Aldo Capitini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera» https://www.carmillaonline.com/2024/11/21/bologna-1980-la-bomba-per-me-scoppio-la-sera/ Thu, 21 Nov 2024 22:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85372 di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola [...]]]> di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.

È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:

Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.

Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:

Dopo aver vagato a lungo per le strade che corrono intorno all’ospedale a un certo momento mi trovai a fianco un giovane che silenziosamente mi seguiva. Allora incominciai a parlare, a raccontare di mio figlio, delle sue condizioni, delle sue menomazioni, del suo stato d’animo e delle mie certezze che tutto si sarebbe concluso ancor più tragicamente. Lui seguendomi nel peregrinare mi ascoltò a lungo, ogni tanto cercava di dirmi qualche cosa, ma io non capivo le sue parole e non mi importava di non capirle. […] Stanchi di camminare ci sedemmo sul ciglio di pietra di un marciapiede e lì continuai a lungo il mio soliloquio, ogni tanto interrotto da un momento di commozione più intensa dovuta a un ricordo più caro. Era tardi, ci salutammo.

Il giovane misterioso è un personaggio liminare, affacciato sulla soglia fra l’impossibile e la realtà: un doppio del figlio? un’ombra venuta da non si sa dove? o semplicemente uno dei tanti bolognesi che vollero portare solidarietà come potevano, anche solo con un po’ di compagnia, di umanità? L’episodio va preso così com’è, col suo tesoro di senso e nonsenso, senza pretese.

Secci è ancora più sincero e forte quando ci si offre con l’interrogativo del superstite:

Mi sentivo in colpa, la colpa di non aver saputo difendere Sergio dalle avversità della vita che ora avevano finito per travolgerlo. Non ero stato un padre capace di difendere la mia creatura dall’attacco mortale che gli era venuto da una società in cui gli egoismi, la difesa dei privilegi e la lotta per assicurarsene una parte sempre più grande era ancora e rimaneva il motore principale delle azioni di coloro che avevano in mano il potere. Mi sentivo impotente e avevo chiara, evidente la misura delle mie modestissime possibilità. Avevo lottato, con notevoli sacrifici nel corso della mia vita, per ideali altruistici, per imporre almeno un limite agli egoismi e ai privilegi. La strada era ancora tanto lunga, seminata di tanto dolore e di tanto pianto, ma non era stata ancora percorsa tutta.

Insomma, senso di colpa. Ingiustificato, ovvio. Come al solito, a portarne il peso sono i migliori, gli onesti: gli innocenti. Le carogne non hanno scrupoli. Ma è un senso di colpa che non invischia, non imprigiona: presto è affiancato dalla consapevolezza delle cause storiche e sociali del lutto, per essere affrontato collettivamente e concretamente. Subito la narrazione si allarga: attivismo cittadino, soccorsi, energie.

E subito comincia la critica alle autorità, perché lo stragismo, fascista e addomesticato agli interessi padronali, nel 1980 miete vittime già da oltre dieci anni, impunito. Ai funerali ufficiali ci sono poche salme perché 68 famiglie le portano via prima:

I familiari di queste vittime si erano rifiutati di partecipare alla cerimonia comune, di attendere i discorsi ufficiali, le bandiere e tutta quella liturgia che ormai già per troppe volte aveva accompagnato fatti di questo genere. Erano le prime avvisaglie di una riservata e silenziosa contestazione che non aveva nulla di emozionale ma che si radicava in una seria e meditata mancanza di fiducia nei vari organi dello Stato. Lo Stato non era stato capace di difenderli contro la violenza, di conseguenza non aveva il diritto di curarsi di loro, dopo morti.

Ed è chiaro che l’impunità del prima è la migliore garanzia per ciò che accade dopo:

Le stragi che avevano preceduto quella di Bologna avevano insegnato come fosse facile per terroristi, spioni, servizi di sicurezza, personaggi con responsabilità accertate, ottenere l’impunità giudiziaria. Queste protezioni avrebbero raggiunto anche lo scopo di permettere la continuazione e il rafforzamento di quel tipo di terrorismo.

La continuazione non è solo ripetizione; siamo di fronte a una diversa versione della continuità, quella dello Stato italiano – burocrazia, personale in divisa, magistratura – , tra fascismo e democrazia: in fondo, è un altro volto della continuità studiata da Claudio Pavone. E infatti, nella strage di Bologna si sente l’eco dell’occupazione del paese, del collaborazionismo, di Salò. Il crimine, del resto, come altre stragi degli anni Settanta e Ottanta, e come la più grave delle stragi nazifasciste in guerra, quella di Monte Sole, colpisce sulla direttrice che unisce la Valle Padana all’Italia centro-meridionale: si mira anche all’Unità d’Italia, nelle pieghe del bersaglio c’è il Risorgimento.

L’esigenza di giustizia è senza compromessi; Secci non cede a retoriche intimiste. Non ci sono neanche surrogati riparazionisti, come quelli che dal 2008, con la connivenza di governi, autorità, storici famosi, hanno ostacolato i risarcimenti delle stragi nazifasciste commesse dal 1943 al 1945:

Il perdono può essere del singolo, in quanto sentimento privato chiuso nella coscienza di ognuno e quindi non giudicabile dall’esterno. Ma quando la collettività viene offesa con orrendi delitti come le stragi indiscriminate, non può perdonare finché sussistono i motivi di condanna, in quanto deve difendere la sua propria essenza[1].

Severissima, Anna Maria Montani: ha perso la madre e non accetta il risarcimento offerto dallo Stato. «“Cento milioni per testa di morto”, secondo il decreto del governo. “Non li voglio. Li sento sporchi di sangue. Se quelli vogliono fare qualcosa cerchino chi ha ammazzato”»[2]. Proprio lei accetta i funerali di Stato, sì, ma solo come occasione per dire basta alle autorità, e in chiesa non stringe neanche la mano del presidente Sandro Pertini.

