Alegre Edizioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scuola, motori e lavoro a tutti i costi https://www.carmillaonline.com/2024/09/26/scuola-motori-e-lavoro-a-tutti-i-costi/ Thu, 26 Sep 2024 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84644 di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di [...]]]> di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di insegnamento svolto dall’autore, docente di Italiano, in un Istituto Professionale della zona. La scrittura alterna l’immediatezza della presa diretta sugli avvenimenti legati all’universo scolastico (in cui protagoniste sono classi ‘difficili’, composte spesso di soli alunni maschi) a inserti dal taglio più saggistico, dove si infittiscono osservazioni e riflessioni su un tessuto sociale irretito dal produttivismo capitalista che si ingrandisce e si sviluppa sempre di più a scapito della vita delle persone. Il tutto scandito da capitoli che portano nei titoli formati dal verso di una canzone sempre diversa l’ispirazione musicale che li ha mossi.

Il lavoro è un dogma, da quelle parti, e gli stessi alunni del Professionale odiano la scuola e non vedono l’ora di finirla o interromperla per mettersi a lavorare nel settore automotive e cioè per quelle fabbriche e per quelle aziende che si estendono a macchia d’olio provocando un abnorme consumo di suolo e per tutto il grande circo spettacolare che si erge dietro questo apparato, in primis il Motor Show di Bologna che nel 2018 ha visto la sua ultima edizione. Se, come nota l’autore, nel 1976, ai suoi albori, il Motor Show occupava un’area di 5mila metri quadrati, nel 2004 “si arriva a 230 mila facendo da volano all’aumento di consumo di suolo in un territorio che oggi con la sua Zona Fiera raggiunge i 375 mila metri quadrati e ospita iniziative di ogni tipo, grazie al protagonismo del Gruppo BolognaFiere, in grado di allestire settantacinque eventi all’anno tra Bologna, Modena e Ferrara” (p. 34). Lo stesso Motor Show ha rappresentato l’aspetto più spettacolare dell’ideologia che gli esponenti del capitale pretendono di inculcare nei giovani che gravitano attorno al settore, e la progressione dei suoi chilometri quadrati equivale all’aumento esponenziale della densità di auto in Italia, che provoca un ulteriore aumento di suolo nella costruzione di sempre nuove strade (come il progetto del cosiddetto Passante di Bologna), di sempre nuovi svincoli e rotatorie realizzati asfaltando e cementificando innumerevoli aree verdi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se a ogni nuova pioggia violenta (eventi che ormai non si possono più considerare ‘eccezionali’ nella realtà del cambiamento climatico che ci troviamo a vivere) quel territorio dell’Emilia Romagna (che è terza in Italia per consumo di suolo) viene devastato e allagato: è cronaca, purtroppo, anche di questi giorni.

Il lavoro è un dogma e risuona come un vero e proprio mantra, fin dalla scuola, irretendo gli adolescenti e le adolescenti. Laura, ad esempio, che adesso ha trentadue anni, ha lavorato al Motor Show come ragazza immagine fin da quando stava per compiere diciotto anni e andava ancora a scuola, in un contesto in cui gli atteggiamenti sessisti risultano assolutamente normali e si esplicitano in continui apprezzamenti volgari e viscidi (e il racconto di Laura e di altre ragazze si materializza all’interno di un capitolo intitolato Quante belle figlie da sposar, verso tratto da Ottocento di Fabrizio De André, in un momento in cui la canzone accelera musicalmente commentando in forma iperbolica l’iperproduzione spettacolare dei primi anni Novanta). Certo, è questa l’altra faccia del capitale, è il suo truce spettacolo che ‘macchinizza’ e capitalizza gli stessi corpi, come vediamo nelle sequenze iniziali del film Titane (2021) di Julia Ducurnau, in cui alcune ballerine sexi si esibiscono sui cofani delle automobili in un autosalone di fronte a maschi per i quali non c’è alcuna differenza – sembra – fra l’estetica delle auto e quella delle ragazze.

L’ideologia del lavoro a tutti i costi, come già notato, si insinua anche tra i banchi di scuola, dove si trovano, fra gli altri, gli studenti El J, Cucciolotto, Pablo, Thomas, e allora la scrittura diaristica erompe in volute sintattiche e lessicali che esondano da qualsiasi schema, in un sinuoso pastiche che ricalca il parlato ma soprattutto i gerghi giovanili mentre sullo sfondo, come un magico folletto portatore di pace all’interno di una quotidiana guerra, si aggira fantasmaticamente la Chica, la compianta canina del narratore e professore che scambia con lei uno sguardo nei momenti più difficili, in momenti in cui bisogna dare forse un conforto o una pacca sulle spalle a chi è inserito nella macina di un sistema più grande di lui, come succede a molti di questi giovani, cresciuti fra vita non facile e motori. Il lavoro si fa breccia anche attraverso la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, oggi rappresa nell’acronimo Pcto, largamente diffusa nell’Istituto Professionale in questione. Un percorso che dovrebbe essere formativo ma che ha al suo attivo una scia di morti, giovani studenti vittime di incidenti sul lavoro. E, come scrive La Valle, un’ideologia di questo tipo nella sua classe è introiettata a tal punto che si tende a dare la colpa alla persona incidentata che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle misure di sicurezza e non, magari, alla quasi totale mancanza di queste ultime o a un sistema che non fa in modo che siano sufficienti e all’altezza.

I messaggi che dall’alto vengono fatti passare, infatti, sono quelli di una contrapposizione muro contro muro fra scuola e mondo del lavoro:

da una parte c’è il mondo della scuola, con le sue materie inutili e le sue fissazioni, mentre dall’altra c’è il mondo che conta, quello del lavoro, quello da cui arrivano i soldi. Il primo mondo impone regole per te incomprensibili, il secondo le ammorbidisce. Quale scegli?
Se nel primo ti inseguono perché stai fumando e nel secondo fingono di non accorgersene? Se nel primo si arrabbiano per un commento che hai fatto a una ragazza, mentre nel secondo scherzi a voce alta su culi e tette? Se nel primo insegnano cose che per te sono inutili e nel secondo ti dicono che l’importante è guadagnare? Con queste opzioni, a sedici anni, le scelte sono facili (p. 201).

Oggi anche la scuola è stata raggiunta dalla longa manus del capitale e si sta trasformando in un’azienda “che vive secondo i criteri delle temporalità formalizzate, della competitività e delle mille categorizzazioni che comprimono le attività spingendole verso l’individualismo. È una modalità repellente e se a questa roba non abbiamo dato il nome di fascismo è perché ancora non gli abbiamo fatto la guerra” (p. 208). Assieme al lavoro, si fanno strada anche la competitività e il meccanismo della valutazione sempre e comunque con l’intento di disciplinare gli individui in una forma mentis economica fin dai banchi di scuola. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto aveva scritto nel 1995 Raoul Vaneigem nel suo Avviso agli studenti: “Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo opera per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere fino alla nausea il leitmotiv dei suoi anni giovanili: vinca il migliore!” (R. Vaneigem, Avviso agli studenti – Terrorismo o rivoluzione, trad. it. di S. Ghirardi, piano b edizioni, Prato 2010, p. 34).

L’adolescenza è fatta anche per perdere tempo, per bighellonare, per sbagliare e prendersela con calma, non solo per diventare efficienti e produttivi al più presto. Ecco perché, alla fine, bisognerebbe – citando Gilles Clement insieme all’autore – “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica” (Gilles Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 61). Infatti, il capitale che impone produttività, efficienza e competitività nella scuola è lo stesso che costruisce sempre più strade perché ci siano sempre più auto in circolazione, a scapito delle aree naturali, cementificate e distrutte ed è lo stesso che devasta montagne e boschi per creare i tunnel dell’alta velocità; allora sarebbe meglio “pensare alla cura e alla riparazione dei suoli, andando nella direzione opposta rispetto all’asfalto, al cemento e alle camicie di forza con cui ci ostiniamo a perimetrare ogni forma di vita” (p. 224). E anche la produzione dei nuovi veicoli elettrici (che necessitano di onerose materie prime e di un complesso smaltimento), verso cui si lancia la corsa del capitale, rappresenta soltanto un’altra faccia della devastazione di sempre nuovi territori. Infatti, come riflette amaramente Paolo La Valle nella pagina finale del suo libro, l’impressione è “che la progressiva scomparsa del fumo dei gas di scarico stia contribuendo a rinnovare una speranza che potrà pure comportare la fine del motore a scoppio, ma nella logica del sacrificio messianico” (p. 244).

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Al bar Pilade, fra bombe e complotti https://www.carmillaonline.com/2021/07/04/al-bar-pilade-fra-bombe-e-complotti/ Sun, 04 Jul 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67001 di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano al «banco di zinco» del bar nel «periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: “Pagami da bere”, diceva lo studente con l’eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago»1.

L’ambientazione di quello stesso bar Pilade del Pendolo compare nella seconda parte del saggio di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, uscito recentemente per Alegre, intitolata QAnon: filamenti di genoma transatlantico, collected from good authorities. Ho definito come “saggio” l’ultima opera di Wu Ming 1 ma probabilmente devo correggermi: si tratta, infatti, di un UNO, cioè – parafrasando l’acronimo UFO, “Unidentified Flying Object” – di un “Unidentified Narrative Object”, cioè un oggetto narrativo non identificato. L’espressione è stata coniata dallo stesso Wu Ming 1 in un intervento comparso su “Carmilla” nel settembre del 2008 (New Italian Epic 2.0): «gli UNO sono esperimenti dall’esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all’informe, all’indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos’altro». Si tratta in sostanza di una forma ibrida, sorta sulla scia di quella linea multiforme e menippea messa in evidenza da Michail Bachtin soprattutto nel suo saggio su Dostoevskij. Del resto, nella letteratura è già possibile individuare una forma a metà tra romanzo e saggio, il cosiddetto “metaromanzo”, cioè un romanzo che riflette su stesso e sulle sue forme, individuabile già a partire da La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, 1759-1767) di Laurence Sterne fino a Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini.

