Alessandro Barile – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un contadino nella metropoli degli anni ‘70 https://www.carmillaonline.com/2023/01/14/un-contadino-nella-metropoli-degli-anni-70/ Fri, 13 Jan 2023 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75370 di Alessandro Barile

Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.

La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a [...]]]> di Alessandro Barile

Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.

La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a dieci anni dal suo funerale-evento: al cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, il 19 gennaio 2013 si convocarono spontaneamente un migliaio di persone, compagni di tutta Italia, reduci e giovani, brigatisti, non brigatisti, anti-brigatisti, chiunque si sentì toccato da una morte che sembrava trascinare con sé un’intera epoca. Una foto di gruppo, tra parenti spesso litigiosi, eppure accomunati, e non solo dal ricordo umano.

Ma la ripubblicazione di questo libro di «ricordi di un militante delle Brigate rosse» può servire anche ad altro, forse di più importante, o almeno di più utile. È un libro di memorie, e come tale è andato a suo tempo ad ampliare la già vasta produzione memorialistica sugli anni Settanta. Una memorialistica che, negli ultimi venti anni, ha dapprima lasciato spazio alla contro-memorialistica delle vittime (delle vittime reali ma, molto più di frequente, delle vittime indirette: familiari, amici, conoscenti); per poi cedere il passo a una storiografia che si è andata occupando molto di anni Settanta e del loro enigma indecifrato. La ricostruzione storica è rimasta però alquanto sterile. Nell’attuale, spasmodica, convalida di un suo statuto scientifico, la ricerca storica ha generato una tecnicizzazione degli eventi studiati. Siamo stati così invasi di libri sul lungo Sessantotto italiano, sulla lotta armata e sulla «strategia della tensione», sui profili umani e su quelli disumani. Ricerche metodologicamente affinate, eppure, appunto, sterili. Incapaci di condurre a una vera comprensione degli eventi perché ne veniva espunta, da questi, la dimensione squisitamente storico-politica. L’événement, a volte rivestito dai comodi panni della microstoria, si è preso la rivincita su di una processualità più articolata e problematica. E così sappiamo i nomi dei protagonisti, le date significative, la sequenza di fatti finora ignorati, nascosti o sottovalutati: ma ci manca il perché. Ci manca il raccordo tra longue durée, soggettività e scelte politiche, nelle molteplici forme che tale intrico assunse in quegli anni. Ci manca il rapporto vivo tra verità e ideologia, rapporto che muoveva le ragioni della politica, non solo nel marxismo. Un risvolto che, a ben guardare, caratterizza anche la storiografia sul Pci, oramai completamente disincarnata da qualsivoglia rimando alla persistenza storico-politica delle sue vicende.

I ricordi di Prospero Gallinari avvicinano il lettore a questa dimensione di problemi. Certo, lo fanno da par loro, è un punto di vista parziale, interno, “caldo”. Non è la ricostruzione dall’alto, necessariamente distaccata, “intellettuale” di una vicenda decisiva del nostro paese. Nessuno glielo chiede. È solo un tassello, forse non tanto piccolo, del più vasto mosaico-rompicapo. Alcune di queste memorie, e tra le tante sicuramente quelle di Gallinari sono ancora tra le più oneste, mantengono un rapporto vivo con i problemi storici del tempo, che investono non solo la particolare vicenda della lotta armata, ma contribuiscono a spiegare perché il Sessantotto in Italia durò un decennio, si radicalizzò non perdendo per strada la partecipazione di massa, una partecipazione di massa che si riversò anche nelle organizzazioni armate, organizzazioni che videro il proprio culmine quantitativo dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, e non prima. Problemi, con ogni evidenza, storiograficamente ancora aperti.