L’unione fa la forza. Oltre all’Associazione tra i familiari del 2 agosto, nel 1983 nasce l’Unione dei familiari delle vittime di stragi, che riguarda le stragi fasciste, compresa quella di Bologna. Il gruppo incontra difficoltà:

Cozzammo contro ostacoli insormontabili di miopia politica, di settarismo, di scetticismo, di sfiducia nei risultati, ma non ci lasciammo convincere e non ci lasciammo fermare, li superammo tutti pensando che le stragi avevano molte cose in comune e che perciò ciascuno di noi, chiedendo giustizia per sé, l’avrebbe chiesta per tutti.

Fra gli scopi dell’Unione c’è una modifica legislativa per vietare il segreto di Stato sulle stragi (e una proposta simile era già nel primo programma dell’Associazione). Così ad Arezzo, al convegno La vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, Secci incontra il magistrato Marco Ramat, che prepara una bozza di intervento sulla legge 801 del 1977. Le idee sono chiare:

Il segreto di Stato nei processi per strage aveva sempre fermato i giudici nel corso delle loro indagini, pensavamo che al processo di Bologna sarebbe accaduta la medesima cosa, occorreva quindi prevenire questa eventualità. […] Non permettendo più il segreto, l’impunità, per questo crimine, cadeva e coloro che avevano pensato ed eseguito la strage sarebbero stati perseguiti senza ostacoli dalla giustizia[3].

Raccolgono le firme. Ci sono promesse di aiuto non mantenute; li riceve il presidente del Senato, Francesco Cossiga, e anche lui promette. Consegnano la proposta il 25 luglio 1984 e la data non è casuale: «Il 25 luglio era caduto il fascismo, il 25 luglio 1984 speravamo che cadesse il segreto di Stato per le stragi».

Secci non vedrà la limitazione del segreto di Stato, che sarà legge nel 2007, durante il secondo governo Prodi. C’è chi semina perché altri raccolgano.

Il comportamento di alte autorità, compresi nomi considerati affidabili, è un misto desolante di disattenzione, pochezza o peggio. L’Associazione sollecita invano la discussione di interpellanze alla Camera; quindi, a marzo 1983, manda un telegramma alla presidente, Nilde Iotti:

Familiari vittime strage Bologna ritengono offensivo, mortificante e antidemocratico comportamento Camera da Lei presieduta che dal mese di luglio 1981 malgrado insistenti solleciti non ha trovato il tempo necessario alla discussione di cinque interpellanze sulla strage mentre per Sua decisione si giunge a programmare anche prossime sedute straordinarie notturne per svolgere discussione relativa al ritorno in Italia del signor Umberto Savoia[4].

La presidente è da una vita una dirigente del Pci e ha fatto parte della Costituente; però la strage fascista aspetta e si discute su un passo indietro rispetto alla Costituzione (e quanta dignità, in quel «signor» Savoia).

Le vittime scrivono più volte a Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro e in seguito presidente della Repubblica. Hanno buoni motivi: «In più di un’intervista Scalfaro, allora ministro degli interni, aveva fatto comprendere che le stragi non derivavano dalla deviazione dei servizi segreti ma dalle deviazioni del potere politico»[5]; però non c’è risposta. Gli scrivono ancora:

In un articolo del 30 gennaio [1988] Lei scrive di «colpevoli silenzi di fronte alla turbativa della verità sul terrorismo». A noi non risulta che Lei abbia ancora riferito ad alcun giudice quanto disse di sapere e di ciò La riteniamo gravemente colpevole. Noi pensiamo che chi conosce certe verità e non le denuncia favorisce il permanere del terrorismo e il ripetersi delle stragi. Per questa ragione l’Associazione Le rinnova l’invito a riferire alla magistratura tutto quanto è a Sua conoscenza che possa contribuire all’accertamento della verità, sulle trame eversive che si sono abbattute sulla democrazia nel nostro paese[6].

Neanche stavolta, Scalfaro risponde.

La correttezza è notevole. Per esempio, Secci, quando riceve lettere da un imputato della strage, le consegna agli avvocati di parte civile perché le diano ai magistrati. Le virtù non sono apprezzate, anzi:

La nostra richiesta di giustizia e verità era martellante e continua e a un certo momento per ostacolarla si cominciò a dire che coloro che chiedevano incessantemente giustizia erano dei «caini»[7].

Forse non c’è da stupirsi. Pochi anni fa, quando le vittime delle stragi belliche hanno chiesto giustizia, qualcuno ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[8].

Naturalmente si fanno avanti possessori di verità. Nel 1983 Secci è avvicinato da un uomo che dice di essere un agente di un servizio segreto straniero e un giornalista; sostiene che a Bologna è stato usato un esplosivo speciale, piccolo come una moneta.

Sia singolarmente sia come Associazione, Secci pubblica sui giornali annunci a pagamento con frasi come «Sergio Secci – Morto in un giorno di sole / per una bomba incosciente. / Ma vive d’insana follia / chi mi ha negato il presente»; oppure «La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannia» (sono parole di Pascal); o ancora «Strage di Bologna 2 agosto 1980. Chi copre i terroristi è un terrorista». In seguito le pubblicazioni vengono rifiutate e le rimostranze non hanno risposta. Nel 1986 è «la Repubblica», dopo aver incassato il prezzo, a rifiutare la pubblicazione di: «Strage di Bologna. Sergio Secci, anni 24. Chi ha deciso di ammazzarlo?»; la domanda è elementare ma il quotidiano restituisce il denaro. Caparbio, il volume mostra la ricevuta.