Però, gli UNO si pongono anche al di là del metaromanzo: sono, come accennato, forme ibride, composte da reportage giornalistici, stralci narrativi, poesie, prose poetiche, il tutto combinato insieme per mezzo di svariati stili secondo la tecnica del pastiche. Insomma, il bar Pilade è l’ambientazione dell’ultima parte di La Q di Qomplotto il quale, per il solo fatto di riallacciarsi ad una precedente opera come Il pendolo di Foucault assume delle caratteristiche peculiari. L’autore (che si trasforma in personaggio e narratore) fa un sogno («Fu quella notte che feci il sogno»: così si conclude la prima parte del libro, quasi in una citazione dell’incipit del romanzo di Eco, «Fu allora che vidi il pendolo») e si trova proiettato in una dimensione a metà fra gli anni Settanta e il gennaio 2021 («Un 2021 parallelo, dove i bar erano aperti e nessuno portava la mascherina», QdQ, p. 395). È qui che, novello Casaubon, l’autore-personaggio racconta a Belbo e Diotallevi, gli editori del Pendolo, storie di complotti italiani, poi messi a nudo. L’andamento saggistico del libro, prevalente nella prima parte, assume perciò un aspetto narrativo: il saggio si trasforma in romanzo pur non perdendo il suo aspetto saggistico, il quale viene adesso intervallato da piccole scenette che avvengono all’interno del bar dove, ad ascoltare la storia, si trovano anche alcune giovani studentesse. Mentre l’autore racconta, preso dal suo narrativo impeto onirico, alcune esplosioni fanno tremare i tavolini e il bancone del bar, perché – come afferma Belbo – «sono anni di bombe, quelli che viviamo» (QdQ, p. 533).

L’operazione realizzata da Wu Ming 1 a partire dal romanzo di Eco rientra all’interno delle pratiche ipertestuali analizzate da Gérard Genette in Palinsesti (uno studio sulla «letteratura al secondo grado»), e potrebbe essere definita come una «amplificazione» del Pendolo di Foucault, cioè una vera e propria espansione narrativa. Lo scrittore, infatti, aggiunge delle situazioni narrative non presenti nell’opera originaria creando anche un nuovo personaggio, Valentina Belbo, la giovane cugina di Iacopo. Del resto, La Q di Qomplotto è costruita come un’opera intertestuale e incline al pastiche (inteso come pratica ‘imitativa’), un mastodontico contenitore che include innumerevoli riferimenti alla cultura, alla società e alla politica. La parte finale della prima parte, a partire dal capitolo 22, significativamente intitolato La virulenza illustrata, è scritta con uno stile che rimanda esplicitamente a Nanni Balestrini (lo stesso titolo del capitolo è ricalcato su quello del romanzo di Balestrini, La violenza illustrata, del 1976): la narrazione si velocizza in uno stile rapido e dal taglio giornalistico mentre scompare praticamente del tutto la punteggiatura. Ma è indubbiamente Il pendolo di Foucault «il libro delle metastasi» (così è intitolato il capitolo 4), un’opera che Wu Ming 1 ha tenuto costantemente presente nella stesura del suo lavoro:

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni (QdQ, p. 70).

A partire dal romanzo di Eco l’autore arriva fino a «QAnon e dintorni» per dimostrare come «le fantasie di complotto difendono il sistema». Sotto il nome di QAnon si indica una teoria del complotto di estrema destra, sorta negli Stati Uniti, secondo la quale esisterebbe una sorta di deep state che trama contro l’ex presidente Donald Trump per scardinare l’ordine mondiale, colluso con reti di pedofilia e misteriose pratiche ebraiche. Secondo Wu Ming 1, le principali definizioni da applicare a QAnon sono cinque:

1. un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
2. un modello di business;
3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;
4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;
5. una rete terroristica in potenza (QdQ, p. 21).

La teoria del complotto difende il sistema perché quest’ultimo viene additato come la vittima di un ipotetico e inesistente deep state: «Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler» (QdQ, p. 52). Infatti, «chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche» (QdQ, p. 163). E la violenza è una delle pratiche adottate per difendere il sistema: l’autore passa in rassegna gli omicidi targati QAnon nonché il tentativo di strage messo in atto da Maddison, un giovane della North Carolina che, nel dicembre del 2016, armato, si era recato a Washington D.C. per punire i perversi pedofili del Comet Ping Pong, un locale nei cui sotterranei, secondo la vulgata complottista, sarebbe stato schiavizzato e violentato un numero indefinibile di bambini.

L’autore, in modo abile, pone sotto la sua lente diverse narrazioni di complotto che si sono instillate nelle menti delle persone, a partire dalla caccia alle streghe di Salem fino alla teoria della sostituzione etnica e ai Protocolli dei Savi di Sion, passando attraverso le idee che consideravano l’allunaggio una messa in scena o quelle sulla ipotetica morte di Paul McCartney nonché sui retroscena esoterici delle canzoni dei Beatles. Il suo intento – ben riuscito e ben calibrato – è quello di un debunking, cioè di uno smascheramento delle fake news e delle narrazioni tossiche. Per arrivare, dagli Stati Uniti, fino in Italia. E allora, una serie di capitoli intitolati In viro veritas? analizza in modo sottile la narrazione virocentrica che si è sviluppata nel nostro paese a partire dall’emergenza Covid, nel marzo 2020. Una narrazione dominante che ha attraversato e continua ad attraversare le coscienze degli individui: come lo stesso collettivo Wu Ming (a cui appartiene l’autore di La Q di Qomplotto) ha evidenziato in una serie di lucidi articoli apparsi sul blog «Giap» nel periodo dell’emergenza (fra i pochi che, in quello stesso periodo, valeva la pena leggere), invece di dare la colpa dell’insorgenza del virus a un sistema capitalistico malato che commercia carne su larga scala, deforesta, crea ovunque industrie tossiche, si tendeva, appunto «ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche». Ecco allora la famigerata colpevolizzazione del cittadino, rilevata in modo lucido anche dal sociologo Andrea Miconi nel suo saggio Epidemie e controllo sociale (qui la recensione su “Carmilla”): la colpevolizzazione di chi esce senza motivo, dei runner, di chi non porta la mascherina all’aperto e via di seguito. Una narrazione dominante scaturita dall’emergenza pandemica perché, come nota Wu Ming 1 per mezzo di una efficace metafora, quella stessa emergenza «esasperava tutte le tendenze che andavo descrivendo, stagliandole contro una luce violentissima, una lampada da terzo grado puntata in faccia al mondo» (QdQ, p. 301).

Infine, nella già citata seconda parte del suo saggio che, sub specie narrationis, si ambienta al bar Pilade, lo scrittore analizza i «filamenti di genoma transatlantico di QAnon», dalla caccia alle streghe al «revival di Satana», attraversando e scandagliando gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Fino agli anni Novanta, per rivolgere la sua attenzione ancora all’Italia e al caso “Bambini di Satana”, quando nel 1996 viene arrestato a Bologna Marco Dimitri insieme ad altri esponenti dell’associazione «Bambini di Satana». Un’associazione culturale vicina alla sinistra antagonista che – è bene precisarlo – non ha niente a che fare col Maligno o l’Anticristo: «Per “satanismo”, Dimitri e soci non intendono una versione capovolta del cristianesimo ma una miscela di neopaganesimo, panteismo, libertinismo, anarchismo… I numi tutelari vanno da Aleister Crowley ad Arthur Rimbaud» (QdQ, pp. 515-516). Le accuse nei loro confronti sono svariate «e cambieranno di continuo, in un proliferare di fattispecie di reato: violenza sui minori, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere…» (QdQ, p. 515). Stupri, rapimenti, bambini infilati nelle tombe, messe nere nei cimiteri della Bassa ma nessuno che si sia mai accorto di nulla. Nessuno si è mai accorto di nulla semplicemente perché non c’è stato niente di tutto questo, come non esisteva nessun sotterraneo al Comet Ping Pong. Lo stesso autore, insieme ad altri del collettivo Wu Ming, allora Luther Blisset Project, ha svolto all’epoca una controinchiesta per smascherare questa ridda di accuse, montate da diversi quotidiani e soprattutto da Il Resto del Carlino. La controinchiesta di Luther Blisset, come molte delle sue iniziative, ha una sottile origine letteraria, modellata sull’inchiesta realizzata dall’investigatore Dupin in Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe: nel racconto, Poe riflette su come la cronaca ha raccontato l’omicidio di Marie Cecilia Rogers, avvenuto a New York nel 1841, ricostruendo le incongruenze, giustapponendole e facendole giocare l’una contro l’altra. Così, «a partire dal settembre del 1996, semplicemente facendo le pulci al Carlino, esponiamo le aporie del teorema giudiziario, critichiamo la linea della procura e mostriamo le dinamiche della mostrificazione a mezzo stampa» (QdQ, p. 531). Alla fine, anche grazie a questa controinchiesta, le coscienze si smuovono, si creano delle brecce nella narrazione dominante e alla fine Dimitri (che si era fatto 400 giorni di carcere, molti dei quali in isolamento) e gli altri vengono assolti. Si è creata una breccia nel «satanic panic», in quel credere ciecamente nell’esistenza di una setta di satanisti pedofili che gode di protezione in alto e di cui fanno parte anche uomini di potere, già preesistente in Europa e in Italia prima di QAnon. Perché, come leggiamo in un articolo a firma Wu Ming uscito su «Giap», dal titolo Sulla morte di Marco Dimitri (13 febbraio 1963-13 febbraio 2021), «non sono “americanate”. Quella merda l’abbiamo inventata noi». E a Marco Dimitri (scomparso nel febbraio di quest’anno), che si era avvicinato al Luther Blisset Project e alla Wu Ming Foundation, è affettuosamente dedicato La Q di Qomplotto.