Una forma di tecnicizzazione è anche quella assunta dalle ricostruzioni anti-dietrologiche. Il «fronte della fermezza», e in particolare una parte della pubblicistica legata al Pci, per anni ha seminato e coltivato dubbi sull’autenticità di molte vicende collegate agli anni Settanta. In primo luogo, va da sé, sulla lotta armata. L’eterodirezione diveniva così lo strumento con il quale aggirare il problema: veniva preservato l’album di famiglia e il suo timbro democratico. L’Italia era al centro di manovre e interessi contrapposti, che usavano la protesta, la violenza politica – di destra e di sinistra – per stabilizzare o destabilizzare (a seconda di convenienze e punti di vista) il quadro politico. Una ricostruzione favorita dalle mille trame reali che avvolgono la storia italiana. Una storia, però, che non mira a “svelare il complotto”, ma che se ne serve (anzi lo costruisce ex-post) per auto-assolversi, per giustificare scelte politiche dirimenti e, spesso, gattopardesche. Di fronte all’inquinamento dei pozzi rappresentato dalla storiografia complottistica, l’anti-dietrologia si è eretta a necessario vaccino dalle scemenze pseudo-storiche e giornalistiche annichilenti. Detto dunque che il Sessantotto, gli anni Settanta, la lotta armata, le Br, sono fenomeni collegati tra loro e all’evoluzione contraddittoria delle lotte di classe in Italia; di come queste lotte non si incontrarono con il Partito comunista italiano (e anzi, a partire dal 1973-74 si scontrarono sempre più apertamente); di come questa evoluzione condusse a una “estremizzazione” della lotta politica, culminata nel biennio 1977-78: si è detto tutto quanto vi era da dire sulla lotta armata? In realtà, se ne sono solo poste le premesse “euristiche”, se così vogliamo dire. Il toro, dunque, va preso per le corna.

Ma c’è anche un altro punto di vista che andrebbe discusso, promosso soprattutto (ma non solo) da alcuni dei protagonisti principali delle Brigate rosse: la centralità dell’identità operaia della lotta armata. È un dato di fatto che le Br nascono e si diffondono nella grande fabbrica del cosiddetto “triangolo industriale”, tra Torino, Milano, Genova, con l’aggiunta di Marghera. Un collegamento che in tal senso ha tutta la lotta armata, anche quella di Prima linea, per fare che un esempio. Ma la natura, e anche l’ispirazione politica, “fabbrichista” (e non “operaista”), sono un marchio che caratterizzerà anche un certo “costume mentale” brigatista. E questo anche dopo la discesa a Roma per la «campagna di primavera» del 1977-78. Di questo rapporto reale con la classe operaia tutta la lotta armata ne ha fatto motivo d’orgoglio. Tutta la prima parte della storia delle Br, diciamo tra il 1970 e il 1976, è sì – da subito – una storia “politica”, ma che assume specialmente le forme del sostegno armato alle lotte operaie in fabbrica, e che si fa anche “usare” degli operai nel loro rapporto di forza con il padronato. Anche per questo tutta la vicenda brigatista è molto più interna a una certa tradizione politica del comunismo storico rispetto agli altri soggetti che pure si posero in quegli anni sul terreno dello scontro armato. Questo spiega anche la relazione complessa, non riducibile al mero campo della “nemicità”, delle Br con il Pci. Le Br non sono altro dal comunismo storico incarnato anche dal Partito comunista italiano, ma ne costituiscono una sua estremizzazione. Un Pci “secchiano”, per dire, avrebbe forse visto comunque lo svilupparsi del Sessantotto e la sua progressiva radicalizzazione politica contrapposta frontalmente al partito; è tutto da vedere, però, che avrebbe visto la nascita delle Brigate rosse dal suo stesso seno. Ebbene, questa identità operaia, pure da evidenziare, non esaurisce le ragioni del lottarmatismo né le spiega nella sua complessità. Lo evidenzia Gallinari in alcuni passaggi del libro:

L’organizzazione è nata nelle fabbriche. Ha sviluppato la sua iniziativa a contatto con i problemi degli operai […]. Ma le Brigate rosse sono nate anche da una consapevolezza “strategica”: “l’iniziativa rivoluzionaria genera inevitabilmente un antagonismo organizzato: la controrivoluzione”. […] La reciprocità delle due dimensioni, l’intervento nella fabbrica e lo scontro diretto col potere, è stata teorizzata dalle Brigate rosse fin dal principio della loro storia. […] Occorre superare l’orizzonte della fabbrica, prendendo di petto il “nucleo duro” del potere: la polizia, la magistratura, gli organi della repressione. […] Occorre attaccare la politica, […] bisogna portare la lotta sul piano di uno scontro generale.