Il processo e ciò che gli accade intorno svelano un abisso fra due Italie. Davanti alla Corte compare Francesco Pazienza:

Per ogni fatto cercava e tirava fuori dalla sua capace borsa un foglio, un documento che secondo lui lo scagionava. Pazienza chiamava sempre in causa personaggi importanti per darsi importanza, per influenzare favorevolmente la Corte. Con il suo mellifluo comportamento cercava di entrare nelle grazie di tutti[9].

Il name-dropping è tipico degli ambienti striscianti, del sottobosco che vuole emergere. Secci ha altre radici, le sue parole sanno di pulito e di necessario come il sapone:

L’operato di Francesco Pazienza da quanto è risultato dalle indagini giudiziarie e confermato da sentenze non è sostenuto da ideologia. È un soggetto partorito da una cultura intrisa di falso perbenismo, di massoneria, di affarismo e di costante ricerca di privilegi a danno degli altri, non lo hanno mosso né idee politiche né il dovere che incombe sul militare, ma ha agito solo per denaro e quindi non è altro che un «terrorista mercenario»[10].

Quando sfilano come testimoni i feriti c’è qualche amarezza:

Alla domanda rivolta dal presidente ai feriti se dopo sette anni erano guariti, rispondevano tutti affermativamente, anche quelli che portavano ancora evidenti i segni delle lesioni subite; perché vergognarsi di essere vittime?.

Già, perché? La coscienza retta di Secci si tormenta.

Quando poi è respinta un’istanza di libertà provvisoria del fascista Paolo Signorelli, e la difesa protesta, c’è una lettera degli avvocati di parte civile al presidente della Corte, ben precisa:

Appare chiaro che l’intolleranza verso la parte civile, che è una parte processuale che sta legittimamente esercitando il proprio diritto nel processo, così come manifestata dall’avv. Bordoni [difensore di Paolo Signorelli] è del tutto fuori luogo. […] Il processo fino ad ora si è svolto con un rispetto delle garanzie processuali degli imputati particolarmente accentuato, mai contrastato dalle parti civili[11].

Anche considerando il modo in cui le parti civili sono state trattate nei processi sulle stragi belliche, a partire dal primo caso in cui la Germania è stata chiamata in causa in sede penale per i risarcimenti, cioè dal processo del 2006 sulla strage di Civitella, si sente quanto vale la presenza di una parte civile risoluta[12].

Sempre al processo su Bologna, nel 1987, depongono anche pentiti e fascisti estranei al crimine ma al corrente di elementi utili; fra loro Angelo Izzo, colpevole del delitto del Circeo del 1975:

Detenuto per un orrendo crimine comune, molto intimo in carcere degli elementi di destra, tanto da raccoglierne le confidenze. Confermò e ampliò i suoi precedenti interrogatori, sgomberando il terreno da ogni dubbio sulla veridicità delle sue affermazioni[13].

Da una parte le vittime che si organizzano, col perito industriale Secci che sente le sue «modestissime possibilità» ma mette in pratica i suoi ideali contro egoismi e privilegi; dall’altra i conciliaboli fra uno stupratore assassino e i fascisti, che in carcere fanno comunella perché annusano a vicenda i loro trascorsi.

Se a fiutare aria cattiva sono le vittime, invece, si tirano indietro, a costo di rinunciare al palcoscenico. Nel 1985 sono invitate in televisione da Maurizio Costanzo e rifiutano:

Non abbiamo ritenuto di dover discutere del crimine della strage del 2 Agosto con il signor Costanzo, membro di quella Loggia P2 che dallo stesso Parlamento viene indicata come il centro occulto «che svolse opera di istigazione agli attentati» che hanno insanguinato il paese e che può ritenersi «in termini storico-politici gravemente coinvolta anche nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale»[14].

Il 16 aprile 1988 – dopo la requisitoria del pubblico ministero al processo, e prima delle arringhe delle difese – a Firenze c’è il convegno Massoneria e architettura, in cui il gran maestro Armando Corona esclude o minimizza le colpe di Licio Gelli. L’Associazione prende posizione:

Contrariamente a quanto da Lei affermato in merito all’estraneità, negli attentati e nelle stragi, di Licio Gelli, La informo che dai documenti riportati nella relazione della Commissione di inchiesta sulla Loggia P2 risulta che tale Loggia, dallo stesso Parlamento, viene indicata come il centro occulto che svolse opera di istigazione agli attentati che hanno insanguinato l’Italia, e che può ritenersi in termini storico-politici gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Recenti condanne confermano questo giudizio[15].

Magnifico per la fermezza contro tutte le ipocrisie, Cento milioni per testa di morto merita di essere riconsiderato, adesso che una nuova sentenza ha ribadito le colpe della P2, di fascisti e di livelli dello Stato nel massacro. Tutto ciò, a proposito di piduisti, tenendo presente che Secci ha fatto in tempo a vedere al governo il più ricco e potente di loro: un nome che oggi è un punto di riferimento per chi è al potere.

All’infinita autostima di Berlusconi, alla sua immagine smodata anche nell’età avanzata e nella morte, va contrapposta una cosa accaduta a Bologna, subito dopo l’eccidio:

Il numero dei morti si profilava talmente alto che si pensò subito di trasportarli all’obitorio con un autobus; la cosa sembrò straordinaria, fuori dalla realtà, ma poi risultò pratica e a tale scopo si adeguò l’autobus n. 4.030 della linea 37. I vetri erano stati internamente coperti da lenzuola, sul pavimento era stata gettata della segatura.

