Alberto Salmoni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vivere per raccontare: Primo Levi https://www.carmillaonline.com/2018/02/28/vivere-raccontare-primo-levi/ Wed, 28 Feb 2018 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43891 di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo ideale della scrittura e dell’elaborazione delle opere di un autore, serve proprio a sintetizzare una vita e un’opera che con l’istituto tipico dell’economia e del modo di produzione capitalistico hanno condiviso anni, riflessioni, preoccupazioni e immaginario. Sia in libertà che sotto il regime oppressivo e massacratore dei campi di lavoro e sterminio messi in essere dal Nazismo e dall’industria tedesca nel corso del secondo conflitto mondiale.

Levi il “chimico prestato alla scrittura”, come egli stesso si definiva, fu infatti fortemente segnato dall’esperienza del lavoro organizzato e disciplinato degli stabilimenti sia dell’IG Farben della Buna di Auschwitz, dove lavorò come chimico grazie alla sua specializzazione e alla sua conoscenza della lingua tedesca, che della fabbrica di vernici Siva di Torino, dove rivestì prima l’incarico di direttore tecnico e successivamente quello di direttore generale fino alla sua decisione di lasciare il lavoro.

Lavoro che entrerà più volte nella vita e nell’opera dello scrittore sia come ricordo che come materiale per i racconti di La chiave a stella. Lavoro visto come orgogliosa espressione di un’autentica vita activa, unica vera fonte di ispirazione possibile per le “creazioni” di un autore secondo Levi, ma anche come preoccupazione o addirittura ostacolo alla piena realizzazione della sua attività di letterato e scrittore. Una contraddizione che, come molte altre, percorrerà e sarà presente in tutta la carriera di Primo Levi.

Ian Thomson, reporter, traduttore e critico letterario inglese che collabora con giornali e quotidiani quali “The Observer”, “The Spectator”, “The Guardian”, “The Finacial Times”, “The Telegraph”, “The Times Literary Supplement” e “The London Review of Books” oltre ad essere membro della Royal Society of Literature e docente di Creative Non-fiction all’università dell’East Anglia, segue il filo della vita dell’autore italiano mentre si dipana tra il lavoro di fabbrica, sia coatto che libero, e lavoro creativo fortemente influenzato da ciò che Levi pensava dovesse essere il dovere di chi era sopravvissuto ai lager: “Per molti di noi la speranza di sopravvivere si identificava con un’altra speranza più precisa: speravamo non di vivere e raccontare, ma di vivere per raccontare. E’ il sogno dei reduci di tutti i tempi. E del forte e del vile, del poeta e del semplice […] Era chiaro a ognuno di noi che le cose che avevamo viste dovevano essere raccontate, non dovevano essere dimenticate. […] Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore infaticabile, imperioso, maniaco”.

Tutto questo era premesso in una Nota alla versione teatrale di Se questo è un uomo che fu rappresentata per la prima volta a Torino nel 1966, la cui origine e realizzazione, fino alle sue alterne fortune di critica e di pubblico, sono ricostruite, insieme alle aspettative e alle preoccupazioni di Levi in proposito, da Thomson nel diciassettesimo capitolo della biografia.
Capitolo che da solo basterebbe già a sintetizzare le alterne fortune e i grandi riconoscimenti di critica e di pubblico che accompagnarono sempre, o almeno fino a quando fu in vita, le opera dello scrittore torinese.

Per brevità necessaria ad una recensione è impossibile qui anche solo riassumere le vicende che accompagnarono la pubblicazione degli scritti di Levi, fin da quel 1947 in cui la sua prima, straordinaria opera autobiografica fu rifiutata da tutti gli editori cui venne proposta e infine pubblicata da un piccola casa editrice torinese, la “Francesco Da Silva”, messa in piedi da Franco Antonicelli, ex-presidente del CLN piemontese e uomo di grande cultura.
Soltanto nel 1958, infatti, Se questo è un uomo divenne uno dei cavalli di battaglia della casa editrice Einaudi che avrebbe poi contribuito a promuoverlo come uno dei classici della letteratura italiana del ‘900. Da quello stesso anno tutte le opere di Primo Levi sarebbero state pubblicate dalla prestigiosa casa editrice torinese, anche se i rapporti tra lo scrittore, uomo colto ma piuttosto comune nelle sue abitudini, e l’editore Giulio Einaudi, dai modi aristocratici e dai gusti raffinati, non sarebbero mai stati molto stretti e intimi.

