Aleksandr Solženicyn – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Esperienze estetiche fondamentali / 11: Dr. Westlake & Mr. Stark https://www.carmillaonline.com/2023/12/04/esperienze-estetiche-fondamentali-11-donald-e-westlake-richard-stark/ Mon, 04 Dec 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79988 di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico). Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della [...]]]> di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico).
Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della vita, di quelle che da sole giustificherebbero, se solo riguardassero opere insigni e si sapessero in giro, una duratura nomea letteraria. Questa: qualche anno prima che l’arcanum venisse svelato dallo stesso interessato, o che a chiunque altro venisse in mente che c’era lì un arcanum da svelare, capii che Donald E. Westlake, l’inventore del giallo umoristico, e Richard Stark, l’inventore del nero criminale, l’uno Jerome K. Jerome redivivo, l’altro imperturbabile fantasma di François Villon, erano la stessa persona. (Aritanga Jekyll e Hyde).

Non fu un’intuizione da poco, fu scoccare la freccia nel centro esatto del bersaglio, roba da destare non diciamo l’invidia ma almeno l’ammirazione di Cesare Garboli o (piuttosto che niente) del mio amico Roberto Barbolini, tant’è che ancora me ne vanto. Una volta, a colazione, lo raccontai a Laura Grimaldi, direttrice all’epoca del Giallo Mondadori, che di Westlake-Stark era una grande fan, oltre che la traduttrice ufficiale, ma temo che non mi abbia creduto. Io stesso, mentre mi facevo bello, stentavo a credermi. Un’altra volta avrei potuto raccontarlo allo stesso Westlake-Stark, che intervistai per “il Giorno” in anni lontani (fine ottanta, primissimi novanta) al Grand Hotel et de Milan. Era un’intervista organizzata dalle edizioni Interno Giallo, nel frattempo scomparse, o meglio riconfluite in Mondadori, di cui erano un’ala ribelle. Intervistai contemporaneamente lui e il grande Ed McBain, convocati entrambi a Milano in occasione dell’uscita contemporanea di due loro libri: Mostro sacro (oppure Un buco nell’acqua) Westlake, Misfatti (o Conversazioni criminali) McBain, che li firmò entrambi col suo vero nome, Evan Hunter.

Si presentarono insieme nella hall dell’albergo, due anziani newyorchesi purosangue dall’aria sgamata. Westlake, ormai un umorista a tempo pieno che da anni non scriveva più storie firmate Stark, aveva pochissima voglia di ridere e non reagiva alle battute, mentre il suo collega McBain, autore di sobri melò criminali, rise e scherzò tutto il tempo.

Oltre alle storie dell’87mo Distretto, l’immaginario distretto di polizia d’una città immaginaria («Isola») molto simile a New York, McBain aveva scritto la sceneggiatura degli Uccelli di Hitchcock (1963) e ispirato ad Akira Kurosava Anatomia di un rapimento (di nuovo 1963). Quanto alle storie di Westlake erano stato portate sullo schermo da Jean-Luc Godard, John Boorman, Peter Yates, Costa-Gavras. Erano due monumenti alla cultura pop, e in quel momento erano entrambi seduti con me nella hall d’un albergo milanese. Mica male, no? Stavano lì, sorseggiando succhi di frutta e caffè, parlando di cinema, di romanzi, di serie televisive (entrerei nei particolari se la mia memoria si spingesse così lontano, o ritrovassi l’intervista tra le vecchie cartacce, purché non mi si chieda di cercarla adesso).

Erano in due. In tre con Richard Stark.
Autori di thriller e mistery, dovevano sapere (lo sapevo persino io) che qualcosa non tornava. C’era lì un mysterium: l’assenza di Richard Stark. «Un terzo», come nella Terra desolata di Eliot, ci camminava accanto.

Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo solo io e te
ma quando guardo la strada bianca davanti
c’è sempre un altro che ti cammina accanto
scivola avvolto in un manto marrone, incappucciato
non so dire se sia un uomo o una donna
– ma chi è che ti sta accanto dall’altra parte?

Personalmente, prima dell’illuminazione, in anni non lontani ma lontanissimi, avevo incontrato il terzo (con me il quarto) che ora sedeva con noi, ospite invisibile del Grand Hotel et de Milan, in un campeggio delle Cinque Terre. Era l’estate del 1964. Ero finito a Monterosso, o Porto Venere che fosse, con mio fratello, che aveva preso da poco la patente e che, con la sua 600 nuova di zecca, voleva mettersi alla prova come autista su lunghi percorsi. Fu lì, seduto nella posizione del loto su una spiaggia sassosa, con gli occhiali scuri e un’aranciata tiepida, cosparso d’olio solare, che lessi Anonima carogne, in originale The Hunter, uscito in America l’anno prima. Era la prima avventura di Parker, il rapinatore (che non aveva un nome ma soltanto un cognome) protagonista delle storie di Richard Stark. Anonima carogne, negli anni a venire, sarebbe stato portato molte volte sullo schermo. Avrebbero interpretato il ruolo di Parker, in un putiferio di film tratti quasi tutti da quella sua prima avventura, Lee Marvin e Mel Gibson, Jason Statham, Robert Duvall, Peter Coyote e persino Jim Brown, un attore nero. Al momento, mentre leggevo Anonima carogne nelle Cinque Terre, non si era ancora visto un solo film, naturalmente, ma era evidente che ce ne sarebbero stati. Dr. Westlake e Mr. Stark: lo strano caso del libro che non sembrava di leggere ma di vedere.

