Alberto Brodesco – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I mondi di Miyazaki https://www.carmillaonline.com/2016/02/22/i-mondi-di-miyazaki/ Mon, 22 Feb 2016 22:30:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28483 di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, [...]]]> di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, o non del tutto, esplorate dagli studi in lingua italiana. Il volume, che raccoglie scritti di Alberto Brodesco, Marcello Ghilardi, Andrea Fontana, Marco Casolino, Luigi Abiusi, Roberto Terrosi e Massimo Soumaré, affronta questioni che vanno dall’ucronia al pacifismo in Miyazaki, dalle presenze divine alle questioni filosofiche presenti nei suoi lavori come mangaka, da riflessioni sulla tecnica al rapporto tra natura e scienza.

Lo scritto di Alberto Brodesco (“La melanconia dell’ingegnere. Il sogno tecnoscientifico di Si alza il vento”) analizza l’ultimo lungometraggio del regista giapponese, ispirato a due diverse opere: il racconto autobiografico dell’ingegnere Horikoshi Jirō, progettista del celebre aereo Zero impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale, ed il romanzo Kaze Tachinu (The Wind Has Risen, 1938) di Hori Tatsuo, che narra le vicissitudini di una donna malata di tubercolosi.
Brodesco evidenzia l’importanza della comparsa in sogno al protagonista dell’ingegnere aeronautico italiano Giovanni Battista Caproni; comparsa che evidenzia una delle questioni centrali del film, ossia se i desideri meritino di essere conseguiti a prescindere dagli effetti che essi potranno generare sul resto del mondo. In questo caso la domanda che attraversa l’opera riguarda la legittimità dei sogni aeronautici “puri”, estetici, in rapporto ad una realtà che finirà per sfruttarli a fini bellici. Lo studioso evidenzia anche come il sogno che accomuna il protagonista giapponese e la figura di Caproni coincida con il sogno delle rispettive nazioni che, percependosi arretrate, vedono nell’innovazione tecnologica uno strumento di riscatto collettivo.
Le figure dei due scienziati messe in scena di Miyazaki rimandano a quel tipo di scienziato che lo studioso Roslynn D. Haynes definisce “lo stupido virtuoso”, ossia quell’uomo di scienza che vive fuori dalla realtà senza avere coscienza delle implicazioni sociali del suo operare scientifico, ed i due ingegneri possono essere ricondotti a tale categoria proprio «perché si interrogano sì sull’utilizzo dei loro aeroplani, sulle conseguenze dei loro progetti, ma risolvono la questione rifugiandosi nell’ambito dell’estetica: l’importante è fornire al mondo degli oggetti che lo rendano più bello» (p. 18).

LE VENT SE LEVE un film de Hayao Miyazaki au cinéma le 22 Janvier 2014All’uscita del film il regista è stato accusato di dare scarsa importanza all’utilizzo militare dell’aereo, rifugiandosi quasi esclusivamente in una lettura estetica della tecnologia, inoltre, a Miyazaki è stato rimproverato di non fare riferimento al ricorso agli operai cinesi e coreani schiavizzati nella costruzione dell’aereo e di insistere sulle tragedie subite dal Giappone piuttosto che su quelle da esso provocate. Altra critica mossagli riguarda le figure femminili che, mentre in opere precedenti apparivano dotate di una certa indipendenza e di protagonismo, in questo ultimo lavoro sembrano rivestire ruoli esclusivamente sacrificali. A fronte di tutte queste obiezioni Brodesco invita ad analizzare meglio il film ed a passare in rassegna la produzione precedente di Miyazaki, ove viene esplicitato il suo anti-militarismo.
Miyazaki oscilla più volte nel corso degli anni tra un’impostazione tecnofila, volta ad elogiare la modernità ed il progresso, ed un ambientalismo che, invece, presenta un conto salato allo sviluppo sconsiderato che si è dato nel corso del tempo. Venendo invece all’ultima opera, lo studioso sottolinea come questa non si limiti a narrare la biografia di un progettista di aerei militari, ma racconti anche le vicende di una malattia e l’aver voluto intrecciare due storie così diverse si deve, secondo l’analisi proposta, al fatto che «la storia di tubercolosi serve a Miyazaki per ricondurre la biografia dell’ingegner Horikoshi all’interno della cornice timica tracciata dal concetto di melancolia» (p. 21). Quest’ultima non ha a che fare soltanto con la coppia alle prese con la malattia ma anche con il racconto del percorso professionale del progettista dello Zero; «Lo studio che guida il suo progetto di macchina volante lo lascia esposto a questo vento serotino. Il carattere della melancolia non ha infatti a che fare solo con la sfera patemica ed estetica del romanticismo, ma anche con la ricerca di perfezione. […] L’utilizzo del tema della melancolia non vuole quindi solo o semplicemente portarci a ragionare sul topos della solitudine del genio isolato (artistico o scientifico cambia poco), ovvero sui tratti della personalità creatrice, ma ci aiuta a interpretare, nel quadro del rapporto tra “macchina” e “modernità”, anche la relazione tra Horikoshi e il suo tempo, tra coscienza individuale e Zeitgeist, tra tecnoscienza e ideologia» (pp. 21-22). Tutto ciò, secondo Brodesco, risulta in linea con le riflessioni sviluppate dallo studioso Pierangelo Schiera (Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, 1999): «È il dilemma della scienza moderna che s’incarna nella moderna melancolia, impregnando di sé interamente l’attitudine al progetto, vera e propria “ideologia” della modernità» (p. 22).
Nel saggio viene, inoltre, individuata ne La montagna incantata di Thomas Mann un’altra fonte di ispirazione per il film; in entrambi i casi si ritrova il sanatorio e l’ambientazione tra le due guerre, il nome del dissidente tedesco Castorp coincide con quello del protagonista del romanzo ed, inoltre, anche nell’opera di Mann si ritrova la figura di un mentore italiano, l’umanista Lodovico Settembrini, che non manca di citare con ammirazione Prometeo, «prototipo di umanista, uomo coraggioso, martire della religione della scoperta» (p. 24).