Più importante è forse la ricostruzione delle frequentazioni e delle amicizie di Levi che vedevano al primo posto, e in alcuni casi fin da prima della guerra, personaggi importantissimi ma poco appariscenti come Bianca Guidetti Serra, Alberto Salmoni, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, solo per citarne alcuni, e in un secondo tempo altri quali Leonardo Sciascia (anche se i due non si sarebbero mai incontrati fisicamente), Italo Calvino e molti altri ancora, sia italiani che stranieri.

Frequentazioni ed amicizie che poco, comunque, avrebbero potuto fare per salvare Levi da se stesso o, almeno, da quelle forme depressive che lo accompagnarono per molti anni, fino al suicidio avvenuto l’11 aprile 1987. Proprio nell’anniversario della sua liberazione dal campo di Auschwitz, l’11 aprile 1945. Quanto tutto questo fosse legato alla memoria di essere un ”salvato”, un sopravvissuto, rimarrà a lungo tema di discussione, ma rimane indiscutibile il fatto che la sua ultima opera pubblicata mentre era ancora in vita sia stata dedicata proprio allo stesso argomento, come recita fin dal titolo: I sommersi e i salvati.

Poeta, memorialista, saggista, autore di romanzi, scrittore di racconti di lavoro e di fantascienza, Primo Levi fu anche sempre estremamente attento al destino e alle scelte dello stato di Israele, che egli visitò una sola volta e in cui la sua opera principale fu pubblicata soltanto un anno e mezzo dopo la sua morte, nel 1988. Paese di cui, dopo aver apprezzato l’utopia e la sorgente socialista delle origini, Levi non poté fare a meno di diventare critico della politica sionista condotta nei confronti dei palestinesi.

In particolare nel corso della guerra in Libano del 1982 quando, ulteriormente inorridito dalla strage di palestinesi operata a Sabra e Shatila dagli uomini delle le milizie cristiano-falangiste con la complicità dell’esercito israeliano, avrebbe pubblicamente perorato la richiesta di dimissioni del premier israeliano Begin. “Dal punto di vista di Levi, ciò che era imperdonabile nel primo ministro Begin era il suo ricorso al mito degli ebrei come vittime dei nazisti per giustificare il proprio militarismo e le violenze inflitte ai palestinesi”1

La presa di posizione dell’autore suscitò indignazione nella comunità ebraica più conservatrice e gli procurò anche alcune dolorose fratture nell’ambito delle sua amicizie, ma sicuramente la difesa di Israele come luogo di rifugio quasi utopico per gli scampati alla Shoa operata da Levi non avrebbe mai accettato di piegarsi alle logiche imperialistiche di quello Stato, messe in atto dai suoi governanti e dai suoi eserciti e che in una intervista di quei giorni ebbe a paragonare alla campagna militare inglese nei confronti delle Isole Falkland che si svolse proprio in quello stesso anno.

Nato nel 1919 da una famiglia di origine sefardita, trasferitasi in Piemonte, come molte altre dopo la cacciata dalla Spagna riconquistata dai re cattolici, che dopo un primo momento di opportunistica liberalità concessa agli inizi dai Savoia aveva avuto modo di conoscere sia il ghetto che varie altre vicende di oppressione politica e d economica, Levi preferirà sempre l’ebraismo della diaspora a quello dello Stato nazionale, riconoscendo soltanto nel primo, pur rimanendo rigorosamente ateo e non praticante, l’anima autentica della cultura ebraica: cosmopolita e aperta alla comprensione dell’altro. Tranne per i persecutori ed autori della shoa per i quali non ammise mai qualsiasi forma di perdono.

Ian Thomson attraverso un’attenta ricerca sui testi, articoli di giornale, fonti di archivio e, soprattutto, attraverso più di 300 testimonianze dirette raccolte nel corso del suo lungo lavoro testimonia il travaglio di una vita. Dalle origini alla morte, di un autore che pur avendo un rapporto contraddittorio con Kafka, di cui fu traduttore dell’opera più complessa e disumana (Il processo), e Leopardi, di cui forse non riconobbe il materialismo, finì col condividere con gli stessi una visione cupa e pessimistica del suo tempo e del divenire della società umana. Purtroppo confermata dalle politiche e dalle scelte sociali ed economiche messe in atto dai governi degli ultimi decenni.

