Aleksandr Sergeevič Puškin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 26 Apr 2025 05:00:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Quale resistenza in Ucraina? https://www.carmillaonline.com/2022/11/29/quale-resistenza-in-ucraina/ Tue, 29 Nov 2022 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74759 di Sandro Moiso

Alexander V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, pp. 232, euro17,00

Adesso, dopo che le truppe russe si sono ritirate e attestate sulla riva orientale del Dnepr, di fronte a Kherson, e che la guerra unisce i suoi effetti al freddo e alla fame per la popolazione civile, è giunto il momento di formulare un giudizio politico spassionato sulla realtà della “resistenza” ucraina, propagandisticamente e troppo spesso romanticamente sbandierata come eroica e popolare. Così, mettendo a disposizione dei lettori un possibile termina di paragone storico, può rivelarsi utile il volume appena [...]]]> di Sandro Moiso

Alexander V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, pp. 232, euro17,00

Adesso, dopo che le truppe russe si sono ritirate e attestate sulla riva orientale del Dnepr, di fronte a Kherson, e che la guerra unisce i suoi effetti al freddo e alla fame per la popolazione civile, è giunto il momento di formulare un giudizio politico spassionato sulla realtà della “resistenza” ucraina, propagandisticamente e troppo spesso romanticamente sbandierata come eroica e popolare. Così, mettendo a disposizione dei lettori un possibile termina di paragone storico, può rivelarsi utile il volume appena ristampato da elèuthera (che lo aveva già proposto al pubblico italiano nel 2012) in cui Alexander Vladlenovich Shubin analizza e descrive nel dettaglio le vicende della machnovščina ucraina tra il 1917 e il 1921.

L’autore (n. 1965) insegna Storia in due università di Mosca: l’Accademia delle Scienze dove, dal 2003, dirige il Centro di studi storici, e, dal 2007, l’Università Statale per gli Studi Umanistici, dove ha condotto approfondite ricerche per riportare alla luce la storia dei movimenti di opposizione al bolscevismo, con particolare attenzione a quelli di matrice libertaria. In tale contesto di ricerca va dunque inquadrato questo testo dedito alla ricostruzione delle vicende legate alla figura di Nestor Machno e alle insurrezioni contadine che si svilupparono in Ucraina nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la fine della Guerra Civile. Come scrive lo stesso Shubin nella Premessa:

Il movimento machnovista ucraino, poco studiato dalla storiografia mondiale, è stato uno degli episodi più importanti della rivoluzione e della guerra civile esplosa nel 1917 nell’ex impero russo. Negli anni tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini, e cercando al contempo di non sottomettersi al nuovo potere comunista. Non sorprende che l’iniziale alleanza tattica con i comunisti si sia poi conclusa con uno scontro militare, durante il quale l’esercito insurrezionale machnovista si batté impugnando la bandiera nera dell’anarchia. Alla guida di questa armata contadina c’era Nestor Ivanovic Machno, uno stratega geniale che fino al 1918 non aveva preso parte ad alcuna guerra, ma che in seguito si ritrovò al posto giusto nel momento giusto. Nei brevi momenti di tregua, i machnovisti provarono a costruire una nuova società basata sull’autogestione, e nonostante questo movimento sia sopravvissuto soltanto fino al 1921, ha rappresentato comunque uno degli esempi più vividi del desiderio di liberazione sociale e politica che ha caratterizzato quell’epoca1.

Basterebbero le parole «tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini» a marcare già tutta la differenza tra quella espressione diretta della volontà di classe e popolare e l’attuale “resistenza”, ma occorre ancora procedere con ordine per verifica la validità di tale assunto.