Il mezzo pubblico è adattato a un uso anomalo, con l’aiuto dei lavoratori. Dentro l’episodio ci sono un’intercambiabilità apparente di morte e vita (quella di chi usa i mezzi pubblici) e, più in profondità, un timbro che Aldo Capitini avrebbe chiamato compresenza dei morti e dei viventi. L’autobus della linea 37 che va dalla stazione all’obitorio, segnando la città, è un ultimo taglio e una prima sutura, una linea d’ombra: la comunità si prende carico, si muove, anche forzando le regole. Intanto le ricostruisce: chi era alla stazione usava un mezzo pubblico, e con un mezzo pubblico, insieme agli altri, si avvia per l’ultima volta. Proprio Capitini, vertiginoso, scrive: «Perché come si potrà apprezzare la liberazione se non saranno con noi anche i morti a festeggiare?»[16].

 

 

[1] Torquato Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, Targa Italiana Editore, Milano 1989, p. 144.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ivi, p. 142.

[6] Ivi, p. 158.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Sono parole di Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, lanazione.it.

[9] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 146.

[10] Ivi, p. 154.

[11] Ivi, pp. 148-149.

[12] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, La sentenza della Corte costituzionale del 2014, la giurisprudenza italiana e una storia aperta, in Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023, pp. 106-108.

[13] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 157.

[14] Ivi, pp. 124-125.

[15] Ivi, p. 160.

[16] Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p. 225.

 

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Hard working men / 3: Dark As A Dungeon https://www.carmillaonline.com/2017/06/01/hard-working-men-3-dark-as-dungeon/ Wed, 31 May 2017 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38528 di Sandro Moiso

MinersIt’s dark as a dungeon way down in the mine” (Merle Travis, 1946)

“E’ scuro come in una prigione, là al fondo della miniera” recitano i versi di una delle più belle e strazianti ballate del folk americano. In cui il termine dungeon, oggi spesso conosciuto per via dei giochi di ruolo, non rinvia affatto a labirinti magici o a misteri d’oltretomba ma alle celle segrete, magari proprio quelle sotterranee in cui venivano/vengono ancora tenuti i prigionieri più sfortunati. Quelli, troppo spesso, destinati alla fine più tragica o ad una morte violenta.

A scrivere la canzone e [...]]]> di Sandro Moiso

MinersIt’s dark as a dungeon way down in the mine” (Merle Travis, 1946)

“E’ scuro come in una prigione, là al fondo della miniera” recitano i versi di una delle più belle e strazianti ballate del folk americano. In cui il termine dungeon, oggi spesso conosciuto per via dei giochi di ruolo, non rinvia affatto a labirinti magici o a misteri d’oltretomba ma alle celle segrete, magari proprio quelle sotterranee in cui venivano/vengono ancora tenuti i prigionieri più sfortunati. Quelli, troppo spesso, destinati alla fine più tragica o ad una morte violenta.

A scrivere la canzone e a inciderla per la prima volta, nell’agosto del 1946, fu Merle Travis, figlio e fratello di minatori nelle miniere di carbone del Kentucky. Ripresa più volte da cantanti e gruppi come Johnny Cash (nel suo “Live at Folsom Prison”) o la Nitty Gritty Dirt Band (nell’epico triplo album “Will The Circle Be Unbroken” realizzato con i migliori musicisti di Nashville) oppure ancora da band rock-wave come i Wall of Voodoo (nel disco “Seven Days in Sammystown”), fu utilizzata anche per accompagnare le immagini iniziali del film-inchiesta “Harlan County, USA” di Barbara Kopple. Film che le fece vincere l’Oscar per il miglior documentario nel 1976 oltre a numerosi altri premi.1

harlan C Il documentario narra, in presa diretta, lo sciopero di Brookside, la lotta di 180 minatori del carbone e delle loro mogli contro la Duke Power Company, di proprietà della Eastover Coal Company’s Brookside Mine and Prep Plant, della contea di Harlan ( South-West Kentucky) nel 1973.
Barbara Kopple, che era stata a lungo un avvocato del lavoro, si era trasferita lì fin dal giugno del 1972 per documentare lo sciopero dei minatori supportati dall’UMWA (United Mine Workers of America), il sindacato statunitense dei lavoratori delle miniere di carbone.

Come and listen you fellows, so young and so fine,
And seek not your fortune in the dark, dreary mines.
It will form as a habit and seep in your soul,
‘Till the stream of your blood is as black as the coal.
2

La lotta documentata dal film era portata avanti per migliorare le condizioni di salute, lavoro e salario: tre semplici, chiare ed evidenti richieste di classe. Per fare questo la Kopple con la sua troupe seguì i minatori nelle gallerie della miniera, ai picchetti fatti davanti alla Borsa di New York, mentre i minatori venivano feriti con armi da fuoco dalle guardie padronali durante la lotta e filmando le interviste con coloro che erano stati colpiti dalle malattie polmonari dovute all’aver respirato polvere di carbone per tutta la vita.

barbara kopple 2 La Kopple, nata nello stesso anno in cui Travis aveva scritto e inciso la canzone, nel 1972 aveva già partecipato alla realizzazione del film Winter Soldier, insieme ad altri 19 filmmaker che avevano lavorato in maniera anonima per la realizzazione, sotto la sigla comune Winterfilm Collective, di un documentario contro la guerra in Vietnam destinato a documentare l’evento di tre giorni, denominato Winter Soldier Investigation, organizzato a Detroit, tra il 31 gennaio 1971 e il 2 febbraio 1972, dall’organizzazione dei Veterani del Vietnam contro la guerra (Vietnam Veterans Against the War -VVAW). In quell’occasione 109 veterani avevano denunciato le criminali politiche militari americane nel Sud Est Asiatico, rivelando i crimini cui avevano assistito o che avevano commesso durante la guerra tra il 1963 e il 1970.

