Aldo Fabrizi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 9: Dr Jekyll, Mr Hyde e Herr Wittfogel nella Baghdad occidentale, più basiti che perplessi https://www.carmillaonline.com/2023/10/02/esperienze-estetiche-fondamentali-9-dr-jekyll-mr-hyde-e-herr-wittfogel-nella-baghdad-occidentale-piu-basiti-che-perplessi/ Mon, 02 Oct 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78856 di Diego Gabutti

Guardala, eccola in lontananza, l’Asia, l’Asia profonda al punto che ti viene da tremare al pensiero di quanto sia vicina a Mosca. (Vasilij Golovanov, Verso le rovine di Čevengur)

Ricordo benissimo in che occasione mi sono procurato Il dispotismo orientale di Wittfogel. Fu a Firenze nell’estate del 1971: era l’ammezzato d’una grande libreria del centro (adesso me ne sfugge il nome, e chissà se esiste ancora). Ma proprio non saprei dire dov’ero (e quand’ero) il giorno in cui mi è capitata per le mani la prima copia dello [...]]]> di Diego Gabutti

Guardala, eccola in lontananza, l’Asia, l’Asia profonda al punto che ti viene da tremare al pensiero di quanto sia vicina a Mosca. (Vasilij Golovanov, Verso le rovine di Čevengur)

Ricordo benissimo in che occasione mi sono procurato Il dispotismo orientale di Wittfogel. Fu a Firenze nell’estate del 1971: era l’ammezzato d’una grande libreria del centro (adesso me ne sfugge il nome, e chissà se esiste ancora). Ma proprio non saprei dire dov’ero (e quand’ero) il giorno in cui mi è capitata per le mani la prima copia dello Strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson (The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886). Troppe versioni ne ho lette e palpate nell’altro secolo e in questo. Non so neanche se la prima volta ho letto il romanzo oppure un fumetto ispirato al romanzo (allora ne circolavano parecchi, alcuni molto belli, e ne appaiono di nuovi anche adesso) o se non era piuttosto un’«edizione ridotta» del libro (buona l’ultima, credo, ma chi lo sa). Sempre che il mio primo contatto col romanzo di Stevenson non sia stato né il romanzo né il fumetto, ma il film del 1941 con Ingrid Bergman (la bella) e Spencer Tracy (il dottore impasticcato).

Ai tempi, quando la televisione era ancora una mezza novità, Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, regia di Victor Fleming, candidato all’Oscar per la migliore fotografia black and white, passava spesso «sul piccolo schermo», come si diceva una volta, prima che gli schermi diventassero piccolissimi, tipo l’iPhone, o più piccoli ancora, come il mio primo iPod, che aveva uno schermo non più grande d’un francobollo (eppure io ci ho visto Ghostbusters, Lawrence d’Arabia e le tre stagioni della serie classica di Star Trek mentre marciavo sullo stepper, in palestra, macinando chilometri su chilometri senza mai arrivare da nessuna parte né togliermi mai dal punto). Immagino che, rivisto oggi, quel vecchio film babau sembrerebbe ridicolo (tutti quei peli, e quei denti, e il cilindro, le ghette) ma all’epoca mi aveva impressionato, da tenere la luce accesa sul comodino.

Solo Le sei mogli di Barbablù, quando passò in tv più o meno negli stessi anni di Jekill e Hyde, m’aveva spaventato di più: le povere soubrette da scannare, Totò sospeso sulle vasche piene d’acido, un Tino Buazzelli mannaro. Per anni, dopo aver visto le Le sei mogli di Barbablù, girato nel 1950 da Anton Giulio Bragaglia, regista nonché futurista della vecchia guardia, la faccia storta del Principe De Curtis mi è sembrata più agghiacciante di quella del Joker. Totò veniva inseguito da Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, oppure finiva tra gli esistenzialisti capresi in Totò a colori, e io pensavo che al posto degli esistenzialisti con la mossetta ambigua e l’erre moscia, o di Aldo Fabrizi in divisa XXXL da questurino, mi sarei ben guardato dal frequentare Totò, il cui sorriso sghembo e scardinato, che ai babbani poteva sembrare buffo, era in realtà un rictus satanico, una smorfia loffia. Totò aveva due anime, pensavo io. Era un attore comico, ma anche un mostro.

Avevo capito niente. Prima di tutto, e a ciascuno il suo, il mostro era Buazzelli e non Totò. E poi, anche se allora non lo sapevo e lo capisco soltanto ora, stavo confondendo Totò con Spencer Tracy, Isa Barzizza con Ingrid Bergman. Era Tracy, e non Totò, ad avere due anime.

Stevenson, col suo apologo sulla location del bene e del male, aveva riscritto la Bibbia: non Caino e Abele ma Caino-Abele. Siamo stati creati doppi, con due anime, una luminosa, l’altra no. È questo che raccontava Lo strano caso. Stevenson non aveva ancora finito d’enunciare il suo filosofema che già era storia vecchia, neanche l’avessimo sempre saputo. E non lo sapevamo, qualunque cosa ci dicessimo dopo averlo letto.

Adesso so che cosa mi piace dello Strano caso, e quel che mi piace c’entra poco col romanzo ma c’entra con l’idea che me sono fatto dopo averci almanaccato su. Alcuni non hanno orecchio per la musica o per la poesia. Io non ho orecchio per la musica, per la poesia e per il romanzo gotico. È più forte di me: le storie de paura mi fanno paura. Mi agito nel letto, senza trovare sonno, dopo aver visto L’esorcista (e persino L’esorciccio) o dopo aver letto Frankenstein e Il miglio verde di Stephen King. Mai visto un serial di zombie, nemmeno i trailer. M’impressionano, e così li evito, i film sulla Shoah – compreso Schindler’s List, di cui tutti dicono un gran bene – e confesso di non avere mai letto, sempre per non sognarmelo di notte, Se questo è un uomo. Ci sono libri sul Gulag o sulle imprese d’ayatollah, talebani e alqaedisti di cui salto intere pagine. Appena qualcuno viene arso vivo o decollato io mi teletrasporto qualche capoverso più in là. Ma Lo strano caso non è voyeurismo. È una metafora illuminante. Ergo non può essere facilmente scansata. Stevenson ne fu il profeta.

Al pari della felicità, che secondo Saint-Just era un’idea nuova in Europa, anche la natura doppia dell’homo era un’idea nuova, forse non particolarmente felice, però nuova, o abbastanza nuova, almeno in quella forma estrema. Non era la prima volta, infatti, che ricorrendo al concetto di doppiezza i filosofi s’affannavano a spiegare le difficoltà (Adorno, un ragazzo snob, le chiamava «aporie») nelle quali s’imbatte il pensiero quando gli si para di fronte qualcosa d’inspiegabile, «l’orrore! l’orrore» con cui si chiude Cuore di tenebra, la banalità del male di Hannah Arendt, Lee Marvin nell’Uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford, qualcosa insomma che fa disperare dell’umana natura, e che dà i brividi persino a chi non se ne aspetta niente di buono. Metti Iago nell’Otello di Shakespeare, metti Barbablù-Buazzelli nel film di Totò. Oppure metti il totalitarismo moderno, metti Gengis Khan, metti i terrificanti sistemi sociali d’India e Cina, oppure metti l’Unione Sovietica, come fa Karl August Wittfogel quando s’interroga sulla piega che, dopo il golpe dei bolscevichi a Pietroburgo, fino a poco prima San Pietroburgo e subito dopo Leningrado, hanno preso gli eventi, e prova a spiegarsi su quali radici prosperano le catastrofi sociali. Ma Lo strano caso era una primizia. Era cioè la prima volta che la natura doppia della natura umana, il segreto dei segreti, cioè che gli umanesimi e i disumanesimi sono (disilludiamoci) la même chose o poco ci manca, trovava il suo avatar, la sua icona o meglio, per così dire. la sua zazzera d’Albert Einstein, o di Che Guevara: Jekyll-Hyde. C’era già stato Giano, vero, ma Giano non era «bifronte» per via d’una doppia personalità, una altruista e l’altra bastarda, ma perché una delle sue facce era rivolta al passato, l’altra al futuro, tutt’altra partita.