Come scrisse nella prefazione del 1972 dedicata ai giovani lettori dell’edizione scolastica del suo capolavoro:

“Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e allo stesso tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere ed i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale ed accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su du essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata e, da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse. Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi «aristocratiche»: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori ( e cioè dei tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo; la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.”

Sono passati più di settant’anni dalla caduta “formale” del fascismo, eppure se ci guardiamo intorno, possiamo ancora riconoscerci nelle parole che Levi aggiungeva poche righe dopo:

“Soprattutto, non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà.” 2

Forse, e questo è un appunto non del tutto secondario, la traduzione italiana dell’opera avrebbe dovuto rivedere ed integrare quelle parti in cui i giudizi e i riassunti della situazione sociale e politica italiana dagli anni sessanta agli anni settanta e ottanta avrebbero potuto e dovuto essere più ponderati e meno superficiali. Basti per tutti dire che nel testo le vittime dell’attentato di Piazza Fontana risultano essere dei passanti e che gli attentati che precedettero la strage che diede “ufficialmente” il via alla strategia della tensione vengono definiti come “bombette”.

Levi non ne sarebbe stato contento, non per motivi ideologici o politici, ma soprattutto per l’onestà e la precisione, la chiarezza e lo stile asciutto che sempre hanno caratterizzato i suoi scritti che lo annoverano sicuramente tra i più importanti scrittori e testimoni italiani del secondo ‘900. Insieme a Beppe Fenoglio, Leonardo Sciascia e Italo Calvino che, in modo e ambiti diversi, si mossero nella stessa direzione. Una lezione di memoria, storia e letteratura da parte di un autentico profeta del nostro tempo di cui abbiamo ancora bisogno. Soprattutto oggi.

Si segnala che l’autore, Jan Thomson, sarà presente a Milano, per un incontro con il pubblico, sabato 10 marzo alle ore 19 (Sala bianca) in occasione della manifestazione Tempo di libri, Fiera internazionale dell’editoria.


  1. Ian Thomson, Primo Levi, pag. 580  

  2. P. Levi, Se questo è un uomo, Prefazione 1972 ai giovani, Edizioni scolastiche Einaudi, pp 5-7  

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Un granello di sabbia https://www.carmillaonline.com/2015/06/24/un-granello-di-sabbia/ Wed, 24 Jun 2015 01:23:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23598 di Alexik

Bianca Guidetti Serra«È un avvocato di Torino…», disse mia madre passandomi la cornetta. Un pomeriggio d’inverno del 2011, il Novecento mi telefonò a casa. Aveva la voce squillante di Bianca Guidetti Serra a novantadue anni, il suo rotacismo sull’accento piemontese” (Daniele Orlandi, “A voi la fiaccola”).

Coglie nel segno Daniele Orlandi in apertura del suo bellissimo saggio sull’amicizia fra Bianca Guidetti Serra e Primo Levi. Coglie nel segno perché l’intera vita di questo “avvocato di Torino” riassume in sé i momenti più alti delle [...]]]> di Alexik

Bianca Guidetti Serra«È un avvocato di Torino…», disse mia madre passandomi la cornetta. Un pomeriggio d’inverno del 2011, il Novecento mi telefonò a casa. Aveva la voce squillante di Bianca Guidetti Serra a novantadue anni, il suo rotacismo sull’accento piemontese” (Daniele Orlandi, “A voi la fiaccola”).

Coglie nel segno Daniele Orlandi in apertura del suo bellissimo saggio sull’amicizia fra Bianca Guidetti Serra e Primo Levi. Coglie nel segno perché l’intera vita di questo “avvocato di Torino” riassume in sé i momenti più alti delle lotte sociali e delle conquiste civili del Novecento italiano. Pochi hanno saputo incarnare lo spirito del proprio tempo (a volte anticipandolo) come Bianca Guidetti Serra, ad attraversare il secolo breve con una tale internità ai processi di cambiamento.

Con eccessiva modestia, lei si definiva come “un granello di sabbia, che unendosi ad altri può creare degli argini a correnti pericolose e può inceppare ingranaggi e meccanismi perversi”.

Non le sfuggiva dunque l’importanza della dimensione collettiva nell’agire politico, né la difficoltà dell’obbiettivo: arginare le correnti più nefaste della Storia, inceppare i meccanismi del Potere, compiti all’apparenza così smisurati rispetto alle forze dei singoli. Di certo, questo gigante morale del ‘900, nel farsi sabbia seppe spesso provocare in quegli ingranaggi un acuto stridio, e varie volte a fermarli.