It’s dark as a dungeon and damp as the dew,
Where danger is double and pleasures are few,
Where the rain never falls and the sun never shines
It’s dark as a dungeon way down in the mine.
3

Ma le immagini scarne della vita nelle miniere e nei poveri borghi che le circondavano, così come le parole dei minatori e delle loro mogli nelle assemblee pubbliche oppure l’arroganza dei rappresentanti delle forze dell’ordine o delle milizie arruolate, insieme a i crumiri, dalle società minerarie colpivano ancora di più. Spettatori e critici. Tanto da far sì che il critico cinematografico Dennis Schwartz definisse il film come “Uno dei migliori e più stimolanti film realizzati sulla guerra di classe in America”. Nel 1990 il film fu scelto per essere conservato presso il National Film Registry della Libreria del Congresso degli Stati Uniti essendo “significativo sul piano culturale e storico e dal punto di vista estetico.

La Kopple fu anche accusata però di non essere stata sufficientemente obiettiva nel rappresentare le due parti in lotta. Cosa che fece dire alla regista, allora non ancora trentenne: “Non era questione di obiettività. Credo che sia importante fare chiarezza su questo: la troupe non ha fatto finta di essere obiettiva. Hanno detto, stiamo col sindacato, e questo è come stanno le cose dal nostro punto di vista. E direi che non puoi metterti a discutere con le immagini. Le immagini non mentono. E le cose che si vedono nel film sono successe davvero.”4

harlan women 1 Le scene in cui i picchetti delle donne sono prima aggrediti e poi presi a colpi d’arma da fuoco, nell’oscurità della notte, dalle guardie che scortano i crumiri sono testimoniati dalle immagini girate dalla Kopple e dai suoi assistenti. Che furono aggrediti e malmenati dalle forze del disordine così come i minatori e le loro donne. E’ ancora la Kopple a ricordare la scena: “Era buio e stavamo lì come tanti anatroccoli, e tutto ad un tratto arrivano i thug,5 e cominciano a sparare razzi illuminanti che accendevano tutta la china della montagna. I thug passarono e io sentivo che dovevo stare in prima fila, così nel film si vedono i miei capelli e le cuffie, che si muovono in avanti; e i thug mi buttarono a terra, e buttarono a terra Anne [Lewis, l’aiuto regista] e mi prendevano a calci, ma io avevo un Nagra, che era il mio registratore, poggiato sul petto, così quando mi davano i calci non sentivo niente, e avevo come una lunga canna da pesca con un microfono in cima e cominciai a darglielo addosso. Ma fu un momento di paura, di paura vera. Fu una scena che ci scosse tutti e capimmo che lo sciopero stava cambiando, lo sciopero stava svoltando un altro angolo, lo sciopero stava diventando molto più violento e poteva scapparci il morto6

I lavoratori però si sarebbero presentati ai picchetti successivi a loro volta armati e determinati a far fuoco su chiunque avesse tentato ancora di forzare i picchetti sulla strada della miniera. Dando vita a fronteggiamenti che potevano durare anche ore, in cui entrambe le parti spianavano le armi l’una contro l’altra.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi.» Così recita il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, così inviso ai benpensanti e alla Sinistra politically correct che vedono in tale principio soltanto un favore fatto all’industria delle armi. Senza cogliere nello stesso, affermato durante la lotta di liberazione anti-coloniale e anti-britannica, il diritto del popolo a ribellarsi e ad organizzarsi contro un governo autoritario, negando allo Stato il diritto di essere l’unico a poter detenere il monopolio della forza e della violenza organizzata. Su questo si basava la possibilità dei minatori di contrapporsi adeguatamente ai loro assalitori.

Così oggi, nell’Italia democratica di Minniti e del PD, il diritto ad armarsi dei cittadini è stato accolto, ma in chiave leghista e protofascista, in difesa della proprietà privata. Ecco a cosa ha portato, come al solito, la cancellazione della memoria di classe e storica, la negazione del diritto delle masse alla ribellione e ad un’autonoma organizzazione politica e militare. Dimenticando che anche alcuni illustri padri della Costituzione, come Aldo Capitini, avrebbero voluto vedere accolto nel suo testo il diritto alla sollevazione dei cittadini contro uno Stato iniquo. Diritto che fu aspramente negato sia dalla DC di De Gasperi che dal PCI di Togliatti.

The midnight, the morning, or the middle of day,
Is the same to the miner who labors away.
Where the demons of death often come by surprise,
One fall of the slate and you’re buried alive.
7

miner's son Il maggior elemento di scontro all’interno della vertenza era rappresentato dalla volontà della compagnia mineraria di inserire una clausola che prevedesse la rinuncia ad ogni forma di sciopero all’interno del contratto, mentre i minatori erano consapevoli che l’accettazione di ciò li avrebbe privati della principale arma in loro possesso per la difesa delle loro condizioni di lavoro. Opporsi alla proposta della compagnia significava comunque rientrare in quel ciclo di lotte che tra il 1967 e i primi anni settanta avevano visto i lavoratori americani rifiutare spesso gli accordi proposti dai sindacati e dare vita al numero più alto di scioperi selvaggi di qualsiasi altro periodo precedente.

Insomma sia la lotta di Harlan County che il film della Kopple non sorgevano dal nulla. Il terreno era stato ben concimato e successivamente, tra il dicembre del 1977 e il marzo del 1978, 166.000 minatori avrebbero bloccato completamente le miniere della regione degli Appalachi, riducendo enormemente le riserve di carbone in un momento in cui la classe dirigente stava cercando di fare della crisi energetica l’arma principale di una nuova politica economica.

miners wage Gli obiettivi dei minatori scesi in lotta non erano esclusivamente economici. Infatti il contratto firmato dai dirigenti dell’U.M.W.A. il 12 febbraio 1978 e respinto in massa dai lavoratori, prevedeva un aumento del salario del 37% in tre anni. Ma per i minatori ciò che contava di più erano le condizioni di lavoro, di vita e di libertà di organizzazione e di azione collettiva. Nonostante nel 1975 i profitti di imprese come la Duke Power Company fossero cresciuti del 170%, i salari del 4% e il costo della vita del 7%, gli operai e i lavoratori americani lottavano ancora principalmente contro il lavoro e le sue condizioni coatte.