Anche nell’intervento di Marcello Ghilardi (“Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki”) si parte dall’ultima opera del regista sottolineando come la dimensione del sogno abbia un ruolo centrale nel film; il protagonista però non sogna per fuggire dalla realtà ma per integrarla realizzando qualcosa in grado di incidere su di essa. La figura di Caproni che compare in sogno a Jirō svolge la funzione del Maestro che indica la strada al giovane allievo, è la figura dell’Altro, «il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri» (p. 28). Buona parte della produzione del giapponese è attraversata dalla contraddittorietà della tecnica, dai rapporti tra i suoi esiti positivi e quelli negativi, tra emancipazione umana e distruzione planetaria.
Jirō sfrutta un difetto fisico che non gli consente di volare (la miopia) nell’occasione che gli consente di trovare una nuova strada. «La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso» (pp. 28-29).
Altra questione chiave che compare nel film riguarda il rapporto tra infanzia ed età adulta; ponendosi a livello delle nuvole anche l’adulto riesce a ritrovare la semplicità e la profondità dello sguardo infantile coniugata però alla consapevolezza della maturità.

kaze-tachinu-2Anche in questo intervento viene sottolineato come il rapporto con la tecnica sia contraddittorio nel film; si alterna la consapevolezza che quelle realizzate saranno macchine di morte ma al tempo stesso viene ribadito che la filosofia che muove gli inventori intende gli aerei come sogni e non come macchine da guerra e mezzi di profitto commerciale; il progettista intende dare forma ai sogni così come chi disegna conferisce corpo all’immaginazione. Verrebbe allora da domandarsi, continua lo studioso, se la «visione interiore di Jirō coincide con la vocazione di chi ha dedicato la vita ad animare figure disegnate, intessendole di suoni e parole. In quella voce risuona anche un’urgenza, una necessità interiore da cui dipende tutto il senso dell’esistere, di ciò che in esso reclama attenzione» (p. 31).
È interessate constatare, continua Ghilardi, che tanto Jirō quanto la giovane Nahoko sono tratteggiati da Miyazaki al fine di esprimere «la dedizione sincera a un ideale, la purezza dell’intenzione. Quando tutto sembra crollare e non si trova nulla a cui appoggiarsi, nessuna stampella a cui aggrapparsi, è la capacità di mantenere intatta la propria purezza interiore a custodire una radura luminosa da cui ripartire, un fondo di energia e di sicurezza da cui attingere nuova linfa» (p. 32). Il saggio indugia anche sulle trasformazioni produttive, politiche e sociali che attraversano il Giappone nel corso del Novecento in parte determinate dall’influenza esercitata dalla cultura occidentale soprattutto scientifica e tecnologia. «L’illusione che al progresso tecnico corrisponda un cammino razionale in grado di far aderire tutti gli esseri umani a una capacità di coesistenza nella società inibisce spesso la lucidità essenziale per comprendere la necessità di un’educazione in senso lato politica, per fare i conti con l’ambiguità della tecnica stessa, con i movimenti e le sterzate che imprime alla Storia» (pp. 33-34).
«Può essere che al Giappone in cui vivono, sognano, desiderano Jirō e Nahoko mancasse in quegli anni un pensiero in grado di pensare la tecnica e di pensare la Storia […] La risposta indiretta di Jirō e Nahoko al militarismo e allo scientismo tecnocratico degli anni Trenta passa attraverso l’adesione matura al proprio progetto esistenziale. Si traduce nel tentativo di proteggere anche nel mezzo della frenesia pre-bellica alcune forme di vita, di abnegazione e di impegno sincero, con valori diversi da quelli nazionalistici per cui vivere – senza per questo rinunciare a farsi interpreti della realtà di quell’epoca, senza cioè ritrarsi in una sorta di cieco isolamento» (p. 34). Il difficile e contraddittorio tentativo di far convivere progresso e tradizione, umano e tecnologico, lo si ritrova in diverse opere di animazione nipponiche a partire dalla seconda metà del ‘900.
Nella cultura giapponese è stata sviluppata una sensibilità particolare indirizzata all’effimero, all’apparire e sparire di tutte le cose. Secondo Ghilardi, Jirō e Nahoko testimoniano il desiderio di vivere il presente pur senza identificarsi pienamente con esso. Non intendono resistere al tempo in cui vivono ma resistere nel tempo, imparando nella quotidianità a esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, a essere in comunione con ciò che accade.

