Alcide De Gasperi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La nonna di tutte le riforme https://www.carmillaonline.com/2023/12/12/la-nonna-di-tutte-le-riforme/ Mon, 11 Dec 2023 23:05:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80303 di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la [...]]]> di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la collegialità è da riattivare, perché è sbiadita da un pezzo, almeno dai tempi di un giocattolo di Bettino Craxi, il «consiglio di gabinetto», frutto bacato degli anni Ottanta, che già accentrava il potere a spese del Parlamento.

C’è da dubitare che la manovra presidenzialista, se riuscisse a imporsi sul governo, lascerebbe intatta la presidenza della Repubblica. A quel punto, comunque, il sistema sarebbe sbilanciato e finirebbe per non reggere: il Quirinale non potrebbe più scegliere il presidente del consiglio, e anche nella scelta dei ministri cambierebbero i rapporti di forza. Il titolare di Palazzo Chigi diventerebbe simile a un capo del governo e avrebbe dalla sua una designazione popolare, diversamente dal capo dello Stato, scelto con un sistema indiretto. Le due figure entrerebbero in conflitto: prevarrebbe quella elettiva o finirebbero per essere riunite. Un passo alla volta, l’esito è sempre quello.

Così si possono realizzare le ambizioni coltivate da almeno mezzo secolo. In fondo, simili a quelle cominciate prima, perché l’attacco alla Costituzione non aspettò neanche che si finisse di scriverla: risuonò nei colpi di mitraglia a Portella della Ginestra nel 1947. Seguirono gli anni Cinquanta, con l’Italia prigioniera di una cappa di piombo immobilista; l’Italia presa di mira, quando per paura di un cambiamento si tentò il colpo di mano, con la legge truffa del 1953. Un arnese quasi ingenuo, al confronto con altri più recenti, come la legge elettorale del 2005 con cui Berlusconi destabilizzò la legislatura seguente per tornare presto al potere.

Nel 1953, per pochi voti, la legge truffa non ebbe effetto e De Gasperi tramontò. Ci vollero ancora anni per vedere aperture a sinistra: moderate, ma già troppe per la suscettibilità dei reazionari e dei fascisti. Cominciò la stagione delle trame e delle bombe nere, una fase in cui il Msi – il partito che Fratelli d’Italia ha per riferimento persino nel simbolo – ebbe i suoi tentacoli. L’atto terroristico che segna una svolta, in quella stagione, è a Milano, a piazza Fontana nel 1969; oggi è l’anniversario. All’epoca la loggia P2, col suo gran maestro Licio Gelli e coi suoi grandi bidelli, presidi e provveditori agli studi, senza volto o visibili sfocati, fu un’altra piovra coinvolta nelle strategie antidemocratiche.

A rileggere il progetto della P2 emerso all’inizio degli anni Ottanta, il «Piano di rinascita democratica» (c’erano già trucchi verbali e fascisti in maschera), si vedono lenti successi. Nel 1993 viene scardinato il sistema elettorale proporzionale, grazie a un brutto referendum. Nel 2020 di quel Piano, grazie alla propaganda populista e a un referendum bruttissimo, è realizzato un altro obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari, e in misura più grave del taglio voluto dalla P2. Un’altra modifica ad alto livello, quella dell’elezione diretta, che va persino oltre il Piano, si affaccia adesso: appunto, sulla presidenza del consiglio. Altro che viva la mamma, la patria e le riforme.

Bisogna ammettere che i confezionatori del Piano ci sapevano fare; a disegnare il futuro non erano certo i boia delle bombe, come quelle di piazza Fontana e sui treni e nelle stazioni. Non erano neanche i loro immediati mandanti e complici nella burocrazia securitaria e nel mondo militare. C’erano notabili manovratori, e alla lontana c’erano teste d’uovo danarose, con suggeritori cresciuti negli studi di psicologia sociale, di ingegneria politica e di manipolazione del consenso.

La trappola contro la democrazia era ben congegnata. Da un lato si riduce la rappresentanza: il voto non è più uguale per tutti; tutti quelli che votano hanno un voto che pesa di meno; diventano di meno quelli che vanno a votare. Dall’altro si crea l’illusione di un rapporto diretto con una persona sola. Quella sì, si prende cura di noi; quella sì, interpreta i bisogni del paese, anzi del popolo, anzi via: della nazione, della patria, meglio se scritta tutta in maiuscolo, come un tempo la parola duce.

Adesso si propone di dare una delega a chi promette, a chi strilla, a chi strabuzza gli occhi, a chi aguzza lo sguardo, a chi fa il sorrisone o gli occhiacci, a chi smania contro quelli lì e quelli là, a chi gonfia il gozzo e la prosopopea. A chi fabbrica meglio il suo passato, se occorre. Magari a chi assolda le migliori agenzie di comunicazione, perché anche se costano e bisogna far debiti, poi si pagano col denaro del padronato e dei settori sociali forti e organizzati. Un capo con l’applausometro è una garanzia, per chi è in alto.

Il lavoro è trattato sempre peggio: il rafforzamento dell’esecutivo favorirebbe i privilegi di classe tagliando le gambe alla mediazione; e direbbero che è meglio così, perché diversamente si fa il consociativismo. Lo sciopero e la democrazia sui luoghi di lavoro, già ora malmessi, potrebbero diventare cari ricordi. Quanto alle pensioni, sarebbero tutelate a seconda dei settori interessati, ma non in proporzione alla grandezza numerica né al peso del lavoro: i gruppi produttivi sono parcellizzati dalle nuove tecnologie, il resto è carne da sudore, indistinta; solo i gruppi uniti o in posizioni particolari fanno pacchetto elettorale, gli altri sono spinti nell’individualismo e nell’apatia. Un modello dal vago sapore medievale, percorso da consorterie e rivendicazioni confuse: una camera delle corporazioni frammentata nei social, col tumulto dei ciompi in videogioco. Coincidenza, nella presentazione del disegno di legge si parla di «democrazia di investitura»; proprio investitura, come per le cariche feudali o ecclesiastiche nell’età di mezzo, prima della modernità.

La sanità, sempre più importante con l’invecchiamento della popolazione, sarebbe in cima alle preoccupazioni governative: sì, ma la sanità frammentata, quella per i ricchi, o per i settori protetti, o per aree geografiche che garantiscono bacini elettorali.

L’ambiente, a un presidente eletto, sarebbe caro come i bilanci delle società estrattive e delle imprese di smaltimento rifiuti, perché chi controlla denaro e pacchetti elettorali, appunto, è ancora più decisivo, in una singolar tenzone, dove per una manciata di voti vinci tutto o perdi tutto.

Per la giustizia il capo scelto dal popolo sarebbe veleno. La mozione approvata dal congresso di Magistratura democratica del 2023 sottolinea sia il rischio di «riforme costituzionali che nel loro insieme consentirebbero a una maggioranza politica di erodere la separazione dei poteri», sia la «valenza contro-maggioritaria dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali». In una società incarognita, percorsa dalla polverizzazione dei lavori, da suscettibilità nervose e dalla conta delle identità, la maggioranza muscolare col tribuno è pericolosa: non è la maggioranza in democrazia, è folla sotto un balcone. Folla irritabile, pronta alla rissa spaccatutto, al piagnisteo purgativo, all’ovazione salvifica finale.