Insomma l’identità operaia sostanzia un’identità comunista, in funzione di una lotta per il potere, dimensione che contraddistingue tutte le organizzazioni politiche dell’estrema sinistra degli anni Settanta, non solo le Br. Dire questo significa verificare nuovamente una versione dei fatti che collega troppo rigidamente composizione di classe, conflitto operaio in fabbrica e violenza politica fuori da essa. Erano dunque “i tempi”, e non le scelte consapevoli (e le accelerazioni soggettive, anche), a spiegare gli eventi, e la ristrutturazione economica ha dileguato non solo la figura (in parte mitologica) dell’«operaio massa», ma anche il carico di radicalità politica annessa. Come espresso nel documento che «le compagne e i compagni di Prospero» pubblicano in calce al testo (Sugli anni Settanta, scritto in carcere nel 1994), la logica posta alla base dello scontro politico lungo tutto il decennio è quella della «occasione storica reale», che spiega i posizionamenti, le idee, le azioni di tutta l’estrema sinistra di quegli anni. Questa occasione storica era davvero reale? È un problema che, certamente, oggi può essere osservato con una strumentazione maggiore, riducendo il portato di questa possibilità materiale. Il tema della «rivoluzione in Occidente», in Italia negli anni Settanta, non prevedeva, oggi lo sappiamo, una diffusione di massa della violenza politica (nella sua versione operaista o brigatista), tale da portare al fatidico salto dalla quantità alla qualità. Ma questa valutazione continuerebbe a non riconoscere che le scelte politiche delle organizzazioni comuniste avvenivano sulla scorta di un “pensiero strategico” che prevedeva questo salto, pur nell’ampio spettro delle varie e divergenti posizioni. Si era in ogni caso aperta una finestra storica, e l’onda lunga del Sessantotto generava rivoluzioni nel terzo mondo e conflitti radicali nella metropoli imperialista, conflitti – si badi bene – sostenuti da una ideologia specifica, il marxismo. Se non allora, quando? È del tutto evidente che l’estrema sinistra non seppe governare questa possibilità, non tanto a causa della sua frammentazione (condizione storica del movimento operaio), quanto nell’incapacità di collegare lotta politica legale e illegale, consenso di massa e conflittualità diffusa, sul modello basco o irlandese. Lo riconobbe, prima e meglio di altri, Luigi Bobbio nella sua bella Storia di Lotta continua. Per paradosso della storia, sarà proprio la magistratura ad edificare uno spericolato teorema (con gli arresti del 7 aprile 1979) di fatto fondato sul disvelamento del presunto rapporto legale-illegale: l’Autonomia operaia (con la sua ramificazione territoriale, i suoi intellettuali, le sue case editrici, le sue riviste) quale proiezione (o camuffamento) “legale” di un partito armato clandestino. Ma gli incubi di Calogero prevedevano una consapevolezza “strategica” che nessuno, nell’estrema sinistra italiana del tempo, riuscì ad avere.