Anonima carogne era una storia incredibile. Mai letta una storia così. Parker, sua moglie e un altro criminale, revolver alla mano, sul viso una calza di seta, svaligiavano una banca, o forse assaltavano un furgone postale. Moglie e socio se la intendevano e Parker (come i mariti becchi nelle pochade francesi, e come Suchanov a Pietrogrado) era l’ultimo a sapere. Scopriva la tresca solo quando i due gli sparavano, lasciandolo per morto, e fuggivano col bottino. Parker finiva in carcere per un altro reato. Ne usciva dopo qualche mese, deciso a rintracciare i due felloni. Direte: cercava vendetta. No, Parker cercava i suoi soldi. Efficiente, gelido, nemmeno l’ombra d’uno scrupolo, un killer nato, ma soprattutto nessuna voglia di ridere, come Westlake a Milano, Parker rintracciava la moglie fedigrafa, quindi anche il socio fellone, ma i soldi della rapina erano spariti: il socio spiegava d’averli usati per saldare un debito con la mafia, qui detta l’Organizzazione, che altrimenti il conto l’avrebbe saldato a lui. Parker accoppava l’ex socio, che aveva tentato (un povero illuso) di sparargli di nuovo, ma soltanto dopo avere ottenuto da lui il nome del mafioso che aveva preso materialmente i soldi. Gli si presentava, non invitato, in casa: hai un tot di dollari miei, bello, provvedi a girarmeli o qui finisce male. Quello rideva, incredulo, così Parker gli diceva di chiamare al telefono il suo superiore gerarchico nell’Organizzazione. Puntando la Smith & Wesson alla tempia del sottoposto, spiegava al secondo boss la natura del problema: i miei soldi, o prima ammazzo questo qua, quindi vengo a cercare te. All’altro capo del telefono risuonava la solita risata, così Parker sparava, poi si presentava di persona a casa dello spiritoso, dove si ripeteva la stessa scena, caccia i soldi, non li ho, bang-bang, e via così, un superiore gerarchico dopo l’altro. Mentre Parker avanzava da un capitolo all’altro di Anonima carogne, la scia di cadaveri s’allungava, tutti stecchiti, un mafioso dopo l’altro, ciascuno insieme ai suoi gorilla, finché l’Organizzazione non ne aveva abbastanza e restituiva i soldi al ladro legittimo, che incassava tranquillo e impassibile. Da quel giorno Parker, grande stratega di rapine, mente napoleonica, avrebbe rapinato di tutto, casinò, treni, vagoni postali, banche, gioiellerie, una volta persino una città intera. Con lui, reclutati di volta in volta per questo o quel colpo, altri rapinatori di rango, lo affiancavano nelle rapine: Stan Devers, Dan Wycza, Handy McKay, Frank Elkins, Ralph Wiss. In primissima fila, tra loro, c’era Alan Grofield, attore dilettante e re del rififì. Protagonista in proprio di quattro romanzi, Grofield fu una delle scintille che avrebbero alimentato la mia illuminazione critica.

Dice una leggenda che Stark, negli anni sessanta, era l’autore più letto nelle carceri americane, dove Parker, un malvivente spietato e asociale, faceva da modello e ideale dell’Io a ogni fior di galeotto. Piaceva, immagino, anche alla bella gioventù dell’epoca, che aveva decretato il successo di Bonnie and Clyde (da noi Gangster Story, Arthur Penn, 1967) e che presto avrebbe tifato per i Vietcong, per Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah e per le belle imprese di Che Guevara in Bolivia. Banditi esistenzialisti, fidanzatini di Peynet armati di mitragliatore, Bonnie e il suo ragazzo non somigliavano granché al sinistro eroe di Richard Stark, ma occupavano lo stesso spazio culturale: Parker i penitenziari, B&C le sale cinematografiche. E i jukebox: «Bonnie e Clyde sono due tipi strani. / Invece di dire buongiorno, dicon su le mani» cantava Gianni Pettenati, uno scialbo gorgheggiatore dell’epoca, a Bandiera Gialla, trasmissione cult del radiolitico.

Cinque Terre, in ogni modo. 1964. Passò qualche anno, e a Natale del 1970 ero ricoverato all’ospedale militare di Milano (sotto le feste, chi passava le carte da finto malato, anche solo per un paio di settimane negli uffici del segretariato ospedaliero, otteneva due mesi due di licenza per malattia… è una storia lunga). Si lavorava dalle otto-nove del mattino fin verso l’una, poi non restava che ammazzare il tempo. Alcuni leggevano, molti chiacchieravano, qualcuno giocava a poker come in Cincinnati Kid (il film di Norman Jewison con Ann-Margret e Steve McQueen, tratto da un grande romanzo omonimo di Richard Jessup, Garzanti 1967, con una bella copertina di Guido Crepax).