In apertura del suo intervento, Andrea Fontana (“Il pacifismo utopico di Miyazaki”) tratteggia brevemente la storia recente del Giappone evidenziando come, a partire dal suo aprirsi al mondo esterno di metà Ottocento, si sia determinata una compattezza interna votata al nazionalismo ed a un’ideologia della sottomissione. Le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono restate impresse fisicamente e psicologicamente nella coscienza collettiva del Giappone, tanto da modificarne profondamente l’immaginario ed il pacifismo che si sviluppa a livello diffuso nel dopoguerra, culminante nei movimenti del ’68, si radica fortemente nell’immaginario collettivo nipponico divenendo un elemento portante delle produzioni di carattere poetico ed artistico.
In epoca recente il Giappone è venuto meno ai dettami pacifisti scritti sulla carta costituzionale ed il paese si è trovato a supportare gli interventi in Afghanistan ed Iraq, soprattutto, sottolinea l’autore, per far fronte all’ascesa economica e politica della Cina ed in risposta alle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dalla Russia.
In Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978, 26 episodi), serie ispirata a The Incredible Tide (1970) di Alexader Key, emergono i nuclei tematici che saranno poi ricorrenti nelle opere del regista: l’ambientalismo, l’antimilitarismo, il volo, l’amore portatore di serenità… La serie riflette sulle tragedie della Seconda guerra mondiale e ciò che viene raccontato in forma fantascientifica è il dopoguerra del Giappone in cui Conan e Lana si trovano a dover ricostruire il mondo.
Nell’ultimo lungometraggio realizzato dal giapponese si incrociano elementi onirici, ove tutto risulta possibile, con elementi di realtà, di una realtà che è anche dolore e tristezza. Il sogno consente al protagonista di superare i limiti ma questo sogno, nella realtà, finisce per essere strumentalizzato per fini militari. «Da Conan il ragazzo del futuro a Si alza il vento le convinzioni di Miyazaki sono rimaste le stesse: la pace deve necessariamente trionfare su tutto, poiché da essa dipende l’equilibrio del mondo. Ma da un’opera all’altra sono mutate le prospettive, l’amarezza e un pizzico di nostalgia hanno preso il sopravvento, divenendo così parti integranti di una visione che da utopica si è fatta leggermente più incrinata nella sua sublime ingenuità» (pp. 46-47). Proprio in un momento storico in cui il Giappone sta abbandonando quel pacifismo maturato dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, sostiene Fontana, occorre valorizzare l’impostazione pacifista di Miyazaki che con le sue opere immaginifiche è riuscito a trasmettere la visione del mondo di chi è stato testimone diretto degli orrori della guerra e non si è sottratto ad un’azione contestataria nei confronti di una società sempre meno propensa a far tesoro della storia e sempre più votata alla distruzione del pianeta. Tutto ciò viene dato a vedere, nei film, attraverso gli occhi innocenti dei bambini, attraverso il potere metaforico del linguaggio poetico che ribadisce la necessità di offrire ai bambini la possibilità di sognare e di essere ingenui.