Veniamo, però, al racconto di Gallinari, e di come questi ragionamenti si fanno carne viva. Vi è soprattutto un fatto che attraversa tutte le memorie del dirigente forse più rispettato dell’intera lotta armata italiana: Gallinari era un contadino e un comunista. Comunista come si poteva esserlo nella Reggio Emilia degli anni Cinquanta e Sessanta: fedeltà al partito, rispetto del lavoro, della terra, della cooperazione, persino della fabbrica, intesa come momento di questa cooperazione sociale, da sottrarre agli interessi privati del “padrone”, non da abbattere. E come lui tutto il gruppo emiliano, da Alberto Franceschini a Tonino Paroli a Roberto Ognibene. Ma a differenza di altri, Gallinari non poteva dirsi, semplicemente, “un estremista”. Il rapporto con la tradizione del movimento operaio, e quindi anche con il Pci, era intenso e per nulla liquidatorio. Non era “moderazione”, quanto rifiuto dell’avventurismo fine a se stesso, dell’accelerazione soggettiva sconnessa con il corpaccione operaio che, in ultima istanza, legittima e giustifica anche l’azione più combattiva. La tradizione da cui proveniva, che costituiva almeno uno parte del suo retroterra politico, non è molto diversa da quella risalente a Secchia, Lazagna, Alberganti. La «resistenza tradita», le «occasioni perse», il mito della «doppiezza», alimentavano uno orizzonte politico-ideologico che unificava idee e aspirazioni di una parte del proletariato del nord Italia. Le sliding doors, anche qui, sono alla base di una divaricazione politica che condurrà agli antipodi Pci e Br, ma non era nelle premesse. Questo spiega anche la notevole internità che le Br avevano nella metropoli operaia, dove la città-giungla, coi suoi quartieri proletari (pensiamo solo al Lorenteggio di Pietro Morlacchi), quartieri non solo proletari, ma comunisti – cioè controllati dal Pci – riconosceva e copriva le azioni dei propri figli forse esaltati, ma non sconsiderati. Non “altro-da-sé” da denunciare alla polizia, come vorrebbero dimostrare oggi scriteriati storici al servizio di una “verità di partito” addomesticata.

Il racconto di Prospero Gallinari affronta le tappe intrecciate della sua “educazione alla rivoluzione”, dalla Fgci al carcere e fino al dissolvimento delle Br nel 1988. Franco Venturi, parlando del populismo russo, aveva definito brillantemente un certo spirito rivoluzionario nei termini della «consequenzialità». Appare applicabile anche alla vicenda brigatista, almeno di molti dei suoi militanti e dirigenti, e sicuramente a Gallinari. Un piano inclinato in cui, una volta intrapresa la strada della rivoluzione, non poteva questa che determinare scelte sempre più – appunto – consequenziali. Fino alla morte, messa in conto al proprio destino, ma anche data ai “nemici di classe”, pur sempre uomini e donne reali. Le azioni brigatiste, gli omicidi, vengono rievocati con asciutta obiettività. Ci è risparmiato il cinismo degli esaltati e il romanticismo dei tifosi. Ci è risparmiato l’inutile “avevamo ragione”, e l’ancor più odioso “avevamo torto”, che riempiono le pagine di molte testimonianze. Si tratta di tragedie di cui è difficile parlare. Come scritto dai suoi compagni nell’Introduzione, «proprio nella sconfitta Prospero ebbe virtù particolari», alieno ad ogni vittimismo o reducismo fuori tempo e fuori luogo.

Le pagine che parlano del carcere, che compongono tutta la seconda parte del libro (e della sua vita), sono anche quelle in cui la riflessione politica è più profonda, e forse più amara: «il carcere allontana dalla realtà», constaterà, e il risultato sarà quello di scivolare «in un dotto schematismo che semplifica la realtà». Una realtà che impedirà alla Brigate rosse di valutare il loro isolamento reale (che è poi il riflesso dell’isolamento di tutta la classe operaia negli anni Ottanta, un isolamento che perdura), a fronte di una capacità organizzativa ancora forte per tutti i primi anni Ottanta. Qualcuno potrà dire: l’isolamento è esattamente il portato dell’azione suicida del “terrorismo” e del radicalismo di quegli anni, che privò le lotte di classe di un assestamento medio da cui ripartire. Può essere una risposta, che però non fa i conti con Reagan, Tatcher, Craxi in Italia, l’89, la dissoluzione del comunismo storico. Br o non Br, la sconfitta non appare, oggi, come la conseguenza di determinate scelte politiche, quanto piuttosto un’onda che investì tutta la classe operaia in Occidente e che sommerge ancora oggi ogni ipotesi di emancipazione.