Qualche volta giocavo anch’io, e in un’occasione mi capitò persino di vincere, benché sia negato per qualsiasi gioco, dal calciobalilla a Tetris, figurarsi il poker. Vinsi una somma per l’epoca enorme, circa 300.00o lire, che divisi a metà (non sembravano soldi veri ma soldi del Monopoli) con un hippie sfigato e piagnucolone che doveva mandare al più presto del denaro ad Amsterdam, dove la sua ragazza era nei guai, o così frignava lui. Giocavo, ma soprattutto leggevo, naturalmente. Di notte, all’ora delle galline, venivano spente per decreto burocratico tutte le luci e così mi toccava leggere sotto le lenzuola alla luce d’una torcia elettrica. Lessi, tra gli altri, uno dei migliori romanzi di Donald E. Westlake, Un bidone di guai, in originale God Save the Mark, cioè «Dio salvi il ghiozzo», dove ghiozzo sta per vittima predestinata dei bidonisti. Romanzo straordinario, mi rimase impresso non soltanto perché bello. M’impressionò, credo, anche per via dell’hippie. E se fossi stato un ghiozzo anch’io? Forse l’hippie mi aveva bidonato con una storiella strappacore (quando lo incontrai per caso, mesi dopo, in una via di Firenze, o di Bologna, non ricordo, finse di non riconoscermi, vedi mai che gli chiedessi, come Parker ai mafiosi, di restituirmi i soldi, o qui finisce male, bello).

Ma veniamo a Fred Fitch, protagonista d’Un bidone di guai, e diciamo subito che, benché indubitabilmente fesso, non era «un fesso qualsiasi» ma – per citare il soffietto dell’ultima edizione del romanzo (2013, I classici del Giallo Mondadori n. 1314) – «il re dei fessi». Gigante tra i fessi, Fitch è eternamente in balia di «truffatori e imbroglioni pronti a profittarsi della sua buona fede». Salta fuori in apertura del romanzo che, come lui è il re dei fessi, suo zio era il re dei bidonisti. Scomparso di recente, lo zio gli ha lasciato in eredità tutto quel che possedeva, compresa una bellissima ragazza, sua complice nei bidoni più complicati, e forse anche un tesoro in denaro o gioielli. Comincia una farsa slapstick, congestionata e fracassona, di bidoni e controbidoni, per metà comica finale e per metà Neil Simon (di nuovo lui). Anche qui, come con Anonima carogne, una storia incredibile. Mai letto niente di simile prima.

Durante la licenza, che si trasformò (altra storia lunga) in congedo definitivo, mi procurai sulle bancarelle ogni altro Westlake uscito negli anni. Non erano moltissimi, più o meno una decina, alcuni apertamente umoristici, altri soltanto brillanti e per così dire «giallo-rosa», o «romantic suspence», stile Claudia Cardinale e David Niven nel primo La pantera rosa (Blake Edwards, 1963) o Cary Grant e Audrey Hepburn in Sciarada (Stanley Donen, sempre 1963). C’erano Veleno nel sangue, I mercenari, Qualcuno mi deve del grano, Prendetelo morto, Ma chi ha rapito Sassi Manoon, 25: morto che scappa: quasi tutti Gialli Mondadori. Pochi mesi dopo sarebbero usciti da Feltrinelli Addio, Shéhérazade e su “Segretissimo” una spy story umoristica intitolata … e così spia.

Addio, Shéhérazade non era un giallo ma la storia delle disgrazie tutt’altro che a luci rosse (anzi) che capitano a un romanziere porno cacciato di casa, mentre … e così spia era la storia d’un pacifista compulsivo, con le dita sempre sporche d’inchiostro per il ciclostile, e della sua ragazza, un’ereditiera bella e svampita, che l’Fbi infiltra in un gruppo terroristico da vaudeville. Sempre di lì a poco (be’, diciamo di lì a due o tre anni) sarebbe stato tradotto Brother’s Keepers (Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca, Editoriale Corno 1975): Fratel Benedetto, trappista dell’Ordine di San Crispino, deve salvare il convento, situato a Park Avenue, New York, dall’essere abbattuto per fare posto a un grattacielo. Ma soprattutto, in piena licenza per malattia, quando mancava meno d’un mese al congedo, uscì Il Giallo Mondadori n. 1150 del 14 febbrai0 1971: Gli ineffabili cinque, in originale The Hot Rock, o La pietra che scotta, come il grande film (oggi purtroppo semidimenticato) con George Segal e Robert Redford che ne avrebbe tratto Peter Yates nel 1972. Era la prima avventura di John Archibald Dortmunder, brillante organizzatore di furti e ruberie, ladro provetto ma iellato, versione giallo-rosa di Parker.

