Aldous Huxley – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il futuro cosa ci riserva? https://www.carmillaonline.com/2024/07/19/il-futuro-cosa-ci-riserva/ Fri, 19 Jul 2024 05:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83254 di Marco Sommariva

Vent’anni fa lessi La volgarità in letteratura di Aldous Huxley, una raccolta di saggi dello scrittore inglese; fra questi, mi colpì La pubblicità dove, fra le altre cose, scriveva che “La storia dello sviluppo della pubblicità, dall’infanzia dei primi anni del XIX secolo fino alla rigogliosa maturità del XX secolo, costituisce un capitolo essenziale nella storia della democrazia. E sempre a proposito di democrazia, aggiungeva: con la democrazia l’arte pubblicitaria è entrata in pieno rigoglio. […] Già adesso la sezione dedicata alla pubblicità costituisce la parte più interessante e in qualche caso anche la più leggibile di quasi tutte le [...]]]> di Marco Sommariva

Vent’anni fa lessi La volgarità in letteratura di Aldous Huxley, una raccolta di saggi dello scrittore inglese; fra questi, mi colpì La pubblicità dove, fra le altre cose, scriveva che “La storia dello sviluppo della pubblicità, dall’infanzia dei primi anni del XIX secolo fino alla rigogliosa maturità del XX secolo, costituisce un capitolo essenziale nella storia della democrazia. E sempre a proposito di democrazia, aggiungeva: con la democrazia l’arte pubblicitaria è entrata in pieno rigoglio. […] Già adesso la sezione dedicata alla pubblicità costituisce la parte più interessante e in qualche caso anche la più leggibile di quasi tutte le riviste americane. E il futuro, che cosa ci riserva?” Vi assicuro che fu grande la mia soddisfazione nel leggere queste parole perché, fra sguardi esterrefatti di chi si rende conto di avere un marziano in casa e commenti poco generosi, erano anni che predicavo che era la pubblicità a raccontarci chi eravamo davvero, cosa ci stava intorno, forse meglio di tanti articoli sui giornali e servizi alla TV. Mi sembrò d’impazzire quando mi si guardò come una qualsiasi merdaccia che aveva visto San Pietro sulla traversa di una porta di calcio, quando puntai ripetutamente il dito verso spot che reclamizzavano prodotti utilizzando famiglie composte da figli, genitori e nonni che, però, nonni non erano: erano attori anagraficamente ben lontani dal poter essere nonni, ma diventati tali grazie a un trucco a tratti pure pacchiano, a tinte grigie applicate qua e là su capelli ben lontani dal pericolo di cadere. Per me era evidente: la Società voleva far fuori i vecchi, proprio come ci aveva raccontato Umberto Simonetta nel suo romanzo I viaggiatori della sera o Adolfo Bioy Casares nel suo Diario della Guerra al Maiale. Insomma, ero proprio contento di non sentirmi più solo ma, anzi, di essere in ottima compagnia, avendo al mio fianco Huxley, mica bruscolini!

Sono vent’anni che mi rimbomba nella testa la sua domanda: E il futuro, che cosa ci riserva?

Quando mi capitò di leggere Gli Antimercanti dello spazio di Frederik Pohl, libro pubblicato in Italia nel 1984, pensai che, forse, lì, c’era la risposta alla domanda di Huxley. In questo romanzo, il protagonista – convinto pubblicitario – si ritrova vittima di una zona a pubblicità “campbelliana”, ossia una delle numerose aree sparse per la città segnalate da cartelli poco riconoscibili, capaci di rendere la vittima totalmente dipendente da un prodotto grazie allo stimolo e alla manipolazione dei centri nervosi. Tutto questo in un mondo dove le aziende pubblicitarie detengono il potere reale e i politicanti sono ridotti a banali marionette che le stesse agenzie costruiscono e pubblicizzano durante le campagne elettorali.

Un mondo dove le persone sono circondate da pubblicità e offerte di ogni genere: “Slogan pubblicitari a cristalli luminosi scorrevano sui muri, i più recenti luminosi come il sole, i più vecchi sporchi e resi irriconoscibili dai graffiti. Sul marciapiede i chioschi fornivano campioni gratuiti di Fuma-Godi e Caffeissimo e tagliandi di sconto per mille prodotti. Nell’aria nebbiosa apparivano immagini olografiche di cucine miracolose e di viaggi fantastici ed esotici della durata di tre giorni; da ogni parte si sentivano canzoncine pubblicitarie…”

Un mondo dove i messaggi pubblicitari vengono impressi sulla retina: “Qui era il Potere. L’intero immenso edificio era consacrato ad una missione sublime: il miglioramento dell’umanità attraverso l’ispirazione a comprare. Vi lavoravano più di diciottomila persone. Redattori di slogan e apprendisti giocolieri di parole; specialisti in media, capaci di far risuonare un comunicato dall’aria che respirate, o di imprimere un messaggio sulla vostra retina; ricercatori che ogni giorno inventavano nuove e più vendibili bevande, nuovi cibi, aggeggi, vizi, manie di ogni genere; artisti; musicisti; attori; registi; compratori di spazio e compratori di tempo… la lista continuava all’infinito.”

Un mondo dove la noia dà vita al buon consumatore: “Ciò che faceva il buon consumatore era la noia. La lettura era scoraggiata, le case non erano una gioia a starci… cos’altro potevano fare delle proprie vite, se non consumare?”

Ma sì, dai, non c’era dubbio, la risposta alla domanda E il futuro, che cosa ci riserva? non poteva altro che essere lì, nel romanzo di Pohl: immagini olografiche, messaggi pubblicitari impressi sulla retina, scoraggiare la lettura e annoiare le persone. Occorreva stare all’erta, e su questo ci era già stato detto qualcosa nel romanzo Un mondo sinistro di Vladimir Nabokov: “In altre nazioni notiamo un numero enorme di organi di stampa in concorrenza fra loro. Ogni quotidiano vuole convincere il lettore del proprio punto di vista, e tale sconcertante diversità di tendenze produce la confusione totale nella mente dell’uomo della strada; nel nostro paese veramente democratico una stampa omogenea è responsabile, nei confronti della nazione, della corretta educazione politica che fornisce. Gli articoli che compaiono sui nostri giornali non sono frutto della fantasia individuale di questo o di quello, bensì un messaggio maturo preparato con cura per il lettore il quale, a sua volta, lo riceve con il medesimo atteggiamento mentale fatto di serietà e attenzione. Un’altra caratteristica importante della nostra stampa è la collaborazione volontaria dei corrispondenti locali – lettere, suggerimenti, dibattiti, critiche, eccetera. Pertanto, è evidente che i nostri cittadini hanno libero accesso ai giornali, uno stato di cose sconosciuto altrove. È vero che in altri paesi si parla molto di “libertà”, ma, nella realtà dei fatti, la mancanza di fondi non consente l’accesso all’uso della parola stampata. È palese che un milionario e un operaio non hanno le stesse opportunità. La nostra stampa è proprietà pubblica della nazione. Quindi non è gestita su base commerciale. In un quotidiano capitalista, finanche gli annunci pubblicitari possono influire sulle sue tendenze politiche”.

Eccolo lì il punto fondamentale: In un quotidiano capitalista, finanche gli annunci pubblicitari possono influire sulle sue tendenze politiche.

Negli anni mi sono domandato spesso, in attesa che ci venga impresso sulla retina un qualche messaggio pubblicitario, se non si fosse trovato un modo per impressionarci comunque, ma senza passare attraverso l’evidenza di uno spot, di un cartellone pubblicitario, di un’immagine. E me lo domandavo perché, se la risposta fosse stata affermativa, avremmo corso un bel pericolo; giorni fa ho scoperto che, sì, questo modo è stato trovato e, vista l’assoluta mancanza di alzata di scudi registrata, direi che l’obiettivo è stato raggiunto, e pure alla grande perché una pubblicità pubblicata in calce a un articolo dove si parla di un probabile stupro, facendola passare come una normale appendice della tragedia prima descritta è, a modo suo, un capolavoro. Uno schifosissimo capolavoro, questo lo ammetto. Sto parlando dell’articolo pubblicato on-line su Il Giornale d’Italia intitolato “Genova, studentessa 19enne in gita scolastica violentata su una nave da crociera, arrestati 3 coetanei francesi”.

Vi chiedo la cortesia di leggerlo per intero, anche soffermandovi a riflettere sull’uso del grassetto per evidenziare alcune parole. Incredibile, vero? In poche righe, si passa con spaventosa naturalezza da “Nell’ospedale genovese i medici hanno confermato la violenza” a “La nave sulla quale è avvenuta la violenza è una delle navi di punta della nota compagnia di navi da crociera: offre suite lussuose con vasche idromassaggio e cabine confortevoli per famiglie e gruppi.”

Ora vi dico le prime due cose che mi sono venute in mente terminata la lettura.

La prima è quello che mi disse, anni fa, il mio responsabile d’ufficio quando compilai un form negativo relativo a un periodo di prova di un ragazzo che aveva sempre lavorato come orafo, ma che qualcuno lo voleva far assumere a tutti i costi nel mio reparto di logistica, mi disse: “Visto che l’unica nota positiva di questo ragazzo è che si è sempre presentato puntuale al lavoro, riscriviamo il form mettendo prima tutte le cose negative e, alla fine, quella positiva: sono trucchi che ci sono stati insegnati durante l’ultimo corso tenuto per noi dirigenti.”

La seconda, forse perché si parlava di navi, è stato un passaggio del bellissimo romanzo del 1889 di De Amicis, Sull’oceano, in cui si cita la popolarità di un passeggero che la doveva “a un tesoro pornografico che aveva ereditato da un parente: un grosso quaderno tutto pieno di caricature oscene, di sciarade sporche o di aneddoti, i quali, letti a pagina piegata, eran brani di vite di santi, e a pagina aperta, troiate dell’altro mondo.”

Riguardo la prima, vedete un po’ voi quante analogie trovate con l’articolo in questione; riguardo la seconda, ho provato tanto rammarico nello scoprire che troiate dell’altro mondo le leggiamo anche a pagine piegate, che dilaga una pornografia di cui nessuno si scandalizza e che, forse, chissà, un giorno prenoterò una cabina su una nave da crociera o su un’astronave perché sulla mia retina è rimasto impresso l’ultimo passaggio di qualche articolo di cronaca o all’improvviso sarò preda di un irrefrenabile desiderio di una tazza fumante di Caffeissimo, tanto da sgomitare e calpestare la gente in coda, anche loro indemoniati da un improvviso e ingovernabile impulso.

Alla fine, riusciamo a far diventare spettacolo tutto quanto, anche uno stupro. E ora… pubblicità.

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L’anti-utopia realizzata https://www.carmillaonline.com/2024/06/28/lanti-utopia-realizzata/ Fri, 28 Jun 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83044 di Sandro Moiso

Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 278, 15,00 euro

“Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l’entrata principale le parole: “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale” e in uno stemma il motto dello Stato mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. (A. Huxley – Brave New World, 1932)

Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. […] Si [...]]]> di Sandro Moiso

Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 278, 15,00 euro

“Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l’entrata principale le parole: “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale” e in uno stemma il motto dello Stato mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. (A. Huxley – Brave New World, 1932)

Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. […] Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto. ( J. Ballard – intervista rilasciata a Sandro Moiso, giugno 1992)

E’ un allarme di tutto rispetto quello lanciato dal testo presentato in Italia da Malamente in coedizione con Istrixistrix e pubblicato per la prima volta in Francia dal collettivo Pièces et Main d’Oeuvre di Grenoble nel 2017. Un allarme che, al di là di alcune forzature interpretative, dovrebbe fare aprire gli occhi dei lettori sulle prospettive reali di tante promesse contenute nell’esaltazione del liberalismo e della sua potenza tecnico-scientifica. Promesse che, sebbene dirette formalmente, a tutti i cittadini del pianeta, o almeno della parte bianca e occidentale dello stesso, in realtà non sembrano voler far altro che eternizzare lo stato di cose presenti, peggiorandolo per i più pur di migliorare le condizioni di esistenza delle sua classi dirigenti ovvero dei suoi funzionari e profittatori più spudorati.

Avrete già sentito parlare del transumanesimo e dei transumanisti; di una misteriosa minaccia, un gruppo di fanatici, una società di scienziati e industriali, discreta e potente, la cui trama occulta e l’obiettivo dichiarato consistono nel liquidare la specie umana per sostituirla con una specie superiore, “aumentata”, di uomini-macchine. Una specie che sarà il risultato dell’eugenismo e della convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, neuro-tecnologie e degli immensi progressi della scienza.
Avrete già sentito parlare dell’ultimatum, cinico e provocatorio, di un ricercatore in cibernetica: «Ci saranno persone impiantate, ibridate, e queste domineranno il mondo. Le altre che non saranno come loro, non saranno tanto più utili delle nostre vacche tenute al pascolo»1.
O ancora: «Quelli che decideranno di restare umani e rifiuteranno di migliorarsi avranno dei seri handicap. Costituiranno una sotto-specie e saranno gli Scimpanzé del futuro»2.

Queste le parole con cui si apre l’Appello posto all’inizio del testo3. La denuncia di un progetto di superamento dei limiti della specie (transumanesimo) che porta con sé la differenziazione all’interno della stessa non solo più in termini di classe, potere d’acquisto, diritti politici e sociali e di appartenenza etnica e di genere, ma, soprattutto, a livello cognitivo e di innovazione tecnologica della stessa fisiologia con cui gli umani convivono e vivono da centinaia di migliaia di anni.

