Alessandro Cinquegrani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 2/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/15/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-2-2/ Thu, 15 Feb 2024 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81229 di Alessandro Cinquegrani

Un tema che ritorna spesso è il lavoro, soprattutto in chiave negativa come perdita del lavoro, o anche come attaccamento morboso e insensato a una macchina. È un tema classico, declinato da tanti autori anche in opere recenti. Però nella tua prosa non lo percepisco come un tema socialmente sensibile, ma piuttosto sempre come una questione privata. Sbaglio? O è una prospettiva che vuoi mantenere?

Penso che la tua analisi sia corretta. Il lavoro, fin da quando sono piccolo, ha sempre rivestito un ruolo importante per me. Io ho iniziato a lavorare praticamente da ragazzino e l’idea che c’era [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Un tema che ritorna spesso è il lavoro, soprattutto in chiave negativa come perdita del lavoro, o anche come attaccamento morboso e insensato a una macchina. È un tema classico, declinato da tanti autori anche in opere recenti. Però nella tua prosa non lo percepisco come un tema socialmente sensibile, ma piuttosto sempre come una questione privata. Sbaglio? O è una prospettiva che vuoi mantenere?

Penso che la tua analisi sia corretta. Il lavoro, fin da quando sono piccolo, ha sempre rivestito un ruolo importante per me. Io ho iniziato a lavorare praticamente da ragazzino e l’idea che c’era alla base era sempre quella del: non puoi non fare nulla. Diciamo che molti hanno ottimi ricordi delle estati di quando erano bambini, i miei si aggirano tutti attorno al lavoro perché l’estate era quel momento dell’anno in cui perdevo il contatto con i coetanei e mi infilavo in un mondo popolato da adulti. Però non lo dico con uno sfondo di vittimismo, era così per molti di noi, almeno all’epoca. C’era chi lavorava nei campi e veniva trattato come un adulto, c’era chi dava una mano nel negozio dei genitori, c’era che veniva mandato a fare l’apprendista in qualche bottega artigiana. Per questo motivo, per quel che mi riguarda, il lavoro è prima di tutto una questione personale. Non è che non veda l’esistenza di una questione sociale e non ne voglio nemmeno sminuire l’importanza, ma quella questione sociale si riverbera i milioni di questioni personali e nelle storie che racconto lo sfondo sociale si fa da parte per mostrare le persone che con il lavoro ci devono vivere, che devono nutrire i familiari, che devono vestire i figli.
Non so se manterrò sempre questa prospettiva, magari un giorno mi verrà voglia di affrontare la questione a un livello più alto, ma al momento non credo di averne gli strumenti più che altro perché la società in cui viviamo cambia a ritmi così vertiginosi che spesso mi rendo conto di non riuscire stare al passo.

“Racconto di Natale”

Eros e Thanatos: un grande tema archetipico, per lo più declinato sul fondo della festa. Mi viene in mente Eyes Wide Shut, dove pure questi temi vengono declinati sullo sfondo della festa e l’Eros resta soltanto alluso e inespresso come avviene nel tuo racconto. Ho notato però che quando affronti questi grandi temi che vanno al di là del tuo personaggio più tipico ricorri al doppio, come se avessi bisogno di una mediazione, come se non riuscissi a guardare direttamente queste cose ma delegassi un personaggio narrante a vedere e interagire con questi grandi archetipi. Succede qui e succede per Il vecchio in bicicletta, dove pure c’era un altro grande tema assoluto, per così dire, come l’utopia. Mentre sei molto diretto col tuo personaggio tipico, l’uomo solo e disprezzato dagli altri, qui sembra quasi ci sia un’esitazione dell’autore, il bisogno di guardare l’immagine riflessa piuttosto che la cosa in sé. Ti riconosci in questa lettura?

Credo di capire quello che dici. Io stesso mi sono reso conto che, almeno all’inizio, avevo bisogno di porre una certa distanza tra me e quello che scrivevo. Negli anni ho cercato di individuare il motivo di questo distanziamento ma mi sono reso conto che non ce n’era uno solo, che i motivi erano molteplici e che cambiavano mano a mano che cambiava il mio modo di scrivere. Inizialmente il distanziamento mi serviva per mascherare una certa mancanza di fiducia e l’insicurezza di chi muove i primi passi e non è convinto di riuscire a difendere la propria opera. Poi mi è servito per prendere confidenza con i temi che ciclicamente tornavano e che ora sento più miei. In un certo senso era come studia-re un manuale di meccanica prima di mettersi a smontare il motore. Nel racconto che hai appena letto il tema del doppio c’è ed è evidente, ma a mio modo di vedere l’ho utilizzato non come strumento di distanziamento ma come alter ego del protagonista. Nella mia visione di questo racconto è come se i due uomini siano in realtà una stessa persona. Se vogliamo, citando un vecchio film pop come “Sliding Doors” il protagonista è sempre lo stesso che però ha fatto due scelte diverse: Eros e Thanatos.
Durante tutto il racconto la domanda del protagonista che rimane sottointesa è: E se lo avessi fatto io? A me serviva, narrativamente parlando, che questa domanda fosse ben presente e che il lettore ricordasse il momento iniziale del racconto anche quando i toni si fanno più festosi.

Un altro punto che lega questo racconto a Il vecchio in bicicletta (e forse anche al Gatto morto) è il fatto che entrambi nascono da una immagine, direi da una visione. Mentre altri nascono da un personaggio o da una situazione. Sapresti ricostruire il processo creativo dei tuoi racconti? Capire da dove nascono?

Io non so come funzioni per gli scrittori di serie A, non so se abbiano un modus operandi sempre uguale a se stesso e se lo seguono pedissequamente. A me non capita. Mi piacerebbe avere un metodo unico, arrivare a possedere quello che a volte viene chiamato “mestiere”. Non è così.
Il più delle volte, te lo confermo, tutto parte da un’immagine. Qui sono partito dall’immagine di un uomo che stava camminando molto vicino all’orlo del binario e mi sono chiesto cosa sarebbe successo se… Anche ne “Il vecchio in bicicletta” è andata così. Mi piace partire da un’immagine per creare attorno a essa una storia compiuta, un’interpretazione di quell’immagine che coinvolga personaggi e trama.
Altre volte parto da una domanda, un classico What if?
Ma mi è anche capitato di avere avuto la necessità di buttare fuori qualcosa che avevo dentro, di elaborare uno stato d’animo, di dare una risposta personale a questioni più grandi di me.
Non so se quella che ti sto dando sia una risposta “professionale”, ma è la migliore che posso darti al momento.
In generale ti direi che i miei racconti nascono da un’esigenza che è quella di immaginare, di creare storie, di far vivere i personaggi. Questo è il fine ultimo. Il seme che porta a questo risultato ha probabilmente nature diverse e chissà, forse in futuro mi specializzerò in un metodo unico.

“Limonium Vulgare”

Scommetterei almeno un paio di centesimi sul fatto che questo racconto è stato scritto prima degli altri. La ragione è eminentemente tecnica. Ricordo bene il momento in cui la tua scrittura è cambiata. Ci conoscevamo da poco, era forse una decina di anni fa, e parlavamo molto di questi temi. A un certo punto hai capito, quasi come un’illuminazione che la scrittura letteraria è diversa dalla scrittura tradizionale, da quella imparata a scuola. Hai scoperto la velocità che – lo dice bene Simonetti – è la caratteristica principale della nostra letteratura. Per ottenere questa velocità, il modo più semplice e immediato è la frammentazione dei periodi. Si tratta di una tecnica anche molto criticata, ma credo che ci sia modo e modo di utilizzarla. Ho l’impressione che all’inizio ricorressi a questa tecnica in modo più rigoroso, mentre poi hai cominciato a utilizzarla in modo forse più personale poiché ne avevi assorbito la tecnica. Ecco, mi sembra che questo racconto appartenga al periodo più rigoroso. I periodi sono più brevi, più frammentati. Però devo dire che la cosa funziona e il racconto scorre molto bene. Ma l’altra cosa molto efficace è che forse proprio in virtù di questa tua ricerca, hai costruito un personaggio che ha lo spazio che deve avere. Nei primi racconti avevamo parlato del rischio di ingombrare un po’ i personaggi, cioè che la tua figura di autore finisse non dico per soffocare ma almeno per stare addosso ai personaggi, senza lasciare loro la possibilità di esprimersi completamente. Ora invece crei un personaggio a tutto tondo, con una sua storia, una sua parabola e un suo destino. E proprio questa libertà che lasci al personaggio permette agli altri personaggi di crescere meglio. Pensa al padre: è certamente il personaggio minore più efficace della raccolta (almeno fin qui). Mi capita di dire in alcuni corsi di scrittura che se un autore mette tutto se stesso nel personaggio principale resta poco da dare agli altri. Qui riesci invece a gestire il sistema dei personaggi nel modo migliore pur narrando il tuo tema, cioè il male del mondo. Probabilmente conta il fatto che la protagonista sia una donna, quindi necessariamente è sufficientemente lontana da te. Non è una domanda, in effetti, ma se davvero questo racconto è stato scritto prima degli altri, forse potrebbe essere l’occasione per un bilancio sull’evoluzione della tua scrittura.

Inizio con il dirti che in effetti la prima versione di questo racconto risale a parecchi anni fa. La struttura di base era la stessa, l’ambientazione pure, cambiavano alcuni particolari minori e cambiava il finale. Quando, più di recente, ho deciso di riscriverlo perché la storia continuava a piacermi e perché secondo me la protagonista e il padre avevano delle potenzialità ho voluto mantenere inalterata la voce e la struttura. Ecco quindi che è rimasto quell’utilizzo rigoroso della frammentazione del periodo.
Detto questo, non so se sono in grado di fare un bilancio dell’evoluzione della mia scrittura. Un bi-lancio secondo me viene bene quando si è profondamente consapevoli della propria scrittura e dei propri mezzi e a me pare di non essere ancora riuscito a raggiungere una forma definitiva, come se fossi ancora nel pieno di una fase di profonda evoluzione.
Un paio di cose però penso di averle capite. Rispetto alle prima cose che scrivevo che erano molto più asfissianti credo di aver imparato a far respirare un po’ la storia. Mi capitava di scrivere un racconto e siccome si trattava comunque di una storia cupa tutto il tono del racconto restava cupo e il ritmo era quasi monotono. Mi sono reso conto che per rendere ancora più buie le zone d’ombra c’è bisogno di un po’ di luce.
Di conseguenza credo di aver fatto qualche passo in avanti anche sulla gestione del ritmo all’interno del racconto e anche sulla costruzione della trama.
Si tratta di un work in progress naturalmente perché, per come la vedo io, sono solamente all’inizio di un percorso che mi auguro mi porti a guadagnare una certa lucidità e consapevolezza in riferimento alle cose che scrivo.

Un personaggio distante da te, dicevo, ma anche, finalmente, ricorri a un’ambientazione che è molto tua, che conosci molto bene e che è estremamente suggestiva: quella di un luogo di villeggiatura molto noto, Jesolo, con le sue dinamiche stagionali e le ricadute che questo ha sulla popolazione. Ma lo racconti in modo molto autentico, senza stereotipi, proprio perché lo conosci bene: penso ad esempio al padre della protagonista che lavora nei campi, o alla metafora dell’Islanda. Io credo che questa sarebbe l’ambientazione perfetta per un romanzo. Che rapporto hai con questi luoghi dove sei cresciuto?