La lotta di Harlan aveva costituito un frammento, significativo ma pur sempre un frammento, di tale scontro. Un frammento, però , i cui alcuni minatori avevano perso la vita. Come era successo a Joseph Yablonski, un appassionato rappresentante popolare del sindacato, amato da molti minatori, che nel 1970 era stato trovato ucciso in casa sua, con tutta la sua famiglia. Oppure al giovane Lawrence Jones, minatore con una moglie sedicenne e padre di un bambino, che era stato colpito a morte durante lo sciopero. Episodio, quest’ultimo che aveva condotto al tavolo delle trattative gli scioperanti della miniera di Harlan e i rappresentanti della compagnia mineraria.

Lawrence Jones era stato colpito a morte da Bill Brunner, sorvegliante della compagnia, che gli aveva sparato in faccia a bruciapelo, da pochi metri di distanza, con un fucile a pallettoni. Bill Brunner, che a sua volta era rimasto ferito nella sparatoria esplosa successivamente, fu processato per omicidio a Harlan e fu assolto per “legittima difesa”.

It’s a-many a man I have seen in my day,
Who lived just to labor his whole life away.
Like a fiend with his dope and a drunkard his wine,
A man will have lust for the lure of the mines.
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miners 5 Spesso mentre interpretava la canzone Merle Travis si interrompeva per narrare questa storia: “Non riuscirò mai a dimenticare quella volta in cui, essendo tornato per una breve visita ai miei famigliari a Ebenezer, giù nel Kentucky, mi misi a parlare con un vecchio amico di famiglia che conoscevo fin da quando ero nato. Egli mi disse, «Figliolo, tu non sai quanto sei fortunato ad avere trovato un buon lavoro lontano da qui e a non dover scavare ciò di cui vivere sotto queste vecchie colline e a non dover urlare come io e tuo padre siamo abituati a fare». Quando gli chiesi perché non avesse mai lasciato quel lavoro per trovarsene un altro, egli mi rispose «Nossignore, non puoi farlo. Una volta che la polvere del carbone ti è entrata nel sangue, tu non potrai essere altro che un povero minatore per il resto dei tuoi giorni. Diventa un vizio, come masticare tabacco!»

In uno scritto riportato sullo United Mineworkers’ Journal , Travis avrebbe poi ricordato anche il fratello: “Taylor, il mio fratello più vecchio, era solito arrivare a casa e lavarsi via lo sporco. Ricordo benissimo la tinozza al centro del pavimento – la grande pentola nera di acqua caldissima versata dentro – il vapore – e l’acqua fredda per portare il tutto alla giusta temperatura Quando lo spiavo mentre si lavava via la polvere del carbone dal tatuaggio che rappresentava una piccola rosa sul suo braccio, sognavo di quando anch’io avrei potuto lavorare nella miniera e portare un tatuaggio come il suo… Poi egli si ruppe ogni costola del suo corpo per un incidente nella miniera e la sua vita cambiò completamente…9

Il lavoro visto come schiavitù, come “vizio” e come malattia, che soltanto la lotta di classe e l’azione autonoma e collettiva può contrastare, questo ci insegnano la lotta di Harlan e la canzone di Merle Travis. Una lezione che i lavoratori americani di oggi, quelli di cui da un po’ di tempo andiamo parlando dopo l’elezione di Donald Trump, sembrano aver dimenticato. Come il 62,5% dei voti accordatigli proprio nel Kentucky, purtroppo, ben dimostra.

Cosa rimane oggi della Contea di Harlan, in cui esistevano e lottavano donne come Lois Scott che, in una delle scene più famose del documentario estrae da sotto le vesti una pistola mentre arringa uomini e donne e li spinge ad avere fiducia nella loro lotta? Poco, molto poco, Soprattutto di quella coscienza, di quell’orgoglio e di quella autentica comunità umana documentata dal film. In un bacino minerario ormai privo di importanza, in cui le promesse di Trump di rilanciare l’uso e l’estrazione del carbone sembrano riprendere le lusinghe di cui parlava Merle Travis nella sua canzone.

harlan women 2 In una contea in cui gli ex-minatori vivono di espedienti mentre i loro figli trafficano in droga, unendo metaforicamente la realtà all’esempio tracciato nei versi finali di “Dark As A Dungeon”. E in cui, al posto del bellissimo documentario della Kopple, è stata girata in anni recenti la serie televisiva Justified, trasmessa in Italiano dal 2011come Justified-L’uomo della legge, in cui il protagonista è un Marshall degli Stati Uniti, Raylan Givens, che deve mantenere l’ordine proprio nella disperata e corrotta Contea di Harlan di cui è originario. La storia è ribaltata, le forze del disordine hanno vinto e i minatori e i loro parenti sono i cattivi. Mentre l’unico a salvarsi sembra essere Dave Alvin con la canzone della sigla: “Harlan County Line”.

( 3 – continua)


  1. Qui il link per accedere alla visione del film su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=CsNtc7Uxspw  

  2. Venite qui intorno e ascoltate compagni, così giovani e così orgogliosi / Non andate a cercare fortuna nelle scure e cupe miniere / Perché quel lavoro si infiltrerà nella vostra anima come un vizio / Finché il vostro sangue non sarà nero come il carbone – Traduzione dell’autore 

  3. E’ scuro come in una segreta e umido come la rugiada / Dove il pericolo raddoppia e i piaceri sono pochi / Là dove non piove mai e altrettanto non risplende il sole / E’ proprio scuro come in una prigione laggiù nella miniera  

  4. cit. in Alessandro Portelli, AMERICA PROFONDA. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli editore 2011, pag.408  

  5. gun-thug era il nomignolo affibbiato dai minatori alle guardie armate della miniera  

  6. A. Portelli., op. cit. pp. 410-411  

  7. Mezzanotte, il mattino oppure il pomeriggio / Non fanno differenza per il minatore che lavora sempre. / Là dove i demoni della morte possono spesso presentarsi all’improvviso, / Basta la caduta di una lastra di pietra e sarai sepolto vivo.  

