori che protestavano ci fossero anche i malpagati assistenti di Rivera)» (p. 53).

DECORO URBANO

DECORO URBANO

Nel volume viene ricordato anche come agli albori della pubblicità di massa, le scritte tracciate con la vernice sui muri vengano preferite ai manifesti cartacei, tanto che su diversi edifici statunitensi ed europei risultano ancora visibili le tracce sbiadite di vecchi messaggi commerciali. Ancora oggi nell’Africa, soprattutto sub-shariana, le pubblicità sono spesso dipinte direttamente sulle pareti. Alle pitture murali ha fatto ricorso anche il regime fascista al fine di riportarvi i motti mussoliniani o l’effige stessa del dittatore. Dunque, fino ad epoca recente, “scrivere sui muri” è stato un sistema di comunicazione diffuso e legittimo. In Occidente, le cose sembrano cambiare negli Stati Uniti dei primi anni Settanta, quando nei ghetti arfoamericani e latinos i graffiti murali iniziano ad essere utilizzati come reazione alle discriminazioni delle minoranze ed all’omologazione dello spazio urbano.

Secondo gli autori del saggio, al di là dei significati originari, il writing rappresenta «un impulso a lasciare il proprio segno sul palcoscenico urbano» (p. 34). I muri finiscono con l’ospitare «i punti di vista di mondi privi di accesso legittimo alla parola in pubblico» (p. 34). Dunque la prima e “pericolosa” novità introdotta dal fenomeno del writing degli anni Settanta, non è tanto il comunicare sui muri urbani, ma il fatto che a farlo non siano più soltanto gli apparati di propaganda commerciale e politico-statale. Si tratta in primo luogo di una “presa di parola” da parte dei ceti meno abbienti: «tracciare i segni sui muri significa […] contrapporsi all’immagine della povertà, dell’emarginazione e dell’ingiustizia sociale che la società ufficiale o legale produce in nome dell’ordine pubblico» (p. 35). Oggi le cose sono ovviamente cambiate ed a ricorrere a comunicazioni murali non sono soltanto gli ambienti marginali ed antagonisti; i muri oggi sembrano rappresentare spazi fisici in cui l’irrequietezza esistenziale e politica si può manifestare liberamente e ciò non è per forza prerogativa dell’antagonismo sociale.

Nel saggio viene sottolineato come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche da un senso di impotenza nei confronti di una scelta che altri, nottetempo, hanno fatto per tutti. Il cittadino che si ritrova le mura del palazzo “esteticamente modificate”, non ha avuto voce in capitolo. Tale frustrazione si scarica facilmente sui writer ma, a ben guardare, suggeriscono gli autori del testo, il cittadino è impotente anche di fronte alle modificazioni estetiche della città, siano esse temporanee o permanenti, imposte dalle politiche urbane comunali e dal mondo del commercio. Gli spazi urbani in cui i cittadini si trovano a vivere costituiscono pertanto «l’arena dei conflitti (di interessi e visioni del mondo) che si esprimono anche nelle dimensioni semiotiche ed estetiche. Ciò che gli abitanti vedono intorno a loro è, a seconda dei punti di vista, una scena collettiva squallida o invitante, degradata o scintillante, rilassante o inquietante, piacevole per alcuni, sgradevole per altri…. In ogni caso, è il risultato dell’azione di poteri e interessi spesso invisibili, a cui nessuno pensa quando passeggia per le strade e giudica ciò che lo circonda» (pp. 41-42). Dal Lago e Giordano individuano nei graffiti contemporanei l’indicazione di un punto di vista altro, diverso, rispetto ad una scena urbana che intende proporsi/imporsi come necessaria/obbligatoria ma che in realtà è contingente, derivata da un’evoluzione storica che avrebbe potuto dirigersi verso tante altre direzioni.

Nel Secondo capitolo viene passata in rassegna l’evoluzione del writing e le sue connessioni con l’arte contemporanea. Questa sezione del volume prende il via con l’articolo comparso nel luglio del 1971 sul “New York Times” ove viene riportata la fotografia di una porta della 183a strada ricoperta da sigle. Tale pubblicazione rappresenta per certi versi un momento significativo per il writing perché apre un discorso pubblico su di esso.

È soprattutto nell’ambito della cultura Hip Hop che «le tag, che nascono come sigle o firme e quindi come un tipo di scrittura, diventano vere e proprie forme artisticamente autonome, composizioni complesse, progettate e poi realizzate (pieces). Le lettere si dilatano nello spazio, si riempiono di colore creando immagini di grandi dimensioni (masterpieces). I caratteri (blockletters) si gonfiano (bubble style), oppure acquistano una dimensione in più (3d style) e, infine, perdono la loro funzione, diventando forme volutamente illeggibili (wild style)» (pp. 78-79). La risposta delle istituzioni newyorkesi non tarda ad arrivare; all’epoca del sindaco John Lindsay sono ben 1500 i writer arrestati. Lo stesso mondo dei graffiti si rinnova; la bomboletta spray sostituisce il pennello e s’impone il lavoro di gruppo, dunque le stesse tag non di rado si trasformano da firma individuale ad espressione dell’intera crew.