Quando sentivo dire che uno scrittore dovrebbe scrivere solo di ciò che conosce mi veniva un attacco di depressione perché, devo ammettere, c’è poco che io conosca davvero. Ho una buona dose di curiosità, mi piace imparare cose nuove ma “conoscere” per quel che mi riguarda ha un significato pro-fondo.
Come dici bene tu, Jesolo e Cavallino (il posto in cui sono vissuto fino ai trent’anni) sono la mia terra, sono un paesaggio che conosco bene, hanno delle dinamiche che conosco (o almeno conoscevo).
Anni fa ho scritto un racconto che aveva come ambientazione proprio questo scenario e l’ho presen-tato a un concorso letterario. Mi è stato detto che non se ne poteva più di racconti ambientati in provincia. Ecco, quel commento sprezzante devo dire che mi ha ferito e ha prodotto un blocco di parecchi mesi. Se dovevo scrivere di quello che conoscevo e quello che conoscevo aveva rotto le scatole che spazio c’era per me?
Il tuo primo libro, che io considero uno dei libri più belli che io abbia mai letto e che tuttora mi per-seguita, aveva un’ambientazione provinciale, ma nel secondo, che trovo altrettanto meraviglioso, il respiro è molto più ampio e l’ambientazione è tutt’altro che provinciale.
Io credo che tu abbia trovato il modo per andare oltre perché hai una profonda conoscenza dei temi e della materia che da vita a “Pensa il risveglio”.
La domanda “che spazio c’è per me?” è una domanda che in parte resta ancora aperta anche se al momento mi preoccupa meno. Quello che mi preoccupa è riuscire a scrivere perché non è affatto scontato.
Ho iniziato a scrivere un romanzo ambientato a Cavallino perché ho sentito la necessità di farlo e perché mi pareva di aver trovato la storia giusta da raccontare. Avrà un’ambientazione provinciale? Certo. Sarà un problema? Non ne ho idea ed è prematuro pensarci. Adesso mi interessa portarlo a termine prima di andare in pensione.
Per quel che riguarda il mio rapporto con i luoghi in cui sono cresciuto penso che non sia molto diver-so dal rapporto che tante persone hanno con i luoghi che li hanno visti crescere: odio e amore.
Dal punto di vista paesaggistico il Litorale del Cavallino è uno spettacolo. Barena da una parte, spiag-gia e mare dall’altra. Quando il cielo è limpido, dalla parte della Barena si vedono le montagne e i tramonti sono sempre uno spettacolo di colore.
Quando mi capita di tornare da quelle parti mi trovo sempre bene e l’andarsene è sempre carico di nostalgia.
D’estate Cavallino viene invaso da centinaia di migliaia di turisti e in autunno tutto sparisce nella nebbia. In fin dei conti è un luogo bipolare.
Forse però lo sto sentendo più mio ora di quando non ero ragazzo. Quando ero ragazzo ero convinto che mi stesse stretto, ero certo che “lì fuori” c’era qualcosa che mi aspettava. Non c’era.

“Willa non si allontana mai di casa”.

Ma cosa ti hanno fatto di male i gatti?

Immaginavo che prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Alcuni di questi racconti sono stati pubblicati su rivista nel corso degli anni per cui la presenza di gatti, alcuni dei quali destinati a brutta fine, non era mai stata così massiccia come ora.
In realtà i gatti non mi hanno fatto nulla di male e pur non avendone nemmeno io li adoro.
La loro presenza ha a che fare con due cose ben precise. La seconda, sì, inizio dalla fine, è relativa a una cosa detta da Murakami e che ho letto qualche tempo fa. Penso fosse un’intervista che aveva a che fare con “L’uccello che girava le viti del mondo” romanzo che io all’epoca trovai eccezionale. In quell’occasione Murakami disse all’intervistatore che gli capitava di inserire almeno un gatto in ogni cosa che scriveva perché la prima volta che l’aveva fatto era stato pubblicato e quindi si era convinto che i felini gli portassero fortuna. A me è capitata una cosa simile quindi quando posso inserisco sempre un gatto.
Ma la ragione principale in realtà è la prima. Per me il gatto incarna vari aspetti dell’essere umano. In-carna l’indipendenza, l’indolenza, il fascino, la pericolosità e tante altre caratteristiche. I gatti sono animali misteriosi. In questo racconto il gatto rappresenta la sanità mentale che viene distrutta dalla malattia.

Questo è quel tipo di racconto che lascia una sensazione strana nel lettore, una sensazione di sospensione, il bisogno di sapere, di capire di più. È così che funziona un racconto: quando continua a lavorare nella tua testa per giorni e non se ne va. In più dai forma a qual-cosa che conosciamo ma a cui non sappiamo dare un nome, diventa qualcosa di mitologico. Per fare questa operazione, letterariamente eccellente, c’è bisogno di una grande fiducia nei propri mezzi e anche nel lettore. Non c’è bisogno di spiegare, di dare formule e soluzioni. Ho l’impressione che l’autore di questo racconto sia diverso da quello dei primi, quello mi sembrava più esitante, meno fiducioso, aveva bisogno di dire, di rendere esplicito. Credo che qualcosa di decisivo sia cambiato. Non è necessariamente un giudizio di merito, anche se io preferisco questo autore, mettermi accanto a lui e guardare con stupore le vicende di questi personaggi.

Io e te ne abbiamo parlato di recente. Nei giorni successivi alla pubblicazione di “Un posto difficile da raggiungere” mi sono arrivati alcuni feedback di lettori forti e competenti. Ciò che mi ha sorpreso è stato constatare che ognuno di loro, come è ovvio che sia, aveva uno o due racconti che preferiva rispetto agli altri, ma che questi racconti raramente combaciavano. Qualcuno ha amato molto “La macchina che produce gli ingranaggi” che, se non ho capito male, rientra un po’ nel filone del “rende-re esplicito” mentre altri hanno apprezzato di più “Willa non si allontana mai da casa” e “Gli inquilini del piano di sotto” che invece potremmo far rientrare nei racconti “fiduciosi”.
Potrei essere tentato di dirti che la diversità che vedi sia una questione di pura e semplice evoluzione della scrittura, ma non sono sicuro che sia davvero solo questo aspetto a differenziare i racconti. Credo che una parte della differenza nasca anche dal tipo di storia che ho raccontato. Nel caso de “La macchina che produce gli ingranaggi” ho lavorato molto di più sul dettaglio, ho sentito l’esigenza di raccontare attimo per attimo alcune scene perché io stesso le vedevo nella mia mente dipanarsi attimo per attimo.
Con “Willa non si allontana mai di casa” invece, forse anche per il fatto che l’input iniziale me l’ha dato l’immagine di un cielo oscuro illuminato da lampi e con i tuoni che sembravano colpi di tamburo, ho proceduto in maniera diversa, con un taglia e cuci, se mi permetti il termine, più intenso e calcolato. Inoltre, in questo racconto, non era importante per me che il lettore arrivasse alle mie stesse conclusioni, ma che percepisse una sorta di perturbazione nell’anima del personaggio principale.

“La statua sulla colonna”

Anche questo racconto è come il precedente. Crea un mito macabro, lavora forse sugli stessi temi dei primi racconti, ma la sua dimensione irrazionale crea uno spazio dell’immaginazione inedito. La statua è proprio il simbolo del perturbante. Si ha la sensazione di affondare nell’inconscio. Quasi che siano nati in uno stato di trance visionaria. Ti ci riconosci?

Il perturbante mi affascina molto, non c’è dubbio. Amo poi quei racconti in cui la narrazione resta sempre in bilico tra il naturale e il soprannaturale, quei racconti in cui tutto sembra filare per il verso giusto e poi, un singolo elemento, ci fa capire che quello che abbiamo letto fino a ora non ha nulla a che vedere con il mondo che ci circonda ma si incastona in una realtà altra che può essere inquietante e spaventosa.
La statua di questo racconto è una specie di idolo, qualcuno a cui si presenta un sacrificio. Inizialmente è una presenza garbata mentre alla fine è un catalizzatore della pazzia.
In una delle domande precedenti hai parlato di “racconto sull’ansia”. “La statua sulla colonna” è la mia idea dell’ansia. Non tanto per quel che riguarda la statua, ma per il rito che compie il protagonista, un rito che fino alla fine sembra essere unico, ma che invece si rivela parte di una serialità terrificante.

Un altro cambiamento riguarda la forma brevissima. Mi sembra sia perfettamente nelle tue corde. Associ a questa forma un genere così perturbante o è un caso?

Mi fai una domanda a cui non avevo mai pensato e non so se ho una risposta concreta da darti, posso però provare a riflettere.
Non credo di associare la forma breve al perturbante, o almeno non a livello coscio. Credo più semplicemente che mi sia più congeniale, raccontando certe storie, mantenere un numero di battute più basso per non diluire troppo la forza della storia.
Credo, per quel che mi riguarda, che nel raccontare storie perturbanti sia necessario trovare un equilibrio che permetta di delineare una cornice ben chiara, portare i lettori in un luogo bene preciso che possa essere ben raffigurato e poi, una volta messi a loro agio ecco che arriva il colpo di accetta sulla nuca.
Questa però è solo una mia idea e, ti ripeto, non avendoci mai pensato prima, non so se in futuro scriverò un racconto perturbante di ottantamila caratteri.

“Gli inquilini del piano di sotto”

Ecco un altro mito macabro, questi racconti hanno una compattezza molto efficace. Mi chiedo se per te questi inquilini abbiano un significato preciso o meno. A me come lettore piace pensare che non ce l’abbiano: in fondo è questo il fascino di raccontare storie invece di dire cose.

Giusto oggi, una persona che ha letto la raccolta, mi ha scritto per dirmi che il suo racconto preferito è stato “Gli inquilini del piano di sotto” perché i carnivori sono la metafora perfetta di questa società che ci sta cannibalizzando.
Io quando ho scritto questo racconto non stavo pensando assolutamente alla nostra società, ma pensandoci bene capisco perché a questa lettrice sia venuto in mente questo paragone e tutto sommato direi che è pure calzante.
Questo racconto nasce dall’influenza di uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi dieci anni e cioè “La carne” di Cristò. Io non uso mai la parola capolavoro, ma per questo libro credo che sia utilizzabile. Volevo riprodurre quelle atmosfere cupe e carnali che mi avevano tanto affascinato, ma l’influenza principale, quella che mi aveva portato a scriverne una prima versione almeno una ventina di anni fa, deriva del racconto “La casa occupata” di Julio Cortázar. Anche in questo caso un racconto perturbante.
Comunque, quando dici che ti piace pensare che gli inquilini non abbiano un significato preciso, sposi la mia stessa linea di pensiero. A me interessava giocare con l’atmosfera, con il senso di angoscia, con la paura per qualcosa di più grande di noi. Vedi? Forse sto parlando ancora di ansia, non è un caso che la versione definita sia nata durate il marzo della prima quarantena Covid. Credo che questa sto-ria abbia assorbito molto del mio stato d’animo.