È in queste pagine che Gallinari accenna a una ipotetica evoluzione politica delle Br. La possibilità, cioè, di superare la fase lottarmatista, immaginandola (sognandola?) reversibile: «un ruolo da partito, ecco il punto, che non siamo ancora in grado di esercitare». La «gestione del consenso» – come definisce Gallinari il dopo-Moro – imponeva una «transizione di fase»: dalla propaganda armata all’organizzazione delle masse. Certo, questa organizzazione era pensata ancora sul terreno della lotta armata, e d’altronde il «consenso», di cui pure le Br furono oggetto tra migliaia di militanti politici dell’estrema sinistra, si stabiliva su quel piano, non sul piano del “marxismo-leninismo”, dell’ideologia o della conflittualità diffusa sul modello dell’Autonomia. Le Br senza lotta armata si sarebbero probabilmente risolte nell’ennesimo partitino ideologico, posto che vi fosse uno spazio reale per una evoluzione legale. Gli esempi basco e irlandese, ma anche quello curdo, debbono sempre tenere in conto le torture di massa, le fosse comuni, gli omicidi mirati, la repressione diffusa di cui furono sempre oggetto i partiti legali e i loro dirigenti, non (solo) i militanti illegali, non solo l’Eta e l’Ira. Insomma, non poteva darsi una soluzione facile, a portata di mano. Bisognava sperimentare, ed è andata male. Questa è la storia di Prospero Gallinari, un pezzo di storia d’Italia ormai chiusa. Ma la storia, conclude giustamente Prospero, continua.

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La storia perfida di Bellocchio https://www.carmillaonline.com/2022/12/03/la-storia-perfida-di-bellocchio/ Fri, 02 Dec 2022 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74928 Alessandro Barile

L’uscita, tra il 14 e il 17 novembre scorso, del film a puntate Esterno notte sulla Rai, ha fomentato nuovi dibattiti e conseguenti polemiche sull’interminabile rievocazione del rapimento Moro. Stavolta, però, i clamori sembrano giungere soprattutto da sinistra. Se la rilettura storica di Bellocchio, nella sua commistione onirica di realtà e immaginazione, ha messo d’accordo gli epigoni della «fermezza», chi da questa fermezza venne a suo tempo travolto si è trovato ancor più confuso di prima. Tra i protagonisti reali e gli eredi ideali degli anni Settanta molte cose [...]]]> Alessandro Barile

L’uscita, tra il 14 e il 17 novembre scorso, del film a puntate Esterno notte sulla Rai, ha fomentato nuovi dibattiti e conseguenti polemiche sull’interminabile rievocazione del rapimento Moro. Stavolta, però, i clamori sembrano giungere soprattutto da sinistra. Se la rilettura storica di Bellocchio, nella sua commistione onirica di realtà e immaginazione, ha messo d’accordo gli epigoni della «fermezza», chi da questa fermezza venne a suo tempo travolto si è trovato ancor più confuso di prima. Tra i protagonisti reali e gli eredi ideali degli anni Settanta molte cose sembrano fuoriuscire da una certa zona di comfort storico-politica. Ma prima di tutto bisogna riconoscere a Bellocchio, qualsivoglia lettura si abbia della vicenda storica e di come il film la racconta, di essersi opportunamente tenuto lontano dalle scorciatoie complottiste: «dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse» è la sentenza emessa dal funzionario americano in un colloquio con Cossiga. Tanto basta per accostarsi al film con maggiore serenità d’animo. Il banchetto dietrologico di Cia e Kgb, palestinesi e piduisti avrà modo di riconvocarsi in altra sede. E con questo non vogliamo negare le interferenze interessate e i “poteri paralleli” che si attivarono durante il sequestro (nazionali e internazionali). Movimenti e interessi che si scatenarono però dopo e che, in ogni caso, non determinarono gli eventi ma tentarono, per quanto possibile, di non subirli passivamente. Il lungo Sessantotto italiano, il portato della sua violenza politica, è generato e rimane comprensibile storicamente e politicamente solo nella logica di scontro tra la mobilitazione politica e lo Stato, all’interno della quale i diversi attori chiamati ad interpretarne una parte agirono più o meno liberamente.