Ma non è finita qui: le ultime pagine del libro ci narrano, nell’ormai silenzioso e notturno bar Pilade, altre vicende di «satanic panic» nella bassa padana, accuse di pedofilia e presunto satanismo in quella che sembra ormai diventata – come suonava il titolo di una canzone dei CCCP – una vera e propria «Emilia paranoica». Ma la penna, la voce e la narrazione dell’autore continuano instancabili in una lucida opera di debunking, di smascheramento, nella volontà e convinzione di proferire una verità critica, quasi come un antico parresiastes. Infatti, come afferma Michel Foucault, la funzione della parresia (dire la verità a costo di un rischio) nella Grecia antica «non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma quella di esercitare una critica»2. Ed è una vera e propria critica in nome della lucidità di pensiero quella portata avanti dallo scrittore in tutte le cinquecentonovantuno pagine del suo libro, per smascherare paure e superstizioni, quelle narrazioni dominanti che si fanno largo fra bombe e complotti, per «creare un immaginario liberatorio e alternativo contro un immaginario tossico»3, fino agli ultimi lembi narrativi che si srotolano in quell’onirico e stupendo bar notturno.


  1. U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1994, p. 71 

  2. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 8 

  3. Come si è efficacemente espresso Alberto Prunetti in occasione di una recente presentazione del libro alla “Corte dei Miracoli” a Siena, insieme all’autore. 

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Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino di Osvaldo Bayer https://www.carmillaonline.com/2020/08/08/futbol-una-storia-sociale-del-calcio-argentino-di-osvaldo-bayer/ Fri, 07 Aug 2020 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61549 [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai [...]]]> [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai tempi delle ricerche di Adolfo Saldías nessun altro ha saputo far vibrare corde così profonde come Bayer con le sue ricerche storiche dedicate agli episodi più dolorosi e nascosti del ventesimo secolo. I suoi quattro volumi sul movimento libertario della Patagonia, soffocato nel sangue nel 1921, hanno scosso la timida storiografia ar-gentina e costituiscono uno dei pochi classici degli studi storici del nostro paese. La Patagonia rebelde (Elèuthera, 2009) è l’opera più popolare mai pubblicata sul movimento operaio argentino. Un libro che gli è valso la persecuzione, l’esilio, l’isolamento e difficoltà giudiziarie. Eppure gli ha anche dato una soddisfazione: quella di aver messo davanti agli occhi di tutti la verità sulla feroce repressione patita dai lavoratori rurali che cercavano di organizzarsi per resistere allo sfruttamento feudale nei grandi latifondi del sud.

Bayer ha poi pubblicato decine di testi rimasti quasi segreti. Ma il suo minuzioso lavoro su Severino Di Giovanni, l’anarchico fucilato nel 1931, ha segnato un’epoca, sollevando il dilemma del periodo precedente agli anni Trenta, ossia il Decennio infame: è lecita la violenza individuale di fronte all’ingiustizia sociale? È possibile che oggi, alla luce di tanti drammi e sconfitte, si risponda di no, o perlomeno che il risultato di quella violenza sia discutibile. Eppure la storia di Di Giovanni illumina un momento cruciale di questo paese, quello della nascita e dello sviluppo della classe operaia internazionalista assieme alla sua prima grande sconfitta in Argentina.

Per quanto possa sembrare strano le preoccupazioni sociali sono presenti anche nel libro di Bayer dedicato al calcio, questa passione all’apparenza innocente. La storia dei club dei quartieri periferici, tipicamente rioplatense, va oltre i grandi episodi del calcio. Come sono nate queste associazioni «atletiche e sportive», che oggi solo a sentirle nominare non evocano nient’altro che un tuffo al cuore per questioni di tifo? Da dove viene il nome di squadre come Independiente, San Lorenzo, Argentinos Juniors, Chacarita, Boca, El Porvenir e River? Perché hanno scelto proprio certi colori, di cui oggi non comprendiamo il significato, o che ormai sono devastati dalle etichette degli sponsor? E ancora: le loro tifoserie riflettono differenti strati sociali? Le figure più importanti di quei club da dove venivano? E che traiettoria hanno compiuto?

Qui c’è tutto quel che sappiamo sul calcio argentino e sui suoi momenti indimenticabili. Lo storico della Patagonia rebelde entra in campo e gioca con i vecchi campioni, rivive la propria infanzia, le passeggiate della domenica, la rivista Alumni e il sapore della frutta secca caramellata. Prima della pubblicazione, questo manoscritto è stato la base per un documentario dal titolo omonimo, Fútbol argentino, arrivato sugli schermi nell’aprile del 1990. Ma il testo – impegnato, appassionato come tutte le opere di Bayer – si spinge più in avanti del film nell’analisi dei fatti che hanno marcato per sempre questo povero paese: colpi di stato, rivolte, scioperi – anche dei calciatori –, una guerra con la Gran Bretagna… tutto questo si riflette nel calcio e i suoi protagonisti più lucidi lo dicono chiaramente analizzando quegli eventi.

Serviva un bel libro sul calcio argentino e finalmente ce l’abbiamo. Osvaldo Bayer conosce la mia passione, nient’affatto segreta, per i campi di calcio, soprattutto per uno che purtroppo non esiste più, quello del Gasometro di Boedo. E tra di noi abbiamo parlato molto di fútbol, un argomento che in genere non interessa molto ai letterati (anche se ci sono alcuni trasgressori, da Roberto Arlt a Santoro, fino a Fontanarrosa e Carlos Ares).

Questo libro non è solo per gli appassionati di calcio, ma anche per chi studia i movimenti sociali nati in Argentina negli anni delle “vacche grasse”. Non è un altro Bayer quello che scrive di calcio. È lo stesso che si è impegnato, con la vita e con le opere, affinché gli argentini conoscano la verità storica, che spesso è stata deformata e decontestualizzata. Non mi sorprende che nel suo lavoro storico Bayer si occupi di Varallo, Di Stéfano, Sívori, Pipo Rossi, Sanfilippo e Maradona. Albert Camus, l’autore de La peste e de Lo straniero, era stato il portiere dell’Algeri. Diceva che il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita. È possibile. Per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita. Bayer ci parla di questo. E di alcune cose in piú.

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La parabola laica del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/05/07/la-parabola-laica-del-lavoro/ Sat, 06 May 2017 22:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38094 di Franco Foschi

Alegre_Meccanoscritto-copertinaCollettivo MetalMente, Wu Ming 2, I. Brentani, Meccanoscritto, Alegre Edizioni, 2017, pp. 350, € 16.00 (con un racconto di Luciano Bianciardi)

Saremo passati di moda noi che amiamo parole come giustizia, libertà, lotta? Saremo dinosauri a un passo dall’estinzione, saremo patetiche marionette del passato, o forse illusi combattenti del nulla visto che la resa e la rassegnazione, tanto amate dai cinici moderni, ancora ci infiammano di ribellione?

Ecco, questo libro serve proprio a dirci il contrario. Cari miei, le [...]]]> di Franco Foschi

Alegre_Meccanoscritto-copertinaCollettivo MetalMente, Wu Ming 2, I. Brentani, Meccanoscritto, Alegre Edizioni, 2017, pp. 350, € 16.00 (con un racconto di Luciano Bianciardi)

Saremo passati di moda noi che amiamo parole come giustizia, libertà, lotta? Saremo dinosauri a un passo dall’estinzione, saremo patetiche marionette del passato, o forse illusi combattenti del nulla visto che la resa e la rassegnazione, tanto amate dai cinici moderni, ancora ci infiammano di ribellione?

Ecco, questo libro serve proprio a dirci il contrario. Cari miei, le lotte di ieri sono esattamente le lotte di oggi: i capitalisti, i ‘padroni’ di ieri, oggi forse hanno altri nomi, sono impalpabili, non impugnano più la pistola per sparare contro gli operai, usano mezzi più subdoli, sinuosi. Si sono impadroniti, per esempio, della politica, non la fronteggiano più, la manipolano, ma il risultato è, per chi lavora, sempre lo stesso: la sopraffazione.

Bene lo hanno compreso Ivan Brentani, il curatore di questo libro fenomenale, Wu Ming 2, spalleggiatore eccellente, e gli eccellenti spalleggiatori del Collettivo MetalMente. Sono partiti da una curiosità, un concorso letterario bandito dalla FIOM negli anni 60, per ripercorrere, narrativamente, la storia di alcune lotte operaie dell’Italia di allora, intrecciandole con scritti ‘metalmeccanici’ di oggi e con il racconto, per molti versi agghiacciante, dell’evoluzione storica del sopruso padronale. Intercalando poi con infra-racconti legati ai titoli dei giornali dei tempi, come cartine di tornasole rivelatrici di come si fa a rigirare la frittata, i responsabili di tutto ciò hanno prodotto da una apparente frammentazione un progetto solidissimo, uniforme, e un libro di impressionante forza.

Dopo una lunga, e del tutto insolita, introduzione in cui sentiamo parlare oltre ai curatori anche capi vecchi e nuovi della FIOM come Sacchi e Landini, si entra nel vivo dell’idea primitiva, quella di ‘utilizzare’ i racconti di quella singolare iniziativa degli anni 60 per arrivare fino a noi, a oggi, al ‘che fare’ sempre attuale.