Sull’informazione, già ora l’industria televisiva e il servizio pubblico occupato dal governo fanno il tutto mio; col presidenzialismo ci sarebbe una sana, igienica, nazional-ginnica cinghia di trasmissione fra governo e popolo; sarebbe garantito un intrattenimento vivace, soccorrevole: una persuasione camuffata da ascolto, un altoparlante travestito da orecchio.

I numeri nelle Camere li hanno, grazie all’attuale andazzo elettorale del malanno e della malapasqua, ma non grossi come li vorrebbero. Quindi è possibile che si vada al referendum. Varrà per questo, come per le altre chiamate alle urne: non andare a votare non è il rimedio. C’è ancora chi crede di sì, perché ha capito il gioco, perché la sa lunga, perché sono tutti uguali, perché tanto peggio tanto meglio, perché col discredito che la casta si tira dietro, presto viene giù. In altri paesi, chi ha seguito queste suggestioni le ha consegnate intatte agli eredi, che adesso non sanno cosa farsene.

Se la proposta di presidenzialismo sarà coltivata sino in fondo, man mano che la discussione si scalderà sentiremo uno scilinguagno di argomenti, vedremo un fuoco d’artificio di parole, faremo scorpacciate di propaganda. Per chi ricorda il referendum del 1993 sarà un ritorno al passato, a quel clima di illusione di massa, tutto all’insegna della lotta alla partitocrazia e della fine della corruzione (che da allora corre più di prima), col sistema proporzionale messo al bando e quello maggioritario esaltato come chiave della modernità, in un pettegolaio ipnotico dall’esito disgraziato, su cui Silvio Berlusconi, un anno dopo, andò a sedersi in trono.

Attenzione ai paragoni con altri modelli costituzionali, e non accontentarsi di sapere che un’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, come quella che si propone, non c’è da nessuna parte. Il diritto comparato, nelle mani sbagliate, è un Arlecchino servitore di molti padroni. I modelli sono tanti, e anche solo limitandosi all’Europa c’è l’imbarazzo della scelta. Gli argomenti che tirano in ballo un paese o un altro sono come il caleidoscopio, che a girarlo ci vedi quello che ti vogliono far vedere.

Il sistema costituzionale italiano è frutto del lavoro di un’assemblea, finalmente uscita da elezioni vere, dopo vent’anni di dittatura con cinque guerre dentro. Anche dopo tanto tempo e alcune modifiche scriteriate, il testo ha pochi eguali per chiarezza, bilanciamenti, altezza di principi, bassissima dose di retorica e nessuna traccia di fanatismo o metafisica. Se la Carta fa perno sulla mediazione politica, anche quella faticosa, estenuante, e se sta alla larga dai decisionismi, dai carismi e dalle ovazioni, è perché allora certi ricordi erano freschi. Bastavano le macerie delle città, i lutti delle vedove e i cenci degli orfani, a spiegare come va a finire quando si grida che un capo ha sempre ragione.

Ma ecco due gonfiabili colorati. La governabilità: un jolly nella manica. La stabilità: una porta girevole. Ci sono stati decenni con governi brevi e uguali: stabilità marmorea. Con la riforma proposta, invece: effetto assurdo. Inamovibilità ufficializzata; e anche se – è il caso del governo Meloni – le promesse del programma svaniscono. Insieme, spinta al rovesciamento, perché la norma antiribaltone – l’hanno notato i costituzionalisti più attenti – suggerisce al secondo partito della coalizione vincente di colpire alla schiena il primo.

E poi, governabilità e stabilità non sono nella Costituzione. La parola governabilità, ancora decenni dopo la Carta, non era nei migliori vocabolari; poi c’è entrata, ma perché i linguisti prendono atto dell’uso. Parlamentabilità o regionabilità non sarebbero parole assurde? Adesso si vuole la governabilità nel testo. Non per estetica ma per sostanza, al letterato Pietro Pancrazi nel 1947 fu affidata la revisione linguistica della Costituzione (bei tempi). Il concetto di stabilità non va d’accordo con l’articolo 3: la Repubblica deve «rimuovere gli ostacoli» allo sviluppo della persona umana e alla partecipazione dei lavoratori alla vita della comunità. Piero Calamandrei diceva che di solito le costituzioni sono in polemica col passato, mentre la nostra lo è anche col presente. È una coraggiosa instabilità verso il meglio, che non esclude più governi nella stessa legislatura.

Occhi aperti. La voglia di padrone ha giuristi e politologi dalla sua, anche quelli che fanno i perplessi, gli equanimi, i tecnici. E sono tutt’altro che sprovveduti: per esempio, lo scriba del 1925, quello che firmò col re e Mussolini la legge fascistissima, si chiamava Alfredo Rocco, professore e codificatore e molto altro. Gli scribi di oggi sono intervistati e rispettati. La furbizia paga, e di storie furbe è pieno il passato, anche recente. Hanno voluto Camere rimpicciolite, invitando a ridurre il numero dei parlamentari prima e promettendo la legge elettorale per dopo; poi hanno riso di gusto sulla promessa, e adesso un Parlamento nato da elezioni con rappresentanza inadeguata, votato da una percentuale del corpo elettorale mai stata così bassa, mette mano alla Costituzione.

I progetti dei famigli del potere vantano un’antica araldica, perché libertà, partecipazione e condivisione danno fastidio da almeno due secoli. Si vuole spostare il baricentro verso gli abbienti e i clan immutabili, per fare degli altri una plebe vociante, ignorante, spaurita. Ben diverso, l’inno all’albero della libertà: «Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge, è il popolo che regge, sovrano ei sol sarà»; e si cantava negli ultimi anni del Settecento.

Altro che la madre di tutte le riforme. Questa non è una riforma, è una restaurazione ed è decrepita come Plozia, quella dell’iscrizione funeraria che Marziale, venti secoli fa, consegnò all’epigramma Pyrrhae filia, Nestoris noverca… Sa di polvere e di sepolcreto. Eccola, Plozia, nella traduzione pepata di Guido Ceronetti:

Figlia di Pirra, di Nestore matrigna,

da Niobe verginetta

veduta già canuta,

da Laerte decrepito

nonna definita,

da Priamo balia,

suocera da Tieste,

a innumerevoli sopravvissuta

di cornacchie generazioni,

col suo calvo Melanzione

qui finalmente tumulata,

Plozia supplica ancora

cazzo.

Però, diciamolo. La vecchissima Plozia è simpatica, con la sua voglia di vivere che non si spegne neanche in fondo a una tomba. Il presidenzialismo, invece, è orrendo perché sotterra gli interessi popolari, la Repubblica fondata sul lavoro, la democrazia e quel che resta della giustizia sociale.

 

 

 

 

 

 

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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Prima dell’art.18 (parte quinta) https://www.carmillaonline.com/2016/07/30/dellart-18-parte-quinta/ Sat, 30 Jul 2016 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32295 di Alexik

Ducati 3[A questo link il capitolo precedente.]

Fine di luglio, un caldo soffocante. Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53. E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro. L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori [...]]]> di Alexik

Ducati 3[A questo link il capitolo precedente.]

Fine di luglio, un caldo soffocante.
Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53.
E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro.
L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori facilmente.