Il rapporto tra movimento e lotta armata è una delle maggiori controversie. Bellocchio, piegando in maniera disinvolta alcuni eventi simbolici (l’esproprio dell’armeria del 12 marzo 1977 in diretta connessione con il marzo 1978), edifica un collegamento chiaro: il lottarmatismo è il frutto, non storicamente inevitabile, ma politicamente logico, del livello di mobilitazione raggiunto dai movimenti della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta. Con ciò il regista non propone, semplicisticamente (e anche stupidamente), una giudiziaria chiamata in correo, men che meno un legame esplicito e cosciente tra “partito legale” (ma quale?) e organizzazione armata. Bellocchio non è Calogero. Quel che invece emerge è un rapporto di filiazione: da quel livello, già di per sé “esasperato”, di mobilitazione, di violenza politica diffusa, di “consequenzialità” di certe scelte, di militarizzazione delle strategie, poteva sorgere – e infatti è sorto – un piano di lotta ancor più esasperato: lo scontro armato tra una parte della sinistra e lo Stato. Esprimere tale concetto ci sembra dunque affrontare la realtà per quel che è stata, senza celarne i lati spiacevoli o in contrasto con analgesiche mitopoiesi. Le Br romane non vengono dal nulla. Sono, al contrario, il risultato di un processo storico-politico preciso, e composte da militanti riconosciuti e attivi nei gruppi della nuova sinistra. Dire ciò, raccontarlo in un libro di storia o in un film che gioca molto con la fantasia delle sliding doors, significa fare della cattiva storia? Significa, semmai, rigettare le versioni di comodo. E d’altronde, a parlare di «geometrica potenza» del 1978, da coniugare con la «terribile bellezza» del 12 marzo 1977, non era certo un ingenuo tifoso della lotta armata, ma un noto dirigente dei movimenti degli anni Settanta.

Il film (composto di sei “episodi”, o temi narrativi) affronta l’affaire Moro attraverso una specifica chiave autoriale: l’introspezione psicologica dei personaggi. Un motivo di lungo corso in Bellocchio, derivante dalla sua lunga frequentazione con Massimo Fagioli. La psicologia del potere democristiano è presentata nei suoi vari tipi antropologici e morali: Moro vittima degli eventi (e del potere), Cossiga corroso tra amicizia e ragion di Stato, Andreotti severo (e taciturno) guardiano degli equilibri di potere. La psicologia dei brigatisti è raccontata attraverso il rapporto-scontro tra Valerio Morucci e Adriana Faranda, ambedue dubbiosi ma sottomessi al duro “realismo della rivoluzione” impersonato da Mario Moretti. E vi sono poi ruoli di contorno: il Papa, Berlinguer e il Pci, la famiglia di Moro. Qui la narrazione di Bellocchio procede controversa. Funziona bene nel raccontare la Dc e i suoi principali esponenti, perché i dilemmi, i tic e le perversioni dei protagonisti appaiono come il frutto velenoso dell’esercizio del potere. Dirigenti ben integrati “nel sistema” (culturale, professionale, universitario, economico) reagiscono al Beruf weberiano attraverso forme di inevitabile dilaniamento interiore. Inevitabile, forse, perché troppo recente, ancora – come dire – “piccolo borghese”, dipendente da voleri altrui (il Vaticano, la grande industria, gli Usa e la Nato). E se la santificazione di Moro è il pegno che sembra inevitabile pagare alla possibilità di raccontare la vicenda (vedasi Todo modo per capire com’era trattato Moro prima della sua morte), la ricostruzione dei meccanismi psicologici di potere risulta nonostante tutto efficace, beffarda, realistica.