Il riferimento agli scimpanzé non è casuale: era questa la forma fisica della nuova “classe operaia” prodotta in laboratorio nel visionario testo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo, pubblicato nel 1932. Scimmie obbedienti e limitate dal punto di vista cognitivo proprio per migliorarne il rendimento e impedire possibili rivolte di cui gli individui “normali” sarebbero stati ancora capaci. Anche in un regime dittatoriale.

Ma il mondo prefigurato dal testo curato dal collettivo di Grenoble, non è il mondo dei totalitarismi e delle dittature del ‘900. No, è quello della libera scelta, di individui che volontariamente scelgono di trasformarsi per avvicinare sempre più il corpo umano e quello sociale ad una macchina perfetta. In cui l’assenza di inserti nanotecnologici, modificazioni genetiche e la mancata scelta di una procreazione extra-uterina estremamente selettiva dei caratteri da trasmettere alle nuove generazioni, rivela la persistenza di un’alterità non più accettabile dal complesso produttivo e riproduttivo immaginato dai suoi ideatori e profeti.

Che, proprio attraverso la parole di uno dei loro rappresentanti, Nick Bostrom fondatore della World Transhumanist Association, hanno potuto affermare: «I geneticamente privilegiati potranno diventare senza età, sani, super-geni dalla bellezza fisica perfetta […] I non privilegiati rimarranno le persone che sono oggi, ma forse privi di un po’ della loro autostima e soffriranno occasionalmente di un tantino di invidia. La mobilità tra la classe inferiore e quella superiore potrebbe scomparire»4.

Tra i profeti dell’Uomo aumentato, occorre dirlo, andava enumerato anche il fratello dello scrittore inglese, Julian Huxley, biologo e futuro direttore dell’UNESCO, che già nel 1941 difendeva l’idea secondo cui «l’eugenetica diventerà inevitabilmente una parte integrante della religione del futuro»5.

Sì, perché in fin dei conti il miglioramento della specie, fin dalle sue prime formulazioni settecentesche, ha sempre portato con sé lo stigma dell’eugenetica, sia che si manifestasse sotto le forme dell’ammodernamento del credo religioso, come in Teilhard de Chardin (gesuita, filosofo e paleontologo francese), che nel 1934 affermava: «Credo che l’Universo sia un’Evoluzione. Credo che l’Evoluzione vada verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compia in qualcosa di Personale. Credo che il Personale supremo sia il Cristo-Universale». Affermazione in cui evoluzione, super-omismo e figura di Cristo coincidono. Sia, si badi bene, sotto le spoglie dell’Uomo nuovo socialista, idealizzato a partire dalla rivoluzione bolscevica, anche nelle parole di Leone Trotski: «Produrre una versione nuova, “riveduta e corretta” dell’uomo. Ecco il compito futuro del comunismo […] L’uomo deve guardare e vedere in sé una materia prima, nel migliore dei casi un semilavorato, e dire “Finalmente, caro il mio Homo Sapiens, ti lavorerò”»6.

Ma questi sono soltanto alcuni degli infiniti esempi di progetto di modifica e cambiamento dei caratteri umani della specie riportati nel testo. Che, a sua volta, diventa un altro esempio di fantascienza anti-utopistica, dedito com’è a smontare ogni residua illusione di progresso benevolo e uguale per tutti. Un testo a tratti esagerato, ma mai, assolutamente mai, del tutto assurdo e inconcepibile. Anzi, proprio sulle sue pagine sarebbe importante riflettere per comprendere a fondo come tanto progressismo di stampo socialista, anarchico o comunista, spesso si sia fatto irretire dalle chimere della scienza borghese e dei suoi apparati tecnologici e industriali.

Compresa l’esaltazione della cibernetica e di tutto ciò che ne è derivato in termini di controllo del sapere, della produzione, della società e della mente individuale e collettiva.
Un testo che nelle sue formulazioni più estreme andrebbe forse affiancato, nella lettura, al Trattato del ribelle di Ernst Jünger7 oppure a certe considerazioni di Amadeo Bordiga sulle fasulle promesse della scienza, della tecnica e, soprattutto, dell’economia di stampo capitalista. Un‘ottima lettura per l’estate e per una riflessione tutt’altro che oziosa sul nuovo mondo che ci aspetta (?).


  1. Kevin Warwick, “Au fait”, mag. 2014  

  2. Id., “Libération”, 12 mag. 2002  

  3. Appello degli scimpanzé del futuro in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 13-16.  

  4. Cit. p. 43.  

  5. Cit. in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, p. 25.  

  6. L. Trotski, cit. in Manifesto degli scimpanzé del futuro, p. 24.  

  7. E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi Edizioni, Milano 1990 – prima edizione tedesca 1951.  

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Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Controstoria della psichiatria dal manicomio alla psichedelia https://www.carmillaonline.com/2023/07/07/controstoria-della-psichiatria-dal-manicomio-alla-psichedelia/ Fri, 07 Jul 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78034 di Gioachino Toni

Piero Cipriano, Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia. Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, Luca Sossella Editore, 2023, pp. 206, € 12.00

Quella proposta da Piero Cipriano – «psichiatra, ovvero terapeuta moderno occidentale e scientifico, per così dire, almeno nel senso con cui si intende la scienza galileianamente», anarchico e basagliano –, è indubbiamente una storia della psichiatria singolare, una storia che, oltre a far dar di spalle ai suoi ambienti più reazionari, farà storcere il naso anche a qualche onesto basagliano che fatica [...]]]> di Gioachino Toni

Piero Cipriano, Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia. Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, Luca Sossella Editore, 2023, pp. 206, € 12.00

Quella proposta da Piero Cipriano – «psichiatra, ovvero terapeuta moderno occidentale e scientifico, per così dire, almeno nel senso con cui si intende la scienza galileianamente», anarchico e basagliano –, è indubbiamente una storia della psichiatria singolare, una storia che, oltre a far dar di spalle ai suoi ambienti più reazionari, farà storcere il naso anche a qualche onesto basagliano che fatica a fare i conti con la metamorfosi chimica che ha subito il manicomio e, soprattutto, con le potenzialità di quelle sostanze che possono espandere le coscienze anziché restringerle.

Al pantheon della psichiatria appartengono sicuramente Philippe Pinel, che inaugura il manicomio fisico, e Franco Basaglia, che lo chiude, ma Cipriano vi inserisce anche Timothy Leary che, pur non essendo psichiatra, ha di fatto lavorato ai presupposti per porre fine all’epopea della psichiatria. Questo ultimo inserimento basta a trasformare la storia della psichiatria proposta dall’autore in controstoria e un posto in questa spetterà, sostiene Cipriano, a chi saprà darle fine ricorrendo al pharmakon psichedelico.

La vita del manicomio concentrazionario prende il via, un secolo dopo l’editto francese che nel Seicento aveva concentrato presso il Grand Hôpital Géneral parigino tutti i devianti, con la distinzione e la separazione operata da Philippe Pinel tra fuorilegge, destinati al carcere, e folli, concentrati nell’ospedale psichiatrico. Tale epopea concentrazionaria si chiude con Basaglia che riesce a chiudere il manicomio di mura e sbarre separato dal resto della società.

Nel corso degli anni Sessanta – in un clima culturale segnato dalla pubblicazioni di opere come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing – Basaglia trova la forza per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet) né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto. Convintosi che una società civile debba saper accettare i diversi stati di coscienza, ordinari o extra ordinari che siano, giunge alla conclusione che le persone internate nei manicomi debbano essere al più presto restituite al mondo comune.

A partire dalla fine degli anni Sessanta Basaglia matura la convinzione che però non basta mettere in discussione i soggetti che compongono il manicomio (medico, infermiere e paziente): occorre cambiare la società che li ha rinchiusi affinché possa riaccoglierli a tutti gli effetti. Mosse dal convincimento che le cure (volontarie) debbano restare nelle società civile e non in luoghi separati, le battaglie portate avanti da Basaglia nel corso del decennio successivo ottengono la chiusura per legge del manicomio fisico ma palesano anche come, una volta riammessi in società, gli ex reclusi siano drammaticamente costretti a fare i conti con i bisogni primari comuni a ogni essere umano: relazioni, affetti, abitazione e autonomia economica. Pur percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso, la Legge 180 del 1978 rappresenta probabilmente il massimo ottenibile all’interno di quel contesto storico-culturale; per una riforma più radicale sarebbe servita una società più avanzata.

Al manicomio di mura e sbarre1 si è via via sostituito il manicomio chimico2 somministrato al paziente attraverso psicofarmaci grazie al sostegno di una “macchina diagnostica” che ha la sua bibbia nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders3.

Mentre la comunità medica già nella prima metà degli anni Cinquanta dispone di antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc., gli psichiatri si sentono disarmati nell’affrontare la sofferenza mentale. È dalla frustrazione provata a causa dell’incapacità di ottenere terapie efficaci, dal desiderio di disporre di medicinali efficaci al pari del resto della comunità medica che prende il via l’era della psichiatria chimica.

La rimonta della psichiatria prende il via nel 1949, quando Hanri Laborir, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), nota la sua efficacia nell’alleviare il dolore. Ben presto viene sintetizzata la clorpromazina che, essendo capace di rallentare il sistema nervoso centrale, a partire dai primi anni Cinquanta, viene somministrata nei manicomi ai pazienti psicotici rendendoli atarassici. Nel giro di un decennio la psichiatria si è trovata a poter disporre di tre farmaci capaci di fronteggiare altrettante importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina, destinata ai malati aggressivi, maniacali e psicotici; il clordiazepossido, per gli ansiosi; l’iproniazide, per i depressi.

Il successo commerciale della clorpromazina ha accelerato la ricerca tanto che nel giro di poco tempo sono state sintetizzate le principali classi di neurolettici di prima generazione, poi sostituiti, negli anni Novanta, dai neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. I risultati della rivoluzione chimica dovrebbero però far riflettere sulla sua efficacia: a fronte dei 267.000 pazienti ricoverati nei manicomi statunitensi con diagnosi di schizofrenia nel 1955, agli albori dell’epopea psicofarmacologica, si è passati a 2.500.000 casi nel 2010. Il bacino a cui si sono indirizzati gli psicofarmaci si è allargato a dismisura dal momento che la macchina diagnostica si è fatta prendere dall’urgenza burocratica ed economica di considerare malattia qualunque disagio psichico con conseguente prescrizione farmacologica.

Mentre procedeva questa storia della psichiatria, passata dalle mura del manicomio fisico agli psicofarmaci neurolettici imposti dalla riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici, si è sviluppata anche un’altra storia, quella della psichedelia occidentale che può essere riassunta nella successione di tre fasi principali. Una “pionieristica”, che ha preso il via sin dai primi anni Quaranta, scandita dalle ricerche di personalità come Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary, a cui la psichiatria dell’epoca ha, per un certo periodo, guardato con interesse. Un “medioevo”, derivato dalla messa al bando negli anni Settanta delle molecole psichedeliche, segnato dalla pratica clandestina di personaggi come Leo Zeff e dall’ostinata controinformazione portata avanti da Terence McKenna. Un “rinascimento” che, sull’onda delle ricerche di Rick Strassman, ha preso il via attorno al cambio di millennio grazie agli studi scientifici di Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross, direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University, e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California4.

Humphry Osmond, Aldous Huxley e Stanislav Grof sono stati tra i primi occidentali a comprendere la valenza tanatodelica di certe molecole, cioè a capire che «far morire l’ego (non il corpo) è terapeutico». Un ruolo fondamentale nel far conoscere ad Hoffmann i funghi magici, da cui estrarrà il principio attivo alcaloide psilocibina, spetta alla sabia María Sabina che ha saputo anche denunciare quanto possano essere sbagliate e dannose le modalità con cui gli occidentali si rapportano con le “piante sacre”, o “maestre”. Lo stesso gruppo di ricercatori guidato da Griffiths, in apertura del nuovo millennio, facendo sobbalzare la comunità scientifica, ha sostenuto la centralità dell’elemento mistico nel processo di guarigione. Più cautamente l’equipe diretta da David Nutt e Robin Carhart-Harris, ha preferito parlare di «temporanea disattivazione di una rete neuronale detta DMN».

Delle potenzialità trasformative degli psichedelici per il genere umano erano convinti Osmond, Huxley, Grof e Leary, ma mentre i primi tre si muovono con una certa cautela, l’ultimo, incapace di mediazioni, ritiene si debba procedere a una diffusione repentina e generalizzata delle sostanze psichedeliche in modo che tutti ne possano beneficiare. Che le posizioni radicali di Leary abbiano inciso sulla messa al bando delle sostanze psichedeliche è più che probabile ma, più di lui, ricorda Cipriano, poté l’establishment statunitense intenzionato, sin dagli anni Cinquanta, a utilizzare la LSD come “arma chimica”.

Mentre negli anni Settanta le molecole psichedeliche sono costrette a inabissarsi – e le strade vengono letteralmente inondate di eroina e, poco dopo, di cocaina –, Basaglia «libera i corpi dalle gabbie murarie». Curiosamente nello stesso decennio vengono messi fuori legge tanto il «manicomio prigione dell’estasi», quanto le «molecole che agevolano l’estasi». «La casa (il manicomio) della psichiatria è distrutta: occorre riedificarne una nuova e la nuova casa della psichiatria si edificherà sui farmaci che – essendo più semplici, funzionali al controllo e antidoto della trascendenza – vinceranno la partita. E così la nuova casa della psichiatria si edifica su centinaia di casematte diagnostiche, caselle nosografiche, costruzioni nosologiche».