La stagione d’oro della Street art coincide con gli anni Ottanta, quando il «graffitismo si emancipa come linguaggio autonomo e l’attenzione si sposta dal gesto in sé al risultato» (p. 82) e ciò, sottolineano gli autori del saggio, attira l’attenzione del mondo dell’arte ufficiale provocando così l’apertura di un fronte interno al mondo dei writer che vede contrapporsi “puri” e “venduti”. «Dal momento in cui l’idea di Street art ha libera circolazione all’interno dei confini dell’arte riconosciuta, diviene oggetto di un discorso fondamentale per confezionare gli oggetti artistici. Un discorso a cui i graffitisti “perbene” aderiscono pienamente. Spesso, le dichiarazioni di guerra al sistema dell’arte e al suo mercato da parte loro sono in netta contraddizione con fruttuose frequentazioni di galleristi e collezionisti. Una contraddizione che non disturba affatto questi ultimi che, al contrario, si industriano per trovare formule spericolate, capaci di conciliare la natura anarchica della Street art con il suo sfruttamento commerciale» (p. 84).

Al fine di consentire ai graffiti di entrare a far parte del circuito artistico ufficiale, occorre togliere loro l’etichetta criminale e così gli “addetti alla trasformazione” si appellano all’idea che i graffitisti sono criminali per necessità (mancanza di spazi su cui lavorare) e non per scelta. A questo punto, sostengono gli autori, i writer indipendenti che non si concedono, o che tentano di resistere per quanto è loro possibile – visto che il sistema-arte non manca di speculare su produzioni indipendenti anche senza il consenso degli autori -, sanno benissimo che la Street art è divenuta una moda tra le altre all’interno del circuito ufficiale. «Sanno anche che il loro lavoro anonimo potrebbe essere fotografato e inserito in un catalogo, con tanto di prefazione di un critico alla moda: un’eventualità a cui non possono opporsi, ma della quale non intendono approfittare» (p. 87). Altri writer accettano di entrare a far parte del mercato dell’arte e non mancano di estendere l’ambito d’azione commerciale a sneakers, cappellini, t-shirt e felpe dei grandi marchi. In un modo o nell’altro il luccicante e remunerativo mondo dell’arte (e del commercio più in generale) ha modificato le regole del gioco e nulla può più essere come prima.

DECORO URBANO

DECORO URBANO

«I writer, quando sposano il mercato, portano in dote l’aura di trasgressione della loro vita precedente, ma non basta. Sono necessarie le giuste parole dei critici per trasformare in arte ciò che fino a qualche anno prima era deliberatamente fuori dal sistema […] Occorre rompere con il passato, mantenendo vivo quanto basta il mito degli anni ruggenti, ridotto a una scena di sfondo. Occorre soprattutto inventare qualcosa di nuovo per garantire la bontà del prodotto, dimostrando che non tutti i graffiti sono arte. Ciò significa mettere ordine in un repertorio sterminato e, come sempre accade, stabilire criteri estetici, canoni tecnici, limiti e regole» (pp. 90-91).

La questione dei canoni estetici che creano gerarchie ed indicano cosa è arte e cosa non lo è, risulta centrale nel discorso di Dal Lago e Giordano. Gli autori citano esempi di writer “convertiti al mercato” che imputano l’ostilità dei cittadini nei confronti dei lavori di tanti “colleghi” alle loro scarse capacità professionali. Chi ha scelto di “contaminarsi col mercato” è costretto, come abbiamo visto, a mantenere i piedi su due staffe e nell’argomentare circa i difficili rapporti del writing con la cittadinanza, può giungere ad indicare nella mancanza di abilità tecnica di tanti colleghi la principale causa di astio. Se tutti fossero “bravi” come coloro che il mercato ha saputo scegliere, verrebbero meno molti motivi di ostilità. «Riemerge il fantasma della tecnica, grande cavallo di battaglia di qualsiasi posizione reazionaria nell’arte» (p. 92), sostengono gli autori che, a tal proposito, portano alcuni esempi di motivazioni addotte dalle associazioni ostili al writing in cui si sostiene che i graffiti “non possono” essere considerati un fenomeno artistico o perché “l’arte è un’altra cosa” o perché, derivando da un’azione illegale, “non possono” essere considerati “arte”. Lo stesso Museo d’arte moderna di Bologna (Mambo) nel luglio del 2009 giunge a proporsi di “periziare” i murales in città al fine di evitare che, “malauguratamente”, vengano cancellate “opere d’arte” nel corso delle operazioni di ripristino del “decoro urbano” promosse dal Comune. Insomma, da più latitudini si avverte la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è.