Sapevano che si trattava di una rappresaglia contro la città: Bologna aveva votato male.
A Roma i democristiani erano furibondi. Avevano varato una riforma elettorale progettata per conseguire il potere assoluto. Ma la legge Scelba, rinominata ben presto ‘legge truffa’, che assegnava il 64% dei seggi a chi superava il 50% dei voti, non gli era servita a niente: alle elezioni politiche del giugno ’53 la coalizione a guida DC si era attestata al 49,2, perdendo il premio di maggioranza.
Di conseguenza, andavano puniti i territori che avevano votato contro, ed anche i lavoratori che dall’inizio dell’anno scioperavano in massa contro il ‘tentativo democristiano di spezzare la proporzionale’.
Il giorno dopo l’approvazione della legge, l’adesione allo sciopero dei lavoratori bolognesi era stata fortissima. In migliaia avevano manifestato nelle strade del centro, affrontando i caroselli della Celere e le cariche nel quadrilatero (Piazza Maggiore/Indipendenza/Ugo Bassi/Farini). Molti erano stati pestati, arrestati e sottoposti a fermo di polizia, disposti a farsi massacrare ‘per la democrazia e la Costituzione’.
Ignari del fatto che, circa 60 anni dopo, la formazione politica erede del PCI avrebbe sfornato una riforma elettorale decisamente peggiore. L’Italicum, attualmente in vigore, assegna infatti il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40% dei voti. Scelba, a confronto, è un dilettante.
Ma non divaghiamo. Nel ’53 i primi a subire rappresaglie per lo sciopero contro la legge truffa furono i lavoratori che dipendevano, a vario titolo, dallo Stato.

A cominciare dai ferrovieri. ‘D’ordine Sig Ministro prego V.S. di impartire disposizioni a tutti i compartimenti F.S. di far pervenire nella maniera più sollecita gli elenchi nominativi del personale che ha partecipato alla manifestazione di protesta indetta dalla Confederazione Generale del Lavoro contro l’approvazione della Legge elettorale restando fermo che coloro che si saranno astenuti dal lavoro dovranno senz’altro essere sottoposti a provvedimento disciplinare data la natura politica della manifestazione’.

Legge truffaIn seguito al telegramma del Ministero dei Trasporti dieci operai vennero licenziati all’Officina Materiale Mobile, per aver costituito ‘una vera e propria formazione fanatica e faziosa’ attuando ‘una eccezionale abusiva attività politica nell’impianto’, per essere ‘esponenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, organizzatore dello sciopero’, professare ‘idee politiche-sindacali di estrema sinistra’, ecc., ecc.
Oltre ai licenziamenti, nel Compartimento FFSS di Bologna vennero comminati agli scioperanti 1.778 provvedimenti disciplinari.

A Bologna anche il destino della Ducati dipendeva dallo Stato, che nel dopoguerra aveva acquisito la proprietà dell’impresa tramite il FIM, il Fondo per il Finanziamento dell’Industria Meccanica, e ne controllava gli organi direttivi.
Con una tempistica sospetta il governo De Gasperi, all’indomani del responso elettorale del ‘53, tagliò, tramite il FIM, i fondi alla fabbrica più rossa di Bologna, la città che aveva votato male.
Un po’ come ha recentemente minacciato di fare il governo Renzi con il capoluogo piemontese che ha ‘sbagliato sindaco’. Ma non divaghiamo e torniamo nel ‘53.

A fine luglio arrivarono le 960 lettere di licenziamento e di sospensione dal lavoro. Seicentosessanta erano indirizzate alle donne, che rappresentavano in Ducati l’80% delle maestranze.
Un provvedimento che puzzava di rappresaglia di massa, tenendo conto che dei 2.912 dipendenti della fabbrica 2.218 avevano la tessera della Fiom, 1.550 erano gli iscritti al PCI e 625 lavoratrici facevano parte dell’UDI.
Provocazioni ce ne erano state anche prima. Già dopo la vittoria democristiana del ’48 il clima in fabbrica era cambiato, e i dirigenti sindacali e politici più in vista della Ducati erano finiti nei reparti confino.

Lavoratrici della Ducati portano conforto alle figlie di Maria Margotti, uccisa durante le lotte bracciantili.

Lavoratrici della Ducati portano conforto alle figlie di Maria Margotti, uccisa durante le lotte bracciantili.

Fecero un reparto come il confino, eravamo in 25 – 30 che lavoravamo tutti noi … membri delle Commissioni interne, membri del Consiglio di Gestione, i più esposti politicamente, eravamo gli esiliati” (Giorgino Masetti, tornitore alla Ducati, delegato Fiom alla Commissione Interna).
C’erano stati licenziamenti per rappresaglia, come quello nel ’51 di Albertina Bitelli, una storica resistente di fabbrica, ed anche licenziamenti di massa, 118 per la smobilitazione dello stabilimento di Bazzano (in quell’occasione, la popolazione del paese bloccò per un giorno il trasferimento dei macchinari).

Ma mai un attacco così pesante. La natura pretestuosa dei 960 licenziamenti era palese: la Ducati era tutt’altro che un’azienda decotta.
Aveva rappresentato per anni l’eccellenza dell’industria italiana nei campi dell’elettrotecnica, dell’elettronica, dell’ottica e della meccanica di precisione. Il suo personale, a tutti i livelli, era stato selezionato fra i migliori dalle facoltà di ingegneria e dagli istituti tecnici e professionali, e perfezionato da una scuola interna.
Negli anni ‘30 la ricerca Ducati sulle onde radio era considerata all’avanguardia, e i suoi condensatori venivano esportati in tutto il mondo. Ne produceva 400.000 al giorno, e ne riforniva anche la Philips e la Siemens, clientele piuttosto esigenti.

Ducati. Sala montaggio condensatori.

Ducati. Sala montaggio condensatori.

I suoi reparti R&S avevano sviluppato in maniera pionieristica radio, walkie talkie, macchine calcolatrici, rasoi elettrici, sistemi di intercomunicazione a viva voce, apparecchi di precisione, microcamere fotografiche e proiettori cinematografici tecnologicamente avanzati.
Prodotti di vasta applicazione civile, anche se la guerra era stata la principale committente: prima quella d’Etiopia, e poi il secondo conflitto mondiale.
Ai fini bellici, la Ducati fabbricava telefoni da campo per l’esercito, rice trasmittenti per carri armati e pompe ad iniezione per i caccia. La sua divisione ottica forniva, su licenza della tedesca Zeiss, binocoli marini per la visione notturna migliori di quelli prodotti dalla casa madre, oltre a componenti per i periscopi dei sommergibili. Produzioni di morte, ma tecnicamente ineccepibili.
Solo nel 1944 erano sorti problemi di qualità del prodotto, con l’estendersi dei sabotaggi della produzione bellica da parte delle operaie (opera meritoria in cui si distinsero Albertina Bitelli e Anna Zucchini).
Ma dopo la ricostruzione del dopoguerra, il livello era tornato quello di sempre, e l’offerta produttiva si era ampliata con il ‘Cucciolo’, un micromotore da applicare alle biciclette (in pratica, il Solex con 30 anni di anticipo), che stava riscuotendo un notevole successo.
Ridimensionare una fabbrica del genere non poteva avere nessun senso da un punto di vista di politica industriale, che non fosse la rappresaglia.

Ed era uno sputo in faccia anche alla storia della Resistenza operaia della città.
L’eccellenza tecnica, ignorata nel ’53 dai governanti della Repubblica, era stata riconosciuta dieci anni prima dal comando tedesco, che all’indomani dell’8 settembre si era impossessato della fabbrica, circondandola con venti carri armati e disponendone il trasferimento in Germania.
In quell’occasione, dal cortile della Ducati era iniziato un febbrile via vai notturno di camion e carretti. Erano dirigenti, tecnici e operai che trasportavano clandestinamente prototipi di macchine, progetti, strumenti di precisione, materie prime, da occultare nei sotterranei del cinema Manzoni e in altri 70 nascondigli segreti. Rischiando la vita.
Tutte le maestranze si erano date da fare per rendere le operazioni di smontaggio lentissime e irrazionali, mentre i fratelli Ducati erano riusciti a dirottare i macchinari destinati in Germania verso mete intemedie, nei loro stabilimenti al nord.
L’evolversi della guerra fece definitivamente fallire il progetto.