Alla fine della stagione psichedelica si aggiunge, con la morte di Basaglia nel 1980, la fine della della rivoluzione portata dalla psichiatria antistituzionale e ad occupare la scena ci pensa l’American Psychiatric Association con il suo sofisticato manicomio nosografico e molecolare fondato sul manuale diagnostico DSM e sugli psicofarmaci.

I “rinascimentali della psichedelia”, sostiene Cipriano, sembrano intenzionati a trattare con la terapia psichedelica i depressi, gli ossessivi, i traumatizzati, «insomma coloro che devono tornare al lavoro», abbandonando agli antipsicotici depot, oggi detti LAI, gli schizofrenici, i deliranti, i maniaci, cioè gli irrecuperabili.

Cipriano intreccia abilmente le diverse linee narrative evidenziando come in alcuni casi le storie procedano parallelamente e come, se si fossero incontrate, o se alcune di queste non fossero state interrotte, si sarebbe arrivati molto prima ove si potrebbe a breve arrivare: all’incontro di Franco Basaglia con Timothy Leary.

Nel caso in cui la psichedelia riesca a compiere la sua «rivoluzione scientifica e sgomini la psichiatria» indirizzando verso l’espansione della coscienza, anziché la sua restrizione, operando per il dissolvimento dell’ego, sostiene Cipriano, «non ci saranno più psichiatri distributori di pillole che impasticcano le persone con farmaci che loro non hanno assunto, fidandosi dei bugiardini delle case farmaceutiche; il nuovo terapeuta sarà più simile allo sciamano che non a Freud o a qualunque dei duecentomila psichiatri di oggi».

È probabile che la psichiatria, per non morire, faccia di tutto per espellere la medicina psichedelica da sé, costringendola alla clandestinità, a restare esoterica, misterica e fuori legge, ma, conclude Cipriano, forse è meglio che la psichedelia, sull’esempio di Leo Zeff, continui ancora per qualche tempo a operare fuori dai riflettori preparando le condizioni affinché la psichiatria muoia permettendo una cura di sé capace al contempo di curare il mondo.


  1. Cfr. Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano, 2013 [su Carmilla]

  2. Cfr. Piero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano, 2015 [su Carmilla]

  3. Cfr. Piero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), elèuthera, Milano, 2016 [su Carmilla]

  4. Cfr. Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023 [su Carmilla]

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Piero Cipriano: “Ayahuasca e Cura del Mondo”. Per una psicoterapia psichedelica https://www.carmillaonline.com/2023/04/26/piero-cipriano-ayahuasca-e-cura-del-mondo-per-una-psicoterapia-psichedelica/ Wed, 26 Apr 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76726 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023, pp. 173, € 15,00

«Ayahuasca significa viaggio tra mondi che uniscono mentale e reale in modo inedito. È possibile curare i disturbi psichiatrici con questa pianta e metodo ribaltando l’idea che sta alla base della psichiatria e psicanalisi attuale?» A porre tale interrogativo è Piero Cipriano, medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, in servizio presso un SPDC di Roma dopo aver lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale sparsi per l’Italia, oltre che autore di [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023, pp. 173, € 15,00

«Ayahuasca significa viaggio tra mondi che uniscono mentale e reale in modo inedito. È possibile curare i disturbi psichiatrici con questa pianta e metodo ribaltando l’idea che sta alla base della psichiatria e psicanalisi attuale?» A porre tale interrogativo è Piero Cipriano, medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, in servizio presso un SPDC di Roma dopo aver lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale sparsi per l’Italia, oltre che autore di numerosi saggi. L’interesse di Cipriano nei confronti della bevanda ayahuasca e altre piante nasce dalla necessità di individuare rimedi efficaci per i disturbi psicopatologici con cui ha a che fare quotidianamente per lavoro.

In apertura di libro l’autore tratteggia il diffondersi in Brasile di culti sincretici basati sull’assunzione della bevanda ayahuasca, rituale a cui le popolazioni amazzoniche fanno ricorso probabilmente da millenni. Tra i culti diffusisi in tempi recenti in ambito brasiliano viene fatto riferimento al Santo Daime, fondato in apertura degli anni trenta del Novecento dal seringueiro Raiumundo Irineu Serra, alla Borquinha, culto nato alcuni lustri dopo ad opera del suo discepolo Daniel Pereira, alla União do Vegetal (UDV), culto fondato da José Gabriel da Costa ad inizio degli anni Sessanta. Se quest’ultimo è attualmente il culto più diffuso nelle città brasiliane, è stato il Santo Daime ad aver fatto conoscere la bevanda ayahuasca agli occidentali nordamericani ed europei.

Mentre negli anni Ottanta tali culti raggiungono gli occidentali, in Amazzonia la pratica di sciamano (curandero, ayahuasquero, vegetalista…) è sempre meno praticata. Le cose cambiano nel corso del decennio successivo, quando l’arrivo in terra amazzonica di occidentali interessati all’esperienza psichedelica trasforma il mestiere dello sciamano da pratica povera a lavoro ben retribuito, dando vita così al fenomeno del neo-sciamanesimo che coinvolge anche messicani, andini, pellerossa, allargando l’esperienza a funghi psichedelici, Peyote, San Pedro, Bufo Alvarius, Dmt fumata ecc. Come facilmente prevedibile, l’improvvisa richiesta di sciamani determinata dalla presenza occidentale, che in apertura del nuovo millennio si fa davvero cospicua, determina anche casi di curanderi improvvisati e inaffidabili.

Cipriano ricostruisce dunque come, con qualche millennio di ritardo, le esperienze psichedeliche arrivino anche sul fronte occidentale; grazie ad Albert Hofmann nel 1943 l’Lsd inaugura un paio di decenni di ricerche e sperimentazioni sugli psichedelici a cui la psichiatria dell’epoca ha guardato con interesse vedendo in essi degli psicofarmaci efficaci. Negli anni Sessanta, grazie a Stephen Szára, inizia a farsi strada un’altra molecola psichedelica, la Dmt, dunque è la volta della 5-Meo-Dmt, estratta dalle parotidi del Bufo Alvarius, un rospo del deserto messicano.

Oltre a Lsd, Dmt, 5-Meo-Dmt, mescalina, Peyote/San Pedro, psicocibina o fungo magico, salvinorina A della Salvia divinorum, ibogaina della Tabernanthe iboga e muscimolo dell’Amanita muscaria, iniziano a circolare molecole sintetiche come Ketamina, Mdma, Mda e 2CB.

L’uscita di queste molecole dall’ambito laboratoriale, e l’uso che ne è stato fatto da parte di terapeuti particolarmente eterodossi, ha condotto tali sostanze a una repentina perdita di credibilità dal punto di vista farmacologico tanto da venire rubricate come droghe con relativa messa fuori legge. Il fatto è che, ricorda Cipriano, tutte queste sostanze finirono per spaventano il potere; iniziarono ad essere viste non tanto come sostanze utili per curare depressi, ansiosi, psicotici o dipendenti da sostanze, ma come sostanze che, dissolvendo l’ego che separa il sé dal non sè, indirizzano all’empatia, avrebbero potuto “cambiare il mondo”, “trasformare l’umanità” mandando in frantumi i capisaldi del sistema sociale, politico ed economico egemone.

Timothy Leary, intenzionato a sottrarre queste sostanze psichedeliche prodigiose a una nicchia di privilegiati, ne auspicava una diffusione generalizzata, vedendo in esse “un dono della natura” di cui tutti avrebbero dovuto beneficiare dando così luogo a una trasformazione positiva dell’umanità. Gli Stati Uniti ne decretarono la messa al bando, immediatamente seguiti dalle altre nazioni. Del soffocamento sul finire degli anni Sessanta di questa “epopea psichedelica” tratta Robert Anton Wilson (RAW), uno dei suoi “protagonisti”, nel libro Sex, Drugs & Magik, uscito nel 1973.

Così, a partire dagli anni Settanta, con la loro messa la bando, l’uso di tali molecole finì per essere portato avanti rigorosamente in ambito underground da parte di terapeuti, come Leo Zeff, operanti in clandestinità. Soltanto a ridosso del cambio di millennio ricomparvero studi scientifici condotti alla luce del sole.

Nel corso degli anni Novanta, in anticipo rispetto al cosiddetto “rinascimento psichedelico”, lo psichiatra statunitense Rick Strassman presentò il primo studio in cui si individuava nella molecola Dmt la responsabile delle visioni determinate dalla ayahuasca. Sin dall’inizio del decennio Strassman ipotizza che l’epifisi in particolari situazioni produca quantità di Dmt in grado di dare effetti psichedelici e che lo stato di coscienza definito psicosi sia uno stato psichedelico endogeno determinato da un eccesso di produzione di Dmt. Lo studioso ipotizza che il cervello funzioni di fatto come un ricevitore captante la realtà e che, assumendo Dmt, cambi la captazione del segnale. A bassi dosaggi si avrebbero cambiamenti semplici (intuizioni, ricordi, visioni personali…) in grado di mettere meglio a fuco il segnale, mentre ad alti dosaggi si otterrebbe l’accesso ad “altri mondi” che sembrerebbero non far parte né dell’inconscio individuale, né di quello collettivo.

Paragonando il tutto a un televisione, non si sarebbe più di fronte a un “miglioramento di nitidezza”, ma ad un vero e proprio “cambio di canale”. La giusta quantità di Dmt secreta dalla ghiandola pineale manterrebbe l’essere umano sintonizzato sulla realtà, mentre un eccesso di Dmt endogena lo sintonizzerebbe sua altri piani. Non sapendo come altro fare, per riportare gli individui sul “canale normale” lo psichiatra prescrive antipsicotici che però, se assunti per tempi prolungati, finiscono per “restringere la coscienza”, “sbiadire la percezione della realtà” di queste persone, condannandole alla limitatezza e al grigiore.

Strassman comprende inoltre che il setting ed il set degli esperimenti scientifici – ben diverso dal contesto sciamanico – ne inquina la ricerca e di ciò, suggerisce Cipriano, occorrerà tener conto se mai si deciderà di ricorrere a sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico: che non si pensi di potersela cavare somministrando tali sostanze con lo stresso distacco con cui si somministrano pasticchine tradizionali. Insieme alle sostanze dovrà cambiare lo stesso psichiatra se si vuole che queste risultino efficaci sui pazienti. Occorrerà che la figura dello psichiatra che somministra sostanze psichedeliche si faccia un po’ curandero, che sappia instaurare con il paziente e con le sostanze un’adeguata relazione.

Dunque, ricapitolando, per quanto riguarda la psichedelia occidentale si può parlare di una sua fase pionieristica (coincidente con l’epopea di Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary), seguita da una sorta di “medioevo psichedelico”, in cui personaggi come Leo Zeff operano praticamente in clandestinità o altri, come Terence McKenna, continuano ad alimentare la controinformazione psichedelica, per poi giungere a quello che è stato definito il “rinascimento psichedelico” che, sull’onda degli studi di Rick Strassman, ha preso il via con il cambio di millennio grazie agli studi scientifici di personalità come Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross – direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University – e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California.

Secondo Cipriano sono ormai maturi i tempi per fare i conti con i limiti storici di Basaglia che, pur di tirare fuori i poveri cristi dalle mura manicomiali non poteva che ricorrere ai farmaci disponibili. Nel frattempo, però, alle fasce di contenzione si sono sostituiti i farmaci di contenzione e il manicomio si è fatto chimico, a cielo aperto, a base di psicofarmaci, antipsicotici, antiepilettici e così via. Una serie di sostanze che a lungo termine non possono che restringere le coscienze.

I limiti di tanti “basagliani” è forse quello di non voler prendere atto della trasformazione subita dal manicomio; è contro il manicomio contemporaneo che occorrerebbe battersi oggi non accontentandosi di ribadire la brutalità di quello del passato, anche se quest’ultimo, di tanto in tanto, fa comunque capolino pur sotto altri nomi.

Occorre provare ad andare oltre Basaglia e, soprattutto, sostiene Cipriano, oltre i “basagliani”. «Ora bisogna levare i farmaci che cortano le coscienze e imparare a maneggiare le sostanze che possono espanderle. Sostanze di cui talvolta gli esperti non siamo noi, scienziati o medici, ma gli sciamani selvaggi rimasti fuori dalla scienza».

Pur in mancanza di uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali ne siano le cause e persino i motivi per cui possa definirsi una malattia, stando ai dati dell’OMS, questa sarebbe la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra chi ha tra i 15 ed i 44 anni). Distinguendo tra tristezza cum causa e tristezza sine causa (la sola da ritenersi patologica), Ippocrate differenziava una malinconia esogena (con causa) da una endogena (priva di causa). Tale millenaria separazione viene di fatto cancellata dal Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders nella sua edizione del 1980 (DSM-III), la “bibbia diagnostica” degli psichiatri stilata dall’American Psychiatric Association (la prima edizione del manuale risale agli anni Sessanta).

Da allora le diverse edizioni del DSM che si sono succedute hanno via via trasformato in depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, ponendo fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena, dunque trasformando la depressione da patologia rara in pandemia. Basti pensare che ora si è considerati depressi se per un periodo di almeno due settimane si palesano almeno cinque sintomi tra: umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi; pensieri di morte o di suicidio.