Oggi ricorre un anno esatto dalla fine della sua lunga vita, che ebbe una ricchezza e un’intensità difficili da riassumere in poche righe. A partire da quel suo primo gesto adolescenziale, spontaneamente antifascista, di una notte del 1938, quando uscì per le strade di Torino per strappare i manifesti che definivano gli ebrei come “nemici della patria”.

Bianca Guidetti Serra e Primo Levi

Bianca Guidetti Serra e Primo Levi

Cominciò così, non ancora per coscienza politica quanto per un profondo senso di giustizia, il suo “farsi argine”, come momento di un processo di maturazione collettiva nel suo straordinario gruppo di amici: Alberto Salmoni, Franco Momigliano, Silvio Ortona, Vanda Maestro, Luciana Nissim, Ada Della Torre, Franco Sacerdoti, Primo Levi, Sandro Delmastro, Emanuele Artom.

Dopo l’8 settembre presero tutti la via delle montagne, e alcuni la strada ferrata per i campi di sterminio. Unica “gentile” in un gruppo di ebrei, fu Bianca  la destinataria delle lettere dall’inferno di Primo Levi.

Al fianco di Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra divenne staffetta partigiana nelle valli piemontesi, ma soprattutto organizzò assieme alle compagne di varie formazioni, la rete clandestina torinese dei “Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti per la libertà” (GDD): la base della Resistenza sociale, senza la quale nemmeno la lotta armata sarebbe stata possibile.

Le donne dei Gruppi di difesa erano l’ossatura del Soccorso Rosso per i prigionieri e le loro famiglie, raccoglievano fondi e beni di prima necessità per le brigate partigiane, costruivano reti di cura dei feriti nelle case e negli ospedali. Ma i loro compiti erano ben più ampi e complessi della semplice “assistenza”: si occupavano della redazione dei giornali clandestini, della compilazione di documenti falsi. Mappavano gli spostamenti delle truppe tedesche, segnalavano i punti minati, assaltavano i magazzini di viveri, trasportavano ordini, armi e munizioni. Manifestavano in onore delle compagne uccise, o per impedire deportazioni e rastrellamenti, e per la liberazione dei prigionieri. Alcune riuscivano a rapire militari tedeschi per scambiarli con i condannati a morte. Nelle fabbriche promuovevano gli scioperi delle donne e i sabotaggi della produzione bellica, che aveva forti componenti femminili fra le maestranze operaie1.

Bianca, nel nucleo fondatore dei GDD di Torino, fu attiva nelle attività di propaganda, e grazie alla sua esperienza precedente di assistente sociale di fabbrica ebbe il compito di curare l’internità delle donne ai comitati di agitazione2 che si andavano diffondendo nei luoghi di lavoro, in vista dello sciopero preinsurrezionale del 18 aprile ’45.

Torino, 14 luglio 1945: lo sciopero delle donne

Torino, 14 luglio 1945: lo sciopero delle donne

Un’attività che non si fermò col 25 aprile, perché se Liberazione doveva essere, essa doveva riguardare anche la discriminazione di genere a partire dalla disparità salariale.

Nel luglio del ’45 le donne di Torino scesero in sciopero ed occuparono l’Unione Industriale per ottenere la stessa indennità di contingenza degli uomini. Raggiunsero l’obbiettivo, anche se temporaneo e territorialmente circoscritto.

Non era un risultato scontato, e non lo sarebbe stato nemmeno dopo il varo della Costituzione repubblicana che formalmente sanciva l’eguaglianza fra i sessi. Per affermare questo principio sul piano giuridico  si dovette aspettare, nel 1958, l’esito vittorioso della prima causa per la parità salariale fra uomo e donna e l’abolizione della “clausola di nubilato”3, condotta contro il Gruppo Finanziario Tessile di Torino. A difesa delle lavoratrici tessili vi era l’avvocato Bianca Guidetti Serra.

Nei primi anni del dopoguerra l’ineguaglianza di genere non fu l’unico esempio di inapplicazione del testo costituzionale. Alla sconfitta formale del fascismo non era seguita né l’abrogazione del codice penale ereditato dal guardasigilli di Mussolini, Alfredo Rocco, né l’epurazione dall’apparato repressivo dei funzionari e dei giudici nominati nel ventennio. A dire il vero, l’ossatura dell’odierno codice penale è ancora quella, tuttora usata contro i movimenti, ma negli anni ’50 essa si presentava tal quale, senza alcun emendamento.