I piani di lettura sono quindi diversi: da una parte i vecchi racconti, tutti molto militanti, nei quali anche il linguaggio è uno specchio dei tempi, che cede senza complessi al gergo, al dialettale, alla grana rossa, diciamo. Un secondo piano è quello della lettura dei titoli di giornale. Questa è abbastanza impressionante, una stessa notizia strillata dall’Unità viene stravolta e deviata dal Sole 24 ore con una piroetta da derviscio che solo l’ideologia conservatrice può permettere. Ho detto ‘impressionante’ perché quel modo dichiarava con chiarezza tutto ciò che abbiamo perso: e cioè la comprensione di chi-sta-con-chi. Oggi il sole 24 ore produce un inserto letterario domenicale molto amato dagli intellettuali di più o meno sinistra…

Allora si conoscevano e riconoscevano i nemici. Ora i nemici sono entità indistinte, tipo la JP Morgan (allucinanti certi report in proposito che possiamo leggere qui), mentre dai politici di professione nessuno si aspetta più nulla. A questo proposito è davvero significativo che quasi in conclusione venga riportato il racconto del Collettivo MetalMente che riprende i temi del lavoro oggi: ebbene, è un racconto di fantascienza…

Eppure, come detto in precedenza, l’unità e la direzione di questo libro sono solidissimi, e l’obiettivo davvero elevato: e cioè la risposta alla domanda ‘ma davvero il lavoro è finito?’. Grazie all’interesse feroce che questo libro solleva, sappiamo che la risposta è no, anzi ‘NO!’. Ci dice che siamo tornati agli anni 60, che è tempo di lotta e di reclamare i diritti sfilati via con nonchalance da quella tribù vergognosa di ipocriti fintamente popolari, veri nani sulle spalle dei giganti (del passato) con nomignoli come monti, fornero, marchionne, renzi, e compagnia bella.

Che il potere, da sempre (religioso, militare, economico che sia), desideri dirigere una tribù di lobotomizzati lo sappiamo. Il fatto è che anche se tanti sono stati lobotomizzati, quelli non non smetteranno mai di credere ai diritti, all’equità, al valore del lavoro. Un libro come “Meccanoscritto” non può che essere la bibbia laica di questi credenti

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Nuova Rivista Letteraria n. 4 – Soltanto parole? https://www.carmillaonline.com/2017/01/18/nuova-rivista-letteraria-n-4-parole/ Tue, 17 Jan 2017 23:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36046 NRL4_copertina[Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero di Nuova Rivista Letteraria. Un monografico dedicato al linguaggio, ai significati delle parole, al loro utilizzo e alla loro capacità di incidere sul reale. Di seguito trovate l’incipit degli articoli contenuti nel volume. Ne saranno felici i “collezionatori di incipit”, so che esistono. E se volete approfondire la lettura, qua potete acquistare il numero. ss].

Con lingua biforcuta di Giuseppe Ciarallo Nei film di indiani e cowboy della mia infanzia, i pellerossa accusavano spesso i bianchi di parlare con lingua biforcuta. Era un modo [...]]]> NRL4_copertina[Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero di Nuova Rivista Letteraria. Un monografico dedicato al linguaggio, ai significati delle parole, al loro utilizzo e alla loro capacità di incidere sul reale. Di seguito trovate l’incipit degli articoli contenuti nel volume. Ne saranno felici i “collezionatori di incipit”, so che esistono. E se volete approfondire la lettura, qua potete acquistare il numero. ss].

Con lingua biforcuta di Giuseppe Ciarallo
Nei film di indiani e cowboy della mia infanzia, i pellerossa accusavano spesso i bianchi di parlare con lingua biforcuta. Era un modo tanto colorito quanto appropriato per dire che le giubbe blu (che del potere erano i rappresentanti e il braccio armato) dicevano una cosa e ne facevano un’altra. Usavano cioè la parola, quella dei trattati ad esempio, in modo truffaldino.

Ogni scritta su un muro racconta una storia diversa di Silvia Albertazzi
Le immagini pubblicate in questo numero di Nuova Rivista Letteraria sembrano, paradossalmente, smentire e confermare al tempo stesso l’affermazione dello scrittore americano William Saroyan secondo cui una fotografia vale mille parole, ma solo a patto che qualcuno, guardandola, pensi o pronunci quelle mille parole.

Bologna: non più rossa, non più Blu di Agostino Giordano
Nella notte tra l’11 e il 12 marzo del 2016 a Bologna è accaduto un evento che, come spesso capita in questa città, è unico nel suo genere. Il noto writer Blu, considerato il «Banksy italiano» (inserito nel 2011 dal Guardian nella lista dei dieci migliori street artist del mondo), aiutato da un gruppo di militanti dei centri sociali bolognesi Xm24 e Crash, ha cancellato dai muri della città gran parte delle sue opere, realizzate nell’arco di circa vent’anni.

Fascismo social: la condivisione delle “idee senza parole” di Alberto Prunetti
Ieri. La lingua del duce. La retorica teatrale di Mussolini ‒ perentoria, decisionale, volontaristica, carica di iperboli e di allitterazioni ‒ non doveva convincere ma sedurre: era magia fonetica priva di semantica. Il suo lessico era povero di elementi tecnici ma carico di velleità nominaliste che attingevano ora dal registro spiritualista (“idea”, “fede”, “martirio”, “comunione”, “credere”), ora da quello militarista (“combattere”, “battaglia”), come dal volontarismo dell’azione (“audacia”, “dinamico”, “formidabile”, “osare”…). Quanto alla sua ironia, era una sarabanda fonetica che irrideva la vittime e strizzava l’occhio al carnefice: suffissi e postfissi, meta e –iolo, “ultrascemo” e “panciafichista”,“partitante” e “schedaiolo”.

Più bella e superba che pria.. di Giuseppe Ciarallo
Il grande Ettore Petrolini, che dell’uso tagliente e della manipolazione della lingua – seppur a fini satirici – ne sapeva, in uno dei suoi sketch più noti (quello di Nerone e del “domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria… bravo! grazie!”) diceva che “il popolo, quando sente le parole difficili, s’affeziona”, e aggiungeva “il popolo, quando s’abitua a di’ che sei bravo, pure che non fai gnente, sei sempre bravo”.

Genesi e possibile cura del morbo razzista tra gli ultrà di Claudio Dionesalvi
Ciccio irruppe in piazza con gli occhi carichi di odio. Tanti anni di trasferte insieme, però lui si ritrovava qualche neurone fuorisede più dei nostri. Non salutò nessuno. Si appartò in un angolo e cominciò a pennellare uno stendardo. S’intravedeva la traccia bianca sotto il corpo suo prono sulla stoffa di colore nero, spalmata sul marciapiede. I primi che gli s’avvicinarono per capire il soggetto della sua opera, tornarono paonazzi. Incredibile: una svastica, Ciccio stava confezionando uno stendardo nero con una corposa svastica bianca.

Minime dosi di arsenico di Giuliano Santoro
Lo diceva con chiarezza William Burroughs. Abbiamo bisogno di «decifrare le parole»: «esse sono sempre più indistinte, si perdono in assurdo rompicapo». Per farlo, bisogna innanzitutto andare oltre le narrazioni pigre. Quella dominante è dettata dal già visto del codice penale e delle misure di polizia: se un processo è il tentativo di portare dentro schemi precostituiti fatti già avvenuti, a noi serve esattamente il contrario. Eppure, proprio l’opposizione è stata fagocitata, masticata e poi sputata a brandelli.

«Attendesi a mandar via questa canaglia». L’invenzione del nemico nella Ferrara estense di Girolamo De Michele
In un periodo nel quale il mio tempo era occupato da cinquecentine e carte d’archivio, mi sono imbattuto in un testo a suo modo intrigante. Si tratta di una perorazione contro la presenza dei giudei nei domini estensi fatta nel 1555 dal giureconsulto Gherardo Mazzoli, davanti al Consiglio degli Anziani di Reggio Emilia: «Molti ebrei vengono ai giorni nostri ad abitare in questa città, e si ritiene che ne verranno molt’altri ancora. Da costoro, come nimici della fede cristiana non v’è da aspettarsi altro che male, e quanti più saranno, tanto maggiore ne sarà la peste in questa città, poiché quando molti infetti accorrono in un luogo, vi si fa di giorno in giorno più spesso il contagio. Morbida facta pecus totum corrumpit ovile.

Un’angoscia straniera. Scrivere nella lingua dell’altro – Silvia Albertazzi
Mi chiedi che cosa intendo
quando dico che ho perso la mia lingua.
Ti chiedo, che faresti
se avessi due lingue in bocca,
e perdessi la prima,
la lingua madre
e non potessi conoscere del tutto l’altra,
la lingua straniera.
Non potresti usarle tutt’e due insieme
anche se così tu pensassi.
E se vivessi in un posto
dove devi parlare una lingua straniera,
la tua lingua madre marcirebbe,
marcirebbe e ti morirebbe in bocca
finché dovresti sputarla fuori.

Sono versi di una poetessa indiana, Sujata Bhatt che, con immagini degne di un David Cronenberg, racconta il suo rapporto con l’inglese e la difficoltà di scegliere tra la lingua autoctona, parlata in famiglia e la lingua degli ex-colonizzatori, ormai divenuta lingua ufficiale degli scambi pubblici e degli studi, non solo accademici.

Dal plurilinguismo all’ospitalità. Appunti sull’italiano (neo-epico e no) di Antonio Montefusco
L’11 e il 18 maggio del 2016 il blog nazioneindiana ha pubblicato un mio intervento su quelle che mi sembrano le caratteristiche salienti della cultura italiana se osservata dal punto di vista linguistico. L’articolo è stato ripreso anche da OperaViva e ha stimolato qualche reazione da parte di colleghi e scrittori, che mi ha permesso di riprendere il filo di quel discorso – inizialmente concepito come la recensione al bel volume di Luca Salza, Il vortice dei linguaggi – e di proporne qui, nel contesto di un numero di Nuova rivista letteraria dedicata alla lingua, una prima revisione a stampa.

Sotto il dialetto, niente di Federico Faloppa
Umberto Bossi probabilmente non l’avrebbe mai fatto. Cantare in dialetto romanesco – anzi, cimentarsi nientemeno con una delle canzoni simbolo di Roma, Roma non fa la stupida stasera – gli sarebbe venuto in mente, forse, solo per prendere per i fondelli i romani: storpiandone l’idioma e scimmiottandone la cultura “popolare”. Matteo Salvini invece l’ha fatto.