  8. Nei miei giorni ho visto più di un uomo / spendere la sua vita solo per lavorare sempre. / Così come un tossico fa con la sua droga o un ubriacone con il suo vino, / Uomini che hanno subito le lusinghe della miniera.  

  9. Riportato in Edith Fowke e Joe Glazer, Songs of Work and Protest, New York 1973, p. 51  

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Il dovere di non collaborare https://www.carmillaonline.com/2017/05/06/dovere-non-collaborare/ Fri, 05 May 2017 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37782 di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in [...]]]> di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in particolare, Bianca Guidetti Serra che era mia madre. Mi riferisco soprattutto alla famiglia Gobetti con cui sono cresciuto e che considero la mia seconda famiglia “storica”. Bobbio, Antonicelli, Galante Garrone come anche Giorgio Agosti, Massimo Mila e tanti altri sono state presenze costanti nell’ambiente partigiano in cui mi sono formato, persone che, senza neanche accorgermene, ho ammirato e amato perché erano un tutt’uno con la mia famiglia, di fatto una famiglia “estesa”.

Da loro ho saputo e capito precocemente cos’erano stati il fascismo e la Resistenza, da loro ho assorbito anche indirettamente idee, principi, ragionamenti, comportamenti. Quanto io sia stato capace di interpretarli non so dirlo, ma so che un libro come questo, pur nella sua ardita impostazione, ne celebra in qualche misura pensiero e azione. E ci fa sentire la loro mancanza come figure-guida da prendere a esempio e riferimento nella confusione dominante dell’oggi, sempre più difficile da interpretare e da vivere con coerenza.

Dico ardita impostazione per l’intento di stabilire, a partire dal solido retroterra teorico di Piero Gobetti e di Bobbio, un collegamento omogeneo tra partigiani combattenti, partigiani-intellettuali e importanti teorici della nonviolenza come Capitini, Dolci, don Milani, Caffi, Guido Calogero. Se un filo diretto ideale appare innegabile sul tema dell’ antifascismo e del generico anti-autoritarismo riesce tuttavia difficile pensare uniti nello stesso afflato per esempio un Paolo Gobetti e un Pasolini, che pure furono contemporanei. Questo paradosso, poiché è tale, ve lo assicuro, suggerirebbe piuttosto due piani separati magari parzialmente sovrapposti su cui distribuire i prescelti invece che su una linea di continuità che Polito, da antifascista-intellettuale-nonviolento, sembra indicare sin dal sottotitolo

Per il profano il primo punto di distinzione non può essere che la valutazione sulle scelte: combattere o non collaborare. Ebbero o avrebbero potuto avere lo stesso peso nello stesso contesto storico in funzione della vittoria? Certamente il combattere e il non collaborare furono complementari ma senza la scelta della lotta armata l’esito sarebbe stato lo stesso? Persino Capitini che scelse di non combattere per dissenso sul metodo, sembra dire di no ammettendo a posteriori “l’idea assolutamente immatura” e dichiarandosi sconfitto non ovviamente sul piano morale, ma sul piano pratico, per non aver saputo costruire una forza di gruppi nonviolenti.

Un secondo elemento cruciale, inevitabile per una postuma discussione sulla consistenza delle scelte è la politica, nella sua magmatica complessità, che purtuttavia si assunse il compito di organizzare e dirigere la lotta armata. Gli storici sanno quanto travagliato fu il processo che portò all’unificazione della condotta della guerra di Liberazione nel Corpo Volontari della Libertà e alla formazione del Cln. Quale contributo diede o avrebbe potuto dare a tale processo l’idealismo nonviolento?
Come conciliare due piani teorici di pari dignità quando sugli enunciati irrompono la politica e “il male” che, nelle sue versioni religiosa e laica, esiste e opera nel mondo, tra gli umani? Un male che si chiama Potere con le pulsioni e le articolazioni che esso sa creare.

Non è certo mio compito né è mia capacità sviscerare la quantità di argomenti e la ricchezza di spunti di dibattito che Polito, tramite i suoi protagonisti, solleva. Mi sento di dire che le motivazioni delle due scuole, dei due tavoli teorici sono talvolta sovrapponibili: il “Fare ugualmente il possibile” di Capitini è simile al “Anche le piccole cose servono” di Bianca Guidetti Serra come anche il peso da entrambi attribuiti alla prevalenza dei “principi da non perdere” (quante volte mi sono sentito dire “E’ una questione di principio”! anche su cose che reputavo “piccole”. Io sbuffavo, poi si rideva), cosa che valeva più che mai per gli azionisti, ma l’impressione è che la differenza stia nella pratica e negli obiettivi. Una pratica che per i nonviolenti trae prevalentemente ispirazione dal sentire religioso e si propone di “formare l’uomo” in funzione democratica e anti-autoritaria mentre per i partigiani si basa sul realismo, sul contingente, anche sulla ribellione morale, ma in fin dei conti sullo scopo di battere il fascismo per creare una nazione diversa, per un progetto collettivo. Si sente la mancanza tra i nonviolenti di una significativa analisi della società, delle classi, degli interessi di classe.