Dortmunder faceva lo stesso mestiere di Parker (rubava ai ricchi e teneva il maltolto per sé) ed era bravo quanto lui: piani perfettamente congegnati, che infatti funzionavano con precisione e puntualità, salvo (ogni volta) qualche intoppo imprevedibile, tutti però del genere slapstick: l’equivalente thriller dell’ubriaco che sbaglia porta di casa e si mette a dormire in un letto altrui (per giunta già occupato) e del grassone che, inseguendo un bambino sberflone, scivola su una buccia di banana, o del gagà che lascia cadere il monocolo nel generoso decolté d’una signora. Diversamente da Parker, Dortmunder non portava armi, rifuggiva la violenza, amava la quiete e non frequentava il milieu, salvo un cognato pazzo e pasticcione. Sempre a differenza di da Parker, che frequentava tipi loschi ed era più losco e pericoloso di loro, Dortmunder viveva nell’universo di Berto Wooster, l’eroe di P.G. Wodehouse, sotto un’eterna pioggia di torte in faccia.

Fu a quel punto che feci due più due.
Dortmunder era Parker (ci risiamo) come Jekyll era Hyde. Non c’era margine d’errore: l’uno era il riflesso dell’altro in uno specchio deformante. Entrambi rapinatori, i soli due rapinatori diventati eroi seriali dei pulp dai tempi di A.J. Raffles e Arsène Lupin, ed entrambi alle prese, ogni volta, con la pianificazione d’un colpo, poi con la sua esecuzione, quindi con gl’inciampi (buffi, drammatici) che immancabilmente ne seguivano. Parker risolveva i problemi a revolverate, Dortmunder rinunciando al bottino, facendosi deriubare o tornandosene a casa con la coda tra le gambe. C’era poi Alan Grofield, il socio di Parker, guitto e ganimede, che nelle sue avventure da protagonista e prim’attore stingeva sempre più nel «giallo-rosa». Finanziava la sua stravagante compagnia teatrale con furti con scasso e aveva conosciuto Mary, sua moglie, durante una rapina (era una delle telefoniste prese in ostaggio nella piccola città che Parker e la sua «posse» di loffi saccheggiavano per lungo e per largo in un romanzo del 1967, The Rare Coin Score, da noi Parker: rapina a sangue freddo, “il Giallo Mondadori” n. 1021). Indizio risolutore (e qui, lo ammetto, non ci volevano né Sherlock Holmes né Giorgio Manganelli per venire a capo del mysterium): uno dei personaggi degl’Ineffabili cinque si chiamava Alan Greenwood, era un attore e meditava di cambiarsi il nome in Alan Garfield. Altro indizio risolutore (e di nuovo, lo riammetto, non è meccanica quantistica): in Jimmy the Kid, da noi Come ti rapisco il pupo, Dortmunder s’ispirava a un romanzo di Richard Stark nel progettare il suo kidnappimg (rapisce un bambino cinefilo dal Q.I. einsteiniano, che finisce per dirigere il rapimento e che alla fine s’intasca il riscatto, coglionando i criminali).

Più avanti, anni dopo, quando saltò fuori che Westlake e Stark erano effettivamente le due personalità multiple d’uno stesso romanziere, circolò la leggenda che a Westlake, mentre stava raccontando ad alcuni amici la trama d’una storia di Parker, fosse venuto da ridere. Di qui, con un testa-coda e una brusca ripartenza da pilota di Formula 1, la trasformazione di quella trama nella prima storia di Dortmunder. Qui ci fu un fattaccio. Parker, invece di coesistere col suo doppio comico, perse d’un tratto consistenza e cominciò a svanire, come un cattivo pensiero. Westlake, convertito a Dortumunder, ne aveva evidentemente abbastanza dell’aplomb, della mancanza di scrupoli, della pistola facile di Parker.

Molto prima che John Archibald Dortmunder prendesse il sopravvento, Parker cedette per un po’ il passo a Grofield che, a conclusione del colpo al Casinò di un’isola chiamata Cockaigne, cuccagna, in un romanzo intitolato The Handie, da noi Parker: a ferro e fuoco, “Il Giallo Mondador”i n. 944, restava in un hotel messicano, ferito e dolente, mentre Parker se la batteva dopo avergli lasciato in una valigetta la sua parte di bottino. Cominciavano le avventure di Grofield, da Carrera messicana (The Damsel, 1967) a Tocca ferro, Grofield (Lemons Never Lie, 1971), che apparvero da noi sia sul “Giallo” che su “Segretissimo”. Erano roba un po’ à la James Bond, ma in tono molto leggero, non ancora comico, ma già rilassato e piacevole, o meglio «piacione», cosa che tra gli ergastolani, fan delle maniere e delle emozioni forti, immagino abbia destato scandalo. Grofield non era un modello per gli ospiti di Sing Sing, proprio come non lo sarebbe stato John Dortmunder, ladro buono e morbido, troppo letterario e frizzante, senza neppure una traccia di sana brutalità. Ma presto anche Grofield seguì Parker nell’oblio. Comparve ancora in Slayground, o Luna-Parker, “Il Giallo Mondadori” n. 1234 del 1972, e nel suo seguito, Butcher’s Moon, o Parker: luna nuova, buio pesto, “Il Giallo Mondadori” n. 1366 del 1974: nel primo romanzo Parker e Grofield, dopo una rapina, sono costretti a nascondere il bottino in un luna-park, dove torneranno anni dopo, in un nuovo romanzo, per recuperarlo, ma una ghenga di teppisti locali cercherà di soffiarglielo.