L’area che vide protagonista il movimento machnovista è principalmente la regione compresa tra il Mar d’Azov a sud, la riva sinistra del Dnepr a ovest e il bacino carbonifero del Don a est. Ma i machnovisti agirono anche sulla riva destra del Dnepr, soprattutto nella regione di Ekaterinoslav (ora Dnepropetrovsk), e a nord in quelle di Poltava e Cernigov [in ucraino Cernihiv – N.d.T.]. Il cuore della rivolta era la cittadina di Guljaj Pole nella provincia di Aleksandrovsk (l’attuale Zaporozhye). La storia di questi luoghi è legata a quella dei cosacchi e alla loro cultura rurale e nomade, anche se ai primi del Novecento nella provincia di Aleksandrovsk i cosacchi erano ormai solo un ricordo. […] L’economia rurale in quelle zone era piuttosto rappresentata dai pomesiki, ovvero dai grandi proprietari terrieri, e quando la riforma agraria del governo di Pëtr Stolypin tentò di abolire le tradizionali terre comuni, la maggiore resistenza la incontrò proprio nel governatorato di Ekaterinoslav. Dal punto di vista agricolo e industriale, l’area di azione del futuro movimento machnovista era una delle regioni più sviluppate dell’impero russo, grazie alla vicinanza dei porti e a una rete ferroviaria che aveva favorito lo sviluppo del mercato del grano.
[…] Nelle province di Ekaterinoslav e della Tauride si produceva il 24,4% delle macchine agricole del paese (a Mosca solo il 10%). Una parte significativa dell’industria di Ekaterinoslav era dislocata su tutto il territorio: piccole città e villaggi di grandi dimensioni erano diventati dei veri e propri complessi agro-industriali. A Guljaj Pole, futura capitale del movimento machnovista, c’erano una fonderia e due mulini a vapore, e nel distretto c’erano dodici fabbriche di piastrelle e mattoni. Tutto ciò contribuiva non solo alla produzione ma anche al rafforzamento del legame tra contadini e operai. Molti contadini andavano a cercare lavoro nelle vicinanze dei grandi centri industriali, sicuri che in caso di crisi sarebbero potuti rientrare nei villaggi di origine, e nei villaggi non c’era carenza di prodotti industriali grazie alla vicinanza di numerose fabbriche. Erano le grandi città a essere percepite dai contadini come un mondo estraneo e distante di cui non avvertivano alcun bisogno. Quanto al nazionalismo, mentre nel nord dell’Ucraina era solidamente radicato nell’economia autocratica che caratterizzava quell’area, nella regione del Mar d’Azov stentava invece a trovare una sua base sociale. È in questo contesto che sarebbe nato uno dei più grandi movimenti contadini della storia europea, che tuttavia sarà strettamente legato al movimento operaio, tanto da avere nelle sue fila anche leader operai, tra i quali lo stesso Machno che in gioventù aveva lavorato in una fonderia di ghisa2.

La Russia era stata fin dal XVI-XVII secolo teatro di rivolte, contadine e cosacche, che si erano rivolte sia contro il governo degli czar che nei confronti dei dominatori polacchi di una parte dell’attuale territorio ucraino. Rivolte rese celebri attraverso la letteratura russa dell’Ottocento sia dal racconto Taras Bul’ba scritto da Nikolaj Gogol’ nel 1834 che dal romanzo La figlia del capitano, pubblicato da Aleksandr Sergeevič Puškin nel 1836, oltre che dal poema Pugacev di Sergej Aleksandrovic Esenin scritto negli anni ’20 del Novecento, ma che ancor prima di ciò avevano lasciato un segno, seppur disordinato dal punto di vista dei contenuti, nella memoria collettiva3.

Invece come si sottolinea nel testo di Shubin quella capeggiata da Nestor Machno, nato a Guljaj Pole da una famiglia di ex-servi della gleba nel 1888 e morto in esilio a Parigi nel 1934, era riuscita a unificare sia i contadini poveri che gli operai delle regioni interessate dimostrando, nonostante fosse stata alla fine schiacciata dall’Armata Rossa, che la rivoluzione russa avrebbe potuto prendere una ben diversa piega da quella sviluppatasi con l’industrializzazione forzata e la repressione delle istanze delle comunità di villaggio e dei consigli operai.

E’ qui che sta tutta la differenza tra una guerra condotta in nome degli interessi di classe e nel tentativo di realizzare una società più giusta e l’attuale guerra condotta da Zelensky in nome del nazionalismo oligarchico più bieco e degli interessi dell’imperialismo occidentale. Senza voler con ciò voler giustificare in alcun modo la propaganda russa sulla guerra in corso.

In fin dei conti anche la rivolta e la guerra machnovista era nata ed era guidata da un bandito che, prima di acquisire una più ampia coscienza di classe e del ruolo che le masse contadine e operaie potevano rivestire nell’ambito della Rivoluzione della guerra civile, aveva assaltato banche per finanziare un piccolo gruppo terroristico e aveva rischiato, proprio per questo motivo, di finire sulla forca. Ma i risvolti di quella lotta, durata alcuni anni, sia contro le armate bianche, in alleanza con quelle rosse nella prima fase, e poi in seguito solo contro le seconde, riguardavano solo e sempre una rivoluzione sociale e il tentativo di dar la scalata al cielo. Proprio in quelle aree in cui oggi è solcato soltanto da droni, missili, aviogetti, proiettili di cannoni, tutti irrimediabilmente destinati a far trionfare una delle due parti fortemente segnate dal nazionalismo e dagli interessi del capitale.

Ecco allora che leggere e studiare questo ennesimo bel libro pubblicato da elèuthera può dunque servire a spalancare gli occhi del lettore che fosse ancora distratto dalle chimere di una propaganda che, con la scusa della “resistenza”, ci invita soltanto ad appoggiare la guerra imperialista. E null’altro.


  1. A. V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, p. 7  

  2. Shubin, op. cit., pp. 13-15  

  3. Le principali guerre contadine in Russia si svolsero nel 1606-07, 1670-71 e 1774-75, guidate da Ivan Bolotnikov, da Stepan Razin, da Emel’jan Pugacev  

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