Poi anche qui c’è la scrittura. L’io narrante scrive prima della sua fine. Forse è un paradigma del tuo modo di intendere la scrittura? Almeno in questi racconti così estremi, così “ultimi”.

L’io narrante scrive prima della sua fine perché vuole lasciare traccia del suo passaggio, vuole lasciare un pezzo di sé anche quando non ci sarà più e, nel suo caso, è disposto anche a lasciare un’immagine terribile.
Non l’avevo pensata in questi termini ma credo che al di là del piacere di raccontare storie, anche io, come molti, scrivendo cerco di aggirare le restrizioni della morte. Forse ho la speranza che ci sia qual-cosa di mio anche dopo che il mio corpo fisico non ci sarà più e i miei neuroni avranno smesso di produrre elettricità.
L’idea della letteratura che rende immortali mi ha sempre affascinato. Ovviamente qui vanno fatte le dovute distinzioni. Per quel che mi riguarda si tratta di un’immortalità relativa, diciamo legata alla cerchia familiare, mentre per altri grandi scrittori si tratta di un’immortalità assoluta. Tutti leggono Kafka, Shakespeare, Dante e altri scrittori di questo calibro. Io non punto a tanto ovviamente, ma la speranza è che ci sia qualche mia storia buona al punto da sopravvivermi. Non so se sia un segnale di arroganza, io la vedo più come paura di ciò che è inevitabile.

“Mi basta Gesù”

Se non sbaglio è la prima volta che parli, sia pure in un modo tragicamente grottesco, di re-ligione o almeno di mito evangelico. Che rapporto hai con la religione? E in più: pensi che questo abbia a che fare con la tua idea di scrittura? Voglio dire: dalle risposte precedenti si evince che tu hai un’idea molto alta della letteratura che addirittura avrebbe il potere di so-pravviverti. È un’idea che per esempio io che dedico la mia vita lavorativa e non solo alla letteratura non ho minimamente. Proprio questa forza di sopravvivere alla propria morte è co-munemente demandata alla religione, invece tu affidi questa sacralità alla letteratura.

Io non possiedo il dono della fede. Invidio che ce l’ha, ma a me manca. Penso che si possa partire da qui per identificare il mio rapporto con la religione. E credo anche, come fai notare tu, che questa mancanza abbia a che fare anche con il rapporto che ho con la letteratura e la scrittura. A volte mi rendo conto di cercare nei libri qualcosa di cui sento l’assenza, cerco di riempire un vuoto passando da un romanzo all’altro anche se mi rendo conto che quel vuoto non si riempirà mai nemmeno se do-vessi leggere tutti i libri mai pubblicati. E forse è anche per questo motivo che ho un’idea molto alta della letteratura. L’ho sempre avuta. Se dovessi cercare di capirne il motivo credo che dovrei tornare all’adolescenza. In casa mia non c’erano molti libri, anzi, praticamente nessuno, ma mia zia lavorava in una biblioteca per cui mi capitava ogni tanto di andarla a trovare e mi piaceva girare per gli scaffali, prendere in mano un libro, leggerne alcune pagine e poi rimetterlo al suo posto. Ho iniziato a leggere con più costanza verso i diciassette anni e quando mi sono trovato tra le mani libri come “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, “La linea d’ombra” o “I dolori del giovane Werther” ho avuto una rea-zione molto forte. Prima di tutto mi sono reso conto che gli autori di quei libri erano morti, ma la loro opera circolava ancora. Poi ho capito che mi sarebbe piaciuto far sentire agli altri le emozioni che avevo provato anche io con dei testi tutti miei. Purtroppo per me, essendo dotato anche di qualche tara caratteriale, il tutto si è risolto con un conflitto tra la voglia di scrivere e l’idea di non esserne de-gno che nonostante tutto continua ancora. Questo è anche uno dei motivi per cui, quando mi acco-stano a uno scrittore famoso, quando cioè mi dicono: sai, questa cosa mi ha ricordato il primo Fante, io non sono mai come rispondere e finisco per fare scena muta. Io capisco bene che l’accostamento non è un accostamento di valori ma di affinità di temi o magari di somiglianza alla lontana eppure mi pare sempre “blasfemo”.
In questo racconto la religione viene accostata a uno dei maggiori simboli del pop che l’umanità abbia mai prodotto e a me piaceva giocare su questo binomio perché entrambi gli elementi, in qualche mo-do, fanno parte di un sistema di fede. Ho voluto metterli sullo stesso piano.

Un tema che nella tua vita è molto importante è quello della paternità, e in particolare del bi-sogno di protezione verso i figli. Nei tuoi racconti non compare molto se non qui e forse in Limonium vulgare. Come mai tocchi così poco un tema che ti è così caro secondo te?

Bella domanda. Pensa che per quel che mi riguarda quello del rapporto padre e figlio è un tema che ho trattato anche troppo. Probabilmente la mia percezione è diversa perché questo rapporto è il nucleo di un romanzo inedito a cui ho lavorato per anni e quindi ho l’impressione di essere sempre imprigionato in questa tematica. Pensandoci bene, in questa raccolta, anche ne “Il rito” c’è un rapporto padre e figlio, mentre in “Un gatto morto sul ciglio della strada” c’’è, sullo sfondo, una paternità mancata.
Non posso prevedere il futuro ma, siccome questo è sicuramente uno dei temi a cui tengo di più, sono quasi certo che in futuro tornerò a sporcarmici le mani. Soprattutto riguardo alla protezione nei con-fronti dei figli e l’ansia di controllare tutte le minacce sapendo che si tratta di un’impresa folle.

“Bar posta”

Questo racconto parla di “Un posto difficile da raggiungere” e infatti il protagonista ci arriva per puro caso dopo alcune vicissitudini. Questo posto è una sorta di cronorifugio privato, per dirla con Gospodinov. Pensi che possa essere una delle chiavi di lettura dell’intera raccolta? Una sorta di rifiuto del presente e un desiderio di rifugio in un passato irraggiungibile?

“Bar posta” è indubbiamente un rifugio. La sua genesi ha a che fare con la mia infanzia. Prima di tutto il Bar posta in qualche modo esiste davvero. E’ semplicemente un collage di alcuni luoghi che ho frequentato da bambino quando andavo in vacanza in Toscana con i miei genitori. Avevo dei parenti lì, li andavamo a trovare tutte le estati e quando facevamo una gita tra i tornanti restavo sempre affascinato da questi piccoli locali che sembravano provenire da un’altra epoca. Erano completamente diversi da quelli che ero abituato a frequentare io nel mio paese. C’era, in questi posti, la sensazione che il tempo andasse a una velocità diversa, più lenta e che una parte del mobilio provenisse da un’epoca lontanissimo. Nel posto in cui andavo c’era davvero una saletta sotterranea in cui avevano messo una cabina telefonica, c’erano davvero gli anziani che giocavano a carte, guardavano il Giro d’Italia e bestemmiavano. E c’erano i gagliardetti, la polvere depositata, le file di liquori dai colori e dai nomi più improbabili. Ho semplicemente preso da dentro di me qualcosa che mi aveva affascinato quando ho sentito la necessità di rallentare il ritmo. Di ascoltarmi meglio. Questo è quello che fa il protagonista, inizia ad ascoltarsi.

Il protagonista di questo percorso a ritroso nel tempo è il solo, mi sembra, tra i tuoi personaggi che abbia un buon lavoro e una sorta di realizzazione professionale. Eppure è proprio lui a vivere in modo più esplicito il desiderio di tornare a un passato più umile. C’è in questo anche una critica sociale? E – te la pongo come provocazione – non c’è un po’ un rischio che il messaggio sia che si stava meglio quando si stava peggio, cioè una sorta di messaggio qualunquistico, fuori dalla realtà, secondo cui i poveri sono felici e i ricchi piangono?

Quella che tu poni come provocazione è un dubbio che mi ha accompagnato fin dalle prime fasi di stesura di questo racconto. Se il lettore dovesse percepire che il messaggio è appunto “ i poveri sono felici e i ricchi piangono” allora significherebbe che ho scritto un racconto che non funziona perché il mio messaggio, se davvero un messaggio vuole esserci, non ha nulla a che fare con la bellezza del mondo bucolico. A me interessava guardare all’aspetto del ritmo che ognuno di noi imprime nella propria vita e alla successione di tappe, spesso serrate, che ci costringiamo a toccare per sentirci realizzati.
“Bar posta” non è un racconto sul passato meraviglioso e puro messo a confronto con il presente orrido e cattivo, ma è un racconto che parla di tempo, di assaporare le cose con calma, di riscoprire il gusto per le piccole cose. Niente di tutto ciò è impedito al ricco. Il protagonista non decide di lasciarsi tutto alle spalle buttando alle ortiche una vita di sacrifici, ma decide di fermarsi un attimo, guardarsi attorno, vivere l’esperienza che gli è capitata per caso. Poi io sono convinto che ci sia una certa saggezza nelle cose di una volta, ma che la stessa saggezza possa essere ritrovata anche oggi, deve so-lo essere scovata e per farlo c’è bisogno di poco rumore di fondo.

“Invictus Maneo”

Carino il gioco di parole del titolo con lo zaino Invicta. Ma mi piace come sei in grado di creare un’atmosfera passata attraverso oggetti, canzoni, programmi televisivi. Però vorrei tornare sulla genesi dei racconti e sul rapporto con la realtà perché mi pare che questo racconto aiuti molto a ragionare su questo. Tu in Inghilterra sei stato da studente, forse proprio a Reading (non mi ricordo esattamente), dove è ambientato il racconto. Non so se ci sia un reale discrimine ma provo a chiederti: un racconto come questo secondo te serve a raccontare quella tua esperienza, ovviamente trasfigurandola narrativamente, oppure Reading è lo sfondo di un racconto che poteva anche essere ambientato altrove?

Sì, io ho fatto l’Erasmus a Reading un posto che non avevo mai sentito nominare e che poi è diventato importantissimo per la mia vita. Al di là di questo aspetto autobiografico, credo che questo racconto potesse nascere solo con lo sfondo di Reading e in un certo senso è profondamente legato all’avventura Erasmus.
I due protagonisti di questo racconto si trovano a condividere uno stesso luogo. Il fatto di essere italiani in terra straniera, come spesso succede, li avvicina anche se a dirla tutta non sembrano avere molti punti in comune. Ma la cosa più importante, per me, è che i due protagonisti vivono la città in maniera diversa, per uno di loro è un punto di partenza mentre per l’altro è un punto di arrivo. Tu parli di atmosfera creata con oggetti, canzoni, programmi TV. Io credo che siano i dettagli apparentemente più insignificanti a rendere più credibili le storie che scriviamo. Nei gli anni novanta fino ai primi anni duemila, se all’estero vedevi uno zaino Invicta sapevi che chi ce l’aveva sulle spalle era un italiano. E sapevi che quello zaino sarebbe stato pieno di spillette e scritte e che quelle scritte sarebbero cambiate in base alla boy band del momento. Sono questi dettagli che mi tengono ancorato a una storia.
Cerco di concludere. In questo racconto non ho voluto raccontare la mia esperienza da studente Erasmus, ho voluto provare a raccontare ciò che succede nel momento in cui incontri una persona in un dato momento della tua vita, una persona che non hai mai visto prima e non vedrai dopo, ho voluto provare a raccontare delle cose che ci lasciamo addosso quando ci avviciniamo l’un l’altro, quelle spillette che attacchiamo ai nostri zaini.