I tedeschi, che occupavano militarmente la fabbrica, dovettero verificare il basso indice di gradimento che riscuotevano fra le operaie il 1° marzo del 1944. Queste le cronache della giornata:

Alla vigilia del 1° marzo, scritte inneggianti allo sciopero erano state fatte sulle mura della fabbrica. La mattina, fin dal primo turno, ai portoni della fabbrica c’erano le SS e i fascisti. Nei reparti c’era grande animazione… L’orario di inizio dello sciopero era fissato per le 10, al segnale di prova giornaliera delle sirene di allarme. Gli ultimi minuti sembravanoi interminabili. Finalmente squillò il segnale delle 10. Mi precipitai nel corridoio centrale. Solo il reparto attrezzeria uscì subito. Ero stata incaricata di dare il segnale di inizio dello sciopero e lo feci di corsa. In pochi secondi più di 3.000 operai e impiegati del grande complesso si rovesciarono nel corridoio centrale(Anna Zucchini, operaia Ducati).

Masi_GiovanniIl Ruestungskommando era già al corrente del movimento in preparazione e mandò ordinanze da affiggere nelle fabbriche Ducati, nel testo delle quali era prevista anche la pena di morte per i sabotatori, e l’assunzione della Direzione da parte del Col. Hollidt… (Durante lo sciopero) arrivarono quelli delle SS e prelevarono un certo numero di dimostranti che furono accompagnati nei locali vuoti della ex divisione tecnica. I compagni dei prelevati fecero una manifestazione e continuarono l’astensione dal lavoro. Il Col. Hollidt, seccato per la mancata obbedienza ai suoi appelli da me trasmessi in italiano, ordinò ad un gruppo di avieri germanici in sosta sul piazzale merci, di entrare con le armi e mi fece diffondere un ultimatum in questi termini: Se fra pochi minuti gli operai non riprendono il posto di lavoro i soldati germanici sono costretti a sparare” (Anna Mathà, dipendente Ducati, interprete).

Due ore esatte durò la manifestazione, e a nulla valsero le ripetute minacce delle SS di ritirarci immediatamente nei reparti di produzione. Alla ripresa del lavoro, fui arrestata insieme ad altri sei o sette operai. Fummo interrogati a lungo, ma il giorno dopo fui rilasciata. Tre giorni più tardi la direzione della Ducati mi licenziò e allora cominciò per me un’altra fase nella Resistenza” (Anna Zucchini, operaia Ducati).

Nel luglio successivo, il capitano Steiling, capo degli ufficiali di sorveglianza alla Ducati, venne abbattuto da ignoti a colpi di arma da fuoco nel cortile della fabbrica.
La Ducati diede vari combattenti alla Resistenza. Oltre ad Anna Zucchini, staffetta della 7a GAP e poi responsabile del distaccamento ‘Tarzan’ di Anzola Emilia, erano operai della Ducati Raffaele Gandolfi, del Comando Militare della Resistenza in Emilia Romagna (CUMER), e Celestino Cassoli, organizzatore di scioperi e sabotaggi, e delle Squadre di Azione Partigiana della zona di Bazzano. Veniva dalla Ducati Giovanni Masi, nominato giovanissimo come responsabile del PCI della zona Saffi, il quartiere industriale più importante di Bologna. Agitatore di fabbrica anche prima dell’8 settembre, Giovanni Masi fu fra i fondatori del Comitato Sindacale Clandestino per la Provincia di Bologna, che coordinava le attività di resistenza e boicottaggio nei luoghi di lavoro. Arrestato più volte dai nazifascisti, resistette sempre alle torture. Subì la deportazione a Dachau, Buchenwald e Bad Gandersheim. Morì fucilato in Germania, senza riuscire a compiere 20 anni.

12 ottobre 1944. Bombardamento della Ducati.

12 ottobre 1944. Bombardamento della Ducati.

Il complesso della Ducati di Borgo Panigale venne completamente raso al suolo il 12 ottobre 1944. Maestranze e macchinari erano in salvo, dislocati prudentemente nelle sedi di Bazzano e Crespellano. Dei muri, però, ne rimase poco.
A Liberazione avvenuta, mentre i proprietari accusati di collaborazionismo erano rifugiati a Milano, “gli operai, gli impiegati e i tecnici si trasformarono in muratori per ricostruire la fabbrica, in poliziotti per andare alla ricerca delle macchine rubate e portate in tutta Italia, in dirigenti della produzione”. Le donne partecipavano allo sgombero delle macerie e  rimettevano in funzione l’asilo aziendale, indispensabile alle lavoratrici madri.

A tutte loro, e a questa grande Storia tecnica e politica, fatta di intelligenza, capacità, fatica, sangue e coraggio, nel ’53, nella ‘Repubblica nata dalla Resistenza’, il governo De Gasperi volle sputare in faccia.
Alla notizia dei 960 licenziamenti, che riguardavano anche 18 lavoratrici in gravidanza o con figli minori di un anno (non licenziabili secondo la legge), la fabbrica venne subito occupata e resistette per una settimana, prima di essere sgomberata dalla Celere.

Quel giorno “sembrava che dovessero affrontare una guerriglia. Ci spinsero fuori come fossimo delle delinquenti, invece volevamo soltanto lavorare”  (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quando occupammo la fabbrica stavamo dentro giorno e notte… E una volta arrivò la Celere e ci bastonò col tubo di gomma dura, che fa un male tremendo. I nostri prendevano i seggiolini e si difendevano così” (Maria, operaia Ducati).

Asilo Ducati. Una eccellenza della città.

Asilo Ducati.

Le lavoratrici non si scoraggiarono e iniziano una capillare opera di coinvolgimento della città, con volantinaggi in tutti i quartieri. Quelle, fra loro, distaccate nella colonia aziendale di Lizzano in Belvedere, anche se raggiunte dalle lettere di licenziamento continuarono ad accudire i figli delle compagne.
Le altre, sgomberate dalla fabbrica, rimasero in presidio lì davanti. “Stemmo davanti alla fabbrica di giorno e di notte, per sei mesi, prima col solleone e un caldo insopportabile, poi con pioggia e freddo. Resistemmo per la nostra volontà di rientrare, ma anche per la solidarietà illimitata dei cittadini, bottegai e commercianti, di Borgo Panigale.
Tutti ci facevano credito e una parte scendeva in lotta con noi.

Scaduta la mutua, il medico, dott. Masala, visitava e dava medicine gratuitamente ai lavoratori ammalati. La solidarietà si allargava, le cooperative e il Molino di Corticella ci portavano pasta e il necessario per fare il condimento.
Da questo partì l’iniziativa di una mensa. L’oste Bolelli (chiamato Ribello) e gli inquilini del suo condominio misero a nostra disposizione la loggia che divenne il nostro refettorio e contemporaneamente la nostra sala per riunioni. Due compagni facevano da mangiare con l’ombrello. Nonostante i disagi, per sei giorni alla settimana a mezzogiorno mangiavamo un piatto di minestra calda” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quelli delle altre fabbriche “ci mandavano della farina, ci mandavano della pasta, ci mandavano un po’ di salame, da poter riuscire a stare sempre lì.” (Ovidia Galloni, impiegata Ducati)
E i contadini ci portavano il grano. La farina per aiutare le famiglie rimaste senza sostentamento. Quelli che avevano qualcuno in famiglia che ancora lavorava lasciavano la roba per chi non aveva niente” (Maria, operaia Ducati).