miyazaki_piuttosto che...L’intervento di Marco Casolino (“Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki”) inizia dall’analisi della serie televisiva Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), ove gli scienziati vengono presentati come individui ingenui che, pur tentando di porre rimedio ai disastri compiuti precedentemente, non si accorgono dei soprusi su cui si regge la loro società fortemente gerarchica e divisa in caste. Come in altre opere di Miyazaki, il lungometraggio si interroga circa la possibilità o meno di concepire una ricerca pura senza interrogarsi sulle sue conseguenze reali.
La visione pessimista che emerge in diverse opere di Miyazaki, non riguarda tanto la tecnologia, quanto piuttosto l’incapacità dell’essere umano di gestire quei mutamenti sociali e culturali portati dal progresso.
Anche nello scritto di Casolino torna la riflessione sull’aeronautica così cara al regista nipponico. Nel film Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), ambientato in Italia nel 1929, il protagonista, segnato dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale, non intende rendersi complice del fascismo e lo dichiara esplicitamente: “Meglio maiale che fascista”. Tale affermazione, scrive lo studioso, «riassume non solo la posizione politica del Porco (e di Miyazaki), ma soprattutto ne ribadisce l’allontanamento dal mondo umano» (p. 62). Lo scritto si sofferma sulle diverse risposte che nel film Si alza il vento i progettisti Giovanni Caproni (1886–1957), Hugo Junkers (1859-1935) e Horikoshi Jirō (1903-1982), danno al dilemma se e come ci sia la possibilità di opporsi all’uso bellico degli amati aerei progettati.
Secondo lo studioso, nei film di Miyazaki, non è la tecnologia in sé a corrompere l’essere umano, ma questa contribuisce a mettere in luce la natura peggiore dell’uomo. Analogamente, in altre opere, come Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), la magia può provocare un pericoloso allontanamento dal mondo umano; da questo punto di vista tecnologia ed arti magiche hanno il medesimo ruolo.

Luigi Abiusi (“Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki”) contestualizza la natura postmoderna delle opere di Miyazaki facendo riferimento a quel radicamento della televisione negli anni ’70 caratterizzata da un «proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra […] si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti» (p. 71).
Abiusi, mantenendo sullo sfondo il confronto con le tesi proposte da Fredric Jameson, soprattutto nel suo celebre (Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, 1989), propone una riflessione su quella che definisce «offerta tardo capitalista di visioni» (p. 71) tipica di quel momento storico e, dopo essersi soffermato su alcune produzioni di animazione realizzate a cavallo tra anni ’70 ed ’80, focalizza il suo studio sulle ucronie presenti nelle opere di Miyazaki, .

Nel suo intervento, Roberto Terrosi (“Il dio della foresta – una lettura di Mononoke hime”), analizza il ruolo del buddismo nella cultura giapponese soffermandosi in particolare sul rapporto tra monaci buddisti e potere che, secondo lo studioso, avrebbe portato il buddismo ad essere visto in Giappone «come una religione del sistema in contrapposizione allo scintoismo, che è visto come religione popolare, anche se tra la fine dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale le parti sono state temporaneamente invertite. Questo fa sì che si possano trovare valutazioni molto difformi tra i giapponesi sul ruolo del buddismo e dello shintō, a seconda anche del periodo storico a cui si fa riferimento» (pp. 86-87). Terrosi sottolinea come recentemente vi sia stata una certa «rivalutazione dello shintō, percepito come religione spontanea della natura, contro le perversioni della civiltà incarnate qui in Giappone dal moralismo ipocrita del buddismo compromesso con il potere. Il buddismo era infatti la religione dei nobili e dei ricchi, di quelli che avevano studiato, anche perché ha un corpus teorico complicatissimo che esige l’accesso allo studio» (p. 87). Tutto ciò, secondo lo studioso, aiuta a comprendere l’immagine negativa che ha il monaco buddista nell’opera Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) di Miyazaki.
Il saggio, dopo essersi soffermato sulle diverse etnie che hanno dato vita al Giappone, ed aver passando in rassegna il loro rapporto con la natura ed alcune loro divinità, analizza diversi aspetti del film di Miyazaki alla luce di tali tradizioni. Il cervo è considerato in Giappone uno spirito messaggero e nell’opera di Miyazaki compare presentato come dio della foresta, cioè di un ecosistema in equilibrio che rischia, se ferito in profondità, di essere definitivamente compromesso a causa della perdita di quell’equilibrio su cui si basa. Terrosi invita a cogliere come, sul finire del film, l’autore mostri un’evidente contrapposizione: «Da una parte ci fa vedere un’umanità incattivita verso la natura che si rifugia nella tecnica per colmare le sue paure senza accorgersi della distruzione che porta. Dall’altra mostra, quando il bonzo con astuzia riesce ad attentare alla vita del Diocervo, il dio nella sua natura finalmente estrinseca di dio-foresta. Infatti l’anima della foresta che era concentrata e custodita nel corpo del cervo divino ora si libra e si manifesta come creatura a se stante prima di perdersi e svanire del tutto […] Ma fortunatamente questo avvio verso il disfacimento dello spirito della foresta e della sua riduzione a materia inerte viene avventurosamente fermato dal nostro eroe in combutta con la principessa Mononoke. Riusciremo anche noi a salvare il mondo dalla perdita della sua anima?» (pp. 92-93). La grande abilità di Miyazaki, secondo lo studioso, è quella di essere riuscito, attraverso il film, «a realizzare non solo una storia soggettivamente espressiva ma un “mito” universale per l’età della crisi ecologica» (p. 93).