Parker tornerà per un ultimo giro di giostra, resuscitato insieme Richard Stark, in una serie di nuove storie più di tre decenni più tardi: la prima è del 2000 (Flashfire, da noi Flashfire: fuoco a volontà, Sonzogno) e l’ultima (Ask the Parrot, da noi Parker: ultima corsa, Alacran) è del 2008, l’anno della morte di Westlake. Nessuna di queste storie è memorabile o anche soltanto intrigante come una volta, nei remoti sixties. Sarà che i tempi sono cambiati, che Parker non è più una novità né uno scandalo, che il crimine ha perso il suo appeal. Parker è ormai un personaggio invecchiato, tuttavia immagino che i galeotti d’America abbiano festeggiato la sua réentré, e quanto a me, naturalmente, raccomando l’ultimo Stark, che primo o poi rileggerò, anche a chi è libero come l’aria.

Nei primi settanta, con la gente che frequentavo, non è che potessi seriamente vantare con qualcuno il mio satori critico a proposito di Donald E. Westlake e del suo doppio. Dortmunder, Parker, Grofield erano maschere d’un carnevale che sapevo solo io. Niente di che, intendiamoci. Avevo capito – e me ne davo atto ogni volta che usciva un nuovo libro dell’uno o dell’altro, oggi Stark, domani Westlake – che la lettera rubata era nascosta in piena vista.

A lungo, per forza di cose, tenni per me sia l’enigma che la soluzione dell’enigma. Quando ne parlai con qualcuno, per esempio con Laura Grimaldi a colazione, era un mysterium ormai risolto da tempo, e intanto la fama di Dortmunder, di Parker, di Grofield andava impallidendo, fin quasi a sparire del tutto (al cinema Dortmunder era stato non soltanto Robert Redford, ma anche George C. Scott, Christopher Lambert, Martin Lawrence, Herbert Knaup, persino Teo Teocoli, e poi più nulla, finis). Oggi, diciamocelo, chi ne sa più niente? E in fondo, a chi importa?

Allo Strand Bookstore della 12th, all’angolo con Broadway, c’è un’intera sezione dedicata ai libri su New York, ma non vi troverete un solo titolo di Westlake, che di New York è stato uno dei cantori (trovate, in compenso, tutto Westlake e tutto Stark al Mysterious Book Shop di Warren Street, giù nel distretto finanziario). Westlake scriveva romanzi così «newyorkcentrici» che quando uno dei suoi personaggi passava il ponte di Brooklyn diceva d’essere diretto «in America». Ma la magnifica libreria della 12ma strada fa spallucce.

Ignora o non tiene conto che nei romanzi di Westlake ci sono pagine straordinarie su New York. Tipo questa:
«A New York tutti cercano qualcosa», scrive Westlake in apertura di Dancing Aztecs (La danza degli aztechi, “Giallo Mondadri” n. 1500, ottobre 1977).