Torni al tema del doppio, dell’essere o non essere l’altro che si incontra casualmente. Si sente molto qui il mistero della vita, o meglio direi delle vite potenziali, delle sliding doors. Io direi che questo mistero è il bello della vita, invece sembra che a te spaventi, forse perché incontrollabile. È così?

Adesso di parlo di pagina bianca. Quando mi metto a scrivere e ho davanti una pagina bianca molto spesso mi si affaccia davanti agli occhi un turbinio di linee e simboli, quasi una matassa. Da quella matassa io devo estrapolare qualcosa che abbia un senso. Voglio raccontare una storia, ho magari già chiaro il personaggio principale, ciò che gli può succedere e magari ho addirittura il finale. Sembra una situazione vincente, no? Eppure io, davanti a quella pagina bianca, davanti a quel groviglio indistinto che mi si para davanti continuo a chiedermi: qual è la strada giusta? Qual è l’unica strada che deve percorrere questa storia? La strada che può rendere questa storia unica.
E quindi sì, si stratta di lavorare continuamente sulle sliding doors, di scegliere di volta in volta da quale parte del bivio girare.
Poi quando ho messo il punto finale mi fermo a pensare se ho davvero scritto la migliore versione di ciò che avevo in mente, se invece non debba tornare indietro di qualche pagina e, a quel bivio lì, prendere l’altra strada.
Non sono spaventato da queste infinite possibilità perché in effetti, mal che vada, il racconto resta nel cassetto assieme a gli altri. Mi rendo conto però che a volte mi capita di pensarla in questi termini anche in relazione alla vita di tutti i giorni e so che utilizzare lo stesso sistema pensato per i racconti è impossibile. So che le sliding doors nella vita ci sono e so che spesso nemmeno ci accorgiamo di averne attraversa una eppure la tendenza a rimuginare sul “What if” è sempre presente.
Penso sia una delle cose più efficaci per generare ansia per cui sto cercando di lavorarci un po’ su per limitare la sua presenza nella mia vita.

“Il bambino interiore al campeggio”

Il bambino interiore rappresenta in qualche modo l’aspettativa altrui, se capisco bene, l’invito implicito ad essere o non essere in un certo modo. Il protagonista lo scopre in modo inaspettato e inconscio, da una persona che quasi disprezza forse anche per le differenze sociali. Sembra che lo viva come una pressione negativa, però alla fine ha un influsso positivo sul protagonista. Come interpreti questa pressione inconscia che in fondo è in tutti noi?

Qui torniamo in qualche modo ai racconti che sono legati al territorio in cui ho passato la mia infanzia, la mia adolescenza e in cui sono diventato adulto.
Il bambino interiore è, nel racconto, quella parte del nostro cervello che ci avvisa che stiamo per rag-giungere una tappa ben precisa o che dobbiamo lasciarci alle spalle un momento della nostra vita. Per chi ha vissuto la stagionalità rigida che vivono gli abitanti delle mete turistiche sa che anno dopo an-no alcune dinamiche si ripropongono. Aprono i campeggi, iniziano ad arrivare i primi turisti tedeschi, poi arrivano i turisti danesi, poi ritornano i tedeschi e infine, in massa, arrivano gli italiani e poi, a settembre, quello che era in principio uno spiazzo verde costellato di roulottes, tende e camper, diventa di nuovo uno spazio vuoto e desolato. L’anno dopo riparte tutto da capo e, di anno in anno, inizi a pensare che il tempo non vada veramente avanti, che tutto sia bloccato in un perenne ora fatto si spiagge e pelle abbronzata.
A un certo punto per me è arrivato il bambino interiore che, in fin dei conti, non ha fatto altro che dirmi: guarda che è ora di andare avanti, per te è ora, puoi andare avanti mantenendo un contatto con il bambino che è in te, quello che sguazzava tra i cavalloni, ma credimi, è meglio se ti muovi perché per te qui non c’è altro.
Il protagonista prende la decisione che fa per lui, altri restano e per loro va bene così, non tutti affrontiamo lo stesso percorso.

Non me l’aspettavo e me ne compiaccio: il tuo romanzo a variazioni finisce bene, il tuo protagonista trova una propria dimensione nella maturità, nella famiglia. Che sia proprio questo il posto difficile da raggiungere? La serenità della famiglia? Forse alla fine l’hai raggiunto anche tu, nonostante le paure, le angosce rappresentate in questo libro, quel posto così difficile e in fondo così semplice? Te lo auguro.

Alessandro Busi, scrittore e psicologo, dopo aver letto il mio libro mi ha scritto per dirmi che gli era sembrata una raccolta piena di speranza. A me piace pensare che lui abbia ragione perché, anche se qualcuno, in passato, mi ha detto che scrivo sempre cose tristi, per me la speranza sta anche nel far intravedere che c’è uno spiraglio tra le nuvole che abbiamo davanti a noi.
Il protagonista di “Un gatto morto sul ciglio della strada” avrà vita facile dopo il finale del suo racconto? Assolutamente no. La protagonista di “Limonium Vulgare” avrà la vita e il lavoro che desidera? Non ne ho idea, me lo auguro, ma non lo posso sapere. So però che davanti a lei c’è uno sprazzo di luce e so che farà di tutto per seguirlo.
Sì, forse il posto difficile da raggiungere è una certa serenità di animo che, per quel che mi riguarda, significa anche sapere accettare i miei limiti e i miei difetti in quanto essere umano imperfetto e capa-ce di errare. Non so se ho raggiunto quel posto, so che mi sembra che la strada sia quella giusta e intanto metto un piede davanti all’altro.

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A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 1/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/08/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-1-2/ Thu, 08 Feb 2024 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81065 di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni. Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni.
Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, mi sono posto nella posizione di quel lettore che volevo spiare e mi sono aperto via via che leggevo all’interlocuzione con lui. Posizione rischiosa, me ne rendo conto, poiché si rischia di mostrarsi vulnerabili, di prendere piste che poi si riveleranno sbagliate, di assumere posi-zioni che poi, a lettura completata, possono essere smentite.
Ma il rischio si può prendere per un amico. E io avevo un vantaggio: questo è un libro di racconti, che dunque hanno una certa autonomia, anche se – lo si vedrà via via nell’intervista -, questa autonomia è in parte smentita. Oltre al rischio, però, c’è un vantaggio, ovvero quello di provarsi in un genere nuovo: l’intervista in fieri, la ri-flessione che si sviluppa leggendo e non si ricompone a posteriori, come spesso capita. Dalla quale emergono sempre ipotesi ma anche dubbi, tracce, rielaborazioni. Qualcosa di nuovo, mi sembra, rispetto a recensioni e interviste che giocoforza riprendono moduli noti. La formula è semplice: per ogni racconto ho fatto due do-mande a Gianluigi e gliele ho scritte prima di leggere il racconto successivo. Il titolo di ogni sezione è semplicemente il titolo del racconto che si trova nel libro.
A conti fatti, il gioco è stato utile, forse troppo lungo, ma utile a me e – spero – anche a lui, perché la progressiva mutazione del lettore ha suscitato qua e là la reazione dell’autore. È un gioco speculare a quello della scrittura in cui all’azione dell’autore corrisponde la reazione del lettore che si cerca di intuire e di anticipare. Non me ne voglia Gianluigi (al quale concedo tutti gli opportuni scongiuri) se concludo con una frase del celebre saggio di Roland Barthes sulla morte dell’autore: «per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere che la morte dell’Autore» (ma simbolica, simbolica!). Viene allora in mente la celebre dedica-sfida che Bufalino appose a esergo delle sue Menzogne della notte: a noi due!

“Il potere taumaturgico di Mike Bongiorno”

Mi pare che la scelta di Mike Bongiorno come correlativo oggettivo di un’epoca sia molto efficace. È il tempo della televisione, della scatola delle meraviglie nella quale tutto è bellissimo e tutto è possibile. Tu associ giustamente quel mondo all’epoca dei nonni: sono loro che subiscono questo fascino. Da allora ad oggi le cose sono molto cambiate, la televisione non ha più quel ruolo, che è stato assunto dai social che però hanno logiche molto diverse. Come interpreti questo passaggio epocale? O meglio: come lo interpreti tu e come lo interpreta il tuo protagonista per il quale uscire da quel mondo rappresenta quasi un rito di passaggio verso la maturità. Ma c’è anche qualcosa di nostalgico nel tono del racconto?

Parto dalla tua ultima domanda. C’è sicuramente un tono nostalgico nel racconto che forse è dovuto al fatto di aver vissuto l’epoca della nascita delle TV commerciali quando ero molto piccolo. C’era la sensazione, o forse il messaggio era molto esplicito ma io lo coglievo solo marginalmente, che tutto fosse possibile e che tutto fosse a portata di mano. Per un bambino che viveva in un piccolo paese quel tipo di sollecitazioni aveva-no un grande potere anche sui sogni e le mete future da porsi. Oggi mi rendo conto che quel messaggio, quel “se puoi vuoi” è sbagliato e ha implicazione che si sono riverberate nei decenni e che hanno procurato ferite profonde non solo sulla psiche delle persone, ma anche sulla società e l’ambiente che ci circonda.
Tornando al racconto però mi viene da dire che Mike Bongiorno sia il simbolo di una nuova fede, qualcuno che approfittando della fiducia che le persone nutriva per il mezzo televisivo ha instillato nelle menti più suggestionabili un nuovo credo consumistico. Non sono un teorico dei mass media e non sono uno studioso dei social, ma mi pare abbastanza evidente che pur essendosi evoluto il mezzo, e avendo, come dici tu, logiche diverse, c’è ancora questo potere quasi mistico che influenza i fruitori dei social network. Un potere che forse deriva proprio dall’epoca delle prime TV commerciali nelle quali ci è stato insegnato a credere a ciò che proveniva dall’altra parte del tubo catodico perché scintillante, perché privo di conflitti e, in fin dei conti, saturo di bellezza. E non si poteva non credere a qualcosa che era così bello. Oggi si tende non a ciò che è bello, ma a ciò che da una versione dei fatti più consona ai nostri gusti personali, quasi come se cercassimo in ogni notizia una dose di serialità televisiva.
Per quel che riguarda invece la voce narrante di questo racconto l’atteggiamento nel nonno sembra quasi quel-lo di un devoto a un culto pagano, sembra al limite della pura superstizione. Lo guarda un po’affascinato e un po’con distacco, ma in ogni caso non può non rendersi conto degli effetti tangibili che il buon Mike ha prodotto nello stile di vita della famiglia. In fin dei conti è come se si rendesse conto che nemmeno lui, che ha studiato e si è “emancipato”, può fuggire dal fascino della TV.