Massimo Soumaré (“Il Principe Cane: elementi della filosofia e della poetica di Miyazaki Hayao in una fiaba tibetana”) affronta la poetica di Miyazaki a partire da Shuna no tabi (1983), manga che, secondo lo studioso, può essere visto come pietra fondante ove sono già presenti elementi da cui attingeranno diverse opere cinematografiche del maestro giapponese. Tale manga, che letteralmente può essere tradotto con “Il viaggio di Shuna”, è tratto da una fiaba popolare tibetana e narra le vicissitudini di un principe di un regno povero costretto ad assumere le fattezze di un cane come punizione per avere sottratto alcuni chicchi di grano al re drago. Come spesso accadrà nelle successive produzioni cinematografiche del giapponese, si tratta della storia di un eroe benefattore leggendario sullo sfondo del rapporto uomo-natura. Soumaré sottolinea come tale storia sia in linea «con le pulsioni animistiche e la credenza tipica dello shintoismo che in ogni essere vivente e oggetto dimorino degli spiriti» (p. 98). Le opere cinematografiche che maggiormente si avvicinano al manga Shuna no tabi, sono Nausicaä nella valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) e Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). Dall’analisi delle opere emerge come in entrambi i lungometraggi si palesi «una preferenza non per il racconto scritto, ma per quella tradizione orale che a lungo è stata l’elemento portante della trasmissione del sapere e che è molto più emozionale della semplice scrittura, perché le storie sono narrate con la partecipazione delle sensazioni del parlante» (pp. 102-103). Inoltre, secondo Soumaré, è possibile riscontrare analogie con H.P. Lovecraft e la sua mitologia pervasa da divinità aliene in grado di far perdere il senno agli uomini.
I protagonisti messi in scena da Miyazaki sono spesso adolescenti che si trovano ad attraversare il momento di passaggio verso l’età adulta; «Sono quasi la descrizione di un rito d’iniziazione per divenire esseri umani indipendenti, e Miyazaki non addolcisce per nulla questo processo. Si tratta di un momento lacerante sia fisicamente che spiritualmente per i protagonisti, ma necessario. Un momento con cui ogni uomo e donna ha dovuto confrontarsi nel corso della sua vita, indipendentemente dal risultato ottenuto. In ciò è definita quella differenza con altre storie di mangaka e registi d’animazione dove tutto spesso è più attenuato» (p. 104).
Miyazaki ha spesso criticato l’invadenza nella cultura giapponese di immaginari che mescolano ragazzine con personaggi dal carattere bambinesco che sembrano create appositamente per sostenere il desiderio dell’economia nipponica di mettere a profitto un certo tipo di subcultura fomentando l’acquisto di merci. Mentre nel paese proliferano tematiche, scenari ed immaginari utili al consumismo più sfrenato, tematiche come la solitudine e lo sfruttamento dell’essere umano faticano a trovare spazio nei manga contemporanei che, in molti casi, sembrano del tutto in linea con la deriva reazionaria della politica nazionale.

porco-rosso-Non resta che segnalare come, in chiusura del volume, si trovi una breve, ma interessante, analisi di alcuni cortometraggi di Miyazaki prodotti dallo Studio Ghibli: Il ragno d’acqua Monmon (Mizugumo Monmon, 2006), Il giorno in cui allevai una stella (Hoshi wo katta hi, 2006) ed In cerca di casa (Yadō sagashi, 2006). Terminata la lettura di I mondi di Miyazaki, non resta che riguardarsi l’intera produzione del grande animatore, mangaka e regista giapponese e, se fosse possibile, meglio farlo al cinema, di fronte ad un grande schermo.

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La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/08/31/la-costruzione-dellimmaginario-seriale-contemporaneo/ Mon, 31 Aug 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24453 di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in [...]]]> di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (M. Foucault, Eterotopia, Mimesis 2010). Pertanto, la televisione, può essere individuata come “l’eterotopia per eccellenza”, nella sua continua giustapposizione, in un luogo reale, di spazi che generalmente sarebbero incompatibili. Il processo di costruzione di un nuovo immaginario dei mondi seriali, secondo la curatrice del volume, ricorre a spazi anomali entro i quali i personaggi agiscono al fine di “proteggere la dimensione di chiusura dell’eterotopia, in cui si collocano, restii (o impossibilitati) a concedere l’ingresso degli altri spazi al loro interno”. Due le forme assunte dalle eterotopie definite da Foucault: “eterotopie di crisi” ed “eterotopie di deviazione”. Nel primo caso si tratta di luoghi riservati a chi, in relazione alla società, si trova in stato di crisi, nel secondo si tratta invece di quegli spazi in cui vengono collocati i devianti rispetto alle norme imposte (cliniche psichiatriche, carceri…). Il volume ragiona su questa seconda forma, “indagando la scrittura e la costruzione di luoghi e personaggi altri”.