Funziona meno bene, invece, quando ad essere psicologizzati sono i militanti delle Br. Qui non c’è professione, ma vocazione, e i suoi interpreti, lungi dall’essere integrati ingrati al “sistema”, ne rappresentano una possibile disintegrazione. Non esiste la violenza politica perché vi sono dei “terroristi malati” e preda di “astratti furori” nichilistici (una sorta di nečaevšina di matrice dostoevskiana); semmai, sono le scelte tragiche che ogni lotta palingenetica impone ad incidere anche sulla mente dei militanti, alterandola. La psicologizzazione del rivoluzionario è d’altronde un territorio assai frequentato, e da Dostoevskij a Conrad a Nabokov è sempre servita a sottrarre legittimità razionale alle scelte politiche radicali. Anche Bellocchio cede alla versione di comodo che fa della rivoluzione il risultato d’uno straniamento interiore, che tresca – peraltro – con esibiti rimandi alle tematiche vitaliste di matrice dannunziana (la “bella morte”, i riferimenti al Mucchio selvaggio ecc). Pensare a Prospero Gallinari o Mario Moretti come esaltati nietzscheani, insomma, ce ne vuole. Ciò non toglie che qualcuno possa esserlo stato (ma bisognerebbe cercare altrove che nelle Br) ma, anche qui, non spiegherebbe nulla del processo storico che ha portato alla lotta armata in Italia. I Sàvinkov, in quegli anni, furono semmai altri.
Quello che invece assolutamente non convince è il ruolo del Pci, e di Berlinguer in particolare. Un ruolo sottodimensionato, laterale, subalterno. Di fatto irrilevante. Eppure il Pci è stato il soggetto decisivo nel condurre in porto una «politica della fermezza» che aveva contro non solo i socialisti e il Vaticano, ma una parte importante della stessa Democrazia cristiana. Lo smarcamento comunista avrebbe lacerato irrimediabilmente la tenuta del potere democristiano, con tanti saluti alle pur invadenti pressioni americane. La domanda decisiva è allora: perché in un paese così apparentemente debole si impose una ragion di Stato pronta a sacrificare uno dei suoi massimi esponenti? Le ragioni sono molteplici, nessuna delle quali conduce al rischio di un “riconoscimento politico” dei brigatisti. In gioco vi erano due interessi concorrenti e compartecipi nell’edificazione di una politica serrata alle preghiere del prigioniero Moro. Da un lato il posizionamento dell’Italia nello scenario internazionale. Cedere su Moro avrebbe comportato l’automatica retrocessione del paese a entità compiutamente dipendente dai voleri del campo euro-atlantico. Nonostante la sua indipendenza geo-politica sia stata, dal 1945 in avanti, relativa, questa stessa “relatività” era un fatto di non poco conto, che garantiva di un certo margine d’azione e di proiezione internazionale che l’Italia della guerra fredda giocava con discreta originalità. Ma vi era anche la questione del “compromesso storico”. Un Moro liberato, e libero a quel punto di far valere la sua “ritorsione morale” sulla parte della Dc fautrice della fermezza (Andreotti in primis), avrebbe dapprima indebolito la Dc, poi probabilmente accelerato l’incontro coi comunisti, a quel punto dischiudendo loro le porte degli incarichi ministeriali (ricordiamo che nel governo Andreotti che si apprestava a ricevere la fiducia alla Camera il 16 marzo vi era l’appoggio, ma non la presenza diretta, di esponenti comunisti).

Vi era poi un interesse comunista. Il Pci espresse la più rigida fermezza (seppure nelle forme gesuitiche che Bellocchio mette perfidamente in scena nel confronto tra Berlinguer e gli altri leader politici: «fatela» – la trattativa (economica) coi brigatisti – «ma non ditelo») per due ordini di motivi. Il primo è stato più o meno rilevato da tutti: la sua trasformazione in “partito d’ordine”, pienamente fedele alla legalità costituzionale, era compiuta e non poteva darsi altra scelta realistica che non l’assoluta difesa delle istituzioni. Una difesa dell’ordine costituito che Berlinguer – e tutto il gruppo dirigente comunista – portarono alle ultime conseguenze persino di fronte alla possibile scomparsa della loro sponda politica in seno alla Dc: Moro appunto. La morte di Moro era un problema politico per il partito comunista, e nonostante ciò non vi fu mai tentennamento. E questo anche perché – ed è il secondo ordine di motivi, che però nessuno evidenzia – una “vittoria” dei brigatisti avrebbe comportato un indebolimento del partito in quei settori operai che non stavano partecipando affranti al requiem della democrazia. Se sarebbe esorbitante parlare del rischio di “perdere le fabbriche”, nondimeno per il Pci si sarebbe aperta una fase di più complicata gestione nel proprio bacino sociale, militante ed elettorale. Non vogliamo con questo esagerare l’internità del brigatismo nelle fabbriche del nord Italia. Sarebbe però un errore negarla risolutamente. E questa “zona grigia” poteva ampliarsi, coprire con una certa “indifferenza” le azioni terroristiche in fabbrica, corrodere l’ideologia della legalità che il Pci aveva costruito in quarant’anni di lavoro culturale, sindacale e sociale nella classe operaia del paese. Con ciò occorre, però, un supplemento di interpretazione, onde evitare possibili fraintendimenti.