«Gli uomini cercano le donne e le donne cercano gli uomini. Giù al bar degli invertiti, gli uomini cercano gli uomini, e al «Barbara» e al Movimento di liberazione della donna, le donne cercano le donne. Le mogli degli avvocati, davanti a Lord & Taylor, cercano un tassi, e i mariti delle mogli degli avvocati, in Pine Street, cercano il rotto della cuffia. Le passeggiatrici davanti all’Americana Hotel cercano un gabinetto, e i ragazzini che aprono le portiere dei tassi davanti al terminal di Port Authority cercano mance. Così come cercano mance i tassisti, i fattorini, i camerieri e gli agenti della Squadra Narcotici- I neolaureati cercano lavoro. Gli uomini che portano la cravatta cercano un lavoro migliore. Gli uomini che portano i giubbotti di pelle cercano invece migliori opportunità. Le donne in tailleur di linea severa cercano opportunità uguali a quelle degli uomini. Gli uomini con la cintura di coccodrillo cercano una roulette alla quale si possa barare. Gli uomini con i polsini lisi cercano dieci dollari fino a mercoledì. Gli imprenditori cercano profitti più alti e una bella villa in New Hyde Park. I bravi ragazzi di Fordham cercano una ragazza da portare al cinema. I cattivi ragazzi di St. Louis ne cercano una da portare a letto. I giovani dirigenti aziendali della Terza Avenue cercano una relazione sentimentale significativa. I neri del Bronx che stazionano in Washington Square Park cercano carne bianca. I bevitori di birra che stazionano nei bar di Columbus Avenue cercano guai. Il Dipartimento Parchi e Foreste cerca alberi da abbattere e da trasformare in legni da ardere a beneficio dei politicanti locali. Gli abitanti dei vari quartieri cercano dei politicanti che impediscano al Dipartimento Parchi e Foreste di abbattere tutti quegli alberi. Campa cavallo. I mendicanti del Bowery, con in mano uno straccio sporco, cercano un parabrezza da pulire. Le macchine con la targa della Florida cercano la West Side Highway. Le macchine con il contrassegno dei medici cercano un posteggio. I furgoni delle consegne a domicilio cercano un posteggio anche in doppia fila. I drogati cercano un’automobile con il contrassegno della Stampa, perché spesso i giornalisti lasciano la macchina fotografica nello scompartimento del cruscotto. Le massaggiatrici cercano un pollo da venti dollari. Le signore residenti in periferia cercano un buon cinema per passarci il mercoledì pomeriggio, per poi concedersi una cenetta a base di formaggio e lattuga. I turisti cercano un posto dove sedersi, i pataccari cercano i turisti, i poliziotti cercano i pataccari. I vecchi seduti sulle panchine di Broadway cercano un po’ di sole. Le vecchie in stivaloni militari cercano chissà che cosa nelle pattumiere della Sesta Avenue. Le coppie che passeggiano mano nella mano per Central Park cercano un’esperienza guidata da madre natura. Le bande di ragazzini di Harlem cercano biciclette in Central Park. Le signore dei centri assistenziali battono la Cinquantacinquesima Strada Ovest in cerca di Rockefeller, ma lui non c’è mai. Alle Nazioni Unite cercano traduzioni simultanee. A Broadway cercano un grosso successo. Al Lincoln Center cercano rispettabilità artistica. Quasi tutti, nella metropolitana, cercano una rissa. Quasi tutti, sul treno delle cinque e nove per Speonk, cercano la carrozza bar. Quasi tutti, nell’East Side, cercano una posizione di rilievo e quasi tutti, nel West Side, cercano una dieta che funzioni davvero».

Un pulp in grande spolvero. Eppure niente. Di Westlake (scandalo) non parla più nessuno. Gli ultimi Stark, che un tempo uscivano dignitosamente da Mondadori, a inizio del millennio erano pubblicati da editori improbabili. Molte storie di Dortmunder («one of us» uno di noi, come diceva Conrad dei marinai) non sono state mai nemmeno tradotte. È andata meglio a McBain, scomparso quasi ottantenne nel 2005, una prece anche per lui, che almeno esce da Einaudi, in edizioni non particolarmente prestigiose ma almeno rispettose.

Westlake e Stark hanno avuto per nemico il tempo, che notoriamente non fa prigionieri. Vale per tutti, per gli autori come per i lettori. Cosa sarà di tutti gli altri autori, compresi quelli che passano, a buon titolo, per immortali? Faranno la stessa fine? Cosa sarà, mi viene in mente adesso, mentre ripongo negli scaffali (o meglio rificco, strizzandole) tutte le storie di Parker, Grofield e Dortmunder, degli autori che affollano gli scaffali più sotto: Fëdor Dostoevskij e Aleksandr Solženicyn? Spariranno anche loro? Già sono quasi del tutto scomparsi i loro lettori. Un tempo tutti «leggevano i russi». Oggi non si legge neanche più Westlake, che pure s’è guadagnato, almeno nella mia libreria, uno scaffale più in alto di quello assegnato a Dostoevskij (uno scaffale sotto Destoevskij: Solženicyn). So che non è una gara, ma più in alto di tutti, due scaffali sopra Westlake, c’è Rex Stout. Tra i due: uno scaffale doppio di robe su Bob Dylan.

Ma restiamo ai «russi». Lessi Delitto e castigo con tre maglioni addosso accanto a una stufa accesa, poi tutti gli altri Dostoevskij a ruota, ma senza più stufa e maglioni. Lessi via l’uno l’altro, senza prendere fiato. Quanto a Solženicyn, lessi Nel primo cerchio, Arcipelago Gulag, Lenin a Zurigo, La quercia e il vitello nei giorni del rapimento Moro insieme a pochi assaggi di nouvelle philosophie. Solženicyn e Dostoevskij tifavano entrambi, senza che me ne accorgessi leggendoli, per il dispotismo asiatico, rovina del mondo, tempesta che infuria nei secoli. Sembrava che «i russi» fossero la soluzione d’ogni problema morale. Invece erano loro la rogna.

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L’esilio in Siberia e le radici della rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2018/05/16/le-gelide-radici-della-rivoluzione-della-controrivoluzione/ Wed, 16 May 2018 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42660 di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il disgelo e nella stagione estiva tende a sciogliersi soltanto in superficie, dando vita ad immensi acquitrini.