Unde malum? Unde Hyde?
Questo era il problema che illustrava (e a cui dava risposta, una risposta pop, gotica e moralistica) Robert Louis Stevenson, che giusto tre anni prima, nel 1883, aveva pubblicato L’isola del tesoro, dove il pirata Long John Silver, gamba di legno, un pappagallo sulla spalla, la stampella, era già una specie di Jekyll-Hyde, probo o infame secondo estro e convenienza. Perché Hyde? Perché Long John Silver? Da dove arrivano costoro? Chi li ha mandati? Arimane, il dio malvagio? E Ahura Mazdā, il dio buono… lui niente, lascia fare? Führer, Duci, Godzilla, Padrini e Gruppi Wagner, Segretari Generali? Com’è che ci sono i cattivi? Perché la fetta di pane cade sempre dalla parte imburrata? La verità, vi prego, su odio, vizio e «orrore! orrore!»

Stevenson ha un’intuizione da feuilleton, diventata col tempo e l’evoluzione dei media per l’intrattenimento un’intuizione da fumetto: il male siamo noi, ce l’abbiamo dentro, e basta molto poco per far emergere il lato oscuro, un beverone, le corna, una crisi economica, insomma l’occasione che fa l’uomo peccatore. A scatenare Hyde contro Jekyll, originando il gran conflitto metafisico, può essere un trauma, come dirà poi Sigmund Freud, o anche solo una botta in testa, come capita a Pippo nei fumetti, e allora il socio di Topolino cambia carattere, da scemo diventa un’aquila, da tamarro un intellò, era generoso e simpatico, ed eccolo avaro e gretto. Questa intuizione ha, volendo, anche un suo bel risvolto teologico, perché è evidente che, se Pippo è un intelligentone come Hulk è Bruce Banner, allora nessuno può fingere stupore, tant’è vero che nessuno lo fa, se salta fuori che Ahura Mazdā è Arimane, l’Alto il Basso e la Luce Tenebra. Nessuno come i nerd, niente come la cultura pop, ha mai preso così sul serio gnostici, manichei, albigesi e dolciniani (vedi, per dire, Il nome della rosa).

Nella cultura pop del Novecento Jekyll-Hyde ha avuto più imitazioni della Settimana Enigmistica: il turista tedesco di Morte a Venezia che sembra un tranquillo compositore e invece, «Two-Face» nelle storie di Batman, lo stesso Batman cavaliere oscuro e naturalmente anche tutti gli altri supereroi in maschera con i loro poteri misteriosi e le loro identità segrete, lì a dimostrare che abbiamo tutti qualcosa da nascondere (Flash e Lanterna Verde, Paperinik, il barista qui sotto, tutt’e quattro i Fantastici Quattro). Per non parlare del Sosia di Dostoevskij, col suo spirito beffardo e distruttore, o di Darth Vader nell’interminabile ciclo di Star Wars, che in gioventù era la speranza dei Cavalieri Jedi, forse il Prescelto medesimo, maiuscola e tutto, e che poi si trasforma nel monumento a cavallo del Lato Oscuro, di nuovo maiuscole e tutto. Sappiamo come Hyde si manifesta, così come sappiamo che per lui ogni occasione per far danni è buona, ma non sappiamo altro, la sua natura è fumosa, imprecisa, scontornata come le sequenze sfuggenti e disallineate dei sogni, le sue motivazioni arcane.

Mr. Hyde, il lato oscuro, «non è facile a descriversi», dice Stevenson dando espressaione alla difficoltà (o all’aporia) di descriverlo. «C’è qualcosa che non va nella sua fisionomia; qualcosa di sgradevole, qualcosa d’assolutamente detestabile. Non avevo mai visto un uomo che mi ripugnasse quanto Hyde mi ripugnava eppure non so neanche come mai. Deve avere un che di deforme: dà una forte impressione di deformità, benché mi sia impossibile specificarne la natura. È un tipo assolutamente fuori dal comune, eppure non saprei indicare niente d’insolito. No, signore, niente da fare… non riesco a descriverlo. E non per un vuoto di memoria; vi posso assicurare, infatti, che ce l’ho davanti agli occhi anche in questo momento».

Non sappiamo a quali leggi risponda, donde arrivi, né che aspetto precisamente abbia, perché soltanto l’Hyde cinematografico è sempre dotato di caratteristiche inconfondibili in tutte le sue multiple manifestazioni: le zanne à la Friedrich March, che fu Hyde nel film di Rouben Mamoulian dieci anni prima di Spencer Tracy, la mascella sbieca di Totò, Jerry Lewis senz’ombra di trucco da lupo cattivo nelle Folli notti del dottor Jerryl. Non sappiamo, semplicemente, a che scopo il fantasma di Mr Hyde infesti il nostro DNA, ma che il gene hydiano ci sia, questo sì, lo sappiamo. Evidentemente, in un lontano passato, tra gli ominidi o prima ancora, tra nostri antenati anche più remoti e pre-scimmieschi, quando persino l’albero delle banane era ancora nel mondo della luna, agire da orchi ha rappresentato un vantaggio evolutivo. È per questa via che si è fissato, come un post-it diabolista, nel nostro codice genetico.

Per capire il perché e il percome d’un tale fenomeno evolutivo ci vorrebbe la macchina del tempo di H.G. Wells. Così come sta la faccenda, e fin quando non si potrà viaggiare indietro negli anni, ci dovremo accontentare d’un feuilleton del 1886 e dei suoi derivati cinematografici e fumettistici. Ma sulle macchine del tempo, se posso aprire qui con permesso una parentesi, non farei nessun conto: gli scienziati dubitano che ce ne sarà mai una, ahinoi, e avanzano quale prova ontologica dell’impossibilità di muoversi attraverso il tempo l’affaire del Golgota, nel senso che se viaggiare nel tempo fosse possibile allora i viaggiatori nel tempo si dirigerebbero-dirigeranno-sarebbero diretti tutti lì, sotto le croci, a farsi i selfie con Barabba e Longino, e ci sarebbe – last but not least, ultimo ma non meno importante – anche un Vangelo secondo H.G. Wells. Ma c’è un romanzo di Poul Anderson – Tempo verrà, in originale There Will Be Time, e forse ci torniamo – in cui sul Golgota, confusi tra la folla, ci sono effettivamente parecchi crononauti, tutti ben camuffati, niente AppleWatch al polso, nessuno con lo smartphone o con gli occhiali scuri. Uno dei viaggiatori si rivolge al protagonista del romanzo: «Es tu peregrinator temporis?»

Ammesso che non si possa viaggiare nel tempo, ok, non importa, consoliamoci, va bene lo stesso, che ci sono macchine del tempo a vapore: le biblioteche, i musei e la fantasia romanzesca degli storici, per venire finalmente a Karl August Wittfogel, che tuttavia non fu semplicemente uno storico, anzi fu ben altro che uno storico. Fu allo stesso tempo storico, filosofo e sociologo. Ce n’era di gente così a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Anche Marx era uno di costoro: la storia è storia delle lotte di classe, uno spettro s’aggira per l’Europa, finem historiae, il comunismo primitivo, roba kolossal. Un altro era Oswald Spengler: l’Occidente al tramonto, la danza e contraddanza delle civiltà. C’era poi Johann Jakob Bachofen, giurista e antropologo, oltre che storico: decretò ab origine una società matriarcale, da cui le moderne società patriarcali derivano, frutto di preistorici tumulti «men-lib». Non dimentichiamo Freud, appena citato: ribattezzata l’anima «inconscio», ne fece una barretta di pongo plasmata dai palpeggi delle esperienze traumatiche, e con l’inconscio tutto acquistava senso, lo stesso senso, dall’edificazione delle piramidi al motto di spirito, dai sogni al sorriso della Gioconda.

Erano filosofi, costoro e costruttori di cattedrali. Ce sono ancora, anche oggi, di simili pensatori in cinerama che proiettano le loro elaborate e barocche teorie fantasy su vasti – tra loro dissimili, e spesso (per non dire sempre) incompatibili – schermi accademici. Sono pensatori senza rete. Con un solo sguardo, e una sola idea fissa, abbracciano ogni orizzonte e spiegano ogni cosa. Ma sono talenti sempre più rari, e nessuno vale i primi della specie. Altro, e molto peggio, che viaggiatori nel tempo: il tempo sono loro.