Torino 8 luglio 1962

Torino 8 luglio 1962

Prima che ne venisse sancita l’illegittimità costituzionale4, l’art. 113 del codice Rocco, che vietava i comizi, i volantinaggi e l’affissione di manifesti senza previa autorizzazione della questura, veniva applicato in maniera intensiva, portando a giudizio e a reclusione centinaia di militanti sindacali e dei partiti della sinistra. L’avvocato Guidetti Serra dovette occuparsene parecchio, assieme agli arresti per le attività di fabbrica, e la difesa giuridica delle lotte costituì per lei un osservatorio privilegiato dei cambiamenti nella composizione di classe e dell’emergere di nuove conflittualità. Come quando, nel luglio ’62, dopo un accordo separato con la Fiat, centinaia operai corsero all’assalto della sede della UIL di Piazza Statuto, reggendo gli scontri per tre giorni. Bianca fece parte del collegio di difesa dei 72 arrestati, di cui “quasi la metà erano meridionali e, tra tutti quanti, solo otto avevano più di trent’anni, e il più giovane ne aveva quattordici5. Avvertì da subito la crescita di quel nuovo soggetto giovane e immigrato, irregimentato in produzione ma confinato ai margini della città, e la crescita della sua rabbia, tale da alimentare il ciclo di lotte successivo.

Gli anni ’60 rappresentarono per Bianca anche quelli dell’impegno a favore dell’infanzia abbandonata rinchiusa dentro istituzioni totali minorili, veri e propri lager per proletari in fasce. Fu un lavoro costante di inchiesta e di denuncia, condotto assieme a Francesco Santanera, che servì a portare in tribunale i gestori di vari istituti, per le violenze, la denutrizione, l’incuria inflitta a centinaia di inermi ragazzini. Bambini lasciati morire per mancanza di cure, bambini suicidi, una galleria degli orrori raccontata qualche anno dopo nel libro “Il paese dei celestini”:

I ragazzi erano malnutriti ed erano assoggettati a punizioni intollerabili come mangiare anche per quindici giorni la pappa di pane senza sale e con l’olio di merluzzo, essere legati alle zampe del letto sotto di questo a crocefisso, ricevere percosse”. (Istituto Maria Vergine Assunta in Cielo, Prato).

I celestini 2

I “Celestini”

Porte sgangherate, urina stagnante a terra, sporcizia stratificata sulle pareti, insetti schifosi che movimentano l’ambiente. Questi locali sono il soggiorno di una quindicina di bimbi minorati psichici e non, che sono ospiti a pagamento di questo assurdo collegio di pseudorieducazione … I loro corpicini scarni, deformati, i loro occhi spenti ma tristi, fanno sì che qualsiasi uomo, anche il più abbietto, si muova a compassione e inviti, chi è competente, a provvedere” (Casa materna per bambini minorati  di Pagliuca Maria Diletta, Grottaferrata).

I processi ai gestori e al personale degli istituti si conclusero con alcune lievi condanne, ma la campagna di denuncia della Guidetti Serra e Santanera raggiunse ugualmente un risultato importante con la legge sulle adozioni del 1967, che finalmente tolse spazio agli aguzzini6.

Punto di riferimento per gli abitanti dei quartieri popolari e ormai nota per la sua competenza sulle questioni minorili, alla Guidetti Serra si rivolsero Argenide Rovoletto e Marianna Cavallero per problematiche relative ad affidamenti ed adozioni. Ma nell’ottobre del 1967, le madri di due fra i rapinatori più famosi del paese, dovettero tornare in quell’ufficio per tutt’altri motivi. (Continua)


  1. Bianca Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino, Vol. I e II, Einaudi, 1977. 

  2. Da quei comitati nacquero, nel dopoguerra, le Commissioni Interne. 

  3. La clausola di nubilato, la cui sottoscrizione veniva imposta alle lavoratrici all’atto dell’assunzione, prevedeva la risoluzione del rapporto di lavoro a seguito del loro matrimonio. A volte era direttamente contenuta nei contratti. Venne dichiarata nulla con la legge n.7 del 1963. 

  4. Sentenza della Corte Costituzionale n, 1 del 1956

  5. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 90. 

  6. Bianca Guidetti Serra, Francesco Santanera (a cura di), Il paese dei Celestini. Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, 1973, pp.5/6. Bianca Guidetti Serra,  Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), Linea D’Ombra, 1994, pp. 37/61. 

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