La gazzetta dello snuff di Selene Pascarella
L’estate del 2016 ha regalato poche soddisfazioni agli appassionati della cronaca nera “classica”. Nessun giallo da gustare sotto l’ombrellone, del genere che da Simonetta Cesaroni a Sarah Scazzi ha prodotto epopee mediatico-giudiziarie; molta commistione con narrazioni di non fiction limitrofe, popolate di terroristi islamici, catastrofi naturali e treni-killer. Ciononostante è stata una stagione pulp all’ennesima potenza, con fiumi di sangue e montagne di carne mutilata messi a disposizione del pubblico nazionalpopolare, con la complicità di massmurder in apparenza meno affascinanti degli assassini seriali o degli orchi della porta accanto, eppure impeccabilmente funzionali a una macchina dello storytelling giallo in cerca di nuovi terreni da esplorare.

Che geni, le parole di Cristina Muccioli
Siamo tutti Africani. “Volete trovare un vero e autentico africano in questa sala?”, chiedeva il genetista dell’Università di Ferrara Guido Barbujani all’uditorio di una sua relazione al Darwin Day di Milano nel 2010, “ebbene, guardate il vostro vicino”. Dall’Africa orientale sono cominciati non più di duecentomila anni fa i grandi viaggi migratori dei nostri progenitori, che solo negli ultimi quindicimila anni hanno mutato, per adattarsi alla scarsa radiazione solare dell’Europa nella morsa della glaciazione, il colore della pelle. I veri Europei, cioè i Neanderthal, meno attrezzati morfologicamente per l’uso esteso e sfaccettato del linguaggio che ci connota oggi, si estinsero definitivamente circa trentamila anni fa.

Le parole del corpo. Come la medicina utilizza il linguaggio per allontanare il paziente di Franco Foschi
Una delle figure più popolari della commedia dell’arte carnascialesca della mia città, Bologna, è il Dottor Balanzone. È una specie di pallone gonfiato, mezzo medico e mezzo leguleio (cioè verosimilmente nessuno dei due), abituato a pontificare su tutto e su tutti con lunghi monologhi che nient’altro sono se non sproloqui, che infarciti di paroloni spesso inventati e latinorum instupidiscono i questuanti senza ovviamente offrire alcuna soluzione comprensibile ai problemi proposti.

Le parole per dirlo di Sergio Rotino
Mi sento inadatto. Sono incapace a scriverne. Non ho gli strumenti necessari. Queste le reazioni che mi hanno posseduto e in parte ancora mi posseggono in questo tentativo di minima indagine sul linguaggio usato dalla narrativa per ragazzi, dal cinema e dal fumetto per raccontare l’immigrazione declinata in chiave odierna, con il suo investire il corpo irrigidito dell’Europa.

Nacheodomì. mulino bianco, biscotto nero di Massimo Vaggi
San Paolo del Brasile, giugno 2003. Mi chiedo come e quando riuscirò a interrompere la litania ossessionante che mio figlio, con noi da una settimana, continua a ripetere ad alta voce piangendo da quasi un’ora. Nacheodomì, nacheodomì, nacheodomì, uno zibaldone di suoni creato dal suo linguaggio elementare e infantile (ha quasi quattro anni, ma non parla bene). ñao quero dormir. Non vuole dormire anche se è pomeriggio e fa tanto caldo e noi vorremmo stare tranquilli per un po’ e lui è devastato dalla stanchezza nonché – forse – dalla paura.

Assalamu aleyku. La pace sia su di voi di Paolo Vachino
Operazione Colomba è un Corpo Nonviolento di Pace [www.operazionecolomba.it] e ha una presenza attiva in Libano dal 2013 all’interno dei campi profughi siriani di Bebnine e di Telabbas, che si trovano nel distretto di Akkar, la zona nord-occidentale del Libano al confine con la Siria. Parimenti a quanto accade nelle altre zone d’intervento di Operazione Colomba (Palestina/Isreale, Colombia, Albania) i volontari praticano la condivisione della vita con le vittime del conflitto, dando conforto e aiuto nel soddisfacimento dei bisogni più immediati, così come nell’affrontare le situazioni di emergenza; attuano la protezione non armata di civili esposti alle violenze della guerra, onde fungere da deterrente verso l’uso della violenza; promuovono il dialogo e la riconciliazione, traendo ispirazione dai principi della nonviolenza, della equivicinanza, e della partecipazione popolare; portano avanti un continuo e paziente lavoro di advocacy a livello politico e istituzionale.

Il “mare nostro” e le parole per i migranti di Alberto Sebastiani
Nel Vangelo di Matteo (Mt 6,9- 13), nel mezzo del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29), Gesù insegna il Padre nostro. È una preghiera composta da un’invocazione e sette richieste, divisa in due parti: la prima ospita tre domande che riguardano Dio, a cui Gesù si rivolge con il “tu”, e hanno come oggetto la gloria del Padre (la santificazione del nome, l’avvento del Regno e il compimento della volontà divina); le altre quattro presentano a Dio i desideri degli oranti (il “noi” corale e comunitario della preghiera) e riguardano la vita quotidiana, chiedono infatti pane (materiale e spirituale), perdono, liberazione dalla prova e dal male.

[Il passo del gambero] Razzismo senza parole di Wolf Bukowski
Sostiene Günter Grass che il gambero, proprio quando sembra camminare all’indietro, scarta invece lateralmente e “avanza con una certa rapidità”. Con ambizione di crostacei, in questa rubrica attingiamo al tema di precedenti numeri monografici, lo affrontiamo lateralmente e lo spingiamo avanti – in direzione del fascicolo presente. Qui riapriamo il numero 10 della vecchia serie, monografico sul cibo, e lo poniamo accanto a quello del novembre 2015 (nr. 2 nuova serie) su nazionalismi, populismi di destra e razzismi; poi avanziamo con una certa rapidità verso il tema di oggi, la lingua e il suo uso politico.

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Giulio Regeni, le verità ignorate. Intervista a Lorenzo Declich https://www.carmillaonline.com/2016/07/12/giulio-regeni-le-verita-ignorate-intervista-lorenzo-declich/ Mon, 11 Jul 2016 22:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31646 regenidi Simone Scaffidi

A quasi sei mesi dalla sparizione forzata di Giulio Regeni a Il Cairo c’è ancora molta confusione intorno al tema. L’informazione mainstream italiana continua nella sua ostinata ricerca del complotto e snocciola infamanti accuse morali a destra e a manca, spostando di fatto l’attenzione dai contesti (quello egiziano) e dalle questioni di fondo (un regime repressivo brutale amico del governo italiano) al mero rumore. Lorenzo Declich, una delle migliori penne in lingua italiana per comprendere il mondo islamico contemporaneo, ha contribuito a smontare questa narrazione scrivendo il primo libro dedicato [...]]]> regenidi Simone Scaffidi

A quasi sei mesi dalla sparizione forzata di Giulio Regeni a Il Cairo c’è ancora molta confusione intorno al tema. L’informazione mainstream italiana continua nella sua ostinata ricerca del complotto e snocciola infamanti accuse morali a destra e a manca, spostando di fatto l’attenzione dai contesti (quello egiziano) e dalle questioni di fondo (un regime repressivo brutale amico del governo italiano) al mero rumore. Lorenzo Declich, una delle migliori penne in lingua italiana per comprendere il mondo islamico contemporaneo, ha contribuito a smontare questa narrazione scrivendo il primo libro dedicato al caso del ricercatore ventisettenne sequestrato, torturato e ucciso dal regime di al-Sisi. Si intitola “Giulio Regeni, le verità ignorate. La dittatura di al-Sisi e i rapporti tra Italia ed Egitto” (Alegre Edizioni, 2016) e quella che segue è un’intervista all’autore.

  1. Perché hai deciso di scrivere un libro sul caso Giulio Regeni a soli quattro mesi dal suo assassinio?

Ho ritenuto che fosse necessario fissare alcuni punti, già chiarissimi nei giorni seguenti al ritrovamento del corpo di Giulio Regeni. Buona parte del libro è tesa a fornire una base di ragionamento valida per ieri, oggi e domani.

  1. Puoi raccontarci chi era Giulio Regeni, perché era in Egitto e perché è stato rapito, torturato e assassinato dal regime di al-Sisi? Lo avremmo dovuto avere tutti ben chiaro fin dall’inizio, eppure a causa di una stampa mainstream che ha preferito abdicare al suo ruolo – sposando fantomatiche quanto infamanti teorie del complotto – ne abbiamo sentite di tutti i colori sul conto di Giulio Regeni. Puoi chiarirci un attimo le idee?

Giulio Regeni era un ricercatore come molti altri, forse più bravo di tanti altri, che stava svolgendo una ricerca in autonomia, in accordo e coordinandosi con i suoi docenti. È caduto nelle maglie di un apparato di sicurezza ipertrofico e paranoico nell’area (attorno a piazza Tahrir, il centro simbolico della rivoluzione egiziana) e nel giorno (ricorreva l’anniversario della rivoluzione egiziana e in cui solo al-Sisi poteva “parlare di rivoluzione”) in cui quell’apparato concentrava tutti i suoi sforzi. La sua vicenda ci racconta di un salto di qualità del livello di arbitrarietà e impunità del regime. Gli egiziani, da subito, hanno provato a trattarlo come un “caso isolato”, e sappiamo che ciò non è – visti i numeri, sempre crescenti, di sparizioni forzate, torture e morti in carcere. Questo salto di qualità non è stato percepito (qualcuno non lo ha voluto percepire) in Italia mentre bastava chiedere a chi, come Regeni, stava svolgendo ricerche in Egitto, per rendersene conto. Bastava registrare lo stato di shock che nei primi giorni si respirava all’interno della comunità accademica che si occupa di Egitto e con cui Regeni era in relazione. Si è preferito invece costruire ipotesi fantasiose (ne parlo nel quarto capitolo del libro), accusare i suoi supervisor di “responsabilità morale”, descrivere Regeni come un inconsapevole strumento di qualche apparato di intelligence e chi più ne ha più ne metta. Se in Egitto il regime faceva muro in Italia sembravano tutti impegnati a trovare responsabili diversi dal vero responsabile: Abd al-Fattah al-Sisi.