Quanto a me, personalmente sono un fan di questi pifferai di Hammelin del piffero (ci vuole poco, come dimostrano queste pagine, a incantarmi). Si può capire che mi appassioni allo strano caso illustrato da R.L. Stevenson. Ma cosa ci trovi, onestamente parlando, in Karl August Wittfogel, teorico grossier, prosatore noioso? Ci trovo, ci trovo. In primis l’enormità.

Raccolgo queste opere monumentali e talvolta le apro a caso, come faceva Betteredge – il maggiordomo della Pietra di luna (The Moonstone) di Wilkie Collins, un romanzo del 1868 – con La vita e le avventure di Robinson Crusoe, che consultava come l’I Ching, per aprirsi la strada a colpi di machete attraverso la giungla dei giorni. Più in piccolo, io cerco le citazioni di cui sono goloso, sia per hobby sia per lavoro (fossi un porco, non le chiamerei citazioni ma perle, che per l’uso che ne faccio siamo lì). In queste opere, oltre alle seduzioni spicciole, dico le frasi tirabaci, da biscotto della fortuna, colleziono e ammiro le visioni iperboliche, i concetti spropositati, che svettano alte come grattacieli, o minacciose come mulini a vento agli occhi dell’hidalgo, sulle culture del loro tempo, negandole ed esaltandole insieme.

Wittfogel, lui, cominciò da drammaturgo nel primo dopoguerra. Fu membro del KPD, il partito comunista tedesco, quando il comunismo poteva sembrare ancora un’avventura (ma chi aveva la testa sul collo sapeva perfettamente che già non lo era più, e che anzi non lo era mai stata). Prese in fretta le distanze. Comunista di sinistra, conseguì un dottorato in sinologia. Rimanendo sempre un drammaturgo, e sempre sedotto dall’idea che cambiare il mondo poteva essere, chissà, «la più grande delle avventure», come la morte secondo Peter Pan, Wittfogel aderì alla Scuola di Francoforte intanto che scopriva l’Asia e il suo enigma. Perché libertà e diritto in Asia non facevano problema? Perché i khanati? Perché il modo di produzione asiatico, come l’aveva battezzato Marx, non funzionava in maniera razionale ma era un affare curvo, gobbo, sadomaso: schiavitù, lavoro servile, la frusta, le caste, il bushido, la pelata e i colori di guerra di Marlon Brando-Kurtz in Apocalypse Now, poi l’occhio torvo di Martin Sheen che emerge dalle acque del Mekong e (aritanga) «l’orrore! l’orrore!»

Wittfogel comprese che, dopo la prima, per numerare così la natura umana, era doppia anche la seconda natura, quella sociale, e che le comunità umane potevano essere distanti tra loro quanto Jekyll e Hyde. Già lo sapevano i greci, che una cosa sono le libere assemblee, un’altra i Gulag e le mandrie umane, una cosa l’Oriente, tutt’altra l’Occidente, di là Putin e noi di qua. Capì questo da comunista di sinistra: aveva visto avanzare Hyde in Occidente, prima via Comintern e movimenti operai filobolscevichi, poi via Wehrmacht, SS ed Einsatzgruppen a caccia di giudei. Era in corso l’ennesimo tentativo d’invasione, l’Orda d’Oro, i Turchi a Vienna, oggi Putin nel Donbass. Eravamo di nuovo lì, pensò forse Wittfogel (di sicuro non saprei, mica c’ero, ma lo credo). Eccoci, pensò, di nuovo a un passo dalle Termopili, minacciati dal Grande Re, come sempre deciso a estendere il suo Impero, infettandoci con la peste del suo modello sociale.

Quel vale per Jekyll, sempre sotto il bando di Hyde, vale anche per le società aperte, a loro volta minacciate da brutti e cattivi, dai fondamentalismi religiosi, sociali e socialreligiosi. Wittfogel lo sapeva, come lo sapeva Stevenson, ma lo sappiamo, per istinto, anche tutti noi: la possibilità della catastrofe ci scorre nel sangue, e semina memi ideologicamente mortali nelle nostre culture, specie le più progressiste, dove si nascondono meglio, agghindate da retto pensiero, woke, politically correct.

È a questo, d’altra parte, che servono le metafore: ad aprire gli occhi quando le cose si fanno confuse. Mai state così confuse, a memoria d’uomo e d’elefante, come nella seconda parte del secolo breve, che caduto il comunismo avrebbe dovuto chiudersi lì, bon, la storia è finita, ma che invece s’allunga nel XXI secolo, alimentandosi di social, guerre sante, cancel culture, brutti film, talk show. Non so se le metafore, oggi, possono erigere barricate abbastanza alte da scoraggiare gl’Imperi dell’Acqua, come li descrive (ma è un’altra storia) Wittofogel, e da esorcizzare le mattane cannibali di Mr. Hyde.

Circolano, temo, pochi libri giusti, e con giusti non intendo i buoni autori né i buoni titoli, ma i formati, le edizioni giuste. Quand’ero bambino, negli anni cinquanta e primi sessanta, c’erano collane specializzate nelle edizioni ridotte dei classici della letteratura: Taras Bulba, I viaggi di Gulliver, Tartarino, Senza famiglia, Pel di carota, L’ultimo dei Mohicani, I miserabili, Il piccolo Lord, Moby Dick, Ivanhoe, Il giro del mondo in ottanta giorni, I ragazzi della Via Paal, Zanna bianca, David Copperfield, Le avventure di Tom Sawyer. Erano libretti smilzi, facilmente leggibili, tirati un po’ via, qualche incertezza sui congiuntivi ma niente fuffa letteraria. Da passarci in perfetto relax pomeriggi interi. Erano edizioni Bemporad, o Bemporad-Marzocco, se ricordo bene, ma di sicuro ce n’erano anche altre edizioni che mi sono scordato. Erano stampati su cartaccia. Costavano due lire, oppure li potevi prendere a prestito, se eri un bambino buono, dalle biblioteche di classe, all’epoca molto fornite (dagli stessi scolaretti, che mettevano qualche loro libro a disposizione). Io ne avevo per casa pile alte mezzo metro da terra. C’erano, ricordo di preciso, anche le edizioni ridotte di tutti o quasi tutti (non so) i romanzi d’Emilio Salgàri, che non ho mai capito se mi piacesse o no, ma più no che sì. Epurato dall’aggettivazione troppo esclamativa, ripulito, igienizzato, sfrondato della prosopopea da osteria, Salgari ci guadagnava parecchio. C’era qualcosa di doppio, a pensarci, anche in lui, per tornare da dove siamo partiti una o due digressioni fa: Emilio Jekyll era uno scrittore che anelava a rispettabilità e quieto vivere, mentre Emilio Hyde anelava ai bagordi esotici e i suoi personaggi erano tutti killer e massacratori.

Fumetti e film a parte, è certamente in edizione ridotta – su qualche panchina ai giardinetti di Piazza Cavour, a Torino, o in qualche viale alberato di Alassio, o Diano Marina, nelle lunghe estati dell’Italia miracolata dal boom – che ho letto per la prima volta il romanzo di Stevenson. Avrei letto volentieri e con profitto, sempre in edizione ridotta, anche Il dispotismo orientale del professor Wittfogel, se qualcuno avesse provveduto a metterne in commercio una sintesi per piccoli bibliomani, ma niente, Bemporad o Bemporad-Marzocco non ci hanno mai pensato, e così m’è toccato spiluccare poche pagine qua e là (teleportandomi spesso da un capitolo all’altro) parecchi anni dopo, scoraggiato dall’impianto troppo dottoreggiante. Non so cosa ne avrei concluso, riguardo a nature prime e seconde, ma qualche bislacca idea da nerd sociologico mi sarebbe venuta.

Tutti parlavano malissimo, e lo fanno ancora, pomposi e incompetenti, delle edizioni ridotte, rovina dei giovani, e oggi infatti non se ne scrivono né se ne ristampano più. Ci sono, in compenso, edizioni per giovani e giovanissimi con su la scritta in caratteri boriosi e soddisfatti «edizione integrale». Fai e fai, i ridottofobi hanno ottenuto quel che volevano: che nessuno dai sei anni in su sappia più leggere niente di buono o di utile, e soprattutto niente di più complicato di Gianni Rodari. Vien da piangere a leggere i titoli dei libri che la scuola consiglia ai bambini. Ne citerei qualcuno, come per esempio Gli adoratori del ragù d’alga, o Le mitiche avventure di Capitan Mutanda, ma mi viene il magone e rinuncio.