Nella lingua mongola, “Siberia” significa “terra che dorme” anche se costituisce circa i due terzi della Russia attuale e nell’estremo oriente del suo territorio si raggiungono le temperature più basse registrabili sull’intero pianeta, ad esclusione delle regioni artiche. Si estende dai monti Urali fino alle rive dell’Oceano Pacifico e dalle catene dei monti Altaj fino alle rive del mare Artico ed è straordinariamente ricca di minerali, contenenti quasi tutti i metalli preziosi e comprende alcuni dei più grandi giacimenti di nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, diamanti, argento, zinco oltre ad alcuni dei più importanti giacimenti mondiali di petrolio e gas naturali.

Questi i dati odierni, mentre il testo di Daniel Beer, pubblicato da Mondadori, descrive la storia della sua progressiva conquista nel corso dei secoli e del suo sfruttamento da parte dell’impero zarista. Una storia che per molti versi sembra ripetere o, meglio, anticipare l’espansione statunitense verso Ovest tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento. Compresa la sottomissione forzata delle tribù preesistenti, appartenenti quasi sempre allo stesso ceppo originario delle popolazioni amerindie. Soltanto specularmente rovesciata verso oriente e su un territorio ancora più vasto.

Svoltasi sostanzialmente tra la fine del XVI secolo e il XVIII, l’espansione nell’oriente siberiano fu inizialmente trainata, ancora una volta come nel caso del West americano, sia dalla necessità di ampliamento territoriale che dall’abbondanza di animali dalla pelliccia pregiata: volpi, scoiattoli, ermellini, martore e, soprattutto, zibellini.

“Le pellicce che i promyšlennikki (commercianti privati di pellame – NdR) riportavano dalla Siberia, spuntavano prezzi astronomici in Russia e altrove. Bastava una sola pelliccia di volpe artica per acquistare una fattoria di buone dimensioni,completa di cavalli, bovini, pecore e pollame.
Nella loro avanzata verso est, i russi usarono un insieme di incentivi e violenza per esigere tributi dalle popolazioni indigene della Siberia. Chi collaborava con i promyšlennikki poteva contare su denaro e protezione, mentre chi non lo faceva, oppure era sospettato di nascondere la propria ricchezza, pagava un prezzo terribile: torture, prese di ostaggi e omicidi erano all’ordine del giorno, e interi villaggi vennero distrutti. Alcune tribù, come gli ostiachi, già abituati a pagare tributi ai precedenti governatori mongoli, cercarono un accordo con i russi che avanzavano, restando sconvolti dall’avidità dei nuovi padroni. Altri, come i buriati, opposero fin dall’inizio resistenza all’invasione. Le tribù della Siberia, tuttavia, anche quando si dimostrarono capaci di unirsi in una difesa coordinata delle loro terre, riuscirono a presentare solo una resistenza sporadica. Nessuna era in grado di opporsi alla potenza di fuoco delle forze russe, e decine di migliaia di loro morirono per le malattie portate dagli invasori.”1

L’attrattiva esercitata da quelle terre rimaneva però limitata, ad esempio rispetto a quelli dell’Ovest americano, a causa del clima e delle difficoltà oggettive opposte dal territorio ad un’autentica espansione di carattere agricolo. All’inizio del XIX secolo, infatti, la popolazione siberiana ammontava a non più di un milione di abitanti, quasi tutti concentrati nella Siberia occidentale e in città che spesso non superavano le dimensioni di un grande villaggio. Problema che per certi versi permane ancora oggi, considerato che il territorio siberiano è attualmente abitato da un quarto della popolazione russa complessiva.

Era stata forse questa difficoltà ad aprire le porte di quello che sarebbe successivamente diventato il cuore di tenebra dell’impero per gli stessi russi “bianchi”. Un’autentica prigione a cielo aperto, grazie all’istituzione dell’istituto dell’esilio.

“L’esilio era un atto di espulsione. Ioann Maksimovič, vescovo di Tobol’sk e della Siberia, dichiarò nel 1708: «Così come dobbiamo eliminare dal corpo gli agenti nocivi, in modo che il corpo non muoia, lo stesso deve avvenire nella comunità dei cittadini: tutto ciò che è sano e innocuo si può tollerare, ma ciò che è dannoso va tagliato via». Gli ideologi dell’impero tornarono più volte sull’immagine della Siberia come di un mondo oltre le frontiere immaginarie dello Stato nel quale il sovrano poteva eliminare le impurità per proteggere la salute del corpo pubblico e sociale. Con il passare del tempo, le metafore cambiarono, ma rimase la convinzione di fondo che la Siberia fosse il ricettacolo d’ogni male che affliggeva l’impero”.2

Inizialmente usato per malfattori, assassini e prostitute ben presto l’istituto dell’esilio fu applicato ai contadini rivoltosi, ai nobili attratti dal pensiero democratico dell’Illuminismo e, successivamente e spesso soltanto come alternativa alla pena di morte, per i congiurati decabristi, i ribelli e i rivoluzionari polacchi, gli esponenti dei movimenti populisti e terroristi anti-zaristi, gli anarchici e gli esponenti del socialismo o, meglio della nascente socialdemocrazia russa.