  1. Giulio Regeni è stato rapito il 25 gennaio 2016, nel quinto anniversario della rivoluzione egiziana. È un caso che sia stato rapito proprio quel giorno? Come riporti nel libro, il 2 aprile 2016, la madre di Khaled Said – ventottenne egiziano ucciso dalla polizia il 6 giugno 2010 e diventato uno dei simboli del movimento che ha contestato i regimi repressivi che in questi anni si sono susseguiti in Egitto – si è rivolta a Paola, la madre di Giulio Regeni, attraverso un video-messaggio, con queste parole: «Invio le mie condoglianze alla madre del martire Regeni, sono con lei e sento il suo stesso dolore, come soffro ogni giorno per Khaled. Voglio ringraziarla per essere con noi e per il suo interesse e preoccupazione per i casi di tortura in Egitto». Pensi che Giulio Regeni possa essere considerato un martire della rivoluzione egiziana?

desaparecidos-egizianiSì, penso che lo sia, soprattutto nella percezione di molti attivisti egiziani. Ma ciò non deve essere visto come “prova” del fatto che Regeni fosse un attivista. Giulio Regeni non era un attivista, pur avendo passione politica: stava studiando, stava facendo ricerca. È stato ucciso dal regime, “come un egiziano” (questo si leggeva su alcuni cartelli, i primi giorni dal suo ritrovamento) e per questo è stato inserito nella lista dei martiri della rivoluzione egiziana.

  1. Nel libro insisti sul fatto che la sparizione forzata, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni non rappresentino di per sé un caso eccezionale nell’Egitto di al-Sisi. Soltanto nei primi mesi del 2016 infatti – secondo il Centro el-Nadim per la Riabilitazione delle Vittime della Violenza – sono stati registrati 88 casi di tortura, 8 dei quali con esito mortale. Mentre il bilancio complessivo del 2015 conta 464 casi di sparizioni forzate e 1676 casi di tortura, di cui 500 con esito mortale. È giusto chiedersi dunque di cosa ci stiamo stupendo ed è altrettanto legittimo domandarsi per quali ragioni la maggioranza dei mezzi di informazione italiani abbia ignorato queste verità e omesso la natura di un regime repressivo che intensifica le sue politiche di controllo a suon di sparizioni forzate e detenzioni illegittime. Perché nella trattazione mediatica del caso il contesto che ha portato alla morte di Giulio è stato ignorato?

Molti giornalisti che sono stati messi a trattare il caso Regeni non avevano alcuna conoscenza dell’Egitto e di ciò che in Egitto è successo negli ultimi anni. Altri, che solitamente si occupano di cronaca giudiziaria, hanno avuto un approccio “investigativo” senza però fare i conti con la presenza di un regime e di una retorica di regime, specializzata nello spostare l’attenzione, nell’insabbiare. E questo è il lato “luminoso”. Nel libro parlo anche di chi, avendo interessi in Egitto, ha remato davvero contro, cercando di derubricare la vicenda, lanciando accuse infamanti su Giulio Regeni, su chi era intorno a lui nei suoi studi, ecc. Mettici anche che in Italia non si è parlato di Egitto per anni e quando se ne è parlato si è descritto al-Sisi come una specie di “pilastro della stabilità”, come un grande statista di cui avremmo assoluto bisogno per la battaglia contro il terrorismo, ecc.

  1. «In questo momento l’Egitto si salva solo grazie alla leadership di al-Sisi. Sono orgoglioso della mia amicizia con lui e sosterrò i suoi sforzi in direzione della pace, perché il Mediterraneo senza l’Egitto sarà un luogo senza pace» sono parole di Matteo Renzi (8 luglio 2015) che insiste nel definire al-Sisi «un grande leader». Perché il Presidente del Consiglio italiano ha una relazione così stretta con il dittatore al-Sisi? Quanto pesano 1) la presenza dell’Eni in Egitto; 2) l’ingente vendita di armi delle industrie italiane all’apparato repressivo egiziano e 3) gli accordi per “combattere l’immigrazione clandestina” tra i due governi? E quanto ha influito questa relazione sul silenzio e la passività dell’Italia durante il sequestro e dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni?

Pesano molto. Nel libro dedico un capitolo alle relazioni fra Italia ed Egitto. Con un dettaglio da non trascurare: oggi avere relazioni economiche con l’Egitto significa in moltissimi casi supportare il regime. Nel libro parlo anche degli accordi fra Italia ed Egitto in tema di migrazioni. Anche questo è un capitolo che non bisogna trascurare. In questo giorni si discute sul fatto che l’Egitto possa essere definito “paese sicuro”, un paese verso il quale rimandare indietro i migranti. La famiglia Regeni è stata molto chiara in questo senso: l’Egitto, al contrario, deve essere messo di fronte alle proprie responsabilità, deve essere considerato paese non sicuro.

  1. Puoi aggiornarci sulla situazione egiziana dall’assassinio di Giulio Regeni ad oggi? I sindacati indipendenti che studiava Giulio in che acque navigano ora? I giornalisti e gli attivisti continuano a essere minacciati, sequestrati e torturati? L’Italia e la comunità internazionale hanno agito pressioni sul regime di al-Sisi con rispetto alla tutela dei diritti umani?

13151916_1019068978174109_2892829785132549035_nI numeri, sempre crescenti, delle sparizioni forzate parlano da soli. I sindacati indipendenti sono schiacciati e divisi, il presidente del sindacato dei giornalisti è stato arrestato. Un consulente della famiglia Regeni al Cairo è stato accusato di terrorismo. E questi sono solo esempi. La repressione non si è fermata anzi si è intensificata. L’Italia, dopo il ritiro dell’ambasciatore, non ha fatto niente. Anche qui il richiamo dei familiari di Regeni a fare di più parla da solo. Britannici (ma non Cambridge, occorre sottolinearlo) e francesi chiudono gli occhi. Qui nessuno vuole dire: “se fosse stato un francese o un britannico le cose sarebbero state diverse”. Non è questo il punto. Senza la pressione dell’opinione pubblica le cose rimarranno ferme.

  1. Nel libro citi la compiacente intervista di Mario Calabresi e Gianluca Di Feo, rispettivamente direttore e vicedirettore de la Repubblica, ad al-Sisi, e le domande inopportune poste dallo stesso Calabresi ai genitori di Giulio Regeni durante la conferenza stampa al Senato. Cosa pensi della campagna “Verità per Giulio” lanciata da Amnesty International e la Repubblica?

Trovo quell’intervista uno dei punti più bassi del giornalismo italiano degli ultimi tempi. E trovo che Repubblica, pubblicando tutto e il contrario di tutto – anche lettere anonime! – non ha contribuito a fare chiarezza. Stendo un velo pietoso sulla domanda di Calabresi alla conferenza stampa. Ne ho scritto appunto nel libro, definendo la cosa “pornografia dell’informazione”. Quanto ad Amnesty penso che stia facendo il suo lavoro, avendo anche il delicato ruolo di assistere nelle iniziative la famiglia di Regeni. Un lavoro che ha dei limiti strutturali: se non c’è volontà politica non si va avanti. Certo è che ormai, sotto l’hashtag #veritàpergiulio, va a finire di tutto, come era prevedibile. Col tempo i messaggi si confondono e si edulcorano. E tutti parlano “in nome di”. Bisogna fare presto. Personalmente non ho mai usato quell’hashtag, soprattutto per non creare ambiguità: il mio libro è prima di tutto un lavoro di analisi e approfondimento. E deve essere chiaro che la cosa corre in parallelo rispetto alle iniziative della famiglia Regeni – iniziative coraggiose, che trovo importanti perché mettono al centro sempre la questione dei diritti umani in Egitto e del regime – e a quelle di Amnesty.

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Nuova Rivista Letteraria n. 3 – Utopie/Distopie https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/nuova-rivista-letteraria-n-3-utopiedistopie/ Mon, 27 Jun 2016 22:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30882 Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata [...]]]> Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata Luca Gavagna) al cristianesimo di base in Nicaragua; dalla resistenza delle donne maya ixil all’utopia autoritaria dei militari in Guatemala alle libere repubbliche No Tav della Val Susa; dall’anarchia tra Benevento e Campobasso di fine ‘800 alla  Colombia di Eduar Lanchero; dal municipalismo libertario dei curdi a Scientology e alle altre sette religiose nate dalle utopie naufragate dei movimenti di lotta. E poi ancora potrete l’utopia che alimenta la fantascienza, l’architettura, il cinema, la letteratura, la medicina, la follia, l’adolescenza, l’idea di una vita eterna e quella di spremere acqua dal vento. Qua sotto potete leggere un piccolo estratto per ogni singolo articolo che compone il volume].

Editoriale / Utopia.. pia… pia… – Giuseppe Ciarallo
Ma l’utopia è davvero qualcosa di irrealizzabile, e gli utopisti dei folli visionari, o quella di affibbiare l’etichetta di “utopico” è la maniera più comoda e veloce per liquidare un progetto che non si ha voglia, la capacità e il coraggio di realizzare? Perché se è innegabile che molte esperienze utopiche siano naufragate, è altrettanto vero che di utopia sono venate molte situazioni che invece esistono e strenuamente resistono opponendosi a una realtà che sempre più chiaramente mostra il proprio volto distopico.