Abolito il mercato delle edizioni ridotte dal piano quinquennale delle edizioni integrali e dei libriminchia, perché non consigliare ai giovani la lettura di buoni, solidi fumetti, diciamo Tex Willer, ranger e capo navajo? A me da bambino, quando cioè avrei dovuto leggerlo come facevano tutti, m’era un po’ sfuggito. Conoscevo in pratica giusto i primi dieci-dodici volumetti, da La mano rossa al Figlio di Tex. Avrei rimediato a New York, quattro o cinque anni fa. Era primavera, e niente, dice Meg Ryan in C’è posta per te, «è come New York in primavera». Avevo scaricato sull’iPad, prima di partire, l’intera collezione di Tex, 600 volumetti e più, e me li lessi tutti, dal primo all’ultimo, dove vivevo, nella 98th, e sulle panchine del Central Park. Un pomeriggio, mentre leggevo Tex Willer, Danny Aiello (o qualcuno che gli somigliava molto) sedette nella panchina accanto alla mia.

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La narrazione delle migrazioni nel cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2017/11/24/la-narrazione-delle-migrazioni-nel-cinema-italiano/ Fri, 24 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40108 di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito [...]]]> di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito gli elementi distintivi e ricorrenti caratterizzanti l’immaginario emigrazionistico nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, elementi successivamente ripresi e inaspriti dal fascismo con l’intenzione di esprimere una decisa contrarietà nei confronti di tutti quegli italiani che abbandonavano la patria. Tra le opere letterarie che maggiormente hanno contribuito a costruire tale immaginario relativo alle migrazioni si possono indicare gli scritti di Edmondo De Amicis quali la poesia Gli emigranti (1881), il racconto Dagli Appennini alle Ande – contenuto nel romanzo Cuore (1886) – ed il reportage giornalistico romanzato Sull’Oceano (1889), i poemetti pascoliani Italy. Sacro all’Italia raminga (1904) e Pietole (1909), oltre alla novella pirandelliana L’altro figlio (1923).

Edmondo De Amicis, autore che ha affrontato l’epopea dell’emigrazione italiana di fine Ottocento verso le Americhe attraverso registri che vanno dal reportage di viaggio, al romanzo popolare fino alla poesia, in Sull’Oceano racconta l’attraversata transoceanica, compiuta alcuni anni prima, che gli ha consentito sia di osservare gli italiani a bordo di una grande nave durante il lungo viaggio sia di raccogliere testimonianze circa i loro stati d’animo di migranti che si allontanano dalla terra d’origine.

Lo scrittore descrive l’imbarco degli emigranti nel porto di Genova tratteggiando le differenze sociali dei passeggeri, la miseria dei più, la commozione e l’angoscia al momento della partenza.

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [il piroscafo], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. […] Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. […] Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano […] Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: – Chi non è passeggiere, a terra! Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia

Nel descrivere “L’Italia a bordo” De Amicis, oltre a soffermarsi su come la promiscuità forzata a cui sono sottoposte le famiglie funzioni da acceleratore di tutte quelle dinamiche conflittuali determinate dalla difficile convivenza, si dilunga anche sulla specifica composizione sociale delle diverse classi di viaggio.

Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere […] quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore […] Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe […]. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] Della Liguria il contingente solito […] diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. […] Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia

Dal racconto emergono anche notizie circa le incombenze burocratiche e le particolari tipologie contrattuali con cui sono sfruttati gli emigranti dagli stati in cui approdano.

tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perché se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione”. Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poiché quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò nonostante, i più accettavano

Raccontando l’imminente arrivo nel Nuovo mondo De Amicis trova modo di insistere su alcuni aspetti del carattere dei propri connazionali soffermandosi sul senso di dignità che, nonostante la miseria, caratterizza questa gente volenterosa di presentarsi in terra straniera con il necessario decoro e sulla tendenza ad ironizzare sull’italico pressapochismo. La parte finale è invece contraddistinta da un crescendo di retorica patriottica.

Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, che volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici […] tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo […] Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava entro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio […] — L’America! Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia […] al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti […] come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva né vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri […] cessato il primo effetto dell’apparizione […] scoppiò a prua un’allegrezza smodata […] Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là […] si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi (da E. De Amicis, Sull’Oceano, 1889).

Per quanto riguarda Giovanni Pascoli, il suo interesse per il fenomeno dell’emigrazione è testimoniato dal poemetto in due canti Italy. Sacro all’Italia raminga riprendente le vicende realmente accadute a due fratelli emigrati dalla Garfagnana in America che fanno ritorno in patria con la piccola Molly ammalata di tisi. I due fratelli sperano che l’aria di casa e le cure della nonna possano curare la bambina. Nonostante i problemi linguistici, che rendono difficoltosa la comunicazione tra Molly, che non conosce la lingua italiana, e la nonna, si crea tra le due un forte affetto. Tragicamente alla guarigione della piccola corrisponde l’ammalarsi, fino alla morte, della nonna ed a questo punto gli emigranti ripartono alla volta dell’America. Le difficoltà di comunicazione tra la nonna e la bambina permettono a Pascoli di sperimentare nel testo un curioso intreccio di parole ed espressioni inglesi, italo-americane e lucchesi. Nel Canto secondo, dove alla guarigione della bambina fa seguito la malattia mortale della nonna, Pascoli tratta del dramma di chi, trovandosi costretto a lasciare la propria terra, finisce per rifarsi un nido altrove. L’immagine del nido abbandonato dalla rondine-madre, ricorrente nelle opere pascoliane, viene qui utilizzata per rappresentare il dramma dell’emigrazione. Nell’opera viene stabilito un parallelismo tra la madre che desidera riunire a tavola i propri figli e la patria italiana – madre ancestrale – che con un suo grande ululo ai quattro venti richiamerà a casa il sui figli dispersi in terre lontane.

Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi

Il cinema muto attinge, dunque, da tali modelli letterari, enfatizzando gli elementi melodrammatici che presentano l’emigrazione come fenomeno di distacco traumatico dalla famiglia e del paese, come viaggio verso l’ignoto in cui è possibile perdersi per strada. Nella cinematografia italiana dei primi decenni del Novecento l’emigrazione appare decisamente contrassegnata da paura, lutto, fatalità e senso di colpa.

Al fine di ricostruite le modalità principali con cui il cinema italiano ha raccontato nel corso del tempo i fenomeni migratori risulta decisamente prezioso lo studio di Massimiliano Coviello curatore del lemma “Emigrazione” nel volume curato da Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Vol. 1, (Mimesis, 2014) [su Carmilla]. Sarà proprio all’analisi di Coivello che qui si farà costantemente riferimento.

Un’idea delle modalità di rappresentazione degli emigranti italiani nel cinema muto dei primi decenni del Novecento è data dai film L’emigrante (1915) di Febo Mari e Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi. L’opera di Mari, primo film italiano senza sottotitoli, narra il fallimento di un emigrante che, recatosi in Argentina per garantire un futuro migliore alla famiglia, si trova costretto a far rientro a casa, dopo essersi trovato a svolgere lavori dequalificati e malpagati e dopo essere incorso in un infortunio. Il film di Paradisi, che riprende palesemente l’opera deamicisana, viene realizzato con finalità educative e celebrative del sacrificio compiuto per la Patria e la famiglia. Il viaggio del protagonista verso l’Argentina alla ricerca della madre, che ha abbandonato la famiglia ed il paese in cerca di lavoro, è connotato da sentimenti quali lo sconforto e il senso di solitudine. Una volta giunto nel lontano paese, il giovane riesce a cavarsela di fronte alle tante avversità incontrate grazie a qualche intervento della provvidenza. Dopo tante peripezie il protagonista ritrova la madre gravemente malata in balia dei rimorsi provocati dalla scelta di abbandonare la famiglia.

Circa la rappresentazione degli emigranti italiani tra gli anni ’30 e primi anni ’40, secondo l’analisi di Coviello

il cinema di regime addosserà alla figura dell’emigrante non solo i rimorsi per aver abbandonato gli affetti familiari ma anche l’imprudenza di aver minato la coesione nazionale e aver tralasciato gli obblighi verso la patria, colpe che potranno essere espiate solo attraverso un ritorno dai tratti epici. Nel riportare gli emigranti in patria, il cinema del periodo fascista ha sfruttato meccanismi melodrammatici per costruire l’immagine di un Paese finalmente coeso in cui diventava possibile riscattarsi e progettare il proprio futuro (p. 320).