È facilmente intuibile come nell’attuale società della prestazione i casi di depressione conteggiati siano così elevati. Qualche decennio di chimica antidepressiva e una riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici hanno condotto a una vera e propria pandemia di depressi, tanto che ai nostri giorni se ne stimano 400 milioni, a cui si aggiungono 60 milioni di bipolari, in cui la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore.

Con la diffusione degli antidepressivi, da fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, il disturbo bipolare diviene la seconda patologia psichica più diffusa. Non a caso le case farmaceutiche hanno negli antidepressivi la fonte maggiore di profitto. Gli antidepressivi e antipsicotici di nuova generazione di cui i colossi farmaceutici hanno inondato il mercato delle sofferenze a partire dagli anni Ottanta, dopo diversi decenni di utilizzo hanno mostrato i loro limiti.

Oggi, dopo che Ssri e antipsicotici di nuova generazione hanno avuto trent’anni per misurarsi, per mostrare la loro non dico inefficacia (non sarei onesto) ma la loro non risolutività, spero che anche gli psichiatri più timidi e gli psicoterapeuti più tradizionali saranno pronti ad affrontare la sfida, quella di una terapia che saprebbe mettere d’accordo l’annoso conflitto tra pillole e parole, tra trattamenti biologici e trattamenti psicologici. Sarebbe il tipo di terapia che praticava Stanislav Grof o che ha praticato in clandestinità l’eroico Leo Zeff, una terapia breve, di poche sedute ma decisamente trasformativa.
Riconosco che questo modello, diciamo di psicoterapia psichedelica, è un rischio sia per lo psichiatria che per lo psicoterapeuta tradizionale, perché una terapia dove lo scopo è procurare un’esperienza mistica o estatica appare decisamente poco scientifica e molto sciamanica, e potrebbe rappresentare davvero una sorta di cavallo di troia introdotto nella pratica medica e psicologica. Questo potrebbe minare alle fondamenta i protocolli scientifici, contaminare di sciamanesimo la medicina, innescare una mutazione, un’inversione di marcia non solo della psichiatria ma dell’intera medicina.

Certo, nel contesto ad egemonia capitalista in cui viene a darsi questo “rinascimento psichedelico” non manca il rischio che i colossi farmaceutici inglobino le molecole psichedeliche, tolgano loro visionarietà addomesticandone l’effetto, le riducano a semplici farmaci anziché tecnologie capaci di cambiare coscienze e società. Nonostante questo rischio, sostiene Cipriano, le frontiere tra misticismo e cura psichiatrica, tra psichedelici e psicofarmaci sembrerebbero ai giorni nostri vacillare come mai è accaduto prima, tanto da poter ipotizzare la possibilità della cura Ayahuasca.

Non sarebbe però sufficiente sostituire farmaci che espandono la coscienza a quelli che la contraggono; occorrere anche una nuova generazione di terapeuti disposti a imparare come gestire gli stati di coscienza espansi, disposta a farsi «insegnare il segreto dai signori del limite, dalle guide della soglia, imparando dunque a conoscere le molecole psichedeliche». L’ultima parte del volume è dunque dedicata a come si possa intraprendere una sorta di viaggio iniziatico, sciamanico di cura dei disturbi psichici.

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Scommessa psichedelica, magia e favole per la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2021/01/25/scommessa-psichedelica-magia-e-favole-per-la-rivoluzione/ Mon, 25 Jan 2021 21:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64655 di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, [...]]]> di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, curato da Federico Di Vita, è considerato un po’ un vangelo, non lo so se è proprio il vangelo della psichedelia in Italia, senz’altro è un libro da leggere e rileggere, perché i contributi sono tanti, e gli evangelisti sono tutti formidabili.

Inizia Federico Di Vita con una efficacissima Breve storia universale della psichedelia. Così anche chi non ne sa niente entra nell’argomento. Suddivide in un’età dell’oro (quella dei pionieri Hoffmann, Huxley, Leary per capirci), un Medioevo psichedelico (dagli anni Settanta al nuovo secolo, dove personaggi più o meno sotterranei come Terence McKenna mantengono acceso il fuoco psichedelico sotto la cenere) e un rinascimento psichedelico (che si fa cominciare nel 2006, coi nuovi studi scientificamente ineccepibili dei vari Griffiths, Nutt, Carahart-Harris). Beppe Fiore racconta cos’è un trip report. Francesca Matteoni racconta una cerimonia sciamanica con ayahuasca che si svolge non in Amazzonia ma sulle colline toscane. Ilaria Giannini racconta perché tre o quattrocento milioni di depressi nel mondo (la popolazione degli Stati Uniti, per capirci) potrebbero giovarsi di psilocibina o microdosing di Lsd piuttosto che di farmaci SSRI da assumere a vita senza guarigione. Gli psichedelici, sostiene, riprendendo David Foster Wallace, potrebbero essere l’estintore che spegne l’incendio del grattacielo che induce le persone depresse a gettarsi di sotto per sottrarsi alle fiamme. Agnese Codignola, già autrice di LSD, altro importante volume sull’argomento, racconta, con la solita accuratezza, perché, tra molte molecole psichedeliche, l’ex presidente Trump si era fissato con la più scarsa di tutte: l’esketamina, la forma levogira della (più efficace) ketamina. Marco Cappato in Psichedelia e politica, ribadisce l’ineccepibile idea radicale: “il punto di vista libertario, in base al quale sono da rifuggire tutte le norme che limitano ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e mirano a imporre uno Stato Etico, per il quale ciò che è considerato moralmente giusto o opportuno da parte di chi detiene il potere può essere imposto con la forza a tutti i cittadini”. Lo leggevo e mi domandavo come si concilia il pensiero di Cappato con l’attuale pronunciamento di Emma Bonino in favore dell’obbligo di vaccinazione Covid. Vanni Santoni pone l’accento sul rischio concreto che il sistema (per mezzo di Big Pharma), non potendo più reprimerle, si risolva per inglobare le molecole psichedeliche. E, come ha fatto con la canapa light, depotenziata della visionarietà grazie alla sottrazione di Thc (la psichiatria accademica lo considera schizofrenogeno) lasciando l’innocuo cannabidiolo, possa arrivare “al paradosso degli psichedelici non visionari”: vale a dire togliere la visionarietà a psilocibina o ibogaina o Dmt. Per addomesticarle, farle diventare mero farmaco e non più tecnologia sofisticatissima in grado di cambiare coscienze e società. Operazione che, secondo Giorgio Samorini, denota non aver capito niente di psichedelia (togli la visionarietà, hai tolto la possibilità dell’estasi) oppure, dico io, vuol dire averla capita e volerla, proprio per questo, caricare a salve. Silvia Del Dosso e Noel Nicolaus scrivono di internet e psichedelia e magia, non dico altro perché non l’ho capito del tutto. Devo leggerlo meglio. Carlo Mazza Galanti suggerisce una serie di opere narrative che hanno parlato di droghe e grazie a lui ho appena iniziato a leggere Roma senza papa di Guido Morselli, una specie di Mondo nuovo dove i religiosi, non più celibi, invece che liquori alle erbe producono enteogeni. Federico Di Vita scrive di wahnstimmung nei festival di psytrance e Chiara Baldini racconta perché i festival psichedelici rappresentano una “versione moderna di qualcosa di molto antico” ovvero gli antichi culti misterici. Gregorio Magini, nel suo Pseudoglossario psichedelico, tra i vari temi affronta la morte dell’ego, il mito dello psiconauta, tutti ne parlano ma pochi forse hanno capito cosa sia ‘sta ego dissolution.

Gnosticismo acido, di Edoardo Camurri, è forse il saggio più difficile, molti ammettono di non averlo capito, alcuni gliel’hanno perfino confessato: Camurri, che hai scritto? E lui: mangia un po’ di fungo e rileggi.

A me pare dica questo (più o meno, ma senz’altro devo rileggere). Ci sono due eserciti gnostici, quelli buoni, noi, i maghi bianchi, dell’apertura, la cui tecnologia è la psichedelia, e quelli cattivi, i maghi neri, tra cui gli ingegneri lisergici cresciuti a pane e microdosi a Silicon Valley, la cui tecnologia è il medium digitale, ovvero l’imitazione della psichedelia.

La corrente ascensionale di dati, di informazioni, che vanno ad alimentare la macchina algoritmica che è il dio, e la corrente in discesa di dati, che ci confermano di essere ciò che siamo, ovvero il gatto di Canetti che gioca col topo (o meglio il topo giocato dal gatto), è nient’altro che la riedizione della doppia corrente, di discesa e ascesa delle anime, del pensiero gnostico: un dio veterotestamentario demiurgo omicida e irresponsabile ha creato un mondo carcere, dove forse nemmeno lui sa di avere, sopra la sua testa (essendo lui nient’altro che un “tirato a sorte tra gli angeli”, direbbe Cioran) il Dio supremo, il vero Dio, talmente trascendente da non essere conoscibile. Dunque, questa nostra anima, per azione di Demiurgo e delle sue potenze arcontiche, si incarna nei corpi, dimenticandosi la propria origine divina. Un mondo terribile e crudele. Ma grazie alla gnosi della propria origine divina, l’illuminato esce dal tempo, esce dalla storia, si risveglia, il suo tempo diventa eterno presente, ecco che la sua morte non esiste più.

Dunque, nella attualizzazione camurriana della dicotomia Demiurgo-Dio vero: il dio macchina è il dio demiurgico che crede di essere illimitato invece è, come quello della Genesi, una specie di i-dio-t savant, e Camurri, con Mark Fisher, propone di recuperare la tecnologia sciamanica (che questo è la psichedelia, nient’altro che una delle tecnologie, la più sbrigativa, se vogliamo, dell’arte sciamanica) questa ingegneria che sembra fuori dalla scienza, ingegneria che i signori del limite ovvero gli sciamani sanno usare, per democratizzare gli stati di coscienza espansi, e dunque la gnosi (che era poi l’obiettivo di Leary e non quello di Huxley, Huxley voleva illuminare le élite, Leary tentò di accendere tutti proprio tutti, e qui bisognerebbe passare direttamente all’altro contributo, quello di Andrea Betti, ma ci arrivo tra poco).

Per cui sì: se non puoi cambiare la storia, cambia il cervello di quante più persone. Rendere le persone dei comunisti acidi (dice Fisher) o degli gnostici acidi (dice Camurri) o dei mistici selvaggi (direi io) o, perché no, degli anarchici psichedelici (dico ancora io).

Ha ragione Camurri: la gnosis è autocoscienza, gli gnostici sono dei salvati per natura, la conoscenza libera, soprattutto (ecco il misticismo che consegue allo gnosticismo) libera l’amore, quello stato dell’essere che è la naturale conseguenza della gnosis.

Accade però che mentre sto per scrivere questo, e sto per scrivere qualcosa di Lucia la figlia di Joyce, e sto per scrivere qualcosa del Finnegans Wake (oddio, pure Biden l’ha citato), mi chiama Lucia, davvero, nel senso che mi chiama Gloria, la “schizofrenica” più florida e invasa di voci che io abbia mai conosciuto (e provato a curare). E mi attacca la ramanzina della telepatia, della telecinesi, del tempo, che in realtà – mi assicura – siamo nel 2039 e che di notte quelli vengono a farle visita (Chi? Gli esseri? Sembra vittima di una abduction notturna, Gloria). Ecco, dopo la telefonata di Gloria ripenso a Lucia la figlia di Joyce, e ciò che Joyce disse a Jung, ovvero che lui e sua figlia si erano saputi collegare (come spieghi se no l’anticipazione di parole future, google nike tigerwood) (Philip K. Dick, che la sapeva lunga su queste cose, l’aveva capito) con una coscienza cosmica, con un campo akashico direbbe Ervin Laszlo, o meglio con un campo morfogenetico direbbe quell’altro genio di Rupert Sheldrake (il padre di Merlin Sheldrake l’autore di un altro libro, L’ordine nascosto, di cui dovrei parlare ma non c’è tempo), per prendere parole che a noi, i coetanei, sembrano incomprensibili, glossolaliche, xenoglossia pura, ma che esistevano già, nel futuro. E Lucia, la schizofrenica figlia di Joyce, forse sa pescare nel futuro, nel registro akashico, ancora di più del padre. E l’insetto forbicina? Ma non faceva questo Burroughs col suo cut-up? Ma non facciamo tutto ciò, noialtri che scriviamo, non stiamo facendo gli insetti scrivani forbicina? Camurri ha sforbiciato Culianu Fisher Joyce io sforbicio Camurri Sheldrake Gloria, siamo tutti Earwicker. Noi infettati, parassitati, dal virus del linguaggio.

Gli schizofrenici sono (Joyce e sua figlia Lucia insegnano), forse, quelli che si sono spinti più in là, sono ormai fuori, sono salvi dalla macchina algoritmica, sono i salvati del secolo in corso però sono anche i sommersi del secolo scorso e di quello precedente, gli internati, troppo avanti erano, sono. Entronauti (direbbe Piero Scanziani) internati.

Lo stesso i dementi senili, pensateci, i parenti anziani degli schizofrenici (che dementi precoci venivano chiamati, a fine Ottocento, da Emil Kraepelin), entrambi fanno a meno della Default Mode Network (o huxleyana valvola della riduzione, che è più semplice) e riprendono possesso del cervello limbico e rettiliano o meglio dell’intero network gelatinoso di un chilo e mezzo per connettersi con gli altri mondi. Nietzsche, per esempio, che dicono impazzito per la demenza da treponema. Siamo sicuri che non abbia scelto di andare da Dioniso dopo averne così tanto scritto?