Quando leggo mi è inevitabile mettere in relazione la scrittura che trovo con la mia, e lo faccio tanto più con te che sei un amico. Mi pare che in questo racconto – ma anche in altri – tu abbia una grande capacità di creare un clima, un ambiente molto credibile e concreto, però per come intendo io la scrittura, mi pare che manchi, diciamo così, il colpo di grazia al lettore, cioè mi pare manchi quasi la scena madre. Io ho il problema contrario, l’assenza di frequenti scene madri mi metterebbe in imbarazzo, come se non donassi abbastanza al lettore. Sei d’accordo con questa lettura del tuo racconto? E, se sì, da dove credi nasca questa scelta, dalla tua conoscenza del minimalismo americano? Dalle lezioni di scrittura che hai frequentato? E forse, prima di queste domande: è una scelta consapevole?

Mi fai riflettere su una cosa a cui non avevo mai pensato in questi termini. Se, come dici tu, manca una scena madre, la cosa non mi disturba. O almeno diciamo che non mi disturba in questo racconto. E il motivo per cui almeno in questo racconto non mi disturba è che nello scriverlo sono partito dall’idea di raccontare un momento storico ben preciso attraverso gli occhi di un bambino che vede dipanarsi davanti a sé un cambia-mento a cui saprà dare un’interpretazione personale solo decenni dopo. Volevo che il fulcro della narrazione fosse quello di una crescita emotiva e non ero interessato a costruire una scena madre rivelatrice. Poi, come dici tu, questo tipo di narrazione da qualche parte deve arrivare e per quel che mi riguarda non ho mai fatto mistero di essere stato affascinato da Carver e dal suo scrivere asciutto. Poi sai, possiamo stare qui a discutere se sia lo stile di Carver, se sia lo stile di Gordon Lish, se sia davvero minimalismo oppure no, ma il succo è che nel momento in cui sono venuto a contatto con i racconti di Carver mi sono trovato davanti una lettera-tura fatta di piccole storie, di drammi personali, di leggere sfumature emotive e devo dire che l’ho amata fin da subito. Detto questo, non voglio imitare Carver, non voglio scrivere come lui (anche perché mi sarebbe impossibile) ma vorrei, se mi fosse possibile, proseguire un percorso di scrittura che mi si addica e che mi assomigli.
Anni fa mi sono imbattuto in una definizione della scrittura di Carver che trovo molto aderente al vero, pur-troppo non ricordo più dove l’avessi letta e di chi fossero le parole. Le storie di Carver sono come stanze sature di gas, si aspetta un’esplosione che invece non arriva mai. Sono andato a memoria e ho parafrasato, ma il senso mi pare quello e mi pare anche abbastanza chiaro. Spesso, non sempre, in quello che scrivo, non c’è l’esplosione, ma la stanza è ben satura di gas.

“La macchina che costruisce gli ingranaggi”

Questo è un racconto che colpisce molto. Sembra un racconto sulla fabbrica e sul lavoro ma non lo è. I personaggi fanno scelte inaspettate, a volte inspiegabili e questo dipende proprio dal fatto che il tema non è il lavoro né la fabbrica. Il tema è l’ansia, che porta a volte a un desiderio di annullamento di sé: quell’annullamento di sé che nel racconto chiami: «il punto che è necessario raggiungere», con chiaro riferimento al titolo. È un tema portante, mi pare, nella tua letteratura. E proprio per questo nel racconto l’evento straordinario diviene ordinario, il racconto di un fatto eccezionale rappresenta la quotidianità, per chi conosce cosa sia l’ansia. Sbaglio?

Non sbagli. L’ansia è un tema ricorrente di questa raccolta e credo che ciò sia dovuto al fatto che nel periodo in cui ho scritto questi racconti l’ansia non era una semplice compagna di viaggio ma era diventata una presenza ingombrante. Il suo ruolo era accresciuto senza quasi che me ne accorgessi e senza che riuscissi a dare un nome a certi pensieri che formulavo poco prima di andare a dormire. Con il senno di poi, dopo aver avuto modo di esplorare meglio il mio rapporto con gli stati ansiosi, mi sono reso conto che molte delle cose che ho scritto erano influenzate dal tentativo di dare una risposta alle cose che sentivo. Più avanti nella lettura troverai un altro racconto profondamente legato all’ansia che si intitola “La statua sulla colonna” che forse, per certi versi, è il meno consolatorio di tutto il libro, ma che fotografa un momento preciso in cui sembrava non ci fosse una via d’uscita o un modo per liberarsi di lei.
In questo racconto che si sviluppa quasi esclusivamente all’interno di uno dei classici capannoni industriali dell’area trevigiana il protagonista è alla fine del suo percorso lavorativo, è passato attraverso continui tagli di personale e la possibilità di uscire dalla scena lavorativa era sempre dietro l’angolo. In un certo senso quello che tu chiami fatto straordinario gli darebbe la possibilità di andarsene a modo suo, con i suoi tempi, prendendo una decisione e non subendola. Vede uno spiraglio di fuga da quell’ansia che negli anni l’ha divorato. Ma in lui non c’è solo l’ansia, c’è anche l’idea di aver fatto un lavoro “inutile”, che non ha influito minimamente nelle vite delle persone. Pensa di non aver lasciato il segno e quindi, l’evento straordinario, per quanto negativo, sembra metterlo di fronte al fatto che invece un’influenza il suo lavoro ce l’ha avuta.
Come dici tu però non si tratta di un racconto sulla fabbrica o sul lavoro, credo sia più un racconto sull’ansia, sulle aspettative disattese e, più in generale, sull’insoddisfazione, tema, quest’ultimo, che secondo me si addice molto agli scrittori.

Questa parabola sull’ansia, mentre rende il racconto molto bello, secondo me, perché riesce a farsi allegoria di altro, pone anche qualche insidia di carattere tecnico che riguarda il punto di vista. Mi sembra infatti che la voce narrante oscilli di tanto in tanto tra il narratore onnisciente e la falsa terza persona. Io credo che questo derivi dal punto precedente, ovvero dal fatto di raccontare una cosa (un episodio in fabbrica) mentre in realtà ne stai raccontando un’altra (l’ansia), quindi a volte sei dentro il tuo personaggio (falsa terza persona), a volte sei dentro di te (narratore onnisciente). Di fronte a questa affermazione un narratologo professionista mi dirà che il narratore onnisciente comunque non è l’autore e quindi il problema resta meramente tecnico. Ma noi che scriviamo sappiamo quanto sia di-verso entrare nei panni di un personaggio o entrare nei panni di un narratore tanto astratto da tendere all’infinito – senza arrivarci – dove quell’infinito è la figura reale dell’autore. Ora, vengo alla domanda: quello del punto di vista è un problema che ti sei posto? Ci hai lavorato magari in fase di riscrittura?

Tutte le questioni tecniche mi affascinano e, magari esagerando, mi tolgono il sonno. Anche se tendo sempre a privilegiare l’aspetto emotivo di un racconto ho in grandissima considerazione la tecnica forse perché mi rendo conto che non sono ancora del tutto in grado di padroneggiarla o anche perché a volte non riesco a cogliere completamente tutti gli aspetti tecnici. Mi auguro ovviamente che anche questo faccia parte di un pro-cesso di crescita e che poco a poco sappia far mio i ferri del mestiere per poterli utilizzare con competenza sulla mia idea di letteratura. Tornando alla tua domanda posso risponderti che sì, mi sono posto il problema del punto di vista, non tanto nella stesura iniziale che, per questo racconto, è stata portata a termine quasi di getto, ma nelle successive riletture. Credo che, passaggio dopo passaggio, alcune sbavature siano state corrette, ma in realtà mi sono reso conto fin da subito che il personaggio principale, per quanto lontanissimo da me come esperienza vita, era una mia emanazione diretta. Si parla spesso di empatia nei confronti dei personaggi, nel caso di questo racconto l’empatia nei confronti del protagonista è stata talmente tante che mi ha reso difficile staccarmi da lui e distanziarmene completamente. Credo che questo produca quell’effetto oscillante tra narratore onnisciente e falsa terza persona di cui parli della tua domanda. Ho cercato per quanto possibile di raccontare una storia partendo dal narratore onnisciente perché avevo bisogno di mettere un po’ di distanza tra me e il protagonista, ma anche perché, molto banalmente, nella narrazione c’erano degli aspetti e delle informazioni che ritenevo importanti e che solo così sarei riuscito a mettere all’interno del quadro. A un certo punto però sempre che il narratore onnisciente parteggi per il protagonista e faccia il tifo per lui, che si senta coinvolto nella storia e questo secondo me lo fa virare verso una falsa terza persona. Ti mentirei se di dicessi che la cosa è stata voluta fin dall’inizio, ma a risultato concluso mi è sembrato che questa labilità di confini potesse funzionare anche in virtù del fatto che scrivevo di lavoro mentre parlavo d’altro.

“Il rito”

Qui compare un altro tuo grande tema, la famiglia. Che però è una famiglia piena di enormi difetti, a tratti terribile, sede di difficili rapporti di forza e spesso volta a censurare le individualità. In questo caso è una famiglia ricca o almeno molto benestante, affarista, col padre padrone che almeno a paro-le tiene alla famiglia, ma poi la distrugge con amanti e insulti ai figli. Oltre a una generale osserva-zione su questo, ti chiedo: nel testo non ci sono indicazioni di natura geografica, ma quanto può contare secondo te, nella tua narrativa, il Veneto, che sembra avere molte delle caratteristiche negative che tu descrivi?

A volte basta non nominare una cosa per evocarla. Il Veneto, in questo racconto ma anche in altri, c’è tutto. Diciamo che questo racconto raccoglie quando mi è capitato di vedere nel corso degli anni. Per motivi personali mi sono spesso trovato a girare tra tre provincie diverse, Venezia, Treviso e Rovigo e anche se mi rendo conto che il tessuto alla base di queste tre province è diverso, sotto molti aspetti ho trovato che ci siano forti elementi che le accumunano.
A me sta molto a cuore il tema della famiglia, sia quando si tratta di mostrarne gli effetti positivi, sia quando si tratta di mostrare quelli negativi. In particolare, in questo racconto, mi interessava calcare su questi ultimi. Il padre padrone di questa famiglia è un uomo che si è elevato sugli altri grazie al fiuto per gli affari. Ha fatto strada grazie ai soldi. Ciò che più gli interessa è che venga mantenuta sempre una perfezione di facciata e che tutto sia controllabile secondo i suoi desideri. Ho voluto calcare un po’ sui personaggi cercando di stare sull’orlo della stereotipizzazione perché, per quando sia surreale io queste persone, negli anni, le ho conosciute davvero. Ho visto all’opera il potere subdolo dei genitori nei confronti dei figli, la manovre nemmeno troppo velate per cercare di conformarli a un’ideale per il quale prima viene l’immagine che si mostra agli altri e poi viene tutto il resto.
Io non so se questa sia una caratteristica esclusiva del Veneto anche se tendo a escluderlo, ma in un’ambiente in cui la prima domanda che ti fanno è: quanto ti pagano? La figura del figlio per me era emblematica di una diversità osteggiata dall’ambiente famigliare, quasi derisa. Volevo che il figlio fosse l’elemento della narrazione che svolge il compito mostrarti che l’imperatore è nudo.