Ducati: in lotta per il reintegro.

Ducati: in lotta per il reintegro.

Si schierarono le amministrazioni comunale e provinciale a fianco delle operaie che intanto, in piazza, continuavano ad affrontare le cariche. “So che c’era la polizia che ci dava le bastonate per disperderci nelle manifestazioni. È stata una lotta molto grande … E poi io presi anche una bastonata, che mi toccò di andare dentro una latteria, dove mi bagnarono la testa. Davanti alla Questura” (Jole, operaia Ducati).

Dopo sei mesi di trattative a Roma al Ministero del Lavoro, la società Ducati dispose il reintegro di 50 operai/e, e la trasformazione degli altri licenziamenti in semplici sospensioni, coperte dalla Cassa Integrazione Guadagni.
Ai cassaintegrati offrì corsi di riqualificazione in vista di un graduale reinserimento in azienda, che non avvenne mai. Vennero tutti licenziati nel gennaio ’55, quando ormai erano fuori dalla fabbrica da un anno e mezzo, e la capacità di reagire si era persa. (Continua)

Riferimenti:

Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991.

Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014.

Resistenza, Organo dell’ANPI provinciale di Bologna, n. 1, marzo 2014.

A.A.V.V., Comunisti, i militanti del PCI raccontano, Roma, Editori Riuniti.

Anna Zucchini, Linceo Graziosi, Gli anni difficili. Antifascismo, ricostruzione post bellica e sviluppo industriale nei ricordi di due operai metalmeccanici, Bologna, Ed. Fiom, a cura di Giovanni Mottura, 2001, p. 300.

Mauro Morbidelli, Senza giusta causa  (documentario), 2005, 51 minuti.

 

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La “Rivoluzione” interrotta https://www.carmillaonline.com/2016/05/14/la-rivoluzione-interrotta/ Fri, 13 May 2016 22:01:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30473 di Fiorenzo Angoscini

semprepartigiano Pino Tripodi, Per sempre partigiano. L’insurrezione di Santa Libera, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 243, € 16,00

Non si sono ancora del tutto spenti gli echi della festa d’aprile del 1945 che numerosi proletari, semplici combattenti – tra cui comandanti di brigata e commissari politici – per convinzione e non per convenienza, intuiscono ciò che si sta programmando, annusano l’aria, colgono l’atmosfera: è solo un cambio d’abito. Chi tira le fila, e continua a condurre le danze, sono i soliti profittatori di sempre.

Presidente del consiglio è Alcide De Gasperi (ministro della malavita, secondo un [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

semprepartigiano Pino Tripodi, Per sempre partigiano. L’insurrezione di Santa Libera, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 243, € 16,00

Non si sono ancora del tutto spenti gli echi della festa d’aprile del 1945 che numerosi proletari, semplici combattenti – tra cui comandanti di brigata e commissari politici – per convinzione e non per convenienza, intuiscono ciò che si sta programmando, annusano l’aria, colgono l’atmosfera: è solo un cambio d’abito. Chi tira le fila, e continua a condurre le danze, sono i soliti profittatori di sempre.

Presidente del consiglio è Alcide De Gasperi (ministro della malavita, secondo un efficace e tagliente slogan comunista) che si sforza in tutti i modi di essere accettato e ben visto dai pronipoti dello zio Sam, i quali, tramite “addetti militari”, “consiglieri politici” e “funzionari diplomatici”, stanno cercando di incastrare tutti i pezzi necessari per garantire la loro democrazia e soggettiva stabilità alla giovane repubblica italiana.1 Così, nemmeno troppo dietro le quinte, insieme a vecchi arnesi, generali felloni e voltagabbana si armeggia e trama nei retrobottega e anticamere dei palazzi della politica istituzionale. Il personale dell’amministrazione statale proviene ancora, per la stragrande maggioranza (vicina al 100%) dalle strutture del passato regime: prefetti, questori, magistrati, ispettori di PS, capitani dei carabinieri ai posti di comando, hanno tutti vestito la camicia nera. Per non parlare degli operatori finanziari, quelli che allargano, o stringono, i cordoni della borsa, i presidenti dei vari enti statali, gli insegnanti di tutti i gradi e livelli.

In aggiunta, nei primi giorni del 1946, i pochi partigiani arruolati nella polizia ausiliaria, vengono allontanati. Il corpo viene epurato dagli elementi non affidabili. E’ troppo pericoloso che ex combattenti per la libertà detengano legalmente delle armi. Essendo poliziotti, sono armati.
La classica goccia che fa traboccare il vaso delle promesse non mantenute, è la legge emanata dal segretario nazionale del Partito Comunista Italiano, il Ministro della Giustizia, guardasigilli Palmiro Togliatti. Il 22 giugno 1946 entra in vigore il dispositivo per cui, in sostanza, si liberano i fascisti e si arrestano i partigiani responsabili di reati “comuni” o crimini “efferati” (eliminazione di gerarchi e simili) negli ultimi mesi della guerra di liberazione nazionale. Ma che è stata anche guerra civile e guerra di classe. Partendo da queste realtà prende corpo e si sviluppa il racconto di Pino Tripodi.

Manipoli di presunti vincitori, potenziali sconfitti ma non arresi, decidono di incidere profondamente sull’andamento delle cose. Vogliono cambiare il corso delle storie. In molte province, soprattutto del centro-nord Italia si riorganizzano, rispolverano le armi, ricostituiscono le Brigate, tornano in montagna.

Le agitazioni insurrezionaliste partigiane si registrano nelle province di Brescia, Sondrio, Mantova, Vercelli, Pavia,2 Lucca, Parma, Massa, Savona, Reggio Emilia, Pistoia, Verona, La Spezia,3 Vicenza, Firenze, Udine, Genova, Asti, Alessandria, Cuneo.

Proprio di quella che è diventata il simbolo (anche se poco conosciuta e studiata) e “capitale” delle rivolte partigiane dell’estate 1946, l’insurrezione di Santa Libera (20 agosto),4 località collinare del comune di Santo Stefano Belbo, provincia di Cuneo, paese natale del letterato-poeta-comunista Cesare Pavese, ci racconta, in forma romanzesca, l’autore di Per sempre partigiano.

ario L'IBER(N)AZIONE Grazie ad un lascito manoscritto, una sorta di autobiografia postuma consegnata ad un prete “illuminato” e progressista, che a sua volta la regala a Tripodi, uno dei protagonisti, Giovanni Primo Rocca, nato proprio – strani incroci del destino – il 21 gennaio 1921,5 capo – insieme ad Armando Valpreda 6, anch’egli reduce partigiano e, all’epoca dei fatti, presidente provinciale dell’Anpi di Asti – della rivolta, mescolando infanzia-adolescenza-giovinezza-amore-lotta-delusione-abbandono, dipana la storia di una sessantina di uomini che tornano in quella “casa sulla collina” dove, fino a pochi mesi prima, inquadrati nella Brigata Garibaldi Stella Rossa, avevano combattuto contro gli occupanti nazisti e i loro servi in camicia nera.