Siccome non c’è spazio e non c’è tempo vorrei dire qualcosa dello scritto di Andrea Betti, ex psiconauta che adesso non si arrischia perché non sa se la sua cardiopatia potrebbe risentire di un blotter pacco in cui non c’è Lsd ma chissà cosa. Lui mi piace molto, mi ci trovo proprio nel suo quasi fastidio per i rinascimentali, i rinascimentali che si sono svegliati ora e vorrebbero consegnarsi agli scienziati che fanno le ricerche ora sì ben fatte altro che quelle caciarone degli anni Sessanta, quelle sono da buttare, ricominciamo daccapo, i rinascimentali che danno addosso a Timothy Leary il più buffone di tutti, l’irresponsabile che voleva dare acido a tutti, e non soltanto alla “casta sacerdotale scientifica e letteraria che controlla, sintetizza e centellina il farmaco miracoloso ai ceti subalterni, microdosandoli” per garantirne la performance, la produttività macchinica. Giustamente, sottolinea Betti, qui è restaurazione altro che rinascimento. Ce l’ha con Michael Pollan, Andrea Betti, e io pure, quando ho letto il suo compito libresco ben fatto, tutto polarizzato sulla linea genealogica “aristocratico-farmaceutico-mistica” di Hofmann-Huxley-Osmond (diamo le molecole psichedeliche alle élite, sostengono i tre), minimizzando (o perfino biasimando) la linea genealogica “controculturale-rivoluzionaria” che fa capo a Artaud-Ginsberg-Leary-Kesey (accendiamo quanti più umani è possibile, e cambiamo la storia).

Rende giustizia, Betti, al genio di Antonin Artaud che nel 1936, in Messico, nel paese dei Tarahumara non ci va per guarirsi la dipendenza da laudano, e non ci va per incontrare Gesù Cristo, ma per trovare se stesso, ovvero Artaud, ovvero Dio. E sembra davvero che Artaud sia l’alfa della scommessa psichedelica laddove Mark Fisher sia l’omega. Questi due non proponevano un impiego di queste molecole per addomesticare gli umani e “creare persone docili in comunione col cosmo” ma (ecco Fisher) se non puoi cambiare la realtà del capitalismo, puoi cambiare la tua realtà, la tua coscienza, il tuo spazio-tempo, e ecco che la storia muta in ucronia. Questo fu l’esperimento magico degli anni Sessanta di cui dice Camurri, la psichedelia non era una novità, c’è sempre stata, da millenni, ma controllata da sciamani e alchimisti, negli anni Sessanta invece di colpo si democratizzò, la possibilità di modificare la propria coscienza e dunque la percezione della realtà fu un fenomeno accessibile a tutti.

*

A quel punto, però, il gioco psichedelico finì. E perché il gioco psichedelico finisce, verso la fine degli anni Sessanta, ce lo racconta un altro degli scapestrati protagonisti di quegli anni, Robert Anton Wilson detto RAW, in Sex, Drugs & Magik, libro che uscì la prima volta nel 1973 e che è stato appena ripubblicato da Spazio Interiore (a proposito, nella attuale celebrazione psichedelica c’è pochissimo spazio, in Italia, quasi niente anzi, per Spazio Interiore, ma questa casa editrice, in tutti questi anni di Medioevo psichedelico, è stata l’unica in Italia, insieme a Shake e Stampa Alternativa, a tenere accesa la fiammella, con le sue decine di pubblicazioni, da Stanislav Grof a Rick Strassman e, soltanto negli ultimi 3-4 anni, ha editato diversi testi importanti, ne cito solo alcuni: Frontiere della coscienza psichedelica di David J. Brown, Frammenti di un insegnamento psichedelico di Julian Palmer, o il bellissimo La via del fulmine dello sceneggiatore spericolato Marco Saura). Questo libro di RAW, come Il volo magico di Ugo Leonzio pure lui da poco ripubblicato per il Saggiatore, esce nei primi anni Settanta, subito dopo la messa al bando delle molecole brucia-cervello. Scrive RAW che il suo libro è “una storia informale di come certe pratiche segrete e a lungo nascoste […] si siano insinuate nel mondo occidentale durante il Medioevo, per essere schiacciate e/o ricondotte nel sottosuolo dalla Santa Inquisizione, e venire gradualmente riscoperte a partire dal 1900 circa”. “Esse sono emerse all’improvviso come una forza socio-rivoluzionaria negli anni Sessanta, per poi essere di nuovo schiacciate e ricondotte nel sottosuolo”. RAW pensa di aver compreso “il motivo per cui queste tecniche segrete di programmazione della mente siano state tenute nascoste così accuratamente e perché diventino oggetto di una persecuzione così feroce ogni volta che ne viene a conoscenza una più ampia fetta di popolazione in qualunque luogo del mondo”. Il Tantra, per esempio, “è riuscito a sopravvivere in Oriente proprio perché teneva nascosti i suoi segreti e non tentò mai di diventare una forza rivoluzionaria che avesse come conseguenza una qualche forma di cambiamento sociale. I tantristi, come gli altri buddisti, ritengono che liberarsi della coscienza o meglio imparare a modificare la coscienza tramite un atto di volontà sia possibile solo per una persona per volta, e che cercare di liberare il mondo intero sia controproducente”.

E’ l’errore di Leary, secondo RAW. Ammesso lo si voglia considerare un errore. E aggiunge: “Può darsi che non siamo ancora morti, ma solo ipnotizzati da filosofie morbose e moribonde. Forse i poteri della mente umana non si sono mai sprigionati pienamente a causa dei giochi paleolitici, neolitici, feudali, capitalisti o socialisti”. Insomma, deve ancora arrivare l’era buona perché gli esseri umani possano esercitare (per dirla con l’antipsichiatra Thomas Szasz) il “diritto all’autoprescrizione”. Diritto all’autoprescrizione grazie al quale tutti possano accedere alla grazia gratuita (direbbe Huxley) o a una peak experience (direbbe Maslow) o al satori (direbbero i buddisti zen) o al samadhi (direbbero gli indù) o al risveglio (direbbe Gurdjieff).

Questo si incaricò di fare Timothy Leary. Sottrarre queste tecnologie prodigiose ai pochi, per informare il mondo che “Dio era vivo e stava bene”.

E questo (torno allo scritto di Camurri) è un discorso puramente gnostico. Sono gli gnostici, che nei primi secoli della nostra era, propongono che l’uomo possa avere accesso ( ovvero conoscenza diretta) al paradiso, già da vivo, non solo da morto. Questo discorso gnostico, scrive RAW, non è mai venuto meno, ma si è trasmutato (alchemicamente) nel socialismo, nel comunismo, nell’anarchismo. Trovando l’acme proprio nella rivoluzione psichedelica degli anni Sessanta. Rivoluzione accesa da quegli “sciamani birichini e maliziosi” che furono Timothy Leary, Alan Watts, Aldous Huxley, Allen Ginsberg, William Burroughs, John Lilly, Humphrey Osmond e Ken Kesey. Sono questi moderni sciamani ad aver convinto milioni di esseri umani a diventare gnostici psichedelici capaci di penetrare l’Eden non per la porta principale (che per quella bisogna essere senza peccato, dice il Cristianesimo) ma per quella di servizio, non per la porta di Cristo, dunque, ma per quella di Dioniso.

Conclude RAW: il genocidio psichedelico che si è prodotto a partire dagli anni Settanta non è stato un caso unico nella storia, ma è soltanto l’ultimo episodio di caccia alle streghe. Perché “è in corso una guerra religiosa, ed è il pregiudizio teologico, più che l’obiettività scientifica” ad avere l’ultima parola.

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Il libro di Stefania Consigliere è dedicato all’antropologo David Graeber, “diplomatico fra mondi reali e possibili e poeta dell’anarchia”, ora in viaggio in un altro mondo possibile, ed è “dedicato a chi ha avuto una volta sentore di un altro mondo fuori dalle mura di un diverso stato del tempo”. Per cui ho pensato, mentre lo leggevo, che Favole del reincanto (Derive Approdi) era dedicato anche a me.

Qualche mese fa, qui su Carmilla, non fui molto gentile col libro (Psicotropici, edito Meltemi) di un importante antropologo francese, Jean-Loup Amselle, perché? Perché aveva maltrattato, irriso perfino, quegli occidentali che erano andati ai tropici a bere l’ayahuasca. Mi aveva infastidito il modo con cui scherniva i suoi colleghi antropologi che, dopo aver bevuto l’ayahuasca, avevano in qualche modo lasciato l’antropologia e si erano sciamanizzati (Michael Harner è forse l’esempio più noto). Lo so, mi ero fatto prendere la mano in difesa degli antropologi maltrattati da Amselle (quelli che non ce l’hanno fatta a fare la sua carriera, scriveva lui) e l’avevo maltrattato (perché lui non ce l’aveva fatta a bere, scrivevo io). Mi dispiace. Non lo farò più.

Ma come faceva a non rendersi conto che l’Amazzonia è ciò che per oltre un millennio era stata Eleusi, dove “intere generazioni di uomini e donne, schiavi, padroni” andavano per essere iniziati ai Misteri. Dove, dopo aver bevuto il kikeon, vedevano. Eleusi fu, per i greci, “un dispositivo iniziatico di massa”. Di cui noi occidentali, nei secoli successivi, siamo stati privati, “i roghi delle streghe”, “le istituzioni totali”, “i genocidi, i totalitarismi, la depressione di massa”, malattia degli occidentali. Dov’è, ora, Eleusi? Là dove è andata Stefania Consigliere, l’antropologa che si spinge oltre la barriera della superstizione (superstitio: eccessivo timore delle divinità, ciò che non è cristiano è pagano, dunque è superstizione, o, potremmo dire oggi, ciò che non è scientifico, razionale, ateo, è superstizione), in una maloca, la grande capanna rituale, dove il taita prepara lo yagé, a bere il doppio decotto, e dopo fare il “lungo corpo a corpo con la pianta”, parlare a tu per tu con l’abuelita.

Non sappiamo, scrive Stefania Consigliere, “quando i popoli amazzonici hanno iniziato a usare la banisteriopsis caapi” bollirla insieme alla psicotria viridis o altre piante visionarie per produrre questa bevanda che apre la “scorza psichica” degli umani e li rimette in connessione con le piante, con gli spiriti, con gli animali (li reincanta, dunque, li guarisce dal disincanto). Sarebbe bello che fosse avvenuto proprio quando la missione reincantatrice di Eleusi è venuta meno, il testimone è passato all’altro emisfero. Perché, scrive, “Yagé nights e riti eleusini si affiancano”, si rassomigliano proprio per questa “squalifica etica, epistemologica e ontologica che la cosmovisione moderna vi getta sopra”. Abbiamo rimosso dalla Grecia, per renderla razionale e logica, Eleusi e Orfeo, Dioniso e le baccanti, gli oracoli e il daimon di Socrate.

Perché una delle caratteristiche della modernità è “non pensarsi etnica, popolo fra altri popoli, ma universale”. Ecco, eventualmente, un limite del discorso di Mark Fisher: non c’è alternativa al capitalismo, scrive. Dove? Nel mondo moderno, occidentale, là dove c’è storia. In altri mondi, fuori dalla storia e fuori dalla modernità e dove c’è spazio per altri stati della coscienza: hai voglia, quante alternative. Gli spiriti, gli antenati, i morti, ridono del capitalismo. E ridono della storia.

Per avere la certezza di ciò, basta fare l’esperienza che ha osato Stefania Consigliere e ha ricusato Jean-Loup Amselle: “Lo yagé porta visioni di una precisione assurda”. “La possibilità di stare contemporaneamente in due mondi”, all’improvviso è possibile. Ecco il reincanto.

Questi “misteri sono una liturgia” (infatti in gergo vengono chiamati cerimonie), sono “un servizio”, che “serve a far funzionare il mondo in modo accettabile”. Adesso mi viene da pensare che le cerimonie sono riti di cura incredibilmente più efficaci del rito stanco e ormai unicamente polarizzato sul dio psicofarmaco (il dio occidentale non è diventato malattia, è diventato psicofarmaco), che si svolge nei Centri di Salute Mentale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, e pure negli sterminati studioli privati di psicoterapeuti e psicanalisti (dove lo psicofarmaco serve da doping alla terapia parlata). Un dio psicofarmaco che restringe la coscienza e ottiene esattamente l’effetto opposto della molecola o pianta o bevanda che fa psiche + delos, allarga inverosimilmente il campo della coscienza. E super-incanta.

Il disincanto, che il mondo moderno ha prodotto, ha separato gli umani dal mondo, oltre all’Homo sapiens sembra che nient’altro ci sia, di pari dignità, nel cosmo: “Ninfe e spiriti scompaiono dai boschi”, “piante e animali smettono di interloquire”. Ovvio che un pianeta così depersonalizzato, si presti a essere depredato.

Scrive Stefania Consigliere che nel pamphlet di Jean-Loup Amselle “qualcosa non torna”: lui “racconta di gringos annoiati, hipsters alla ricerca di sensazioni forti, cowboy dello sballo”. Invece, la maggior parte delle persone che lei ha incontrato nella selva, le sono parse alla ricerca di qualcosa che, “a casa”, in occidente, non si riesce nemmeno a nominare. “Molti lavorano nelle istituzioni dei paesi ricchi, nei laboratori di ricerca, nelle università” (non sono tutti scappati di casa come nella narrazione di Amselle), sono “intellettuali raffinati addestrati allo scetticismo e al metodo scientifico”. E però sono andati nella selva, hanno partecipato alle yagé nights, per riconoscersi parte di un’esperienza iniziatica, che immaginavano antidoto al disincanto. O alla stregoneria capitalistica.