Nell’immaginario prodotto da alcune serie si hanno rappresentazioni del mondo che portano lo spettatore a vivere esperienze affettivo-sensoriali fantastiche in grado, in taluni casi, di essere strumento di comprensione della realtà. In altri termini si può dire che diventano dei miti in grado di inglobare lo spazio dello spettatore trasformandosi in luoghi di “creazione di risposte” relativamente alla società. Altre serie narrano il mito di fondazione di civiltà costituentesi sulla base di un nuovo ordine, derivato da un disordine maggiore sconfitto in maniera più o meno definitiva. Essendo le eterotopie, sempre seguendo Foucault, la contestazione di tutti gli altri spazi esercitata o attraverso l’illusione che denuncia l’illusorietà della realtà, o creando uno spazio perfetto ed ordinato quanto il nostro è disordinato e caotico, il saggio si propone di tracciare una mappa dei luoghi in cui prendono vita questi mondi. In tali spazi si collocano le cosiddette prison television series, come, ad esempio, OZ (HBO 1997-2003), Prison Break (Fox, 2005-2009) ed Orange Is the New Black (Netfix, dal 2013). Una società può far funzionare con modalità diverse un’eterotopia, come nell’esempio foucaultiano del cimitero: si tratta di uno spazio trasformatosi radicalmente nel corso del tempo, da “luogo integrato” allo spazio abitativo, a “luogo altro”, distinto sino a divenire simbolo del culto moderno dei defunti. Relativamente al rapporto luogo di sepoltura, defunti e città, Sara Martin individua il costituirsi di differenti mondi narrativi; dalle serie incentrate sugli zombie, come The Walking Dead (AMC, dal 2010) ed In the Flesh (BBC Three, dal 2013), alle storie di vampiri, come il vecchio Dark Shadows (AMC, 1966-1971), Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003) e True Blood (HBO, 2008-2014). Essendo le eterotopie connesse con la suddivisione del tempo, in diverse serie si assiste alla questione della rottura con il tempo tradizionale. Ad esempio, in Lost (ABC, 2004-2010) si ha una rottura tra il tempo dell’isola e quello fuori da essa ed in Person of Interest (CBS, dal 2011) i protagonisti ricorrono all’archivio visivo delle telecamere di sorveglianza, luogo in cui, al pari delle biblioteche e dei musei, il tempo “non smette di accumularsi”.

Nel suo intervento, Roy Menarini, sottolinea come da qualche tempo le serie televisive non soffrano più della sindrome di inferiorità culturale nei confronti del cinema. Lo studioso individua in Avatar (2009) di Jeames Cameron un esempio di riconquista di mercato, nei confronti della televisione, da parte del cinema, attuato attraverso il ricorso al 3D, come elemento di “valorizzazione della sala”. Anziché sfidare le serie televisive sulla complessità del racconto, il cinema sembra optare per una particolare “esperienza di visione” ed una generale “semplificazione simbolica”. Il cinema cerca, in altre parole, di conquistare per via tecnologica quanto non riesce più a garantire in termini narrativi. A proposito di questi ultimi, Menarini sottolinea come anche i registi cinematografici che, in un primo tempo, hanno insistito su “rompicapi narrativi”, come lo stesso Quentin Tarantino, siano passati a racconti più lineari. La produzione contemporanea statunitense, soprattutto di carattere spettacolare, ha optato per strategie commerciali volte ad intrecciare le serie televisive con i prodotti cinematografici, in transmedia storytelling in cui i due prodotti si dimostrano l’uno l’espansione dell’altro. In ciò la produzione della Marvel è maestra, con tanto di ulteriore prolungamento nei videogames. La serialità televisiva contemporanea, secondo l’analisi di Menarini, ha raccolto la nozione di drama offrendo spazio a soggetti solitamente propri del cinema indipendente di nicchia, ampliando ed intorbidendo i riferimenti culturali. Tale complessificazione dei prodotti audiovisivi si traduce, dal punto di vista imprenditoriale, in strategie di marketing e di targeting sempre più elaborate basate su algoritmi e software di profilatura degli utenti sempre più elaborati.

Marta Boni, nel suo scritto, ragiona circa la capacità dei racconti seriali di costruire mondi con geografie che si sovrappongono a quelle reali. Quando si parla di mondi, sottolinea la studiosa, si parla di un sistema complesso non riconducibile né ad una storia né ad un solo medium. “Una serie è un sistema complesso, provvisto di confini, che tiene insieme vari racconti e che, grazie alla ‘saturazione’ delle capacità cognitive dello spettatore attraverso la molteplicità, ottiene il risultato di costruirsi come mondo consistente, esplorabile a piacere e, come tutte le eterotopie, può essere il luogo in cui una società pensa i propri confini ed elabora la propria identità”. L’epopea mette in ordine un mondo così come alcuni mondi seriali inglobano lo spazio dello spettatore divenendo luoghi di “creazione di risposte sulla società”. Il mito, conclude l’autrice, si costruisce per sedimentazione, si sviluppa nella ridondanza e nella permanenza di frammenti nello spazio sociale, è un processo storico di costruzione della memoria collettiva ed i mondi seriali “emergono nel tempo come degli spazi flessibili al punto da diventare sistemi, o ‘ecosistemi’, delle presenze durevoli nell’universo mediale contemporaneo”.