Rivendicano il diritto ad una vita di affetti, giustizia e riscatto sociale. Pretendono dignità umana e politica, chiedono ciò che era stato loro promesso, ma che non hanno ottenuto.
Tripodi-Rocca, in una sorta di duetto da ventriloquo, ricordano: “…sei un nero che frequenta le scuole dei bianchi. Glielo devi far capire che loro hanno i soldi mentre tu sei intelligente…”; accusano: “…i partigiani mi sono amorevolmente antipatici…mio padre è un partigiano. Mio padre è uno stronzo dunque tutti i partigiani sono stronzi…così per inerzia inizio a vedere in ogni partigiano un rompiballe presuntuoso”; si contraddicono: “…dicono che mi piace vincere però non sopporto le responsabilità della vittoria…” ; rimpiangono, inteso come rammarico: “…ai partigiani privi di santi in paradiso tocca la sorte dell’emarginazione della disoccupazione…” ; perché sono “persone storte”. Nel senso di diversi, non omologati, divergenti e distinti.

Nel loro narrare ci sono anche affermazioni forti che possono offendere o stupire. Ad esempio nel dichiarare, riferendosi alla nefasta e famigerata amnistia comunemente abbinata al nome di Togliatti, che: “…neanche andasse Hitler al governo potrebbe concepire un provvedimento simile…” . Oppure ancora: “…appendere Mussolini morto a testa in giù è il gesto meglio copiato dai nazifascisti…non è la nostra vendetta per i martiri di Piazzale Loreto massacrati dai fascisti. E’ la vendetta di Mussolini. Il ghigno di un assassino che può dire al mondo intero voi che vi liberate di me siete di me peggiori” . Il massimo dell’equiparazione repubblichini-partigiani. Anzi…criticano duramente la cultura antifascista: “…si dicono combattenti per la libertà ma hanno la cultura reazionaria introiettata anche nei calli…” Fino a sostenere: “…le spie…ci sono già a Santa Libera. Hanno in tasca le nostre stesse tessere di partito”. Per arrivare alle ultime “confessioni”, le più incredibili, le più amare, le più dolorose per un partigiano. “Primo Comandante sempre”, quasi come un pugile suonato, afferma: “…ogni qual volta c’è un peto di discontinuità nell’aria…qualcuno mi chiede di riprendere la vita attiva di partecipare a storie che chiamano in modo assai poco originale di nuova resistenza. Succede dopo l’attentato a Togliatti all’indomani del governo Scelba e tante altre volte. Chiunque senta il prurito di riprendere la lotta di ricominciare a combattere di imbracciare le armi viene da me. Lo ascolto con pazienza e lo licenzio con cortesia. Non sono cose per me…L’unica tentazione di tornare a vivere nella vita vera l’ho all’indomani del sessantotto ma dura appena un attimo…I compagni mi avvertono ti stai allontanando da noi”. (Per tutto il virgolettato: nessuna punteggiatura come nel testo, ndr).

Fa male, ferisce più di una manganellata, di una purga all’olio di ricino, di una seduta di torture in una delle tante “ville tristi” allestite dai nazifascisti in molte città della penisola, di un rastrellamento di civili, di una fucilazione di anziani, donne e bambini, sentire il ‘Comandante Sempre’, Giovanni Primo Rocca, pronunciare queste frasi. Un partigiano che decide di non esserlo mai più, per sempre. Altri, fortunatamente, come forse l’ultimo degli ancora in attività e in vita di quella bell’estate, Giovanni Reuccio Gerbi, continuano la lotta: senza tregua!7

L’epilogo, con la smobilitazione, dell’insurrezione di Santa Libera avviene il 27 agosto.
Con la sua ‘fine’ si esauriscono anche le altre agitazioni partigiane dell’agosto 1946. La ‘sordina’ a quel moto di rivolta si realizza per l’intervento di normalizzazione attuato dal dirigente comunista piemontese Celeste Negarville e, purtroppo, del prestigioso comandante partigiano della Val Sesia Cino Moscatelli.8 Tacitati i ribelli della collina piemontese, come detto, anche tutti gli altri insorti “rientrano”.9

ario incompiuta Per i cosiddetti paladini della libertà, il pericolo è scampato, per gli illusi-sognatori di un futuro diverso, l’appuntamento è rimandato. Ma, nemmeno l’attentato a Togliatti, l’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena, gli assassinii di Reggio Emilia, Licata (Ag), Palermo e Catania del luglio ’60, le stragi di Milano, Brescia, Italicus e stazione di Bologna riusciranno a smuovere i vecchi e nuovi partigiani, a mobilitarli ed organizzare il definitivo e finale assalto al cielo.

A conclusione di queste considerazioni, alcune note che non sono, e non vogliono essere, osservazioni negative, né critiche trancianti, sullo stile ortografico e letterario con cui l’autore ha scelto di raccontare la confessione umana e politica di Giovanni Rocca. Perché, come alcuni sostengono: “…chi sceglie di scrivere senza punteggiatura deve possedere una grande sicurezza, cioè deve conoscere a fondo le regole e far uso delle parole in maniera tale da “costringere” chi legge a far pausa laddove, per consuetudine, ci sarebbe voluto un segno”.
Ma, si può soggiungere, si obbliga chi legge ad affrontare una lettura diversa, a compiere uno sforzo interpretativo nuovo, non sempre facile e di immediata realizzazione.

Soprattutto, magari, per chi ha frequentazioni abituali – senza scomodare i classici della letteratura – con contemporanei come Cesare Pavese che ci mette in guardia dagli intellettuali di prima e seconda mano: “Per fidarsi di quelli che studiano, bisogna studiare…si dovrebbe studiare per sapere fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro”.
Oppure con Luis Sepulveda, “guerrigliero della parola”, l’internazionalista del racconto, l’apologeta del paradiso, “ma non quello dei preti, il nostro, quello in cui si fuma e si beve rum e se chiedi ad una ragazza di ballare, non ti dice mai di no” e delle “donne della mia generazione che scrissero la parola Companera su tutte le schiene e sui muri di tutte le carceri”.
Dell’erotico e anticonformista Boris Vian di “Sputerò sulle vostre tombe”.
Dell’ asciutto, sintetico e preciso Italo Calvino.
Dell’ operaio di Porto Marghera, Ferruccio Brugnaro, di Sono sempre stato da una parte sola, “…con i minatori, con i contadini, con gli operai turnisti”.
Il Pablo Neruda di Farwell, la poesia più amata da Ernesto Guevara de la Serna; di Sante Notarnicola, il bandito della poetica di La nostalgia e la memoria; di Julius Fucik e Papà Cervi..
Di Nazim Hikmet, il ‘turco’ Comunista romantico di “…so che ancora non è finito / il banchetto della miseria…/ ma finirà…” e Mahmoud Darwisch, fedayn della poesia e di “Scrivi: sono arabo…vengo da un villaggio perduto, dimenticato / dalle strade senza nome / e tutti gli uomini al campo come alla cava / amano il Comunismo”.
Questi sono alcuni esempi, non tutti.

Per concludere davvero, scomodando il filosofo di Treviri, è necessario scrivere con semplicità, precisione, chiarezza perché ci si rivolge a dei lettori che “presuppongo naturalmente vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé”.