E non è forse stregoneria, magia nera, questo accumulo di ricchezza e potere che non viene rimesso in circolo? E non ha fatto proprio questo tipo di magia nera il capitalismo: sostituire la povertà (povertà è dove ancora c’è una quantità di beni materiali e c’è, ancora, la possibilità di procurarsi ciò che serve: coltivare il cibo o costruirsi la casa) con la miseria? Questo, dunque, è il capitalismo: magia nera. In Africa è stregone chi usa i propri poteri per il potere e la ricchezza, il plusvalore è magia nera.

Allora: perché si va nei luoghi dell’estasi, perché ci si affida agli sciamani signori del limite? Non certo per “scambiare l’ekstasis per il fine”, perché questo sarebbe molto triste, sarebbe nulla di più di una “mezz’ora d’aria concessa a chi acconsente alla gabbia”. “Non si va dove gli angeli esitano per aggiungere una tacca sull’atlante dell’esotico, per sballo o per darsi arie una volta tornati a casa”. Nella dimensione ek-statica occorre astuzia, metis e saggezza. Si va in quanto “rappresentanti di un gruppo” a cercare una notte di “preveggenza”, a “negoziare con le forze che, dentro di noi, ci piegano al meno peggio e all’acquiescenza”.

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Snowpiercer: Lotta di classe su binario morto https://www.carmillaonline.com/2020/07/02/snowpiercer-lotta-di-classe-su-binario-morto/ Wed, 01 Jul 2020 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60798 di Walter Catalano

L’allegoria è esplicita, la metafora trasparente. Un treno di 1.001 vagoni con a bordo 3.000 persone è tutto quanto resta dell’umanità dopo che il fallito tentativo di fermare il riscaldamento globale terrestre ha al contrario scatenato una glaciazione, precipitando la temperatura di superficie a -117 gradi. Il convoglio ad alta velocità continua all’infinito a fare il periplo del pianeta grazie a un motore dal moto perpetuo e la società che l’ha realizzato, la Wilford Industries, guidata dal misterioso magnate Mr. Wilford, ha in mano i destini dei [...]]]> di Walter Catalano

L’allegoria è esplicita, la metafora trasparente. Un treno di 1.001 vagoni con a bordo 3.000 persone è tutto quanto resta dell’umanità dopo che il fallito tentativo di fermare il riscaldamento globale terrestre ha al contrario scatenato una glaciazione, precipitando la temperatura di superficie a -117 gradi. Il convoglio ad alta velocità continua all’infinito a fare il periplo del pianeta grazie a un motore dal moto perpetuo e la società che l’ha realizzato, la Wilford Industries, guidata dal misterioso magnate Mr. Wilford, ha in mano i destini dei superstiti. Sullo Snowpiercer, in prima viaggiano i ricchi che hanno finanziato la costruzione del treno e ora conducono una vita dissipata e parassitaria. Poi, via via, si scende di livello, dalla Seconda dove alloggia la classe dirigenziale amministrativa e burocratica; alla Terza dove i tecnici assicurano la produzione e l’autosostentamento, gestendo i bisogni primari e secondari di un claustrofobico micro-universo, attraverso la conduzione di allevamenti di bovini, frutteti, acquari, nightclub, bordelli, mercati post-industriali e così via; fino al Fondo, the Tail, la coda del treno, dove sopravvivono in semi-reclusione, quelli che non hanno pagato il biglietto, alimentandosi con barrette a stento commestibili e progettando la rivoluzione: irruzione armata nei settori anteriori del treno e rovesciamento dei rapporti sociali.

L’idea originaria da cui questa storia deriva, nasce da un graphic novel francese, Le Transperceneige – Snowpiercer è la traduzione inglese di Transperceneige, «trafiggineve» o «traforaneve» –  bande dessinée post-apocalittica in bianco e nero ideata da Jacques Lob e disegnata da Jean-Marc Rochette, pubblicata a puntate in Francia, con il titolo di La morte bianca, fra l’ottobre del 1982 e il giugno dell’anno successivo prima di essere raccolta in volume dall’editore Casterman nel 1984. Dopo il successo internazionale e la morte di Lob, lo sceneggiatore Benjamin Legrand rimette mano all’universo già delineato, cambia treno sostituendo lo Snowpiercer con il Wintercracker, e fra il 1999 e il 2000 dà alla luce altri due volumi, Il geoesploratore (1999) e La terra promessa (2000), che elaborano ulteriormente gli avvenimenti immaginati dai due autori originari.

Il fumetto è figlio diretto della fantascienza distopica di George Orwell – la data di uscita, del primo episodio, 1984, è già un destino – e, forse ancor di più, Aldous Huxley, ma anche del Robert Heinlein di Universo o Orfani del cielo, che dir si voglia, e di tutte quelle opere appartenenti al sottogenere generation ship, come il ciclo di Rama, di Arthur C. Clarke. Ma i sistemi chiusi non offrono speranza e le piccole comunità replicano e portano all’estremo i meccanismi di stratificazione sociale e diseguaglianza delle grandi: la divisione in classi, qui orizzontale, lì verticale, rimanda al classico cinematografico Metropolis, di Fritz Lang; la derivazione huxleyana si avverte invece nella suggerita identificazione fra disumanizzazione e decadenza dei costumi e per la diffidenza verso l’ipotesi rivoluzionaria vista più come vezzo della borghesia, la seconda classe, che come consapevole necessità del proletariato, gli occupanti delle ultime carrozze del treno, “il terzo convoglio”  (richiamo al Terzo stato della Francia pre-rivoluzionaria). Rispetto alle astronavi-mondo di Universo e simili, il microcosmo ferroviario di Transpeirceneige appare assai più cupo, in una vera e propria inversione di orizzonte: in Heinlein la scoperta della reale natura del mondo prospetta nuove speranze e testimonia la grandezza delle capacità umane, esaltate dalla tecnologia; nella trilogia francese, invece, la tecnologia consente solo una finzione di vita, senza scopo, senza obiettivi, destinata alla sconfitta: se i viaggiatori di Heinlein scoprono di avere a disposizione tutto l’universo, quelli di Legrand  accettano il dato di fatto che non c’è nulla al di fuori delle loro paratie stagne.

Anche stilisticamente il fumetto si evolve (o involve a seconda dei gusti): se nel primo episodio, La morte bianca, il disegnatore Jean-Marc Rochette si ispira al bianco e nero espressionista della scuola argentina e in particolare al Francisco Solano Lopez de L’eternauta, negli episodi più tardi il passaggio al colore conduce a uno slittamento dal grottesco al realistico che già prelude al cinema. Non per caso quindi il regista sud-coreano Bong Joon-ho scoprirà il fumetto, si innamorerà dell’ambientazione e per anni tenterà di avviare un progetto cinematografico liberamente ispirato alla trilogia francese (in particolare al primo episodio) riuscendo infine a realizzarlo solo nel 2013.

Bong Joon-ho, premio Oscar 2020, sia per il miglior film straniero sia per regia e sceneggiatura originale, con il piuttosto sopravvalutato Parasite, passa al vaglio della critica per un regista interessato a recuperare nel suo cinema il concetto di lotta di classe. In realtà il tema è per lui poco più che un pretesto abbastanza superficiale, almeno per come viene affrontato nei due film che maggiormente entrano in argomento: sia la fin troppo acclamata ultima opera, sia il suo indiretto predecessore, proprio Snowpiercer. In Parasite, ancor più che nel film precedente, la lotta di classe nell’unico senso possibile del termine, quello marxiano, viene rimpiazzata, attraverso una lettura sociologica abbastanza approssimativa, dal desiderio collettivo, dettato dal puro istinto di sopravvivenza (un collettivo, per altro, che non eccede mai gli stretti vincoli familiari), di mera emulazione e asservimento al più forte e al più ricco. Lotta fra poveri dunque, invece di solidarietà di classe, in cui il più veloce e il più furbo vince: il principio hobbesiano dell’homo homini lupus e quello concorrenziale del capitalismo, in cui tutti si abbandonano alla lotta più efferata per impedire l’affermazione altrui. Lo scopo finale è il successo performativo, la realizzazione individuale del neo-capitalismo. Un’impresa criminale è comunque un’impresa tesa alla massima soddisfazione personale. Anche la vendetta, quando si consuma, è dettata solo dalla frustrazione personale, da un impulso improvviso e istintivo. Plasmati sul modello vincente del manager i propri bisogni, coronati i propri egoistici desideri di riscatto, resta solo, incancellabile, l’odore proletario, stigmate che marchia e rivela l’inganno e il dislivello di classe. Il film è un ammiccamento agli esclusi, che non innesca un’immedesimazione per la loro condizione di indigenza ma per l’abilità di sfruttare ogni possibile evento in maniera manipolatoria: niente più che la performance richiesta al capitale umano dalla società neoliberista.

Con analoga affettazione, anche Snowpiercer parrebbe denunciare le disuguaglianze del mondo nella lampante metafora del treno. I diseredati senza biglietto promuoveranno un leader, novello Spartaco che guiderà la rivolta per rovesciare lo stato di cose esistenti. Mentre Porloff, protagonista di Transperceneige versione fumetto, però è quasi un flaneur della rivoluzione e il suo itinerario è più un vagabondaggio che solo per caso lo porterà a raggiungere la testa del treno, il percorso di Curtis (interpretato nel film da Chris Evans) ha almeno velleità rivoluzionarie, anche se, nel suo impulso tutto muscolare, l’eroe intende prendere il potere senza sapere poi bene cosa farsene. Si mette in scena una ribellione di corpi senza testa: il mondo è il treno e il treno è il mondo e nessuno, tra chi lo guida e chi si fa guidare, può contestare questo dato di fatto. Per questo i compromessi sono necessari e il rivoluzionario dovrà allearsi con un esperto di sistemi di sicurezza dipendente da una sostanza allucinogena – un po’ il suo alter ego negativo – e sostenere tutta una serie di combattimenti con il piccolo esercito di sbirri che proteggono l’ordine costituito. L’obiettivo è quello di arrivare fino alla locomotiva, rimuovere Wilford (il capo carismatico, circonfuso quasi da un’aureola sacrale) e sovvertire la brutale organizzazione vigente senza un progetto chiaro di gestione alternativa. I luoghi comuni anche qui abbondano: le rivolte già previste come elemento per mantenere l’equilibrio interno del sistema (un po’ Orwell e un po’ Matrix); l’assassino disposto a nutrirsi dei propri simili che diventa capo della rivolta; il capo carismatico che cederà il proprio ruolo al leader degli insorti: chi uccide il re diventa re; la presa di potere rivoluzionaria risolta con un duello “a due” come in un western; e così via.

Almeno da un punto di vista spettacolare però il film funziona; scenografia e regia sono incisive; tutto il cast, in particolare Chris Evans e Tilda Swinton, efficace e, come prodotto di intrattenimento, non c’è troppo da eccepire. Se rifiutiamo ogni pretesa di interpretazione “politica”, possiamo anche divertirci e ritenerci soddisfatti: come il suo successore Parasite, anche Snowpiercer è un lavoro complessivamente riuscito. Il problema sorge invece quando si vuole allungare troppo il brodo e – sfruttando il nome ormai assurto, a torto o a ragione, al Pantheon dei sommi, del cineasta coreano – si cerca di trasformare in serie Tv un testo ben conchiuso proprio nel suo formato breve.

La serie, sviluppata dallo showrunner Greame Manson, condivide con l’omonimo film di Bong Joon-ho l’ambientazione, ma cronologia e trama sono differenti. I fatti raccontati nella pellicola del 2013 si svolgono 15 anni dopo l’apocalisse e principalmente nel Fondo, fra gli ultimi vagoni; il serial visibile sulla piattaforma Netflix, si colloca invece sette anni dopo la glaciazione e, quindi, otto anni prima del film, e molto maggiore spazio viene dato a personaggi e ambienti dei diversi scompartimenti che non sono più quindi, come nel film, solo un territorio ostile da scoprire e conquistare per le avanguardie rivoluzionarie delle carrozze di coda. Il regista coreano figura come produttore esecutivo, così come fra i nomi dei produttori, oltre al suo, compaiono anche quelli di Scott Derrickson (regista di Doctor Strange) e Park Chan-wook (regista di Old Boy e di altri classici del cinema sudcoreano meno noti da noi). Nonostante questi personaggi di rilievo sbandierati; nonostante la raffinatezza del reparto scenografico, che annovera specialisti come Barry Robison, Stephen Geaghan, Paul Alix, Thomas P. Wilkins e Gwendolyn Margetson, a conferire all’ambientazione un’atmosfera sospesa e ambigua di retrofuturo; nonostante le musiche composte da Bear McCreary, che tutti ricorderanno per la colonna sonora di un’altra serie Sci-Fi classica, Battlestar Galactica; il prodotto risulta assai mediocre e di gran lunga inferiore al già non eccelso film. Il fumetto resta alla fine la punta di diamante di tutta la saga multimediale.