Nobili, contadini, operai, studenti, malavitosi, soldati (russi e stranieri prigionieri), prostitute, rivoluzionari, terroristi, uomini e donne, russi, polacchi ed esponenti delle varie nazionalità oppresse dall’impero iniziarono ad affollare una terra desolata, dalle distanze incommensurabili, in piccoli villaggi, sperdute cittadine, campi di lavoro o fattorie isolate. Da cui era difficile fuggire non tanto per la solerzia dei funzionari o delle guardie, spesso facili da corrompere o dallo scarso ossequio nei confronti del dovere e delle norme, ma proprio a causa delle distanze, del freddo, della diffidenza degli altri abitanti.

Un autentico inferno bianco di cui Beer, professore associato di Storia presso la Royal Holloway dell’Università di Londra, traccia le drammatiche vicende, delineando ritratti, vite, disavventure di un foltissimo stuolo di personaggi. Tracciando però anche un percorso cronologico lungo il quale si delinea una sorta di continuità ideale tra le storie e gli ideali dei deportati, democratici, ribelli, populisti e rivoluzionari socialisti che mostra come la continuità di scelte e di pensiero che caratterizzò l’azione sia dei riformatori democratici che dei rivoluzionari russi avesse nell’esilio siberiano le sue radici “storiche”.

Per ognuno di quegli esiliati le premesse potevano essere infatti diverse per tempo, classe sociale di appartenenza, lingua, nazionalità, credo politico o religioso, ma tutto finiva nel confluire in una pentola, in costante ebollizione, di odio e disprezzo nei confronti dello zarismo e delle sue istituzioni. Così, nonostante le morti, le rese o i pentimenti necessari alla sopravvivenza, la Siberia divenne davvero il luogo, oltre le frontiere immaginarie dell’impero, dove si andò formando la negazione politica e ideologica del corpo sociale edificato dagli czar e la reale coscienza della necessità del suo superamento.

Tutti i rivoluzionari russi, o almeno quelli sopravvissuti alle forche, passarono da lì. Tutti lasciarono un segno, una traccia. Fosse anche soltanto la guardia uccisa per poter fuggire o quelle intimorite dagli attentati in difesa delle condizioni di vita dei prigionieri, messi in atto soprattutto dopo la repressione dei moti rivoluzionari del 1905.3 Tutti impararono qualcosa ed ebbero modo di riflettere. Tutti insegnarono qualcosa ai nuovi venuti. Se non a parole, almeno con l’azione o il comportamento individuale.

La trasmissione della memoria storica e politica, imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario, si era fatta concreta. Si potrebbe dire che facesse parte dell’esperienza dell’esilio e dei lavori forzati. Le idee si erano trasmutate in carne e sangue dei deportati e le loro stesse vite finirono col diventare snodi di una rete infinita di comunicazione delle esperienze, concrete ed ideali allo stesso tempo.

Sarà per questo, forse, che l’istituzione successiva dei gulag, soprattutto a partire dal periodo staliniano, fu caratterizzata da quella che venne definita come “ingegneria delle anime”,4 cioè dall’azione costante e determinata tesa ad estirpare nell’esiliato/detenuto qualsiasi velleità critica o di costruzione di un consenso altro da quello stabilito dal regime. Il prigioniero doveva infatti perdere qualsiasi caratteristica individuale, qualunque capacità di pensiero autonomo, per concentrarsi esclusivamente sulla propria sopravvivenza e sulla propria colpa, così come dimostrano opere letterarie straordinarie come i Racconti della Kolyma di Varlan Salamov oppure Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o, ancora, molti romanzi di Victor Serge.

Così, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, proprio per gli ideali di liberazione individuale e collettiva più alti che collegano, per linee apparentemente invisibili, gli esiliati della scuola di rivoluzione siberiana alle vittime della Siberia della controrivoluzione stalinista e successiva (basti dire che la Prigione centrale per i lavori forzati di Tobol’sk, costruita a metà Ottocento, è rimasta attiva come istituzione penale fino al 1989), la letteratura rimane uno strumento validissimo e indispensabile per ricostruire e comprendere l’immaginario politico e i fenomeni sociali di ogni società, passata o presente che sia. Come restano a dimostrare anche capolavori quali Memorie dalla casa dei morti di Fëdor Dostoevskij (cui si ispira il titolo del testo di Beer), Resurrezione di Lev Tolstoj o, ancora, la cronaca del viaggio in Siberia di Anton Čechov: L’isola di Sachalin.

Opere di cui l’autore inglese ha sicuramente tenuto conto nella stesura di un testo importante e leggibilissimo allo stesso tempo.


  1. D.Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, pp.22-23  

  2. Beer, pag. 25  

  3. A tal proposito si veda: Jurij Trifonov, I riflessi del rogo. Vita e morte di un rivoluzionario sovietico, Mursia 1981  

  4. Si vedano in proposito, tra le tante opere sull’argomento: Frank Westerman, Ingegneri di anime, Feltrinelli 2006 e Oleg V.Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi 2006  

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