C’è ancora una questione tecnica che mi fa riflettere ed è, in questo caso, l’uso o non uso dell’ironia. Mi interessa la postura del lettore. Il racconto è in prima persona, noi dovremmo stare facilmente vicino al personaggio protagonista ma quello che gli accade è grottesco e questo ci porta lontano da lui. È il procedimento ironico che utilizza per esempio DeLillo: Rumore bianco è in prima persona, ma quello che accade ai personaggi è così grottesco che noi non ci identifichiamo in Jack ma lo guardiamo dall’esterno, da una posizione vicina a quella dell’autore. È la cosiddetta ironia di DeLillo. Ciò che capita al tuo personaggio mi porterebbe lì, da quelle parti, un’ironia amara con cui si possono trattare anche argomenti tragici (del resto Rumore bianco parla dell’angoscia della morte). Però, ecco il punto, secondo me tu lo vivi molto seriamente. La boutade del regalo grottesco, per te è una tragedia. Questo mi spiazza come lettore, perché ho l’impressione di non essere in perfetta sintonia con te.

Anche in questo caso mi porti a fare delle riflessioni che non avevo ancora del tutto messo a fuoco. Non so se sia io a vivere il grottesco di questo racconto molto seriamente oppure se in realtà non sia il personaggio a viverlo in maniera seria. Il fatto è che a un certo punto il lettore potrebbe accorgersi che non c’è una via di fuga per il protagonista, potrebbe rendersi conto che i regali preziosi e costosi che il festeggiato non può nemmeno capire ma che valuta solo in base al loro costo non sia una cosa così tanto innocua. Mi rendo conto che in questo racconto ho calcato molto sul pedale del grottesco perché volevo che a delle risate iniziali subentrasse una presa di posizione forte che ponesse il lettore al fianco del protagonista.
La tragedia di cui parli tu forse è la mancanza di uscita da questa situazione che alla fine sembra diventare evidente anche al protagonista. Quell’ironia iniziale che si trasforma in grottesco poi lascia spazio a un senso tragico di impotenza anche perché, soprattutto quelli che dovrebbero essere dalla tua parte, e qui sto pensando alla sorella del protagonista, lo usano come fosse una semplice pedina priva di valore al di fuori del gioco.

“Un gatto morto sul ciglio della strada”

All’inizio del racconto precedente, il protagonista dice di riuscire a parlare con l’analista so-lo di animali e bambini. Qui un animale – un gatto che peraltro porta un nome umano – ha un ruolo decisivo per il protagonista e per lo svolgimento della narrazione. Che cosa rappresenta per te il mondo animale?

Nel caso del racconto precedente il binomio bambini/animali aveva a che fare con un certo tipo di purezza e con tutta una serie di comportamenti non costruiti. Un uccello raccoglie dei ramoscelli per costruirsi il nido e non per mostrarli con orgoglio agli altri uccelli. Questo era il motivo per cui il protagonista de “Il rito” riesce a parlare di questi argomenti. Per come sta vivendo la sua vita gli sembra che di sentirsi più affine a quel modo di vivere piuttosto che a quello della sua famiglia.
Ne “Un gatto morto sul ciglio della strada” il gatto del racconto sostituisce nella vita del protagonista la presenza di un figlio. Il protagonista è stato messo nella condizione di pensare di essere una persona inutile, non in grado di badare a se stessa e quindi nemmeno capace di badare a un altro essere umano.
Per quel che riguarda ciò che rappresenta per me il mondo animale posso solo darti una risposta molto personale. Credo che gli animali siano capaci di agire senza preconcetti e senza dietrologia. Questa è una cosa che farebbe bene anche agli esseri umani. Legandomi al racconto precedente, il padre agisce per mantenere uno status quo di potere, per lui ogni scelta deriva dall’utilità che questa comporta, ma deriva anche dalla risposta a una domanda che si ripete sempre uguale a se stessa: cosa penseranno gli altri di me se mi comporto così?
A me piace pensare che nel mondo animale questo tipo di pensiero sia limitato o quasi assente. Soprattutto se ci riferiamo ad animali in cattività e non ad animali domestici che, vivendo a stretto con-tatto con gli esseri umani, hanno finito per assomigliarci un po’ troppo.

Quello degli animali non è il solo elemento di continuità. C’è anche una famiglia che in modo persino troppo esplicito (anch’io credo che la famiglia sia la sede di complessi rapporti di forza, ma credo che questi restino per lo più impliciti e non detti) disprezza il protagonista. Sembra che esista una precisa continuità tra i racconti. Io penso da sempre che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia sia pure in forme diverse, tuttavia qui questa prossimità mi pare più palese, quasi che sia – come diceva Kundera che pure faceva operazioni simili – un romanzo a variazioni, ovvero un romanzo a cui manca la continuità di tempo e spazio ma ha una compattezza d’altro tipo, per lo più tematica o appunto fondata sull’identità del personaggio. Tu percepisci questa continuità?

Qui devo andare un po’ per ordine. Prima di tutto i racconti che sono stati inseriti in questa raccolta sono frutto di una selezione che ne ha esclusi altri. Un’esclusione che non ha nulla a che vedere con la qualità, a bontà tecnica o con qualche altro parametro di questo livello. Sono stati esclusi perché non mi sembravano affiatati con gli altri, erano buoni racconti che però raccontavano altro rispetto a quello che volevo trasmettere con questa raccolta. Quindi, in riferimento a quella che tu chiami “continuità” mi verrebbe da dirti che era voluta e che mi fa piacere che si percepisca.
Inoltre ho cercato di mettere assieme alcuni temi a me cari e ne ho lasciati fuori altri che, pur essendomi altrettanto cari, rischiavano di rendere la raccolta troppo eterogenea.
Detto questo, anche io penso che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia che nella scrittura ci sia un continuo processo di rimescolamento della materia narrativa. Pare evidente anche a me che alcuni temi siano ricorrenti in questa raccolta e che a volti siano più palesi perché il modo che ho scelto per raccontarli li mette più al centro della narrazione, mentre in altri casi sono quasi temi secondari legati al principale in un rapporto causa effetto che però li lascia comunque in secondo piano. Credo che la famiglia sia un nucleo di storie potenzialmente infinito.
Capisco quello che intendeva dire Kundera e mi fa molto piacere che intraveda in questa raccolta un “romanzo a variazioni”. Tu sai che il mio primo tentativo nel mondo editoriale è stato un romanzo per racconti che purtroppo non ha avuto fortuna. In quel caso l’unità del romanzo per racconti era data da un luogo, mentre per quel che riguarda “Un posto difficile da raggiungere” ho voluto, o almeno ho cercato, di dare una continuità di temi e l’idea era un po’ quella di raccontare gli stessi temi da angolazioni diverse per provare a renderli a trecentosessanta gradi. Non so se ci sono riuscito ma il fatto che si percepisca questa compattezza mi fa molto piacere.

“Capitani coraggiosi”

Questo racconto, soprattutto se messo in relazione ai precedenti, mi ha posto subito un interrogativo che credevo di natura tecnica ma forse non lo è. Come dicevo, secondo me, sei molto bravo a costruire delle ambientazioni molto concrete, a entrare nelle pieghe del tuo protagonista, a gestire le sue reazioni in modo inaspettato per il lettore. Però quello che mi convince meno sono i personaggi minori, sono tutti cattivi cattivi cattivi, o, se mi permetti, stronzi stronzi stronzi. Io penso che uno scrittore debba porsi con empatia e complessità con tutti i personaggi, anche i minori. In una conversazione con Nicola Lagioia lui diceva, molto efficacemente secondo me, che, quando scrive un saggio o un articolo, i politici corrotti per esempio sono disegnati come persone spregevoli senza riserve ma quando scrive un romanzo (parlava allora della Ferocia) l’autore prova empatia e compassione anche per quei personaggi. E’ la stessa ragione per cui Cerami, forse un po’ provocatoriamente, diceva che non si può scrivere un romanzo su Hitler, proprio perché non ha sfumature, non ha bar-lumi di luce.
Proprio a partire da queste considerazioni, pensavo a questo aspetto come un difetto tecnico dei tuoi racconti. Poi però ci ho ripensato, anche in virtù della nostra conoscenza e ho pensato che questa è davvero la tua visione del mondo: quella dell’uomo che sta solo sulla terra e non trova appigli o pertugi di salvezza e per il quale l’altro rappresenta sempre un’insidia o una minaccia. Così al di là di questioni tecniche, i racconti hanno cominciato a insinuare una angoscia strisciante che via via si sta facendo opprimente: ed è questo un merito della letteratura, costringerci a percepire il disagio, per farci uscire diversi dall’esperienza della lettura. Non è una domanda, ma vorrei capire le tue riflessioni su questi aspetti.

Io capisco bene quello che dici e capisco bene il pensiero di Lagioia e posso dirti che sono molto d’accordo con questa visione. C’è però un ma. Quando ho iniziato a scrivere, per qualche motivo che forse ha a che fare con la mia frequentazione con Carver, mi sono ritrovato a scrivere una serie di racconti un cui, alla fine, anche i personaggi più cattivi ne uscivano bene. Mi mancava il “coraggio” di andare in profondità nel fango e nel sangue. Ora, una cosa del genere può andare bene quando è funzionale al racconto. Se vuoi raccontare la storia un uomo cattivo perché gli hanno mostrato che nella vita c’è solo quello allora ci sta che lo scrittore cerchi di illuminare anche gli aspetti bui del suo animo e fare in modo che il lettore provi pena anche per chi sulla pagina nasce cattivo.
Poi però mi sono ricordato di un episodio di quando ero ancora alle scuole elementari. In classe con me avevo un bambino che era a tutti gli effetti la figura perfetta del bullo. Manesco, irriverente, lingua tagliente con compagni e maestre. Ecco, io mi ricordo perfettamente che quasi per confortarmi, quasi a cercare uno spiraglio in quella situazione, mi ritrovavo a pensare che da adulto non avrebbe potuto altro che migliorare e diventare una persona migliore. Non è successo, anzi, la sua vita è costellata di arresti e reati. La mia visione di bambino è stata distrutta dai fatti della vita e io questo non l’ho più scordato.
Vero è che, conoscendoci, sai anche come la vedo io su molti aspetti e in effetti quella dell’uomo solo è una tematica che mi sta molto cara, ma credo che in questo racconto subentri anche l’influenza che ha avuto Stephen King. In alcuni libri di King, anzi, in praticamente tutti, l’antagonista principale è una declinazione del male puro. Una persona, un’entità, una cosa, capace solo di perseguire il male, incapace di redenzione, incapace anche solo di concepire l’idea che ci sia una redenzione possibile. In questo racconto ma anche in altri, ho voluto inserire quella visione tremendamente cupa di King. Volevo che il protagonista si scontrasse con il male e volevo che uscirne vincitore, per lui, significasse esserne contagiato.