Le immagini / L’utopia abitabile di Mondeggi – Silvia Albertazzi
Torna alla mente, di fronte a queste immagini, quanto Roland Barthes ebbe a scrivere sulle foto di paesaggi: che devono essere abitabili e non visitabili. Qui, Mondeggi, in effetti, non appare come un luogo per turisti, da visitare per poi passare oltre: tanto gli esterni quanto gli interni di Gavagna suscitano, piuttosto, la voglia di vivere in quei luoghi, fosse pure per un attimo.

letteraria_3dNicaragua / Gesù nella guerriglia – L’utopia del cristianesimo di base – Agostino Giordano
Nell’immaginario collettivo dei cosiddetti «cristiani del dissenso», non solo sudamericani ma anche europei e italiani in particolare, l’esperienza sandinista ha rappresentato senza dubbio un riflettore molto illuminante del percorso di lotta politica convergente con le istanze del marxismo-leninismo.

Colombia / Nel fango, l’oro dei passi – Paolo Vachino
Eduar Lanchero, non un personaggio di fantasia ma un uomo, un filosofo, un paladino dei diritti umani, un rivoluzionario, nato e vissuto in Colombia, le cui intuizioni, le sue letture del conflitto colombiano, la sua proposta di creare un modello alternativo alla violenza e allo sfruttamento, hanno scritto una pagina molto importante della Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Anarchia / Il paese di Utopia? A metà strada tra Benevento e Campobasso – Giuseppe Ciarallo
La folla era entusiasta e le parole di Cafiero conquistarono persino il parroco il quale, nella foga del momento, pare che inneggiò alla rivoluzione sociale, paragonò il Vangelo al socialismo e definì gli internazionalisti, apostoli della parola di Cristo. Nel paese di Gallo, gli anarchici ripeterono l’azione e anche qui vennero accolti come liberatori.

No Tav / Le «libere repubbliche» no tav della Val di susa – Wu Ming 1
Un movimento è rivoluzionario se converte i riferimenti agli spazi in un linguaggio e una prassi che liberano i tempi. Nella frase «resteremo qui finché vorremo», l’elemento più importante non è il «qui» – una piazza, una scuola occupata, un prato, una casa sull’albero – ma il «finché vorremo». È la rottura del tempo a dare senso allo spazio.

Fantascienza / Essere rivoluzione per abbandonare l’utopia. Una questione di fantascienza? – Alberto Sebastiani
Il capitalismo e le società su esso fondate non possono avere (ma soprattutto non vogliono) alternative, e il gruppo di Attentato all’utopia decide di debellare il “virus”: distruggere ogni traccia di questa società. Il quinto principio (2009) si fonda sul medesimo concetto di omologazione totale violenta. Il capitalismo realizzato (la sua utopia) presenta nell’ultimo romanzo di Catani una casta di ricchi abitanti della tecnologicamente avanzatissima città Diaspar (anagramma incompleto di “Paradiso”), isolata e nascosta al resto del mondo, il Mondo B, in cui le persone comuni sono rese sostanzialmente schiave del tricolon “produci, consuma, crepa”.

Lunga vita / Vivere a lungo, vivere male: utopia della longevità e liberismo – Wolf Bukowski
Ognuno desidera una lunga vita, ma quando questo desiderio è fatto proprio da un potere oppressivo assume una dimensione politica costitutivamente reazionaria. La vita lunga viene giocata contro la vita dignitosa, esattamente come la vita eterna promessa dalle religioni è posta come alternativa a una vita piena qui e ora, ed è ostacolo alla lotta per una vita emancipata su questa terra. E non è un caso che oggi, quando il socialismo sembra uscire dalla storia (anche se in verità, vecchia talpa!, sta scavando sottoterra), riprendano fiato l’illusione escatologica e i crudeli progetti divini.

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Brazil / Il realismo dell’impossibile – Silvia Albertazzi
Sono moltissimi i film e i romanzi che raccontano di comunità immaginarie create da personaggi in fuga da realtà di oppressione, distruzione o morte: nella maggior parte dei casi, gli sforzi di questi pionieri dell’impossibile sono destinati a infrangersi contro le perversioni del reale; quasi sempre, le comunità utopiche nate dalla migrazione ai confini della realtà (e oltre) si danno leggi, norme, governanti che presto trasformano il sogno in incubo. Non è un caso, infatti, che in narrativa il numero delle distopie superi di gran lunga quello delle utopie, a suggerire come l’umanità sia incapace, persino nel mondo fantastico, di realizzare dal basso una comunità perfetta.

Architettura / Arte, architettura e geografia utopica. Nel bene e nel male – Cristina Muccioli
Il trionfo della disciplina si celebra sulle ceneri di una precedente, grandiosa utopia di origine proto rinascimentale, quando a Filippo Brunelleschi venne richiesto di progettare in Firenze un palazzo in grado di ospitare e soccorrere, crescere ed educare gli individui più fragili, più deboli, indifesi e improduttivi della società: i bambini abbandonati. Così nacque a partire dal 1419 lo Spedale degli Innocenti, nome comune diventato poi cognome per molti che testimoniano di questa discendenza da salvati. Fu il primo brefotrofio d’Europa, progettato per accogliere, tutelare e proteggere, non per controllare e inibire, o per meglio dirla con Foucault, per sorvegliare e punire.

Medicina / Restare umani – l’ultima utopia della medicina moderna – Franco Foschi
La storia della medicina è stracolma di utopisti e visionari. Tra quelli che preferisco, perché proveniente dai miei ambienti di lavoro della sala parto e delle neonatologie, il dottor Semmelweiss, così ben raccontato da quella detestabile e ambigua persona, medico dei poveri e gran scrittore, di Céline: Semmelweiss coltivò il sogno realistico di vivere in un ambiente privo di infezioni – e come molti utopisti realisti venne sbeffeggiato, allontanato, perseguitato, e morì solo e pazzo.

Febbre / Le radici del cielo – l’utopia visionaria di Gary – Massimo Vaggi
Non è dunque un caso che adori tra gli altri anche Romain Gary, e che consideri Le radici del cielo non solo e non tanto – come è stato affermato – il primo vero romanzo ecologista, ma un grandissimo romanzo visionario, un paradigma dell’utopia estrema.

letteraria_3Orto dei tu’rat / Un progetto ambientale che pratica l’utopia dell’oasi spremendo acqua dal vento – Milena Magnani
L’immagine di un’utopia che si persegue nel piccolo, tra gli interstizi di sassi che resistono, quella di cui si fa esperienza incontrando il progetto ambientale Orto dei Tu’rat, un paesaggio di pietra e vento che sfida l’inarrestabile avanzata del deserto. Un progetto nato in Salento, che è una delle aree europee indicate dalle ultime ricerche sull’ambiente come quella a maggior rischio di desertificazione, zona in cui i fenomeni di erosione e salinizzazione dei suoli stanno mostrando da tempo il loro aggressivo aspetto di non ritorno.

Libri per ragazzi / Senza famiglia: liberi adolescenti in libero stato – Sergio Rotino
C’è un desiderio che tutti gli adolescenti – anche noi, quando stavamo attraversando tale “tappa evolutiva” – hanno in qualche modo vagheggiato. Almeno, tutti gli adolescenti prima dell’avvento dei Social, prima dell’arrivo di quello che appare un meraviglioso (ma anche pericoloso perché ancora da testare) subsistema di democrazia diffusa, basata sull’elettronica di consumo. Il desiderio è, in pratica, quello di vivere in un mondo dove gli adulti non esistano. Spariti, come per incanto, per qualche misterioso motivo. Spariti e basta.

I matti / La città dei matti e l’utopia della realtà – Alberto Prunetti
Liberare i pazzi è stata un’utopia che si è realizzata. Che tanti psichiatri radicali hanno reso possibile. Un’utopia della realtà, per citare Franco Basaglia, un’utopia che poi deve fare i conti con una realtà che non ha più nulla di utopico, con un senso comune che è sempre più recintato dai paletti del conformismo. Insomma, aperti i manicomi, bisogna adesso ricominciare da capo: liberare le città, i quartieri, i condomini, perché il disagio psichico è diffuso quanto la tristezza e la paura.

Kurdistan / Società senza stato – Marco Rovelli
Mexmur è stata la prima città dove si è sperimentato il confederalismo democratico, che è la proposta politica lanciata da Ocalan dopo il suo arresto, e che adesso viene realizzata su più larga scala nel Rojava, il Kurdistan siriano. Una svolta teorica considerevole, quella del Pkk: da essere un partito, come tanti nati negli anni Settanta, di stampo marxista-leninista, che aveva al suo centro la richiesta di uno Stato-nazione curdo, a una teoria e a una pratica libertarie, mutuate in gran parte dai libri di Murray Bookchin, uno dei massimi pensatori anarchici del Novecento, e dalla sua teoria del “municipalismo libertario”.

letteraria_3cIsis / Dove non c’è futuro: distopia e stato islamico – Lorenzo Declich
Può essere utile, per capire questo punto, osservare che lo Stato Islamico ha riviste in lingue diverse – inglese, francese, turco, arabo – ognuna con contenuti specifici, diretti insomma a una certa comunità linguistica o nazionale (lo vedremo meglio più avanti). Pescando invece fra le varie pubblicazioni digitali troviamo testi “strategici” dedicati ai diversi contesti. Lo Stato Islamico, in “Occidente”, vede un futuro – e qui torniamo a “La Haine” – in cui dai “lupi solitari” si passa a “gang musulmane” che, fra le altre cose, “si infiltrano in altre gang”. Ecco qua. Con questa valigetta degli attrezzi parliamo di una “visione” dello Stato Islamico che – viste le premesse – non potrebbe essere altro che distopica, perché invita all’azione e alla partecipazione chi un’utopia non ce l’ha e un futuro non lo vede, chi si pone il problema di vivere “da protagonista” e/o in maniera più o meno eroica un presente senza vie d’uscita.