game-of-thrones-daenerysMaria Comand si sofferma sui personaggi della serialità fantasy sottolineando come questi non costituiscano un caso diverso rispetto a quelli di altri mondi di fantasia, visto che per entrambi lo spettatore impiega i medesimi procedimenti di comprensione ed adesione. Nell’analizzare il dibattito che si è sviluppato attorno alla serie Game of Thrones (HBO, dal 2001), l’autrice mette in risalto come attorno ad alcuni personaggi si sia sviluppata una riflessione assai approfondita. Sulla figura di Daenerys Targaryen, ad esempio, si scontrano interpretazioni che vanno da chi, accusando la serie di sessismo (Myles McNutt ha a tal proposito coniato il termine sexposition), stigmatizza i comportamenti della ragazza perché “esprimerebbero una subordinazione a codici di comportamento androcratici, giacché usa il proprio corpo per emanciparsi”, a chi, invece, la considera “un’icona progressista-femminista, in virtù del suo intendere la leadership come espressione carismatico-empatica e come cura degli altri”. Secondo Comand, questo serrato dibattito prova, prima di ogni altra cosa, l’esistenza di Daenerys: “come soggetto del dibattito pubblico, nella vita immaginativa, simbolica e affettiva degli spettatori, questa donna Nata dalla Tempesta e Madre dei Draghi esiste”. Evidentemente, sostiene la studiosa, “l’incredibilità non implica automaticamente scarsa credibilità o l’incapacità di coinvolgere, incantare, suscitare sentimenti e interrogativi”, tanto che, con estrema naturalezza, si arriva a chiedersi se Daenerys Targaryen sia o meno femminista.

Alberto Brodesco analizza il rapporto tra teorie scientifiche e trame seriali che struttura un immaginario scientifico-mediale ove la cultura pop “trova nutrimento nella scienza che sfida il senso comune”. L’autore sottolinea come, a differenza del cinema del passato in cui la scienza solitamente compare attraverso la figura dello scienziato pazzo che valica il confine del consentito, la fiction contemporanea “mostra la scienza costretta dalla sua stessa episteme a spingersi al di là dei limiti della mente umana”. Per lo spettatore la legittimazione fornita dalla scienza regala alla narrazione un’atmosfera, in cui si fondono mistero e razionalità, utile al mantenimento di quell’ambiguità che rappresenta “uno dei cardini su cui si reggono le narrazioni estese”.

Decisamente approfondita risulta l’analisi della complessa struttura di Game of Thrones (HBO, dal 2001) realizzata da Luca Bandirali ed Enrico Terrone. Viene dai due indagato il ruolo narrativo dello spazio nel conflitto messo in scena dalla serie. In tale opera, sostengono gli autori, il legame strutturale tra spazialità, conflitto e forme di vita raggiunge livelli estremi di articolazione e proliferazione. Lo spazio qua è l’oggetto della contesa tanto che il mondo di Game of Thrones risulta cartografato con estrema cura. In uno dei quattro continenti, Westeors, suddiviso in sette regni, abbiamo il centro focale di tutta la vicenda. Chi tra i sette regni, perennemente in conflitto tra di loro, occuperà King’s Landing, ove si trova il trono, si troverà a governare su tutti gli altri. Al di là dei conflitti interni, i pericoli per Westeors vengono da nord, oltre la barriera, dai barbari bruti che premono sulla frontiera per fuggire dalla minaccia dei “non-morti” mentre, da sud, la minaccia viene dall’ultima discendente dei Targaryen, un casato spodestato restato senza stato. Da nord la minaccia ultima è rappresentata dai “non-morti”, mentre da sud da un esercito “ibridato con forme di vita non umane, i draghi”. Lo scontro finale pare destinato ad essere quello tra umani e non-umani.
Bandirali e Terrone analizzano dettagliatamente la complessa sigla iniziale della serie rilevandovi un’elaborata presentazione della struttura spaziale e narrativa. La sigla offre le esatte coordinate geografiche della serie e varia leggermente in base alle località maggiormente coinvolte nella narrazione della puntata. In essa compare anche un’enigmatica forma sferica: “Se la mappa rappresenta lo spazio geografico, il topos, come condizione fondamentale della narrazione (…) questa sfera rotante, con le sue effigi di draghi, cervi e antichi condottieri, sembra piuttosto voler condensare le altre dimensioni fondamentali della storia: l’epos come incombere di un passato leggendario, il kratos come pervasività delle relazioni di potere, e il telos come tensione verso un futuro nel quale si addensano progetti, obiettivi, speranze, timori”. Ulteriore approfondimento riguarda la complessa orchestrazione degli spazi e, secondo gli autori, quando la serie “abbandona la tipica verbosità del fantasy e mette in scena il potere dello spazio, raggiunge l’apice della propria rilevanza estetica in una fusione perfetta tra progetto narrativo, stilistico e ideologico”.