Finora è l’unico racconto in cui parli della lettura, che in fondo è parte importante della tua vita. In questo caso sembra essere il referente della marginalità (il ragazzino che legge è trattato come uno sfigato, e la lettura è causa e conseguenza di tutto questo). Però, almeno per un attimo, e forse senza troppa convinzione, la lettura è anche un elemento di possibile riscatto, è ciò che potrà permettere al tuo protagonista un avvenire migliore dei bulletti che gli fanno del male. Tu sei un lettore forte, che ruolo ha nella tua vita la lettura?

Credo di avere un rapporto con la lettura che in qualche modo dipende molto da come sono io come persona. Ci sono periodi in cui leggo tantissimo e ci sono periodi in cui leggo molto poco e con fatica. Direi che si tratta di un rapporto un po’ bipolare ma non posso farci nulla. Ho però vissuto la lettura in maniera diversa nel corso degli anni. Sono stato preso in giro perché leggevo, mi è stato fatto nota-re che se leggevo troppo significava che disprezzavo il posto da cui venivo e le mie origini cosa che non è assolutamente vera. Mi è stato anche detto che leggevo le cose sbagliate e che i libri giusti mancavano dalla mia libreria. Assurdità di questo tipo.
Per il protagonista di “Capitani coraggiosi” la lettura è più semplicemente un modo per allontanarsi dalla realtà, non dover pensare a una situazione familiare poco piacevole, ai rapporti con i coetanei malsani e a una forma fisica sgraziata. Nelle pagine dei libri che legge più che esserci la possibilità di riscatto c’è una via di fuga. Certo, è il protagonista stesso a un certo punto a dire che si augura che i suoi compagni restino al palo mentre lui spicca il volo, ma lui si riferisce allo studio più che alla lettura.
Comunque, tornando al “lettore forse” non posso non ammettere che la lettura, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Leggere è diventato un po’ anche studiare, smontare il giocattolo per capisce come funzionano i meccanismi e cercare di riprodurli quando poi scrivo. La lettura è parte di, passami il termine, aggiornamento professionale; è una spinta a cercare di fare sempre meglio sulla pagina.

“Il Vecchio in bicicletta”

Il bello di porti le domande durante la lettura credo sia che si vede formarsi un parere via via anziché ricostruirlo poi secondo un progetto complessivo. In questo caso vorrei dirti che Il vecchio in bicicletta è il racconto più bello, quello che apre a una certa visionarietà, che fa convergere elementi realistici e aspetti surreali, e lo fa mantenendoli in un equilibrio che è sempre difficile. C’è la realtà drammatica (la perdita del lavoro, la guerra) che diventa naturalmente quasi una favola. A pensarci lucidamente non so se sia davvero in assoluto il racconto più bello, ma è il racconto di cui, come lettore, avevo bisogno. Lo si capisce bene dalle domande al racconto precedente: era esattamente il momento di prendere un po’ d’aria, il momento dell’ironia positiva: ed è arrivato proprio quando io ne avevo bisogno. Mi rinsaldo sempre più nell’idea della compattezza di questa raccolta, che ha i tempi narrativi di un ro-manzo, le salite e discese emotive al momento giusto. So che hai scritto i racconti in tempi diversi e solo a posteriori organizzato la raccolta. Mi chiedo perciò se anche nel tuo percorso di scrittura questo racconto abbia avuto un ruolo particolare o meno, se sia nato in un conte-sto diverso dagli altri e ti abbia dato diverse emozioni di scrittura.

Quando ero ragazzo ero un consumatore folle di musica. La musica è arrivata prima dei libri. All’epoca spendevo tutti i soldi che avevo per comprarmi le prime audio cassette e poi i primi CD. E quando mi innamoravo di una ragazza, e capitava spesso, mi mettevo lì con pazienza a estrapolare traccia dopo traccia per creare la giusta compilation, quella che potesse poi mostrare senza ombra di dubbio alla ragazza chi ero veramente. Però le audiocassette non le consegnavo mai e la maggior par-te delle ragazze per cui bruciavo d’amore non se ne sono nemmeno mai accorte.
Quando ho iniziato a pensare a questa raccolta di racconti mi sono chiesto subito come costruirla e mi sono ricordato del periodo del taglia e cuci con le cassettine. Ho cercato di posizionare i racconti in modo che non fossero tutti raggruppati per tematica e che ogni tanto ci fosse uno stacco rispetto ai racconti precedenti. Quindi mi fa piacere che tu abbia notato questo stacco subito dopo il climax del finale del racconto precedente. Mi viene da pensare che forse quelle audiocassette in gioventù avrei dovuto consegnarle.
Per quel che riguarda il racconto devo dire che nasce tutto dall’immagine dell’anziano in bicicletta che trasporta i rami. Mi piacerebbe poter dire che è tutta farina del mio sacco ma in realtà quell’anziano esiste o meglio, esisteva. Per un periodo, durante la quarantena, lo vedevo passare a velocità lenta e sulle spalle aveva rami enormi. Mi chiedevo come facesse a stare in equilibrio, ma soprattutto mi chiedevo che se ne facesse di tutti quei rami.
In quel momento mi sembrava che nemmeno la propria abitazione fosse un posto sicuro dove stare e quando ho iniziato a fare ipotesi sull’utilizzo che quell’anziano poteva fare di tutto quel legname mi è sembrato che la mia ipotesi nascondesse molto del momento in cui tutti stavamo vivendo.
Non so se questo racconto abbia un ruolo particolare nel mio percorso di scrittura, so che è stato molto liberatorio scriverlo e che alla fine, una volta messo il punto finale, mi sono sentito come se non ci potesse essere una conclusione diversa.

(continua)

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“Pensa il risveglio” di Alessandro Cinquegrani https://www.carmillaonline.com/2022/07/23/pensa-il-risveglio-di-alessandro-cinquegrani/ Sat, 23 Jul 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73047 di Davide Tramontin

Alessandro Cinquegrani, Pensa il risveglio, Terrarossa Edizioni, pp. 236, euro 15,90 stampa, euro 9,50 ebook.

Dopo un lungo silenzio Alessandro Cinquegrani torna alla narrativa con un romanzo breve e denso, che segue il brillante esordio avvenuto nel 2012 con Cacciatori di frodo (Finalista al premio Calvino e candidato allo Strega). Nel corso degli ultimi dieci anni l’autore è stato impegnato sul fronte della saggistica, della critica letteraria e cinematografica, trattando argomenti che sono confluiti in Pensa il risveglio. Il romanzo si apre con quella che dopo poche pagine si rivelerà essere la [...]]]> di Davide Tramontin

Alessandro Cinquegrani, Pensa il risveglio, Terrarossa Edizioni, pp. 236, euro 15,90 stampa, euro 9,50 ebook.

Dopo un lungo silenzio Alessandro Cinquegrani torna alla narrativa con un romanzo breve e denso, che segue il brillante esordio avvenuto nel 2012 con Cacciatori di frodo (Finalista al premio Calvino e candidato allo Strega). Nel corso degli ultimi dieci anni l’autore è stato impegnato sul fronte della saggistica, della critica letteraria e cinematografica, trattando argomenti che sono confluiti in Pensa il risveglio. Il romanzo si apre con quella che dopo poche pagine si rivelerà essere la scena di un film ambientato in una realtà distopica a cui il protagonista Alberto sta lavorando insieme all’amico regista Lorenzo. Quest’ultimo sparirà dopo essersi rifiutato di modificare il titolo dell’opera da Albert Speer è morto in La nostalgia dell’acqua. Da subito il protagonista si inserisce passivamente nello spazio lasciato vacante dall’amico occupandone il posto di lavoro, il ruolo di marito, abitandone il mondo.

Tutti i temi portanti del romanzo sono presenti in nuce già dalle prime pagine, quelle in cui il lettore viene per così dire ingannato dalla messa in scena di una storia che non sarà quella narrata, ma che appartiene invece alla finzione cinematografica (a sua volta trasposta in forma letteraria): la dicotomia tra una dimensione ideale ed eterna contrapposta allo scorrere del tempo testimoniato dall’immagine delle rovine costantemente presente nel testo; la paternità e le responsabilità che da essa derivano, suggerite dal sistema di controllo delle nascite descritto nel film e la battaglia tra luce e ombra combattuta all’interno di Alberto e proiettata con modalità espressionista sull’ambientazione in cui la storia è messa in scena.

Alberto si trova a vivere, non la vita dell’amico scomparso, ma nella vita di questo, di cui occuperà lo spazio alla stregua di un parassita. Tuttavia la dimensione di cui diviene abitatore si mostra gradualmente sempre più inquietante e si trova qui uno dei punti di forza della scrittura di Cinquegrani: la resa di uno scenario perturbante attraverso un eccesso di realismo. La compagna che il protagonista “sottrae” all’amico scomparso, pur apparendo esteriormente identica alla donna conosciuta, si comporta in modo meccanico e persino il suo amore e la sua rabbia risulteranno artefatti; piccoli elementi fuori posto in quadri familiari contribuiranno a far sì che Alberto noti quelle che nella storia vengono definite “crepe”, pertugi attraverso cui occhieggiare un’altra dimensione di cui non è dato sapere se sia maggiormente autentica rispetto a quella abitata.

La costruzione della vicenda procede con un complesso gioco di specchi in cui protagonista e lettore vengono disorientati nell’interpretazione di una realtà che appare sempre più contraffatta, in cui ogni luogo ne richiama un altro, ogni soggetto e ogni azione risultano allusivi. Significativo è il rapporto complementare tra il protagonista Alberto e l’amico scomparso Lorenzo, esplicitato a livello tematico nella contrapposizione delle figure di Josef Mengele, il medico famoso per i cruenti esperimenti sui gemelli praticati ad Auschwitz e Albert Speer, massimo interprete dell’architettura nazista e ministro per gli armamenti, l’uomo più vicino a Hitler. I due personaggi storici, costantemente presenti nella narrazione, assumono valenze archetipiche rispetto a due accezioni in cui il Male può essere declinato, ossia quello di una coerenza estrema, di un’aberrazione indicibile, avulso da ogni forma di pentimento (Mengele) oppure il modo subdolo e mutevolmente opportunista, finalizzato a trarre sempre il maggior profitto dalle condizioni presenti (Speer). Il protagonista si troverà dunque a dialogare a distanza con Lorenzo e la sua assenza, quasi si trattasse di un suo doppio al negativo. Il rapporto con l’amico e la ricerca dello stesso si tradurranno in una profonda riflessione in cui componenti della personalità in conflitto tra loro si sostanzieranno nelle immagini e nelle situazioni narrate: luce e ombra, predatore e preda, esistenza e sparizione.

La ricerca di una sintesi psicologica da parte di Alberto viene sviluppata sia dall’interno (riportandone le riflessioni), sia attraverso gli eventi che accadono attorno; ciò rende possibile l’esposizione di temi profondi e controversi per mezzo di una narrazione raffinata che non rifugge l’azione e il colpo di scena, traino di una lettura priva di rallentamenti e in costante accelerazione. Risulta dunque appropriata la collocazione di Pensa il risveglio all’interno di una collana dedicata a testi sperimentali, non solo per un certo gusto postmoderno nel mescolare generi, registri e nel costruire in maniera originale la vicenda (pure presenti), ma soprattutto per la coraggiosa ricerca di una posizione mediana tra un romanzo che potremmo dire “psicologico” e fantastico da una parte e una narrazione coinvolgente caratterizzata dalle meccaniche di un racconto giallo (virato al nero) dall’altra.