Sette religiose / Linguaggio utopistico e manipolazione – Giuliano Santoro
Dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in poi sappiamo che l’efficacia di ogni controrivoluzione è data dalla sua capacità di sussumere, inglobare, pervertire le istanze prodotte dalla rivoluzione. Il linguaggio del fascismo prova costantemente a impadronirsi di parole provenienti da sinistra. La grammatica neoliberista, da Reagan a Zuckerberg, è intrisa di utopie libertarie e retoriche partecipative. La sconfitta di un ciclo di lotte, il suo momentaneo esaurimento, producono sempre lo sfondamento della reazione nel campo delle narrazioni rivoluzionarie.

Mondeggi Bene Comune / Immagina, rievoca, viaggia nel tempo, veloce come il pensiero – Adriano Masci
Mondeggi, per Alessio e Duccio, non è solo un laboratorio, è invece, a tutti gli effetti, una realtà, un modello di risoluzione o comunque di risposta alla marginalità, al disagio periferico, alla disoccupazione, quando le istituzioni non cambiano nulla o aggravano le cose. In questo senso c’è uno scavalcamento del “rifiuto del lavoro” che imperversa negli anni dell’orda d’oro, ’68-’77, quando il lavoro non manca ma è sfruttamento disumano e rifiutarsi, disobbedire, sabotare, è giusto. Ora invece il lavoro è qualcosa da rifondare, perché è succube dell’algoritmo finanziario, sfrutta attraverso la flessibilità contrattuale, inibisce tramite la precarietà pervasiva, e la lotta passa attraverso l’immaginario pratico di un modello altro, che è possibile. Non senza rischiare, certo, non senza oltrepassare la legalità quando questa non coincide affatto con la giustizia sociale.

Guatemala / L’utopia nella voce – Simone Scaffidi
Ti vedi tu, ragazzo? In questo momento, fra me e te, chi ha il monopolio della parola? Forse tu non mi denuncerai ma di sicuro tradirai la mia voce con le tue mille traduzioni. Io già mi sto sforzando di parlarti in castigliano, in una lingua che non è la mia, tu dal castigliano trascriverai le mie parole nella tua lingua… e della mia di lingua che cosa rimarrà?
Il tuo monopolio. E qualche briciola del mio mais.
Per quanto tu ti possa sforzare di raccogliere le nostre testimonianze rimani un pelle di latte con il pene, e un pelle di latte con il pene può solo abbozzarlo il cammino di noi donne indigene.

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Settantadue di Simone Pieranni https://www.carmillaonline.com/2016/03/08/settantadue-dialisicriminale-di-simone-pieranni/ Mon, 07 Mar 2016 23:01:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28945 di Simone Scaffidi

Settantadue_coverSimone Pieranni, Settantadue. #DialisiCriminale, Alegre Edizioni, 2016, pp. 245, € 16.00

Quattro ore di amplessi sanguigni tra Roma, Genova e la Cina. Mi sveglio con un formicolio al braccio sinistro e un leggero mal di testa. Sono andato a letto con il libro sbagliato ieri sera. Sento freddo e ho una gran sete. E in più, odio i vecchi.

Avrei dovuto immaginarmelo dal sottotitolo che era il libro sbagliato. Ma prima avrei dovuto conoscere il significato della parola dialisi per poterlo immaginare. «La verità: [...]]]> di Simone Scaffidi

Settantadue_coverSimone Pieranni, Settantadue. #DialisiCriminale, Alegre Edizioni, 2016, pp. 245, € 16.00

Quattro ore di amplessi sanguigni tra Roma, Genova e la Cina.
Mi sveglio con un formicolio al braccio sinistro e un leggero mal di testa.
Sono andato a letto con il libro sbagliato ieri sera.
Sento freddo e ho una gran sete.
E in più, odio i vecchi.

Avrei dovuto immaginarmelo dal sottotitolo che era il libro sbagliato. Ma prima avrei dovuto conoscere il significato della parola dialisi per poterlo immaginare. «La verità: il novantanove per cento delle persone non ha idea di cosa sia la dialisi. Allora a quel punto o spieghi o stai zitto. Io sto zitto» [p. 23]. Questa volta Simone Pieranni – giornalista de Il Manifesto e fondatore dell’agenzia editoriale internazionale China Files – ha deciso di parlare, di spiegare con le armi del frammento e dell’ironia com’è la vita di un essere umano giovane dentro la dialisi. E ha deciso di farlo ingannando la normatività del reale con l’illegalismo della finzione, frullando se stesso con le storie delle sue città e dei suoi compagni di dialisi.

La narrazione si sviluppa dialetticamente in un attacco-stacco continuo, per questa ragione le prime pagine del libro risultano stranianti. Senza il sopraggiungere dello stacco, l’attacco perde di senso – e viceversa – in una rincorsa che dura una vita e che rappresenta la vita stessa: della storia che avete tra le mani e dell’autore che ve la racconta. Al primo stacco, che arriva presto, il lettore comincia a orientarsi nei flussi ematici e a soppesare il processo di sbancamento e riempimento che attraversa la storia.

Dando uno sguardo all’indice si possono individuare due correnti: quella della «Macchina» che scandisce i battiti del tempo; e quella di «Genova», «Roma» e «Shanghai» che occupa e storicizza lo spazio. I capitoli dedicati alla «Macchina» sembrano concentrarsi sulla malattia, sui compagni di dialisi – pazienti, infermieri, dottori – e sulle loro storie; mentre quelli che portano il nome delle città sembrano scavare con maggiore profondità i sentimenti dell’autore. Ma sarebbe una tentazione fallace quella di «dividere» i piani. Le linee narrative infatti s’intrecciano lungo tutta l’opera e il sentire individuale si mescola al sentire collettivo senza soluzione di continuità. In queste pagine non c’è sangue puro che tenga – né nella forma, né nei contenuti –; i conflitti, come le contraddizioni e le tossicità, non vengono mai sanate fino in fondo – né dalla «Macchina», né tanto meno dalle «Città» – ma trafiggono trasversalmente le vite dei personaggi e dell’autore-personaggio.
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Settantadue è una storia che scorre a fiotti, tamponata all’occorrenza e depurata da sterili commiserazioni e vittimismi. È un’opera seria e divertente, mai seriosa e superficiale. Si ride, e si ride di gusto, a leggere Pieranni maledire i vecchi che stanno in dialisi, entrati a settantanni in terapia, non a trenta. Vecchi che puzzano, e che si lamentano, e che – soprattutto – non hanno proprio nulla di romantico. Al reparto Emodialisi c’è una squadra intera che li detesta, Pieranni indossa i pantaloncini del Genoa, ed è pronto a calciare contro di loro parabole ciniche e spietate. È arrivato ad offrire mille euro per ammazzare un vecchio, che chiamano Giulio Verme, la cui testa è partita e ha fatto piangere una vecchietta facendole credere che Gigi d’Alessio era morto, proprio mentre lei stava cantando un suo tormentone con le cuffie nelle orecchie.

Della squadra che odia i vecchi fa parte anche Mauro – che con Denise e Dorotea forma un trio esplosivo – uno che arriva in dialisi con le guardie penitenziarie e che ha bazzicato gli ambienti della banda più famosa della Capitale: la Banda della Magliana. Tra un ago 17 e un altro piantato nel braccio, Mauro srotola parole tronche e con un filo rosso annoda le vicende criminali degli anni Settanta con quelle dei giorni nostri. Pieranni le insegue anche fuori dal reparto, intervista Il Fascista, un vecchio compagno di scorribande di Mauro, e tra un appunto vocale e un immancabile caffè, restituisce in letteratura l’humus criminale di una Roma pulsante, più contemporanea che mai.

La Storia si mescola così al diario, all’indagine giornalistica e all’introspezione, esaltando la commistione di significati figlia del meticciato letterario. Vale per Roma, per Genova e per la Cina. La consapevolezza e il mestiere dell’autore nell’utilizzo del racconto storico è evidente. Mai esercizio di stile, ma incursione premeditata e accorta funzionale al potenziamento di un processo narrativo già di per sé ricco di interrogativi profondi e dubbi creativi.

Settantadue regala poi operazioni a cuore aperto, pagine autentiche in cui godiamo di una densa sensazione di empatia e calore, un bagno caldo in recondite emozioni individuali e collettive, immersi in un flusso sanguigno che fugge e ricerca – al medesimo tempo –  un abbandono.
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«Ed ecco l’abbandono. Forse è il protagonista che cerco in queste vite. Cerco la possibilità di ritrovare altre prospettive, altri modi di concepire l’abbandono. Cerco i rimedi, le traiettorie all’interno delle quali altri hanno posto l’angoscia. Sfuggire, accaparrare tempo e lasciare andare. Cerco esperienze che mi insegnino a mettermi davvero nei panni di altri senza trasferirvi altri “me”, e la ragione per cui le cerco nelle vite di queste persone è una sola: abbiamo una cosa in comune. Abbiamo in comune il flusso sanguigno che ripara da fosforo e potassio, mentre i nostri corpi si abbandonano alla vita ospedaliera. Una vita reclusa, in un letto-bilancia, con i minuti che segnano il peso che perdiamo. La livella dialitica: siamo tutti uguali. Tutti sfuggiamo a un abbandono. Una morte, un amore, una fortuna e forse, in fondo, una vita normale» [p. 33].

Il dolore al braccio che sembrava svanito, è ora tornato.
Ho bisogno di un’altro libro sbagliato con cui passare la notte.
Abbandonarmi all’arsura della sete.


Di seguito, i titoli finora usciti per la collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1 per Alegre Edizioni. Se cliccate sui link trovate le recensioni finora apparse su Carmillaonline:

1. Yamunin (Luigi Chiarella), Diario di Zona
2. Valerio Marchi, Il derby del bambino morto
3. Lello Saracino, Il tenore partigiano
4. Alberto Prunetti, PCSP-Piccola Controstoria Popolare
5. Giuliano Santoro, Al palo della morte
6. Simone Pieranni, Settantadue

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