In tali narrazioni i soggetti che fanno ritorno al paese d’origine dimenticano i motivi per cui sono emigrati e si ritrovano nel loro spazio di partenza senza alcun problema di riadattamento e consapevoli delle grandi migliorie portate dal regime durante la loro assenza. «I film del periodo fascista che raccontano storie di emigrazione sono innanzitutto una risposta alla sua causa principale, ossia la mancanza di terre coltivabili. Prima attraverso le bonifiche e poi con l’impresa coloniale, il cinema contribuisce alla costruzione di un mito della terra nel quale trovare la soluzione ai drammi dell’emigrazione» (p. 321).

Il film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano viene girato per celebrare il decennale della Marcia su Roma ed affronta il periodo che intercorre tra il 1914 e il 1932, tentando di esaltare tanto il progresso industriale promosso dal regime quanto il mito contadino. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende di una famiglia dell’Agro Pontino che passa dalla miseria nelle paludi insalubri alle bonifiche delle terre effettuate dal regime, dalla Prima guerra mondiale alla “vittoria mutilata” e dalla crisi economica di fine anni ’20 sino alla fondazione di Littoria, che consente agli emigranti di trovare un posto di lavoro ed un’abitazione. Forzano miscela materiale documentario e finzionale con intenti palesemente propagandistici e la narrazione tende ad essere scandita da alcuni elementi simbolici ricorrenti, come la bandiera italiana al cui cospetto avvengono le separazioni e le riunificazioni familiari. Come in altri film del periodo, la pellicola di Forzano insiste molto sul rapporto tra generazioni, al fine di mostrare il più possibile la continuità storica rispetto al passato.

Nel periodo coloniale, il fascismo, anche grazie al cinema, tende a riferirsi ai nuovi territori annessi come a lontane propaggini dell’Italia; il trasferimento in quelle terre remote viene pertanto presentato in maniera molto diversa rispetto agli spostamenti migratori verso altri paesi. Ad esempio, nel film Bengasi (1942) di Augusto Genina i coloni italiani che si oppongono alle truppe inglesi vengono presentati come difensori della madrepatria, della sua estensione coloniale.

Passaporto Rosso (1935) di Guido Brignone viene realizzato praticamente in concomitanza con l’inizio della campagna d’Etiopia. La pellicola è invece ambientata tra il 1890 ed il 1922 ed il titolo si riferisce proprio al documento di espatrio rilasciato dalle autorità agli emigranti. Il film è costruito su una serie di parallelismi tra gli eventi narrati e l’attualità coloniale, in modo da suggerire al pubblico una lettura dell’emigrazione come tappa necessaria, per quanto sofferta, in attesa del colonialismo fascista.
Il film narra le vicende di una coppia di emigranti italiani trasferirtisi in Argentina che si prodigano, insieme ad altri connazionali, nella fondazione della colonia Nueva Italia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il figlio dei due, che non ha mai messo piede in Italia, pur non intendendo mobilitarsi in favore della madrepatria, partirà per il fronte soltanto per sostituirsi al padre, invece intenzionato a partire nonostante l’età avanzata. Sarà la vita al fronte, sul Carso, a rivelare al giovane il significato ed il valore dell’essere italiano: «Mio padre aveva ragione, la patria l’abbiamo nel sangue». Caduto in combattimento, la medaglia al valore viene ritirata dal figlio che non ha fatto in tempo a conoscere. Ancora una volta nel cinema di epoca fascista si insiste sul passaggio di testimone tra le diverse generazioni.

Massimo Coviello, nella sua analisi, dedica spazio anche al film Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, in cui l’Africa Orientale diventa luogo d’incontro tra un padre emigrato per necessità, dopo aver servito la patria come aviatore nella Prima guerra mondiale, di cui si sono perse le tracce e suo figlio, anch’egli aviatore delle truppe fasciste e partito volontario in AOI. La guerra, nuovamente, diviene terreno di ricongiungimento generazionale. Per certi versi questa pellicola anticipa una serie di opere realizzate tra gli anni ’30 e ’40 che narrano storie sospese tra l’Italia e il continente latinoamericano, come La grande luce – Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Harlem (1943) di Carmine Gallone e Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. «In tutti e tre i film, nel pieno rispetto della struttura melodrammatica, l’emigrazione è uno spazio intermedio, più o meno temporaneo, in cui i personaggi attraversano vari stadi di trasformazione, nell’attesa che la tragedia ceda il passo al lieto fine» (p. 327).

Secondo lo studioso i melodrammi e le commedie degli anni ’30 e ’40, più che narrare di veri e propri fenomeni di emigrazione, tendono a sfruttare episodi di migrazione circoscritti nel tempo e utili all’evoluzione del racconto fino alla risoluzione dei conflitti iniziali.

Dagli anni del muto al cinema del periodo fascista, dallo sguardo deamicisiano all’obbligo morale del ritorno, sino al melodramma migratorio: l’emigrante è rappresentato come un soggetto incapace di emanciparsi e di ricollocarsi nei contesti di arrivo. I suoi drammi non si esauriscono con l’arrivo e, al contrario, si amplificano attraverso la colpa dell’abbandono (dei propri familiari, della terra d’origine). Si dovrà attendere la fine degli anni quaranta e l’avvio dei flussi migratori verso i paesi dell’Europa del Nord, l’Australia e l’America Latina perché il cinema rimoduli i sentimenti connessi allo spostamento, rivendichi la loro dimensione politica e si apra ad un cammino della speranza (p. 330).

Con il cinema neorealista cambiano diverse cose, sia dal punto di vista delle finalità che intende darsi il cinema, sia da quello delle estetiche scelte per perseguirle. A proposito di ciò scrive Coviello:

Nel regime estetico inaugurato dal neorealismo si attua una simbiosi tra la macchina da presa e il personaggio: i confini tra mostrare e vedere, tra la cattura passiva da parte di un occhio meccanico e la capacità immaginativa che si insedia nell’atto della visione, tendono a confondersi e a sovrapporsi. A partire da uno sguardo erratico ma mai inconsapevole, le logiche narrative riproducono sullo schermo il vagabondaggio, la deambulazione e lo spaesamento dei soggetti all’interno di ambienti che, deformati dalla guerra, restano ancora da decifrare (pp. 332-333).

È una realtà spaesata, quella uscita dalla guerra, quella che si trova a presentare il cinema neorealista, dunque una realtà erratica e fluttuante che fatica ad essere, che non può essere, più di tanto orienta. I personaggi di queste pellicole sono per forza di cose deboli, spaesati, erranti; sono spesso spettatori delle trasformazioni in corso e tendono ad agire in base a ciò che si trovano di fronte senza un fine consapevole.

All’illusoria riscrittura della storia, alla strumentale edificazione di un’epopea capace di coniugare le grandi opere di bonifica e l’urbanizzazione all’interno del Paese con la spinta coloniale con cui il fascismo ha tentato di estirpare le radici dell’emigrazione all’estero, il cinema neorealista contrappone una configurazione narrativa che individua nell’atto del migrare – inteso come movimento dominato dall’incertezza del soggetto che lo compie, ricerca di nuovi spazi vitali, negoziazione e riconfigurazione delle identità in rapporto ai mutamenti sociali – una delle principali forze trasformatrici, dentro e fuori i confini italiani (p. 333).

Secondo la studiosa Stefania Parigi

Tutto il cinema del dopoguerra è un cinema della migrazione, intesa come riconquista del Paese e, allo stesso tempo, come perdita delle radici, come esperienza di spaesamento, come vertigine di un’identità dispersa o esplosa. Da una parte gli spazi urbani avvolgono i protagonisti in spirali di spersonalizzazione, di squilibri e di mancanze; dall’altra il territorio fisico e culturale dell’intera Italia mostra, insieme alle sue diversità, tutta la propria natura conflittuale (S. Parigi, “L’emigrante neorealista”, in: Italy In&Out. Migrazioni nel/del cinema italiano, Quaderni del CSCI – Rivista annuale del cinema italiano, n. 8, 2012, p. 56).