Alcune indicazioni di carattere bibliografico per approfondire gli avvenimenti dell’estate 1946:

Oltre alla già citata tesi di laurea di Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010;

Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984

Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso (1943-1947), Sapere 2000, Roma, aprile 1994;

Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995;

Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995;

Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009;

Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013

Accompagnano il presente testo due opere di Ario Pizzarelli:
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25 aprile 1945-2015
L’IBERNAZIONE

1946-2016
INCOMPIUTA


  1. Nel gennaio del 1947 verrà accolto negli Stati Uniti d’America dove, con il cappello in mano, si reca per elemosinare le briciole degli aiuti economici del Piano Marshall, il piano per la ripresa europea: dollari USA in cambio di sudditanza economica, politica, sociale 

  2. Nell’ Oltrepò pavese, dove la protesta è energica e decisa, coordinano l’iniziativa, tra gli altri, Angelo Cassinera garibaldino Mufla, Luigi Vercesi e Vittorio Meriggi. Questi tre, con Luigi Bassanini, a bordo di una utilitaria di fortuna, raggiungono la zona di confine tra le province di Asti, Alessandria e Cuneo, per prendere contatto con gli altri insorti e concordare le azioni successive. Rientrati nel loro territorio, costituiscono due gruppi. Il primo, un’ ottantina di uomini equipaggiati con armi leggere e pesanti, è guidato da Ferruccio Fellegara e raggiunge il Brallo, una località di montagna nell’alta Valle Staffora, al confine tra le province di Pavia ed Alessandria, situata in posizione strategica e dove si controlla anche la Val Trebbia. L’altro raggruppamento, cinquanta uomini al seguito di Mufla, a bordo di un autocarro, raggiunge Pometo – comune di Ruino – da Stradella. Requisiscono scuole per utilizzarle come alloggiamenti, un albergo da adibire a “comando’” organizzano pattugliamenti e turni di vigilanza. Cassinera fa piazzare una mitragliatrice di 20 mm sulla strada principale di Brallo. Gli insorti pavesi dispongono anche di mortai e autoblindo  

  3. Dove, alla testa dei rivoltosi c’è Paolo Castagnino, maresciallo ausiliario di Pubblica Sicurezza, capo partigiano con il nome di Saetta, militante del Pci. Nell’aprile del 1972 verrà arrestato per “complicità’”con Giangiacomo Feltrinelli ed appartenenza a banda armata, ma sarà poi completamente scagionato  

  4. Inizialmente in tanti solidarizzano con i rivoltosi piemontesi, anche il sindaco Pci di Asti, Felice Platone, e molti dirigenti locali dell’Associazione Nazionale Partigiani  

  5. Lo stesso giorno in cui, a Livorno, suo padre partecipava alla fondazione del Partito Comunista d’Italia  

  6. Nel saggio di Laurana Lajolo, “I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946” il leader degli insorti, Armando, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato “808’” in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  7. Vedi la tesi di laurea di Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010  

  8. Nonostante gli accordi raggiunti, tra cui la non punibilità per i protagonisti della rivolta, vengono arrestati – perché individuati quali capi degli insorti – Battista Reggia, Giovanni Rocca e Armando Valpreda. Quest’ultimo, arrestato e rilasciato a più riprese, decide di riparare in Cecoslovacchia da dove rientra definitivamente nel 1956 a seguito dell’amnistia  

  9. In Oltrepò smobilitano entro la fine d’agosto, nello spezzino si prosegue fino al 3 settembre. L’ultimo colpo di coda avviena a Pallanza, vicino a Verbania, Val d’Ossola, il 29 agosto: circa 200 partigiani armati entrano nelle carceri e, dopo aver disarmato le guardie, liberano tre loro compagni arrestati per un omicidio politico, poi riparano in montagna  

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Prima dell’art.18 (parte terza) https://www.carmillaonline.com/2015/02/06/prima-dellart-18-parte-terza/ Thu, 05 Feb 2015 23:13:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20495 di Alexik

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1950-modena-eccidio-fonderie (1)A Modena il 1950 si aprì nel peggiore dei modi. Nei primi giorni dell’anno gli industriali della città, riuniti presso Confindustria, decisero che era ora di sancire col sangue il loro diritto a licenziare.

Era passato un mese da quando Adolfo Orsi, proprietario delle Fonderie Riunite, aveva decretato la serrata buttando fuori 560 lavoratori. L’intenzione dichiarata era quella di riassumerne solo 250, ad esclusione di quelli politicamente e sindacalmente attivi, e di procedere all’azzeramento di [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

1950-modena-eccidio-fonderie (1)A Modena il 1950 si aprì nel peggiore dei modi. Nei primi giorni dell’anno gli industriali della città, riuniti presso Confindustria, decisero che era ora di sancire col sangue il loro diritto a licenziare.

Era passato un mese da quando Adolfo Orsi, proprietario delle Fonderie Riunite, aveva decretato la serrata buttando fuori 560 lavoratori. L’intenzione dichiarata era quella di riassumerne solo 250, ad esclusione di quelli politicamente e sindacalmente attivi, e di procedere all’azzeramento di tutti i diritti conquistati: il cottimo collettivo, la mensa gratuita, le bacheche sindacali, la stanza di allattamento per le operaie.

Il pretesto dei licenziamenti (allora come oggi) era la crisi. L’obbiettivo (allora come oggi) era la restaurazione in fabbrica dell’ ancien régime, e non solo alle Riunite.

Adolfo Orsi, che possedeva, oltre alle Fonderie, la Maserati e la Cave Engentra, era un fascista di lungo corso. Anche per lui la vittoria democristiana alle elezioni del ’48 aveva rappresentato l’occasione di rialzare la testa.

Sapeva Orsi di poter contare sullo Stato, rappresentato a Modena da un prefetto e da un questore traghettati direttamente dal periodo fascista, senza che la legge sull’epurazione li avesse minimamente scalfiti. In particolare il prefetto Giovan Battista Laura si era già distinto negli anni ‘30 come Vice-Podestà di Milano, dimostrando “uno zelo ed una diligenza veramente fuor di luogo, assumendosi una personale responsabilità” nella persecuzione degli ebrei1.

Sapeva, Orsi, di poter contare, con poche defezioni, anche sull’appoggio dei suoi pari, che riuniti nella sede di Confindustria decisero l’uso della violenza contro la manifestazione indetta il 9 gennaio dalla Camera del Lavoro per opporsi ai licenziamenti delle Riunite.

eccidio-fonderie-modena-gennaio-1950

Modena, 9 gennaio 1950.

Prefetto e questore rifiutarono la concessione della piazza nel giorno dello sciopero generale, nonostante la richiesta venisse avanzata da senatori e deputati della Repubblica. Il diniego fu comunicato in termini perentori dal questore, che accolse la delegazione parlamentare al grido “Vi stermineremo tutti !”. Fu di parola.

Domenica 8 gennaio affluirono a Modena circa 1.500 fra poliziotti e carabinieri, tra cui i corpi speciali anti sommossa, con autoblindo, camion, jeep, e armati di tutto punto. Orsi li fece accomodare dentro la fabbrica, in modo che potessero appostarsi sopra i tetti. Questa, nelle testimonianze di chi c’era, la cronaca del giorno seguente2:

“Lo stabilimento è presidiato, circondato dalla polizia. Tutto il quartiere blindato dai posti di blocco nei punti cruciali. I rinforzi erano arrivati da Cesena, Bologna, Ferrara, Parma, Reggio Emilia”….”Ventimila persone cominciano a radunarsi nella zona industriale, pacificamente. La celere comincia a scatenarsi con il suo repertorio, fatto da caroselli, manganellate, lacrimogeni”. “I primi spari partirono dal terrazzo delle fonderie e rimasero colpiti subito 3, e altri feriti”. “Io avevo 18 anni allora, ero in prima linea, e là erano là sopra che facevano il tiro al piccione” .