Nelle concitate giornate successive al sequestro, precisamente il 28 marzo (e poi ancora il 2 aprile), Rossana Rossanda scrisse due celebri articoli su «il manifesto» in cui si riferiva alle Brigate rosse come parte «dell’album di famiglia comunista». Parte, dunque, di una storia comune, per linguaggi, temi, modo di articolare le posizioni politiche, conclusioni a cui si giungeva. La (ancora oggi geniale) uscita di Rossanda incontrò il più violento (e prevedibile) rifiuto del Pci. A seconda di come si interpreti il passaggio dell’album di famiglia, avevano però ragione sia Rossanda che Macaluso (che rispose a nome del Pci all’articolo del «manifesto»). Aveva ragione Macaluso a rifiutare qualsiasi possibile contiguità: sin dall’origine del “partito nuovo” nella Resistenza, il Pci aveva di fatto abbandonato qualsiasi ipotesi di fuoriuscita dalla legalità. La difesa (e anzi la sostanziazione effettiva) dell’ordine costituzionale, col suo corredo istituzionale fondato sulla lotta parlamentare, costituiva l’orizzonte pressoché unico della sua strategia politica. La famigerata «doppiezza» di cui Togliatti sapientemente si serviva era funzionale proprio a tenere dentro al partito tutte le molteplici spinte provenienti dalla classe operaia, governandole in funzione di una tattica parlamentare che si sovrapponeva alla strategia di lungo periodo. Era insomma l’articolazione della guerra di posizione gramsciana (certo piegata, e forse un po’ travisata, dal Togliatti editore di Gramsci), che comportava il consolidamento delle proprie posizioni e l’accrescimento graduale della propria forza politica ed elettorale. L’unica “lotta armata” pensabile per il Pci sarebbe stata quella da attuarsi in caso di colpo di mano reazionario, fino almeno ai primi anni Settanta tra le possibili (ma non probabili) opzioni dei vari poteri in competizione nel paese. E però aveva ragione anche Rossanda: le Br non appartenevano all’album di famiglia del Pci, ma sicuramente facevano parte di una tradizione del movimento comunista che solo i corifei del togliattismo postumo potevano negare con tale vigore e sprezzo della storia del movimento operaio. Il blanquismo, il bolscevismo e il cominternismo degli anni Trenta, e poi gli innesti del maoismo e del castrismo, costituiscono elementi di una storia comune, anzi: di un’unica storia, a cui senza dubbio apparteneva anche il Pci, ma che non si esauriva epifanicamente nel Pci. Questo era la lotta armata in Italia, di cui si possono condannare le scelte politiche, le soluzioni estremistiche, le ipotesi irrealistiche di partenza e di arrivo, ma di cui non si può disconoscere una matrice interna alla storia e alle logiche di emancipazione della classi subalterne.

Il Pci fu dunque sicuramente vittima degli eventi, ma non spettatore inerme. Si mosse coscientemente in una direzione precisa, e non valutarne il ruolo di puntello strategico delle scelte di Andreotti e Cossiga significa, qui sì, fare una cattiva storia, una storia addomesticata. E d’altronde, la scena delle guardie del corpo di Moro e Berlinguer (il “popolo”) che fraternizzano mentre i due leader orchestrano l’incontro storico (in macchina, come sovversivi in clandestinità), un incontro avverso alle resistenze tanto degli “estremisti di sinistra” quanto a democristiani e americani, è la sintesi e la summa di una visione politica identificabile, che da Togliatti e De Gasperi arriva a Moro e Berlinguer passando per Scalfari e «Repubblica».
La conclusione del film lascia spazio a facili what if di limitata capacità euristica. La storia, per chi la vuole conoscere, è già tutta dispiegata. Una pagina sanguinante della storia d’Italia, che sarebbe ora di chiudere giuridicamente per continuare a valutarne politicamente tutta la portata.

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