In film come Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, il fenomeno migratorio viene affrontato ricorrendo all’epopea del viaggio che rivela i grandi cambiamenti geografici e sociali che costellano i percorsi. Nei due film siamo di fronte ad emigranti irregolari, privi dei requisiti richiesti per l’espatrio, a testimonianza di un fenomeno di migrazione clandestina in crescita a partire dal secondo dopoguerra nonostante le politiche ufficiali di sostegno all’emigrazione basate su accordi tra le nazioni che prevedono l’invio di manodopera italiana in cambio di materie prime.

In Fuga in Francia, seguiamo il viaggio di un gruppo di individui verso il confine e tra questi, oltre a chi è in cerca di lavoro, non manca chi intende abbandonare il paese al fine di lasciarsi alle spalle un passato in cui si è macchiato di atrocità in seno al fascismo. Nel corso del viaggio un ex gerarca viene individuato dai compagni di viaggio e da quel momento entrano in conflitto la volontà di chi intende consegnarlo alla giustizia ed il cinismo del fuggiasco pronto, di nuovo, a qualsiasi nefandezza pur di assicurarsi la libertà a scapito degli altri. Sarà il figlio di questo fascista a rompere i rapporti col padre e a facilitare la sua cattura in Francia. Siamo così messi di fronte ad una rottura generazionale in cui i figli devono essere pronti a rompere i legami coi padri quando questi si sono macchiati di colpe indelebili. La nuova Italia deve saper recidere nettamente i legami col Ventennio fascista: è questo il messaggio che si palesa nell’opera di Soldati.

Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi

Nel film di Germi, Il cammino della speranza, la chiusura delle miniere nell’agrigentino obbliga intere famiglie ad intraprendere il viaggio verso la Francia, un cammino della speranza, appunto, che li costringe ad attraversare un’Italia del tutto ignota ed il film ci mostra come ad ogni tappa di questo interminabile viaggio gli emigranti si trovino a dover riconfigurare la loro identità. I personaggi del film di Germi rappresentano un popolo in cammino che prova a rinascere dopo la tragedia della guerra. «Se Paisà (Rossellini, 1946) ripercorreva da Sud a Nord il Paese per seguirne e testimoniarne la liberazione, nel film di Germi l’attraversamento coincide con una fuga verso uno spazio poco più che sognato» (p. 335). Secondo David Forgacs in entrambe le pellicole l’attraversamento del Paese diventa l’occasione per mettere a contatto le diversità regionali in una visione globale della nazione che rinasce (D. Forgacs, “Neorealismo, identità nazionale, modernità” in: L. Venzi, a cura di, Incontro al Neorealismo. Luoghi e visoni di un cinema pensato al presente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2007).

In Stromboli, terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini compaiono diverse soggettività migranti. La profuga lituana Karin, interpretata da Ingrid Bergman, che vive “da straniera” il territorio e le regole sociali in cui è proiettata, trovandosi di fronte al rifiuto del visto per emigrare in Argentina, finisce con lo sposare un militare italiano che la conduce alla propria terra natale, l’isola di Stromboli. La coppia si trova a doversi confrontare con un tessuto sociale deformato dai processi migratori: una terra che ha visto da una parte i giovani emigrare in Australia e gli anziani fare ritorno sull’isola dopo essere stati emigranti all’estero.

In Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi, qui all’esordio come regista, si racconta di una famiglia romana costretta dalla povertà a imbarcarsi verso il Sudamerica. Dopo la partenza da Roma e le trafile burocratiche presso il Consolato argentino a Genova, i protagonisti del film si imbarcano su una nave affollata per raggiungere l’Argentina ove, tra mille peripezie, riescono a sistemarsi. Scrive a tal proposito Coviello: «Il film di Fabrizi è una minuziosa ricostruzione delle fatiche dell’emigrante al quale non manca il lieto fine con tanto di matrimonio annunciato tra nazionalità e classi sociali differenti, tra la figlia del manovale italiano e l’ingegnere edile argentino» (p. 337).

Sempre attingendo dal prezioso studio di Massimiliano Coviello “Emigrazione” si tratta ora di vedere quanto accaduto a partire dalla seconda metà del Novecento iniziando dalla rappresentazione degli emigranti italiani proposta dalle commedie realizzate tra gli anni ’50 ed i ’70, periodo caratterizzato, oltre che dalla prosecuzione dell’emigrazione verso l’estero, dalla “grande migrazione interna”, cioè da un massiccio spostamento dalle zone rurali del Sud verso le città industriali del Nord e dal cosiddetto “miracolo economico”.

Scrive a tal proposito Coviello: «Industrializzazione, esodo, inurbamento di massa, modernizzazione, miracolo economico: mentre questa successione causale di fenomeni sociali ed economici pone gli italiani di fronte a grandi cambiamenti, il cinema […] scandaglia e svela i meccanismi tragicomici, grotteschi, alla base del progresso e della conquista “forzata” del benessere» (p. 339). A titolo esemplificativo si possono citare film come I vitelloni (1953) e La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, Il boom (1963) di Vittorio De Sica.

Molti personaggi che popolano le pellicole di questo periodo incentrate sulla questione migratoria soffrono di nostalgia ma, sottolinea Coviello, con gli anni ’60, la commedia inizia a mettere in scena la deflagrazione della società negli anni del boom economico.

La soggettività introflessa su cui si fonda la chiusura nostalgica è alla base della disseminazione degli stereotipi comportamentali che caratterizzano le forme di rappresentazione commediche, grottesche e quindi in bilico tra il comico e il patetico, dell’emigrante. La riconoscibilità dell’italiano all’estero, come del meridionale emigrato al Nord, è contrassegnata da una spessa patina di cliché, ma questi ultimi, al pari di una presunta capacità di adattamento (“l’arte di arrangiarsi”), lungi dal costruire quello spazio discorsivo necessario alla negoziazione di norme e valori, sono la causa di un volontario e fin troppo esplicito disadattamento o, all’estremo opposto, di un’integrazione subita o delegata (p. 342).

Numerosi emigranti messi in scena dalle commedie degli anni ’60 e ’70, si pensi, ad esempio, a diversi personaggi interpretati da Alberto Sordi, «indossano maschere della prestazione (l’immagine del sé proposta in pubblico) attraverso un eccesso di dissonanza» (p. 342). Si tratta sovente di personaggi impostori sia con gli altri sia con se stessi, veri e propri millantatori, «caricature afflitte dal peso delle origini nei confronti delle quali non riescono a creare uno scarto, chiusi all’interno di stereotipi che li rendono estranei rispetto ai contesti di arrivo» (p. 343).

Ne Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro

la trasferta di lavoro verso la Svezia viene “deformata” già a partire dal viaggio in treno, dove il finestrino dello scompartimento si trasforma in uno schermo sul quale la voce di Sordi proietta le sue attese e lascia trasparire bellezze nordiche. Il personaggio interpretato da Sordi è un catalizzatore di pulsioni plasmate dall’immaginario massmediatico – è una guida turistica acquistata prima della partenza a orientarlo nei comportamenti – che vanno alla ricerca di soddisfacimento. Ancora una volta, non si tratta di compiere degli aggiustamenti alla propria identità, ma di imporre una differenza e di subire gli scacchi dell’estraneità. Invece, quando il desiderio è di assomigliare all’altro, Sordi lo asseconda sfruttando modelli precostituiti, “indossando” stereotipi che risulteranno fallimentari (p. 343).

Coviello sottolinea come ne Il gaucho (1964) di Dino Risi si possano individuare due diversi modelli d’integrazione fallimentare dell’emigrante. Al primo modello è riconducibile il personaggio interpretato da Amedeo Nazzari, un esempio di nostalgia patologica per l’Italia, esplicitata come anacronistica. Il secondo modello, di cui veste i panni Nino Manfredi, è quello di chi, avendo fallito nel far fortuna, si torva a dover vivere nell’ombra, tentando di celare il più possibile il suo essere straniero e povero.

La commedia è un potente strumento per esasperare e deformare molti dei temi e dei correlati passionali legati all’emigrazione. Bloccato nei cliché, all’emigrante non resta che un destino parodico. L’orizzonte commedico non garantisce alcuna negoziazione ma solo il modellamento o lo scontro grottesco con un mondo ostile. Se la colpa aveva marchiato la figura dell’emigrante durante il fascismo e imposto una dinamica narrativa fondata sul riscatto attraverso il ritorno, nel modello sentimentale della commedia l’eccesso nostalgico si manifesta anche attraverso l’impossibilità del rimpatrio. Chiusura nel sé, incapacità di comunicare con l’altro o, al contrario, conformazione, assuefazione: le forme della commedia scandagliano i tratti patologici della nostalgia attraverso maschere consonanti o dissonanti rispetto a modelli sociali già infermi (p. 346).

Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola

In film come Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Tutto a posto e niente in ordine (1974), entrambi di Lina Wertmüller, il mondo operaio di chi ha lasciato il Sud per stabilirsi al Nord è presentato come esasperato dalle conflittualità tanto politiche quanto amorose. In Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola, attraverso la parabola di un pugile fallito che diviene minatore in Alaska, si racconta il desiderio di chi, intendendo riscattarsi socialmente, finisce travolto dalla frenesia consumistica lungo le strade di Chicago.

Coviello si sofferma anche su un paio di commedie dei primi anni ’80 in cui ravvisa il tentativo di abbandonare o di denunciare i cliché, dopo averli subiti: Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone e Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi. Uno degli episodi che strutturano il primo dei due film, incentrato su personaggi che attraversano l’Italia per recarsi a votare, ha come protagonista Ametrano, un emigrante lucano trasferitosi a Monaco di Baviera che fa ritorno in Italia proprio per recarsi alle urne al paese natale. Il tragitto compiuto da questo emigrante si rivela un incubo costellato da una serie interminabile di angherie: l’Italia si rivela del tutto inospitale nei confronti di chi vi fa ritorno, seppur momentaneamente, dopo essersi trasferito all’estero. Nella commedia di Troisi, invece, il protagonista tenta di opporsi allo stereotipo che identifica per forza di cose nel napoletano presente al nord un emigrante. Ad essere rivendicato dal protagonista è il “diritto al viaggio”, «la possibilità di trasformare la sua identità, senza per questo doversi allontanare dalle sue origini culturali» (p. 347).

Nell’ambito delle migrazioni comprese tra gli anni ’50 e ’70, le difficoltà di integrazione sono al centro di diverse pellicole che adottando prevalentemente il tono drammatico. Nel cortometraggio Il bar di Gigi (1961) di Gian Vittorio Baldi, ad esempio, vengono documentai gli incontri in un bar che funge da punto di ritrovo a Torino per molti emigranti, mentre in Fata Morgana (1962) di Lino Del Fra ad essere documentate sono le storie degli emigranti in viaggio sul treno che dal Sud li porta a Milano.

In Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti si mostrano le vicissitudini di una famiglia costretta a lasciare il Sud, dopo la morte del padre, in cerca di lavoro nella Milano industriale. A proposito di tale pellicola scrive Coviello: «Man mano che la trasformazione identitaria, le prospettive di integrazione e l’assorbimento nella vita urbana si manifestano […], l’integrità del nucleo originario, l’iniziale coesione familiare si disgrega» (p. 349). Se il contatto col nuovo spazio urbano settentrionale in cui viene a trovarsi a vivere segna il disfacimento della famiglia meridionale, nel film Così ridevano (1998) di Gianni Amelio c’è chi opta per una volontaria autoesclusione dalla città e dalla società in cui si trova proiettato e l’unico contatto che ha con esse è dato dal luogo di lavoro, mentre il resto delle giornate è trascorso frequentando solo gli scantinati fatiscenti abitati dai suoi pari. L’emigrante catapultato all’interno dei cancelli della grande industria del Nord, costretto a fare i conti con la catena di montaggio, è invece raccontato da Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat Nam (1973) di Ettore Scola, film che ricorre anche ad alcune immagini documentarie.
Se ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi si narra il trasferimento dalla campagna brianzola alla metropoli milanese, nel film I fidanzati (1963) il medesimo regista focalizza invece l’attenzione su un individuo che si trova a dover affrontare una trasferta lavorativa in una Sicilia rurale, passando le sue giornate tra la desolazione dei caseggiati industriali ed un mondo contadino a lui del tutto sconosciuto.

Non mancano nemmeno film che fanno riferimenti a tragici episodi reali che hanno toccato gli emigranti italiani all’estero. Nel film La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer, ad esempio, la lunga sequenza che mostra i minatori intrappolati rimanda palesemente al disastro consumatosi soltanto qualche anno prima, nel 1957, nelle miniere di Marcinelle, in Belgio, ove hanno lasciato la vita tanti emigranti italiani.

Nel cortometraggio Emigranti (1963) di Franco Piavoli viene mostrato lo spaesamento generato dalla grande stazione ferroviaria di Milano negli emigranti che

manifestano la loro incapacità di adeguamento, l’impossibilità di acquisire punti di riferimento. Lo spaesamento indica quella condizione di radicale incapacità di gestione dell’ambiente circostante, a cui si accompagna la consapevolezza di essere fuori posto. D’altra parte, la condizione di spaesamento contraddistingue anche il viaggio di ritorno e il reinserimento del migrante. A partire dall’interazione tra i ricordi personali e l’ambiente considerato familiare, il soggetto ha bisogno di rintracciare, attraverso quelle forme di interazione quali il discorso o la memoria collettiva, gli elementi che suturino il divario, temporale e culturale, accumulato. Il rischio è la percezione di un sentimento di duplice estraneità, all’interno e all’esterno della propria dimora (p. 352).

A partire dagli anni ’90 l’immigrazione verso l’Italia inizia a divenire un fenomeno importante, vissuto ed affrontato dal mondo politico, non senza una nutrita dose di demagogia, soprattutto come “emergenza da arginare”. Il cinema italiano nell’affrontare la questione di questo diverso e nuovo tipo di immigrazione ha spesso elaborato particolari modalità di rappresentazione, come ad esempio il miscelare fiction ed immagini documentarie di repertorio.

I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come vengono rappresentati gli zombie in molti film e serie televisive, come folla indistinta, come orda trasandata che avanza mettendo in pericolo la vita delle comunità civili. Si tratta di un vero e proprio processo di deindividualizzazione quello operato dai media nel rappresentare i nuovi arrivati che finisce con l’agire in profondità nell’immaginario collettivo.

Dai cinegiornali di epoca fascista al racconto cinematografico delle migrazioni, l’inquadratura oggettiva, il totale, è espressione del controllo sul territorio e sui corpi compressi nello spazio inquadrato. Il totale delle navi sovraccariche di migranti – inquadratura che esclude il punto di vista soggettivo – collabora alla costruzione della massa migrante, insieme compatto in cui le singolarità si annullano. I mass media nazionali mostrano, spesso attraverso le immagini prodotte dagli stessi apparati legalizzati di cattura ed espulsione, i profughi che da alcuni decenni sbarcano sulle coste italiane come un insieme ammassato su imbarcazioni di fortuna. Attraverso questo registro stilistico – esemplificato dal totale dall’alto che esprime un punto di vista estraneo alla diegesi (oggettiva irreale) – si realizza un processo di fusione che degrada e dissolve le identità in una massa (p. 356).

Lamerica (1994) di Gianni Amelio

Si può individuare una data precisa in cui i media italiani hanno iniziato a trattare i fenomeni migratori: l’8 agosto 1991, quando il mercantile Vlora approda al porto di Bari con a bordo ventimila albanesi in fuga dalla miseria ed attratti dall’immagine dell’Italia offerta dai canali televisivi italiani captati in Albania. A quell’evento si ispira il film Lamerica (1994) di Gianni Amelio, il cui incipit propone un parallelismo tra le immagini dei cinegiornali di epoca fascista che raccontano l’annessione “civilizzatrice” dell’Albania al Regno d’Italia (1939-1943) e l’arrivo degli albanesi lungo le coste pugliesi nei primi anni Novanta. In questo intreccio di immagini del passato e del presente, immagini documentarie ed immagini di fiction, si ha una moltiplicazione dei piani temporali utile a ricomporre i legami tra i fenomeni migratori. All’intreccio tra passato coloniale ed immigrazione albanese, si aggiunge la storia del protagonista del film, un militare italiano che alla fine della Seconda guerra mondiale non riesce a far rientro in Italia e resta in Albania sotto falso nome per evitare guai. Restato senza identità, il protagonista perde totalmente la nozione del tempo tanto che, pensando di trovarsi ancora negli anni ’40, s’imbarca su una nave stipata di albanesi in fuga dal paese immaginando di emigrare in America. Sul finale del lungometraggio Amelio inserisce un palese riferimento alle immagini televisive del mercantile Vlora preoccupandosi però di scomporre nelle sue singolarità la massa di emigranti sull’imbarcazione attraverso primi piani dei volti dei passeggeri e sguardi in macchina rivolti allo spettatore. L’autore si oppone così a quel processo di deindividualizzazione operato dai media nel mostre l’arrivo dei migranti.