Negli anni Novanta ormai il mondo dei writer è cambiato radicalmente rispetto alle origini del fenomeno; è cambiata la composizione sociale, ora molto meno connotata, sono mutate le tecniche di realizzazione e si è di fronte ad un contesto molto più globalizzato. Se in passato l’idea era quella di coprire la città, ora l’intervento tende piuttosto a scoprirla, svelarla e, spesso a deriderla. Negli ultimi tempi diversi writer hanno messo in campo notevoli abilità manageriali nella gestione della propria immagine, nel saggio viene fatto esplicitamente riferimento al caso forse più noto: «Banksy incarna perfettamente il modello dell’artista capace di fondere la sua arte e la sua capacità imprenditoriale in un’unica grande opera: se stesso» (p. 101). C’è chi ha voluto vedere analogie tra la figura di Banksy e quella di Andy Wharol. A tal proposito, nel saggio, viene evidenziato come mentre il primo si è più volte espresso con opere di esplicita contestazione nei confronti del sistema capitalistico e consumista, Wharol ne ha invece tessuto acriticamente le lodi. Resta il fatto che l’anonimo fustigatore della società dei consumi ha finito col generare un business impressionante attraverso le sue opere e le riproduzioni delle stesse. Lo stesso attacco del celebre writer ai brand delle grandi multinazionali è stato portato attraverso tecniche pubblicitarie che hanno contribuito a creare il “brand Banksy”.

Anche l’arte mainstream non ha mancato di fare i conti con il fenomeno del graffitismo ma, puntualizzano gli autori, «l’interesse degli artisti “ufficiali” nei confronti della strada è un’estensione del territorio della galleria e non una reale fuoriuscita dalla gabbia dorata in cui operano. Diciamo che l’arte ufficiale può solo citare quella di strada, può appropriarsene o trasformarla, ma non sarà mai la stessa cosa. Infatti non gode del privilegio della gratuità e del disinteresse, da cui in fondo deriva ogni innovazione nell’arte e nella vita» (p. 163).

Nel Terzo capitolo vengono analizzate le ragioni dell’ostilità nei confronti del writing. Come presupposto alle questioni che verranno affrontate, gli autori sottolineano come l’attività artistica, indipendentemente da cosa essa sia in origine, divenga socialmente tale solo nel momento in cui viene riconosciuta da chi dispone, storicamente, della legittimità per farlo. Sappiamo che tale soggetto, tale istituzione, viene ad avere diritto di vita e di morte circa il riconoscimento dell’artisticità o meno di un’opera ed in questo discorso non si tratta di accettare o mettere in discussione tale autorità, si tratta di prendere atto del ruolo che certe cariche hanno nell’ambito del conferimento di artisticità qui ed ora. Premesso ciò, Alessandro Dal Lago e Serena Giordano sottolineano come nelle motivazioni delle associazioni antigraffiti non ci si appella tanto al diritto decisionale degli abitanti circa gli interventi sulle superfici delle pareti di casa, ma piuttosto, spesso, si entra nel merito artistico dei graffiti sostenendo che questi non sono opere d’arte. Così facendo tali associazioni si inoltrano su un terreno scivoloso perché sappiamo come sia variabile il concetto d’arte nel tempo. Se i graffiti, o alcuni di essi, fossero ritenuti opera d’arte dalla maggioranza dei cittadini e/o dalle “autorità in materia”? In linea di principio, ricordano gli autori, qualsiasi graffito può “divenire” (essere indicato come) opera d’arte.

In alcuni casi gli abitanti del quartiere hanno difeso i graffiti (e gli autori) in quanto ritenuti una valorizzazione del contesto urbano e tutto ciò indipendentemente dal fatto che fossero stati realizzati illegalmente e che nessun critico d’arte od altra autorità in materia si fosse espresso a riguardo. La mera questione estetica risulta scivolosa, pertanto il fronte antigraffiti, non di rado, si sposta sul versante pedagogico indirizzando i potenziali vandali verso spazi consentiti, non rendendosi conto che una componente fondamentale del writing ha a che fare con il fascino dell’illegalità.

In conclusione, abbiamo visto come, ancora una volta, un fenomeno controculturale, di strada, finisca con l’essere in buona parte riassorbito da un sistema che non esita a ricavare profitto anche da chi lo contesta. Qualche writer si adegua, preferendo mettere a profitto le sue abilità creative a costo magari di trasformare quello che era stato un linguaggio di ribellione donato alla collettività in un testo vuoto che deve essere riempito da critici e dispensatori d’aura. Qualcun altro decide di resistere e di non farsi coinvolgere dal mercato, magari vendendo la propria forza lavoro altrimenti per campare. È una vecchia storia che ha attraversato – e sempre lo farà – le cosiddette sottoculture quando queste diventano appetibili al circuito economico; lo abbiamo visto nell’ambito musicale e nella gestione degli spazi sociali così come tante volte abbiamo assistito a contrapposizioni frontali tra più o meno “puri” contro più o meno “venduti”. Resta il fatto che i graffiti sono «sia un aspetto rilevante della convivenza urbana, sia l’occasione per i cittadini di esprimersi su un buon numero di questioni di interesse generale. In breve, hanno una grande capacità di aggregazione concettuale. Parlare sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (pp. 18-19).

 

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