Se però film e fumetto almeno erano ben strutturati intorno a un centro, il tema della rivolta sociale – seppur abborracciata – i dieci episodi televisivi tergiversano e debordano, svicolando banalmente sul crime, tanto per allungare il brodo con gli ingredienti più dozzinali, e seguono le indagini di Layton, detective “proletario” cooptato negli scompartimenti “borghesi” per indagare sullo spaccio di droga e medicinali che potrebbe essere all’origine di una catena di omicidi seriali; lo sleuth riluttante, già che c’è, prende anche appunti per scatenare, quando sarà il momento giusto, la rivoluzione: un po’ come voler fare un cocktail fra La Corazzata Potemkin e Assassinio sull’Orient Express

Anche gli attori appaiono poco convinti, dall’attrice premio Oscar Jennifer Connelly (A Beautiful Mind), al rasta, quasi sosia di Bob Marley, Daveed Daniele Diggs, vincitore di un Grammy e di un Tony per il musical Hamilton. La serie spicca come un bell’esempio di dissipazione di risorse ed è utile guardarla: non solo il bello ma anche il brutto va conosciuto. Certo ci sono dei limiti a questa regola: ad esempio la recente serie horror – si fa per dire – Curon, trionfalmente presentata come  debutto di Netflix Italia, è un pastrocchio inguardabile, soporifero e mal scritto sul quale non vale la pena di sprecare neanche un minuto della propria vita di spettatore, ma Snowpiercer non arriva a tanto obbrobrio e una serata con gli amici, a birra, patatine e battute salaci, gliela possiamo anche dedicare… Motivo per cui già la produzione minaccia una seconda stagione: perseverare diabolicum…

 

 

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Immagini del conflitto / Spazi https://www.carmillaonline.com/2018/06/21/immagini-del-conflitto-spazi/ Wed, 20 Jun 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46243 di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a [...]]]> di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a fare i conti viene affrontata da Tursi recuperando alcuni celebri esempi di narrazione di “mondi nuovi” del passato per poterli confrontare con i nuovi scenari contemporanei. L’analisi prende il via dalla constatazione di come a partire dalle grandi scoperte geografiche cinquecentesche si originino due grandi narrazioni metaforiche caratterizzate da differenti connotazioni socio-politiche: «da un lato, verso il consolidamento di un utopismo popolare, soprattutto contadino, che aveva radici nel medievale Paese di Bengodi e che si manifestava nelle tante variazioni sull’antico tema del Paese di Cuccagna; dall’altro, verso l’elaborazione di costruzioni colte e moderne come l’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Tommaso Campanella» (p. 101). La prima direzione, che si protrae addirittura fino all’epoca illuminista con Candido e l’Eldorado, insiste con il descrivere utopisticamente un mondo paradisiaco. Per quanto riguarda il secondo filone lo studioso si sofferma sul celebre Libellus relativo all’isola di Utopia di Moro in cui il mundus novus, nella sua volontà di neutralizzare ogni tipo di “lotta di parte”, «si pone come tramite tra la Repubblica disegnata da Platone […] e il Leviatano di Hobbes» (p. 106).

Dopo tali premesse storiche Tursi approda al romanzo di genere distopico di Aldous Huxley, Brave New World (1932), in cui si narra di uno Stato Mondiale che genera i suoi abitanti in provetta per poi collocarli in rigide caste pianificandoli ed educandoli a mantenere e desiderare l’ordine stabilito. In ossequio all’obiettivo della stabilità sociale, in cambio dell’apatia a questi cittadini del nuovo mondo, prodotti attraverso una sorta di catena di montaggio, viene garantita la felicità materiale e fisica. Huxley avrà modo, diverso tempo dopo aver steso il romanzo, di puntualizzare il ruolo della comunicazione di massa e dell’intrattenimento nel creare e soddisfare gli appetiti dell’uomo moderno soffocandone ogni minima propensione politica.

Attraverso queste tappe lo studioso giunge a ragionare sulla definizione di Metaverso proposta da Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash (1992), opera che tocca questioni che hanno a che fare con l’intrecciarsi di arcaico e contemporaneo, con i linguaggi, la religione, i cyborg, i migranti, la cultura popolare e le urgenze ambientali. Ad essere preso in esame è soprattutto il rapporto tra «realtà (o meglio ciò che siamo abituati a considerare tale) e Metaverso, tra territorio e nuovo mondo virtuale per cogliere il tracciamento politico di entrambe queste dimensioni [al fine di comprendere] la cifra politica che emerge dal loro inestricabile intreccio» (p. 114-115). Diversamente dalle utopie e dalle distopie moderne, «il Metaverso (o ciberspazio) richiede una pratica politico-polemica proprio perché non è scisso degli spazi della nostra vita quotidiana» (p. 115). Rispetto alle narrazioni utopiche e distopiche della modernità in questo caso occorre fare i conti con l’ambiguità del rapporto tra il territorio e la simulazione del ciberspazio.

Snow Crash a cui fa riferimento il titolo è tanto un virus informatico che si propaga in rete provocando “l’effetto neve” sui monitor, quanto un virus mentale che, propagandosi attraverso i liquidi corporei e gli agenti atmosferici, colpisce “la carne viva” degli esseri umani imponendo loro di obbedire agli ordini ricevuti attraverso un codice sotto forma di linguaggio monosillabico. Il medesimo virus neurolinguistico può dunque attaccare nel Metaverso e nella realtà incidendo tanto sugli avatar quanto sui corpi. «Sin nel titolo, dunque, è racchiuso il rapporto stretto e inscindibile tra quella che siamo soliti considerare realtà e il nuovo spazio dei flussi informativi, tra mondo materiale e mondo del codice digitale. Unico è lo strumento di cui avvalersi per dominare in entrambe queste dimensioni: il virus Snow Crash. Unico perché queste dimensioni sono sempre più interconnesse» (p. 116).

Le vicende narrate da Stephenson sono collocate in uno scenario futuro postatomico e postnazionale in un territorio corrispondente agli attuali Stati Uniti ma smembrato in una miriade di autonome enclave recintate e protette. Soltanto alcuni luoghi sottostanno al governo federale degli Stati Uniti mentre i restanti appartengano alle più svariate entità: «il territorio non è più lo spazio in cui si manifesta il potere assoluto del governo statale bensì un patchwork di micropoteri privati, extraterritoriali, conflittuali e instabili. […] Quello che resta, dunque, non è più uno Stato e forse neppure, più genericamente, una unità politica di qualsiasi tipo. Eppure in questo patchwork frastagliato, che tende a isolare spazi chiusi, si tessono legami, alleanze, comunanze» (p. 118).

Il Metaverso di cui narra nel romanzo è invece “un mondo di simulazione” ove gli utenti accedono connettendosi attraverso il web. Il romanzo descrive l’aspetto e la funzionalità di questi spazi in cui gli individui si presentano e agiscono attraverso degli avatar. «Del linguaggio-macchina che controlla i computer e dunque il Metaverso, gli hacker […] sono a tal punto esperti da averlo interiorizzato nelle strutture profonde del proprio cervello, nei propri percorsi neurolinguistici, nel proprio bioware. Questo li rende adatti a gestire il linguaggio di programmazione ma anche particolarmente vulnerabili al virus neurolinguistico Snow Crash. Ma dov’è il pericolo anche ciò che salva cresce. Gli hacker combattono approntando da sé i mezzi di produzione-lotta. […] Questa élite tecnologica non si caratterizza solo per una abilità tecnica ma anche per un nuovo paradigma di legame sociale. Ci che contraddistingue gli hacker, infatti, è lo spirito altruistico di condivisione […] Ciò che gli hacker mostrano è prima di tutto una nuova etica» (pp. 121-122).

Nel romanzo si confrontano una tendenza all’appropriazione ed una alla condivisione. «Di fatto gli scontri nel Metaverso non sono altro che scontri tra software e capacità di gestirli. […] “Il Metaverso è una struttura fittizia costruita con un linguaggio di programmazione. E il linguaggio di programmazione non è che una forma del discorso – quella comprensibile ai computer”. Dunque, lo scontro è innanzitutto uno scontro discorsivo, uno scontro tra capacità di farsi ascoltare (attraverso la mediazione del linguaggio di programmazione) e volontà di non ascoltare e di non far ascoltare (simbolicamente resa dal barbuglio insensato delle vittime di Snow Crash)» (p. 124). La comunità degli hacker non ricalca le comunità nazionali e non è nemmeno una era e propria classe sociale omogenea.

In realtà, ci troviamo di fronte una comunità che non ha nome proprio e dunque potrebbe averne molti. Nel racconto di Stephenson, significativamente e nello stesso tempo paradossalmente, gli hacker assurgono a nome proprio di quella “comunità immaginata” che riconosciamo come gli States. Un riconoscimento che per i protagonisti del romanzo è nostalgia di una comunità ormai polverizzata negli spazi frammentati del territorio-patchwork. In questo modo, la memoria di una comunità ormai disgregata resiste sorprendentemente nella nuova comunità dispersa degli hacker […] In generale, quello degli hacker è “un nome improprio” attraverso il quale un processo di soggettivazione politica può aver luogo nel nuovo spazio dei flussi informativi. […] Gli hacker non sono una comunità che combatte solo per sé, per una rivendicazione particolaristica. Come i poveri nell’antichità greca e il proletariato nell’Europa moderna, gli hacker combattono per un proprio (per sopravvivere al virus neurolinguistico, per affermare la loro etica di condivisione) ma anche e soprattutto per un comune, per preservare un comune, uno spazio del comune: e cioè l’anarchia sostanziale rispetto al tentativo del potente magnate dei media di imporre il suo dominio pervasivo sul territorio così come sul Metaverso. […] Il conflitto nel Metaverso serve a preservare un luogo comune, nel quale riconoscere una comunità degli eguali, una comunità che dà voce tanto all’élite tecnologica quanto agli immigrati disperati e ridotti a essere parlati da un barbuglio insensato. Questo conflitto è politico perché [per dirla con Rancière] “la politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte”. Una parte la cui funzione è politica perché è precipuamente quella di dispiegare una scena comune, cosa che gli hacker fanno letteralmente con il loro lavoro di programmazione. Affermare, cioè, un mondo comune del senso e della visibilità rispetto al precedente e ‘naturale’ mondo sotterraneo dei rumori confusi. In altri termini, rompere una certa configurazione del sensibile, ridefinendo il campo dell’esperienza e facendo balenare una pluralità del sensibile prima invisibile (pp. 126-128).

Dunque, sostiene Tursi, «l’attività politica si rivela essere quell’attività che permette a un corpo di dislocarsi, di uscire fuori dal luogo che gli era stato assegnato, ovvero quell’attività che cambia la destinazione prefissata di un luogo. In questo modo, però, nessun luogo può ritenersi un luogo irenico, bensì sempre un luogo di con-divisione» (p. 129). Moro, Huxley e Stephenson, continua lo studioso, attraverso i loro racconti ci invitano a guardare il nostro mondo nella sua contingenza che non esclude quell’altrimenti che è l’essenza di ogni decisione politica.

Una parte del libro è dedicata all’architettura della/nella trilogia di Matrix dei fratelli Larry e Andy Wachowski in cui Tursi individua «una struttura narrativa chiasmica […] percepibile già visivamente: si passa dal primo The Matrix (Usa, 1999) a Matrix Revolutions (Usa, 2003), capovolgendo il rapporto tra visione della simulazione del culmine della civiltà occidentale e visione del mondo postconflitto di un non determinato futuro. Così, se nel primo episodio almeno due terzi delle scene mostrano la simulazione di una metropoli in cui si potrà riconoscere New York o anche altre città nordamericane, come per esempio Atlanta, in Matrix Revolutions due terzi delle scene mostrano invece luoghi postmetropolitani, quali Zion e la Città delle macchine, poco, narrativamente e visivamente, frequentati in precedenza. Il capovolgimento è operato dall’equilibrato Matrix Reloaded (Usa, 2003): è il secondo episodio che non solo inverte in termini visivi ciò che si era affermato in precedenza ma complica la lettura della narrazione filmica. Infatti, mentre l’episodio iniziale ci permette di leggere una ontologia – e quindi, una estetica e una mediologia – definibile come della scissione, Matrix Reloaded indebolisce questa visione unitaria» (pp. 133-134).

Tursi si occupa dunque degli aspetti estetici legati all’architettura degli spazi metropolitani e postmetropolitani con l’intenzione di delineare «un’estetica-architettura della scissione e, soprattutto, un’estetica-architettura della connessione» (p. 134).

L’ultima parte del volume è dedicata alla «ridislocazione del conflitto» nell’opera letteraria di William Gibson che, sbrigativamente, viene solitamente suddivisa in due periodi distinti. Al primo sarebbero riconducibili la celebre trilogia “sprawl” composta da Neuromante (1984), Count Zero (1986) e Monna Lisa Overdrive (1988) a cui vengono aggiunte le opere Virtual Linght (1993), Idoru (1996) e All Tomorrow’s Parties (1999). Del secondo periodo farebbero invece parte Pattern Recognition (2003), Spook Country (2007) e Zero History (2010). Se le opere del primo periodo si proiettano verso un futuro che, per quanto ormai prossimo, rivela importanti cambiamenti rispetto al presente (del periodo in cui scrive), i romanzi del secondo periodo palesano una inflessione sul presente.

Tursi pone l’accento su come Gibson, pur spostando lo sfondo dei suoi romanzi dalla tecnologia futuribile, soprattutto relativa ai mezzi di comunicazione, nelle prime opere, alle merci del consumo globale, nelle successive, occorre «rilevare come queste merci del consumo globale non siano che il portato della diffusione globale di quelle allucinazioni che le tecnologie di comunicazione hanno indotto e veicolato negli ultimi decenni. Di converso, anche gli immaginifici mezzi di comunicazione utilizzati [dai] cowboy della consolle non sono mai stati altro che merci, qualcosa di acquistabile e vendibile nello “sprawl” disegnato da Gibson negli anni Ottanta» (p. 159).