Lo scritto di Coviello, a proposito dell’arrivo del mercantile Vlora al porto di Bari, cita anche La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e Anija (2013) di Roland Sejko, due produzioni documentarie che ricorrono ad immagini di archivio rimontate e rielaborate attraverso zoom, rallentamenti e modifiche cromatiche per farle dialogare con racconti di alcuni protagonisti di quel viaggio verso l’Italia. «Queste interviste costituiscono il controcampo delle immagini di repertorio e se ne discostano non solo perché girate nel presente ma anche perché danno un volto e una voce agli individui prima compressi nella massa anonima, in quell’orda che i media dell’epoca hanno commentato e rappresentato come una minaccia» (p. 359).

Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese

Paolo Lago, nel libro La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016), nel capitolo dedicato alle “Navi emigranti e dell’esilio”, si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. A tal proposito scrive lo studioso: «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione” si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea Lago, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti.

Tornando ai migranti che giungono sulle coste italiane, Paolo Lago si sofferma invece su Terraferma (2011) di Emanuele Crialese. All’arrivo in Italia i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello subito un secolo prima dai migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi. Nel film viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

A proposito di Terraferma Coviello, nel suo studio, sottolinea come la figurazione dell’indistinto raggiunga i suoi estremi:

Mentre all’inizio del film il peschereccio sul quale lavorano alcuni dei protagonisti avvista in mare un gommone e porta in salvo un gruppo di migranti, nella seconda parte questi ultimi riappaiono nella notte, alla stregua di un banco di pesci. Eliminato il mezzo di trasporto, i naufraghi nuotano all’unisono nel mare buio non appena intravedono una fonte luminosa, per poi essere brutalmente allontanati a bastonate. La sequenza è speculare a una precedente in cui i turisti in villeggiatura affollano un’intera barca e, al ritmo di Maracaibo, ballano in attesa di tuffarsi. Senza soluzioni di continuità sembra possibile passare dalle navi che salpavano per il “nuovo mondo” [come nel film Nuovomondo] ai gommoni che approdano lungo le coste pugliesi e siciliane. Ciò che si sottopone al processo di indistinzione risulta facilmente assimilabile, “digeribile” oppure, proprio perché reso irriconoscibile, espulso. Pur producendo effetti opposti – nel primo caso il superamento del confine, l’esclusione nel secondo –, le due procedure non hanno conseguenze molto differenti. Infatti, in entrambi i casi, il processo di traduzione e negoziazione delle soglie tra le culture viene ostacolato e, nel caso dell’espulsione, annullato (pp. 360-361).

Con la globalizzazione non sono spariti i confini:

Pur mantenendo il suo statuto di tecnologia giuridico-politica utile a regolare il regime della legalità attraverso la dicotomia accesso/espulsione, il confine si è deterritorializzato, separando le sue funzioni di controllo dallo spazio cartografico, e diventando condizione esistenziale, dispositivo biopolitico in grado di determinare le possibilità di vita o di morte per coloro che tentano di raggiungere l’Europa. Il dispositivo di assoggettamento del confine implica meccanismi di soggettivazione che costringono il migrante a rendersi invisibile […], bruciando i documenti […] o nascondendosi nelle navi cargo e nei traghetti. I confini “virtuali”, deterritorializzati, sono le stesse imbarcazioni che trasportano i migranti nel Mediterraneo e che vengono monitorate e spesso respinte dagli organismi di sorveglianza delle frontiere (pp. 361-362).

Nel documentario A Sud di Lampedusa (2006), di Andrea Segre, Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, si racconta l’attraversamento del deserto del Sahara da parte di tanti migranti attraverso camion di trafficanti senza scrupoli. In Come un uomo sulla terra (2008), di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer, la migrazione libica è invece raccontata direttamente da Yimer che partecipa all’opera sia come testimone-narratore sia come regista che, con la sua videocamera, registra storie per poi compararle con i documenti televisivi.

In Mare chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti, si raccolgono le immagini e le voci registrate direttamente dai migranti con l’intento di mostrare punti di vista diversi da quelli messi in onda dalla televisione italiana a proposito dei flussi migratori. Il punto di vista dei migranti raccolto attraverso i loro smartphone documenta la disumanità dei respingimenti in mare. Dei CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, presenti in molte città italiane, si occupano alcuni documentari come, ad esempio, In nome del popolo italiano (2012) di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, La vita che non Cie (2012) di Alexandra D’Onofrio ed EU 013. L’ultima frontiera (2013) di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese.

Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi

Una serie di opere documentano gli ambienti degradati in cui si trovano a vivere i migranti ed il loro venire a contatto con gli ambienti benestanti delle città. Appartengono a tale filone opere come Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Terra di mezzo (1996) ed Ospiti (1998) di Matteo Garrone, Civico 0 (2007) di Francesco Maselli, Good morning Aman (2009) di Claudio Noce. Storie di solidarietà sono narrate da Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi, ove si racconta di una chiesa ormai chiusa al culto in attesa di essere sconsacrata che diviene rifugio per un gruppo di individui definiti “clandestini” dalla legge italiana ed “ospiti del Signore” dall’anziano parroco locale, ed in Isole (2011) di Stefano Chiantini.

Una parte della recente cinematografia italiana ha provato a raccontare l’attraversamento della penisola da parte degli immigrati, i loro sentimenti dello spostamento, scegliendo di restituire allo spettatore l’azione di uno sguardo “altro” che prova a collocarsi all’interno di un paesaggio spesso deturpato dall’azione umana, nella precarietà dei luoghi di lavoro, tra i pregiudizi della socialità (p. 366).

Pummarò (1990) di Michele Placido racconta di un immigrato ghanese che, intenzionato a raggiungere il Canada, decide di far visita al fratello in Italia. Durante l’attraversamento della penisola alla ricerca del fratello, il protagonista incontra le varie forme di sfruttamento a cui sono sottoposti i migranti. Una storia analoga è raccontata dall’opera documentaria Lettere dal Sahara (2005) di Vittorio De Seta ma, in questo caso, il protagonista, dopo aver subito le angherie riservate ai migranti, decide volontariamente di far ritorno in Senegal, ove racconta la sua tragica esperienza italiana ad altri suoi compaesani. Il resto è storia dei nostri giorni tutta da scrivere, filmare, raccontare e, soprattutto, determianre.

Ricapitolando

Il cinema italiano da inizio Novecento ai nostri giorni ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Nei film in cui la migrazione è considerata una colpa ed un rimorso doloroso, il ritorno si propone come via obbligata per la redenzione. Il cinema fascista e quello coloniale tendono a nascondere le cause politiche ed economiche del fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre invece esaltano la figura del colono in quanto artefice del progetto espansionistico. Tra gli anni ’30 e ’40, la cinematografia nazionale riduce l’emigrazione ad un fatto individuale, senza mai mettere in luce le dinamiche che determinano migrazioni di massa. Al termine della Seconda guerra mondiale, il cinema neorealista ha affrontato il fenomeno ponendo l’accento sul riscatto sociale cercato attraverso l’emigrazione. La commedia, dagli anni ’60 agli anni ’80, ha dato immagine ad una figura dell’emigrante schiacciata tra la nostalgia delle origini e l’integrazione forzata e ha dato vita ad una galleria di personaggi spesso grotteschi costruiti sui cliché dell’italiano all’estero e del meridionale al Nord. Negli anni ’90, il cinema nazionale ha iniziato ad affrontare le migrazioni verso l’Italia ed il confronto con l’altro ha spesso fatto ricorso a soluzioni espressive in cui immagini documentarie e finzione si sono spesso intersecate al fine di «costruire un immaginario con cui disinnescare le retoriche massmediatiche, le barriere culturali e i dispositivi biopolitici che relegano i migranti nella condizione esistenziale di confinati […] Attraversando la storia delle migrazioni e dei fili che le intrecciano sino al presente, il nostro cinema si affaccia sul contemporaneo e ci offre immagini in cui scoprire l’altro e ripensare la nostra identità» (p. 370).
 

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