Non che i ponti tra le due anime non ci siano: Guido Calogero è il “filosofo del dialogo” che sostiene “la volontà di difendere i diritti quando siano minacciati” e secondo il quale “la nonviolenza non può mai erigersi ad assoluta regola di condotta”; anche per Andrea Caffi la violenza delle rivoluzioni liberatrici ha una funzione positiva perché “esse sono il risultato della convergenza fra le aspirazioni maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società” salvo poi mettere in guardia dalla convergenza della “violenza rivoluzionaria” sul binario della “violenza reazionaria”; e Lorenzo Milani pur conducendo una critica serrata della guerra sostiene che l’unica “guerra giusta” è stata la guerra partigiana, ma intanto con la sua critica del sistema politico “vecchio e anchilosato” contribuisce (suo malgrado?) ad alimentare la ribellione studentesca degli anni 1968-69.

Non è dato conoscere il pensiero di un Paolo Gobetti o di un Giorgio Agosti sulle scelte o sul contributo dei nonviolenti nei momenti decisivi, ma possiamo fare riferimento alle parole di Ada Gobetti che pure si offre al dibattito con Capitini fin dal 1947, e per la quale la parola “pace” deve probabilmente venire interpretata nell’accezione delle posizioni comuniste in contrapposizione alla politica atlantica dei suoi anni, che non può che concludere che “non sempre alla violenza si può rispondere con la nonviolenza”.

Polito mette poi sul piatto della discussione la morale, l’umanità dei partigiani combattenti, la loro fondamentale riluttanza alla violenza gratuita: tutti quelli rivisitati hanno lasciato in qualche forma la testimonianza della loro diversità morale rispetto alla controparte senza però abdicare alla dura necessità di uccidere. E senza cedere d’altra parte alla seduzione delle armi anche per le generazioni future: il Giolitti (Antonio), comandante partigiano, nel febbraio 1945 si preoccupava già della prossima generazione e suggeriva di “rifare l’educazione dei giovani… a partire dai bambini tenendoli al riparo dai giocattoli e dalle immagini di guerra”. Non fu dunque un caso che da piccolo mi siano state sempre negate armi-giocattolo.

Anche Bobbio interviene sul tema violenza/nonviolenza e illustra nitidamente i limiti della nonviolenza che “rischia di rendere un servizio ai violenti…Il paradosso della nonviolenza è che incoraggia la violenza dei violenti…il rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente”.

E nella dialettica delle argomentazioni si recupera l’importanza della discussione sull’apatia, sull’indifferenza, questioni che oggi più che mai sono sotto gli occhi di tutti coloro che fanno qualche tipo di attività politica o sociale. L’apatia dei tanti prima e dopo l’8 settembre a cui fece in qualche misura da contrasto la non collaborazione di altrettanti. Fu già Piero Gobetti a parlarne da quel piccolo punto di osservazione che era la redazione del suo giornale: “Non può essere morale chi è indifferente…L’apatia è negazione di umanità, abbassamento di se stessi, assenza di idealità”. L’apatia è il nemico del prima e del dopo perché si coniuga con la desistenza della memoria, intesa come “oblio dei valori, della coscienza, della ragione”, rimarcata da Calamandrei, e da Ada Gobetti che la associa alle facili abitudini, agli interessi di parte, ai pregiudizi.

Il passo più ardito in tutto questo contesto è la collocazione della figura di Pasolini. Polito lo definisce esponente di una resistenza intellettuale e gli attribuisce di fatto uguale dignità agli altri protagonisti del libro. Impresa ardua a mio avviso perché si incaglia nelle tante contraddizioni del personaggio: “antropologicamente comunista “ o “reazionario”, “critico inesorabile del tecno-fascismo” o solo “anti-autoritario” o “incollocabile” o “rappresentante ostinato della singolarità” cioè forse solo anticonformista. Io, che non l’ho mai studiato a fondo, lo ricordo come un populista ante litteram nel suo schierarsi con i poliziotti “figli del popolo” e contro il popolo di studenti e operai bastonati dai “figli del popolo” nei primi anni della rivolta anti-sistema; lo ricordo come un intellettuale confuso che lancia strali in ogni direzione in anni in cui l’anticonformismo gli regalava lo spazio per farlo.

L’intervista riportata da Polito ne è involontariamente evidenza. Sfido molti anche con più lauree a cogliervi un chiaro senso. Difficile metterlo in equilibrata relazione con partigiani combattenti, con esponenti della nonviolenza militante, con Bobbio e Gobetti.
E con i loro insegnamenti che da tempi non sospetti riescono a parlarci dell’oggi. Sentite questi: “In ogni regime totalitario il parlamento è in realtà un ‘teatro dei burattini’, come un burattinaio il governo tira i fili e le marionette hanno solo il compito di battere le mani” (Massimo Mila); “Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco” (Piero Gobetti) e i mali della politica da cui Bobbio ci metteva in guardia sin dal 1985: “la questione morale, il potere invisibile, il prevalere della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica…l’occupazione del potere da parte dei partiti…”.

Paradossalmente, dopo lunghe stagioni di storia italiana del dopoguerra segnate da contrasti politici e violenze (ascrivibili in prevalente misura allo Stato e al Potere), l’attualità sembra segnalare una propensione per le forme di lotta nonviolente, ma l’utilizzo diffuso che ne fa la protesta popolare (dalla Val Susa al Nord Dakota) ne tradisce l’insufficienza a conseguire gli obiettivi, la subordinazione a stati di debolezza e denuncia la militarizzazione delle società cosiddette democratiche. A maggior ragione, sembra riduttivo il Capitini che dice “Resistere significa non accettare il mondo cosi com’è”. Forse un po’ poco per il mondo che stiamo vivendo.
Se è vero che i libri sono cibo per i pensieri, questo lavoro di Polito offre ampia materia di riflessione sulle forme di opposizione in relazione alle fasi politiche e agli imperativi individuali che le determinano. Il titolo poco “commerciale” ne denuncia la destinazione a un pubblico di lettori che non frequentano il salotto televisivo di Paola Perego, ma c’è da augurarsi che quelli in grado di affrontare argomenti di qualche peso siano ancora un buon numero.

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