Morti di Modena 1950

Caduti nell’eccidio di Modena del 9 gennaio 1950.

Morirono Angelo Appiani (30 anni, partigiano, metallurgico), Arturo Chiappelli (43 anni, partigiano, spazzino), Arturo Malagoli (21 anni bracciante), Roberto Rovatti (36 anni, partigiano, metallurgico), Ennio Garagnani (21 anni, carrettiere), Renzo Bersani (21 anni metallurgico). Sei morti a cui aggiungere duecentottanta feriti3.

Il 10 gennaio fu sciopero generale in tutta l’Emilia Romagna, con manifestazioni di migliaia di persone in ogni città: a Bologna e Reggio Emilia dove l’astensione dal lavoro fu totale, a Rimini, dove i manifestanti subirono le cariche, a Forlì, dove sfilarono in 20.000, ed altri 20.000 a Ravenna.

Il 12 ci furono i funerali e 300.000 persone si strinsero agli operai modenesi. Togliatti, pronunciò parole vibranti, forse dimentico che senza l’amnistia da lui varata nel ’46, prefetto e questore di Modena sarebbero stati probabilmente epurati da tempo. Quel giorno si dimise il IV governo De Gasperi, ma solo per un breve rimpasto, che non spostò comunque Scelba dal Ministero degli Interni.

Ormai, il ritorno dei fascisti ai loro posti di potere era un problema generalizzato, una tendenza che l’ondata di indignazione successiva al massacro non riuscì ad invertire. Così come non riuscì ad impedire i licenziamenti. Le Riunite riaprirono, ma senza riassumere tutti, un pessimo esempio anche per la vicina Bologna, dove Adolfo Orsi divenne un modello da imitare.

Cogne

Imola 22 marzo 1950: gli operai della Cogne fronteggiano la polizia.

Il 10 maggio alla Sigma (Officine Casaralta) di Bologna, azienda specializzata nella costruzione e riparazione delle carrozze ferroviarie, venne annunciata la messa in liquidazione e il licenziamento immediato dei 700 dipendenti. La proprietà, l’imprenditore bergamasco Carlo Regazzoni, intendeva così rispondere alle rivendicazioni salariali delle maestranze, che da alcuni mesi attuavano la tattica degli scioperi a singhiozzo.

Anche Regazzoni, come il modenese Orsi, era un vecchio amico dei fascisti, legato in particolare, durante il ventennio, a Leonardo Arpinati, gerarca e squadrista della prima ora. Anche Regazzoni si era arricchito grazie alle commesse belliche. Ma di restituire un po’ di quel guadagno sotto forma di salari agli operai neanche a parlarne.

All’annuncio dei licenziamenti seguì subito l’occupazione della fabbrica. Mario Cornetto, operaio della Minganti, ricorda cosa doveva affrontare chi portava solidarietà agli occupanti: “Occuparono la fabbrica gli operai e la occuparono per parecchio tempo e poi ci fu la serrata, che poi… riaprirono l’azienda cambiando nome sociale e poi fecero la scelta di quelli che dovevano entrare e di quelli che non dovevano entrare. […] Noi tutte le mattine andavamo lì e tutte le mattine c’erano i carabinieri con il calcio del fucile e ti davano delle gran botte. Non era lo sfollagente, era proprio… che venivano da Padova, il famoso, il famigerato capitano Bianco, del battaglione là che venivano da Padova e serviva per stangare, per dare delle gran botte. Non è scappato il morto a Bologna fortunatamente, ma… delle botte !”4.

Dopo tre mesi di occupazione le Officine Casaralta riaprirono i battenti, ma a personale ridotto. I più politicizzati rimasero fuori.

1950. Contadini di Crespellano consegnano il grano alle operaie Doppieri.

1950. Contadini di Crespellano consegnano il grano alle operaie Doppieri.

Nel frattempo, a peggiorare la situazione occupazionale in città, scattarano i licenziamenti anche al calzificio Doppieri, una fabbrica prevalentemente al femminile.

Anche al novarese Carlo Doppieri il ventennio aveva portato fortuna. Grazie alle leggi razziali aveva potuto comprare sottocosto il calzificio di Bologna dal proprietario ebreo, Armando Passigli, e grazie alla guerra aveva anche visto prosperare la Motofides, la sua fabbrica di siluri di Livorno. Amava giocare, Doppieri, in tempo di guerra, con la fame delle sue operaie. Quando veniva a trovarle da Novara era solito radunarle nella mensa e lanciare loro pacchetti di calze e sigarette, per vedere se si azzuffavano. A guerra finita le operaie decisero che non volevano più queste elemosine, ma salario5.

Nel giugno del ’50 la direzione comunicò 70 licenziamenti su una forza lavoro di 122 donne e 35 uomini, la riduzione dell’orario di lavoro a 24 ore settimanali e il progressivo smantellamento della fabbrica. Fu occupazione, subito.

Tutti partecipammo alle lotte della serrata. Tutti quanti, la fabbrica era ferma. Siamo stati fermi un bel po’, eravamo lì giorno e notte. Si, tutto il caldo abbiamo passato lì, tutta l’estate. In piazza c’erano sempre delle manifestazioni e qualcuno di noi ci andava, che allora sparavano, mica facevano dei complimenti. Bussavano forte, ma era una lotta partecipata. Si sentiva che c’era un ideale. Per un ideale la gente si ammazza6 (Dolores, licenziata dalla Doppieri).

1950. Solidarietà dei calzolai alle operaie della Doppieri.

1950. Solidarietà dei calzolai e delle orlatrici alle operaie della Doppieri.

L’occupazione alla Doppieri durò 110 giorni, durante i quali si scatenò una vera e propria gara di solidarietà. I contadini della provincia portavano il grano, i calzolai e le orlatrici disoccupate allestirono un laboratorio all’aperto, lavorando per sottoscrivere a favore delle licenziate. Gli operai della Sigma, alla fine della loro lotta, consegnarono le loro scorte di viveri, e in 100 fabbriche ci furono assemblee di solidarietà. La lotta si concluse con un accordo che confermava 38 licenziamenti, la sospensione di altri 38, e la ripresa del lavoro di 81. Fra i licenziati il segretario della Commissione interna e l’operaia Dolores Giovannini, ex partigiana 7. (Continua)


  1. Luigi Ambrosi, La continuità dello Stato, in Zapruder. Storie in movimento, 16 ottobre 2003. 

  2. Testimonianze di Marcello Sighinolfi, Valmori Francesco e altri, tratte dal video 9 gennaio 1950, Fuori.tv. 

  3. Per approfondire: Eliseo Ferrari, A sangue freddo. Modena 9 gennaio 1950. Cronaca di un eccidio, Roma, Editrice LiberEtà, 2005, pp. 146. Tinelli Francesco, Era il vento e non la folla. Eccidio di Modena 9 gennaio 1950, Bèbert, 2015. 

  4. Piano b, La fabbrica e il dragone. Casaralta. Inchiesta sociale su una fabbrica e il suo territorio, in Metronomie anno XIV Giugno-Dicembre 2007, pp. 43/103.  

  5. Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991, pp. 70/72. 

  6. Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014, p.122. 

  7. Ibidem, p. 79 

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