Insomma, secondo lo studioso Gibson «ha sempre lavorato su un’unica matassa, su quell’immaginario che è condensazione di tecnologie e consumo, […] con la materia di cui sono fatti i sogni» (p. 159), sapendo «cogliere il carattere allucinatorio di quella rappresentazione grafica di informazioni ricavate da ogni computer del sistema umano, di quelle linee di luce allineate nel non-spazio della mente, di quegli ammassi e costellazioni di dati. Dove l’allucinazione segna uno scarto rispetto alla realtà nella quale abitiamo abitualmente. E, nello stesso tempo, l’apertura di un altro spazio dell’abitare. Uno spazio vivo e vitale proprio perché vissuto e dunque costruito e agito consensualmente, oltre che quotidianamente. Uno spazio dell’immaginario “esteriorizzato” o “oggettivato” […] fuori della nostra mente. E dunque non più un immaginario individuale ma condiviso. E non più alla maniera permessa dai mass media come la televisione ma in maniera più articolata e complessa» (p. 160).

Secondo Gibson «comprendere l’immaginario come spazio del conflitto non significa smaterializzare il conflitto o, ancor oltre, disincarnarlo» (p. 171); nelle opere dello scrittore il conflitto resta dunque incorporato e «si gioca in ambiti differenti rispetto alle geografie del moderno, in ambiti transpolitici, e tra soggettività diverse rispetto a quelle del passato, soggettività riconosciute ibride e post-umane. Ma continua a riguardare concretissimi interessi materiali, di corpi vivi, rispetto ai quali poteri e contropoteri si confrontano anche nel nuovo inner space che Gibson ha esplorato e che ci ha fatto intravvedere» (p. 174).

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La “Dittatura della Maggioranza” https://www.carmillaonline.com/2013/07/14/la-dittatura-della-maggioranza/ Sat, 13 Jul 2013 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7494 Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto [...]]]> Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto proditoria nella modalità risolutiva poi adottata, un limite puro ma già in odore di spuria giustificazione. Per ottenere certe particolari inquadrature, negli angusti spazi degli studi di registrazione forniti dalla Rai, Negrin chiese ai macchinisti di cooperare con l’arredatore affinché fosse la scenografia – la cartapesta e il compensato – ad adattarsi e “muoversi” a seconda delle esigenze della macchina da presa e non viceversa. È una richiesta assolutamente “cinematografica”, all’epoca quantomeno tacciabile di mera vezzosità autoriale. Un ghiribizzo. Per una televisione italiana che aveva addirittura già adattato Delitto e castigo (1963) e I Buddendrook (1971) facendo propria la volontà di perseguire la nobile utilità sociale di biblia pauperum.
In studio, per quelle che furono anche le raffinate messe in scene di Anton Giulio Majano, tutto invece era già allestito su tre robuste pareti, lasciando uno spazio comodo ma fatalmente distante alle possibili soluzioni di regia da adottare. Così Negrin richiese la costruzione e l’arredamento di una “quarta parete”, piazzando i mezzi tecnici al centro esatto della scena, fin dentro l’azione. Ottenne in questo modo una profondità e un dinamismo mai percepiti prima sul piccolo schermo italiano, optando per l’utilizzo di telecamere imbracate sulle spalle dell’operatore e confidando nell’abile capacità mimetica dei microfonisti.
La coraggiosa rinuncia alla macchina fissa servì, quasi da sola, ad attuare una rivoluzione semi-copernicana della percezione stessa dell’azione in una finzione scenica televisiva di largo consumo; lasciando ad altri l’utilizzo di quelle ingombranti macchine fisse che, per stretta volontà degli ingegneri costruttori, riuscivano a realizzare scarsi movimenti, dai novanta centimetri da terra fino ad un’altezza massima di un metro e settanta. L’escamotage era quindi compiuto, la porta sonoramente spalancata.

La soluzione è, idealmente, la progenitrice tecnica di quelle riprese effettuate oggi su L’isola dei famosi dove, accettando la schizofrenia del reality e della tv che rappresenta e celebra se stessa, va in onda una realtà modificata nella sua “mediatica” percezione, mossa unicamente dallo share. Se, come ha affermato Jean Cocteau, “il cinema è la morte al lavoro”, la televisione italiana degli ultimi quattordici anni potrebbe essere stata una strenua, quanto incompiuta, “prova tecnica di resurrezione”. Sull’Isola non esistono pareti arredate ma grandi scenari naturali, l’habitat stesso è inusuale per la finzione. Ancora telecamere mobili e operatori posti nel centro esatto dell’azione, con concorrenti/interpreti che fingono pedissequamente di ignorare l’apparato tecnico e le maestranze che li circondano ogni giorno. La schizofrenia da indurre allo spettatore non è di quelle da considerarsi blande, giustificabile con la sola e abusata “sospensione dell’incredulità”. La “quarta parete” non è più da annettere, da costruire e arredare, ma è assolutamente la prima da abbattere per provvedere, poi, a eliminare l’intero concetto di teatro di posa o studio di registrazione.
La scenografia è una natura resa ostile e perigliosa solo nella narrazione (si pensi a La fattoria), mentre interpreti ed elementi decorativi del set, nella loro libera intercambiabilità affidata al televoto nazional-popolare, vengono messi sullo stesso e identico piano. L’esagerato seno al silicone, esposto da ogni angolazione dalla concorrente di turno del Grande Fratello, nega di per sé la reale utilità di ogni funzionale scenografia di sorta. La protesi è il significante, la sua assoluta ed essenziale (utilitaria) “plastificazione”.
Arriverà a sostituire anche la trama, il filo logico degli stessi eventi. Se “il medium è il messaggio”, la televisione che rappresenta e giustifica se stessa arriva al punto culminante di esser fruita dai suoi stessi realizzatori e viceversa. Ogni ideale “parete” è stata così abbattuta; telecamere nascoste inquadrano corpi da réclame fingendosi colpevolmente, celatamente, calate in un contesto reale e quindi altamente scabroso. Non c’è il pudore dei b-movie scollacciati di quella che fu la “nuova commedia” nostrana degli anni Ottanta, non si rende necessario neanche il pretesto della doccia o l’infantile gioco del dottore e l’infermiera. La barzelletta da caserma dei militari onanisti. Il “buco della serratura” si nobilita nel formato 16:9 della tv al plasma, rigorosamente comprata a rate e collegata al relativo decoder.

Un recente dossier sulle “nuove forme di dipendenza patologica” ha sottolineato come l’utilizzo di siti Internet pornografici gratuiti, veda oggi un incremento di visioni in streaming e di upload di filmati assolutamente amatoriali, realizzati con cellulari moderni e senza prevedere alcun tipo di intenzione preliminare. Il voyeurismo, premeditato o estemporaneo che esso sia, quindi abbatte la parete della forma, elimina il canone di bellezza, spodesta la drammaturgia e prescinde, diabolicamente, dal concetto stesso di responsabilità (il cyberbullismo). Pensare che questo scenario possa essere scaturito da una lettura in chiave profetica, più che criticamente distopica, del film Videodrome (1983) di David Cronenberg, oggi è quanto mai legittimo.
Quasi utilizzassero il principio del periscopio, le telecamere o gli obbiettivi degli smartphone emergono dalla “finzione” per spiare retroscena di delitti agghiaccianti e a sfondo rigorosamente sessuale, ponendo l’indagine e l’introspezione al grado zero dei codici inquirenti e informativi del reportage. Il fine ultimo potrebbe essere quello dello snuff-movie. Il voyeurismo patologico, applicato ad accadimenti di cronaca nera, come il delitto Scazzi, rischia d’essere inserito nel novero identico delle motivazioni del reality. Ne determina lo schema e la liturgia, facendo del dramma reale una messa in scena dove è il colpevole a essere selezionato per mero decadimento empatico.
Così il piccolo schermo ci costringe all’invito a cena con delitto, a un’interminabile sessione collettiva di Cluedo dove fioccano pruriginose accuse, infamie, più che sensati profili psicologici degli imputati, anamnesi di sorta e ricordi edulcorati delle vittime. Nel caso dell’assassinio di Sara Scazzi l’intrusione della televisione è assimilabile a una sorta di pretestuoso, quanto ovviamente disfunzionale, accanimento terapeutico. È il cugino della vittima a giocare a carte scoperte, fra lauti cachet per ospitate nei salotti pomeridiani e pressanti richieste di partecipazione ad Uomini e Donne. E così che, partendo da un delitto atroce, si arriva infine al sorriso tonto ma rassicurante di Lele Mora, alla narcosi narcisista del danaro cash e dell’esposizione mediatica immediata.
Si giunge così in tv, accantonato e quasi vilipeso il merito, al di là del bene e del male. Gli stessi assassini, d’altronde, a più riprese sono comparsi inizialmente sul Servizio Pubblico per dirsi innocenti e chiedere chiarimenti di sorta, giustizia assoluta al “tribunale catodico” composto da disperati spettatori. È il foro degli ultimi, la corte di ladri e imbroglioni, che giudica il delitto più grande assolvendo il proprio status, legandolo alla necessità del campare e mai al piacere. Come in M – Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang, s’attende la confessione pietosa, il mostro che si rivela bambino abusato o il ghigno sardonico a reti unificate.

La realtà viene strumentalizzata, posta in modo tale da influenzare coscienze e intimi giudizi; la sua rappresentazione diviene dibattito e crea sterile divisione. Si giunge così alle estreme e irrimediabili conseguenze (il caso di Meredith Kercher), da intendersi fallacemente come fisiologica, processuale, “fine dei giochi”. La “quarta parete” è divenuta indispensabile nel solo e risibile plastico della scena del crimine, esposto durante Porta a Porta come vuoto centro dell’azione. Dove, appena un attimo prima, a ogni suono di campanello gentile, si discuteva simpaticamente di diete per l’estate, situazioni politiche da sbrogliare e suicidi di imprenditori, iniezioni di fiducia e di botox, precariato ed operai disperati.
La (s)drammatizzazione è la pietra filosofale del nostro tempo. Lo share ha vestito i panni vistosi del Re Mida e accettato di buon grado la sua mitica e dorata maledizione. Non è metallo nobile ciò che la dittatura della maggioranza elargisce, né pane per denti sani o panacee assolute.

Negli anni Sessanta e Settanta il ritardo tecnico che accettava di evitare, con difficoltà non imbarazzata, le riprese in esterni era l’inautentica ma possibile discolpa della televisione “da camera”. Quella simile al crepitante “caminetto”, magari col corpo spigoloso in legno, dal riflesso catodico capace di creare familiare aggregazione.
Quelle scene dalla fotografia terribile, accentuate negli sceneggiati da un bianco e nero impietoso, per le quali si ricorreva ad una mini-troupe estranea alle stesse maestranze in studio, erano la summa di un posticcio innegabilmente tangibile. Deposito sul fondo del prodotto. La rappresentazione di un falso possibile ma ben tollerato. La clava di cartapesta brandita minacciosamente dal forzuto Maciste, presente in tanti peplum nostrani.
Eppure questo limite, nel codice genetico dello sceneggiato originale (verrebbe quasi da dire nel format), fungeva già da impianto teatrale della narrazione e permaneva nella recitazione enfatica degli stessi attori, come una necessità travestita da punto assoluto di forza. L’influenza del teatro e, soprattutto, della letteratura richiamavano direttamente alla “cultura alta”. Erano parte attiva di quel capitale intellettuale da investire e non da sperperare, la parete da costruire e giammai da abbattere.
Le lunghe pause riflessive di Gino Cervi nei panni di Maigret, che in realtà servivano all’indimenticato attore per spirare i molti “pizzini” incollati alle pareti con le battute da recitare, travestivano d’arte un chiaro bisogno umano. Mostrare il trucco era il vero peccato, smascherare la truffa necessaria per un intrattenimento non fine a se stesso, quasi didascalico nel suo innocente perpetrarsi.
Il gioco di prestigio per la gioia stupita di ogni invitato alla festa catodica.

Rompere l’incanto non è crimine da poco. Abbatte il desiderio, spingendo allo sconforto del “realismo”, verso lidi mai prima lambiti. Mostra al sospiroso spettatore, dalle ultime fila dei posti seduti, le screpolature sui talloni della ballerina di fila dell’avanspettacolo da strapese. Le calze smagliate, il belletto steso per coprire graffi e imperfezioni. Il resto è perversione. Eppure, novità assoluta, al borghese dalle ultime fila – omarino rigorosamente “ad una dimensione” – quel decadimento svelato ed esibito piace. Diviene forma di abietta, lasciva, soddisfazione. Scoprirla è pruriginoso quanto eccitante, violarla gli è oggi necessario. Riprenderla, conservarla in video, è opera di testimonianza preziosa. È l’archivio digitale, un tempo su Ampex, della condizione umana.
Non è la misura della speranza di Borges, liricamente lenitiva, (l’amabile imperfezione che muove la bellezza naturale). Piuttosto il Mondo nuovo di Huxley, “Comunità, Identità, Stabilità”. Concetti emanati, diktat da attuare. Le ultime righe di George Orwell, quelle rivelatrici e necessarie del 1984 ipotizzato e già passato: “…tutto era a posto, la lotta era finita. Era riuscito a trionfare su se stesso. Ora egli amava il Grande Fratello”.

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