Al fine di puntellare le vicende dei personaggi a scenari in continuo mutamento, finalizzati a disorientare il lettore mescolando piani realistici e onirici, vengono utilizzate efficaci trovate quali la costante riproposizione di alcuni elementi (è il caso dei torpedoni Flixbus che Alberto vede continuamente e immagina simili a navi spaziali) a fare da filo rosso. Lo stesso vale per gli obliqui parallelismi che si vanno a creare tra personaggi e situazioni e che generano coincidenze narrative spesso sottolineate dall’autore; tuttavia, se talvolta la strada per interpretare il testo risulta tracciata in modo sensibilmente marcato, va anche evidenziato che i contributi derivanti dal lavoro di critico di Cinquegrani arricchiscono il romanzo, senza per questo risultare l’esposizione di una tesi. In Pensa il risveglio non si riscontra la volontà di insegnare alcunché, evidentemente non ritenendolo lo scopo della letteratura, ma vi si trova il semplice racconto di una storia che fa emergere quesiti e spinge il lettore a riflessioni sul mondo in relazione alla propria interiorità.

Moltissimo si potrebbe ancora dire su questo romanzo: per esempio sulla trattazione del nazismo, rappresentato tanto rispetto alla sua realtà storica, quanto nella sua portata simbolica; o sulla memoria e sul suo rapporto di delicato equilibrio tra giudizio morale e comprensione del proprio oggetto. Ancora: la paternità; l’interrogarsi su rovine, testimoni di un tempo che tutto annienta; gli archetipi junghiani e moltissimo altro è presente nel testo, tanto che sarebbe opportuno intraprendere un suo studio critico. Fluido e profondo, veloce e statico, franco e contraddittorio, Pensa il risveglio si imprime a forza nella fantasia, imponendo la cittadinanza di indimenticabili scene nell’ immaginario del lettore.

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Nodi alla gola https://www.carmillaonline.com/2022/03/19/nodi-alla-gola/ Sat, 19 Mar 2022 22:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71103 di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo [...]]]> di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo titolo, di That’s (im)possibile di Cristò Chiapparino (ora Uno su infinito), e altri due suoi volumi in catalogo; in tutto una ventina di pubblicazioni, con una grafica sempre azzeccata, molto agile e contemporanea, inconfondibile, servite da una strategia di comunicazione eccellente. E da poco è arrivato anche Pensa il risveglio, il nuovo di Alessandro Cinquegrani, studioso e critico di grande finezza che ha dato buona prova di sé anche come narratore. Un direttore editoriale, Giovanni Turi, che sembra non sbagliare un colpo – anche Binari di Monica Pezzella e Qui non crescono i fiori di Luca Giordano hanno ottenuto in rete molta attenzione; ben sopra la media per un editore indipendente – e ci auguriamo continui così a lungo. Un progetto ardito: dividere in due la sua scuderia tra i “Fondanti”, ossia testi di pregio del passato che vanno recuperati (su tutti, la riproposta del Pantarèi di Sinigaglia, anno 1985), e gli “Sperimentali”, libri che nascono oggi con la volontà di guardare al domani, non solo al brevissimo domani che i libri vivono sugli scaffali dei negozi prima di essere sostituiti dai nuovi arrivi.
Nel 2021, drammatico per l’editoria come per tutta la società, schiacciata dall’emergenza pandemica, e al contrario fecondo per gli scrittori, a segnalare la salute della nostra narrativa ci ha pensato l’uscita di almeno tre romanzi singolari, quanto mai diversi tra loro, che sembrano quasi comporre uno stemma araldico, una Rota Vergilii degli stili: Ultimo parallelo di Filippo Tuena (il Saggiatore), che torna ai lettori, dopo l’edizione 2007 e 2013, con una preziosa prefazione-manifesto e un’appendice di testi inediti, e che per l’altezza della scrittura potremmo considerare emblema dello stile sublime o elevato; il tragico, insomma, non solo per il racconto della tragedia di Scott e dei suoi al Polo, quanto perché quella tragedia si innerva della Waste Land di Eliot, ne germina come un’arborescenza, e diventa un racconto di fantasmi sull’esplorazione di un Altrove che non è l’Antartide ma la scrittura.
C’è poi Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio), l’opera che ha turbato e disturbato di più, di cui si è detto e scritto di più, in questi mesi, e non sempre a proposito; a dispetto di una costruzione calibrata, complessa e disorientante, che tende al disfacimento piuttosto che alla ricomposizione, è un romanzo dalla voce apparentemente dimessa e colloquiale, e a me pare emblema dello stile medio, ossia dell’elegiaco; il libro è davvero un’elegia, perché più di tutto è dedicato all’assenza: assenza della memoria, assenza dell’identità.
Infine, il registro umile o comico: Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche di Ezio Sinigaglia (Terrarossa), che è dove volevamo fin dall’inizio andare a parare.
Intendiamoci: quando parliamo di registro umile stiamo continuando in questa, certo un po’ tendenziosa, certo un po’ pretestuosa, chiave di lettura della ruota degli stili, e non intendiamo dire che l’ultimo nato in casa Sinigaglia sia un libro comico, sebbene non latiti in esso un’ampia dose di divertimento, bensì che alla sua sfrenata invenzione stilistica presiede il più basso, ma solo perché più capiente, più metamorfico, più inclusivo, grado degli stili, o meglio ancora l’unico che sia in grado di tollerare la coesistenza di tutti gli altri, e peraltro di “opera-mondo umoristica” ha parlato lo stesso Sinigaglia in un’intervista in rete qualche tempo fa.
Che Sinigaglia fosse un virtuoso del pastiche era cosa nota, messa in mostra a mo’ di esibizione di poetica inattuale dal Pantarèi, e confermata dal delizioso L’imitazion del vero, dove al tour de force novecentesco del primo romanzo si sostituiva una perfetta imitazione, appunto, a partire da lingua e stile, di una novella post-boccaccesca non poco licenziosa. In entrambe le opere, la nota distintiva di questo autore così multiforme rimaneva la grazia, e le cose non cambiano con il primo volume di Fifty-fifty.
Molte altre cose avrei voluto dire, su questo libro, e magari più avanti dirò, se a qualcuno dovessero interessare, ma oggi mi limito a riprendere, a contrasto spero proficuo, le parole dolenti di due degli autori convocati: Filippo Tuena, che osserva che vi sono giorni in cui parlare di libri è superfluo, e Giovanni Turi, che annunciando l’uscita del secondo volume di Fifty-fifty scrive “Strano caso che esca proprio oggi un libro che irride il militarismo e ne denuncia i pericoli, FIFTY-FIFTY. SANT’ARAM E IL REGNO DI MARTE”. Strano ma in fondo proficuo. Perché il comico è arma dell’intelligenza e strumento della critica, le sole armi che ha senso usare. Anche contro i momenti tragici in cui le armi le imbracciano davvero, e non lontano da noi. (Luigi Weber)]

Il colonnello Psycho […] risiedeva in caserma, con moglie e figli, in un appartamento di cui si favoleggiava che custodisse la statua di bronzo, a grandezza naturale, di un fante assaltatore del nostro glorioso reggimento, plasmato dall’artista nell’atto di restituir l’anima alla Patria, per perfida granata d’obice austroungarico, sul cruento altipiano di Bainsizza. In memoria delle macellerie del Diciassette sull’infausto Isonzo, noi tutti, dal colonnello Psycho fino a Pisolo, ci annodavamo al collo una cravatta rossa. Rosso sangue. Un simbolo che trattavo con riguardo, con un misto di pietà e di orrore. Non sottovaluto mai i simboli. Sono lì apposta per esser valutati: per quel che sono: simboli, cioè rappresentanti plenipotenziari della cosa. La cravatta rossa per me restava sangue, per quanto si fosse coagulato in una striscia di tessuto. Ogni giorno, davanti allo specchio del mio bagno, mi osservavo chiazzarmi la camicia dei palpitanti eritrociti di un povero fantolino del Novantanove. Non ne provavo orgoglio. Solo pena. Arterie gettate via anzitempo, con dolore. Sacrificate all’imbecillità che si perpetua. Proterva, immarcescibile. Alla tracotante idiozia che, dopo morta, si fa strada e piazza e monumento. Mentre l’innocenza non può farsi che cravatta. Nodo alla gola.

Psycho abitava in caserma, con la famiglia, nel suo appartamento privato. Non per amor della cravatta, dei fanti e delle diane. Per risparmiar l’affitto, va da sé. Precauzione comprensibile. Ma da me non condivisa. Io dormivo fuori. Eppure non c’è dubbio che amassi diane e fanti più di lui. Quanto alla cravatta, almeno, mi pesava un poco, mi s’incendiava subitanea nello specchio come una vergogna nazionale. La portai sei mesi. Ne avevo due. Quella d’ordinanza, dozzinale, povera, di terital divenuto traslucido col tempo, con la pioggia e col sole: sangue vivo. Una seconda, di maglia di lana, dalle punte squadrate, corta all’ombelico, di un rosso opaco, leggermente spento: sangue antico. All’atto del congedo, non sapevo che farmene. Era da escludere che potessi portare una cravatta rossa, per il resto della vita. Progettai di versarle in due provette, ben tappate, di conservarle, di proteggere dall’oblio quei palpiti innocenti di due fantolini del Novantanove. Ma, nel complesso, sopravvalutare i simboli non è meno oltraggioso che sottovalutarli. Preferii sciogliere i due nodi, per sempre, e regalare le cravatte a chi restava. Comunque, finché prestai servizio a Palmanova, la trattai con rispetto, la cravatta, con il rispetto dovuto agli organismi naturali. Non avevo rispetto per nulla, in quei mesi sarcastici e ribelli, fuorché per i ragazzi e la cravatta. A volte l’una e gli altri entravano in un tenero conflitto. Quando mi spogliavo per far l’amore, nascondevo quel filo di sangue secco in un cassetto, o in una tasca. Il mio fluiva, rigoglioso come mai. Non volevo che il suo, dalla sua siccità, invidiasse la mia piena. Chissà se il fantolino del Novantanove, assassinato dai suoi Psycho a diciott’anni, aveva mai fatto l’amore? A volte, invece, nelle mie insonnie trepide e ispirate, nella penombra della tana soffice, gonfia di mormorii come il mio cuore, il nastro rosso si stagliava all’improvviso sulla notte come la traccia di un delitto. Gocciolava, dalla spalliera della sedia, dalla schiena della giacca. Mi ricordavo d’essere soldato. Assassino potenziale. Addirittura candidato comandante di un plotone di morti o di assassini. Ero un simbolo anch’io, non solo la cravatta! Un simbolo vivente, minaccioso. Scendevo per le pendici dell’altipiano in rivoletti rossi, sprizzavo dall’Isonzo, infelicissimo fra i fiumi. Ero la guerra, ufficialmente. Ero l’idiozia, la follia, la tracotanza che si perpetuavano. Era opportuno che il mio nodo alla gola me lo rammentasse, di tanto in tanto: giocavo un gioco sporco, anche se molto più divertente del previsto.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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