Alice Cucchetti si occupa dei fenomeni fandom legati alle produzioni seriali partendo da una definizione di fan inteso come “fruitore che opera sul proprio oggetto di culto un investimento emotivo, affettivo, performativo. Descriversi come fan di un prodotto (culturale oppure no) corrisponde a dare agli altri e a se stessi una definizione di sé. E di conseguenza riconoscere come simili le persone che condividono la stessa passione”. Con il termine fandom si indica, pertanto, una comunità di fan composta da cultori che “adottano un approccio attivo e dinamico nei confronti del testo”. Il materiale idolatrato viene saccheggiato dai fan e rimodellato secondo esigenze di carattere creativo ed emotivo che, non di rado, sfocia in una “produzione derivata” che integra l’oggetto di partenza o se ne distacca totalmente. Le produzioni culturali narrative si prestano alle dinamiche di fandom per diversi motivi, tra questi hanno un ruolo importante la spiccata componente d’evasione, il “potenziale di immedesimazione intimamente personale” e la possibilità di intervenire, sia come “sforzo immaginativo” che come “agire produttivo”, nella manipolazione del complesso “universo narrativo finzionale”. Risulta evidente come le produzioni seriali, televisive e non, amplifichino tali dinamiche. L’autrice ricorda come il primo fandom riconosciuto sia relativo al personaggio di Sherlock Holmes al punto di imporre ad Arthur Conan Doyle di “resuscitare” il protagonista dopo averlo fatto morire in un racconto del 1893. Sul celebre investigatore sono poi stati prodotti oltre duecento film e diverse serie televisive che hanno offerto ai fan ulteriore materiale su cui investire energie ed emozioni. Tra le produzioni televisive spicca per popolarità, la serie Sherlock (BBC, dal 2010), che vanta un fandom particolarmente attivo sul web. L’universo narrativo di Doyle, in effetti, contiene diverse caratteristiche utili alla creazione del fenomeno fandom: la dimensione seriale, la chiamata in causa del lettore/spettatore coinvolto nel metodo deduttivo anche grazie alla figura di Watson come suo alter ego ecc.
In generale, la serialità televisiva, sostiene Cucchetti, apre a forme di gradimento basate, oltre che sulla ripetizione e sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico. Tale tipo di fruizione si è intensificato nel corso della cosiddetta “Golden Age seriale” caratterizzata da “narrazioni stratificate e complesse, una forte orizzontalità, una moltiplicazione dei personaggi e delle relative storyline, un approfondimento di temi trasversali, filosofici e/o morali. È una tipologia di racconto che pretende di essere fruita collettivamente”. Il fenomeno fandom non deve però essere percepito esclusivamente come attività “dal basso” visto che le produzioni non mancano di stimolare la nascita di tali fenomeni mettendo a disposizione materiale in abbondanza: “la grassroot convergence” interagisce con la “corporate convergence”.
Circa la “potenza di fuoco” che alcuni fandom sono in grado di dispiegare, l’autrice riporta il caso di Firefly (Fox, 2002), ove le veementi proteste dei fan per la cancellazione della serie dopo pochi episodi (trasmessi dall’emittente televisiva disordinatamente e con una collocazione di palinsesto infelice) hanno convinto la Universal Pictures a riprendere il discorso interrotto attraverso la realizzazione del lungometraggio cinematografico Serenity (2005). Caso, per certi versi, ancora più eclatante riguarda la serie Veronica Mars (UPN / CW, 2004-2007), teen drama poliziesco cancellato dopo tre stagioni. Il creatore della serie e l’attrice protagonista hanno chiesto direttamente alla comunità di fan di contribuire, attraverso un crowdfunding, al finanziamento di una nuova produzione. Lanciata la raccolta dei 2 milioni di dollari necessari sulla piattaforma Kickstarter, questi sono stati ottenuti dopo sole 24 ore ed, a fine raccolta, sono stati raggiunti più di 7 milioni di dollari. In entrambi i casi si capisce come, nonostante l’insuccesso della normale programmazione, “una nicchia di pubblico apparentemente ristretta ma motivata da una passione intensa è un’audience fruttuosa e potente quanto (e forse più) di una larga massa debole”. L’intervento di Alice Cucchetti si chiude toccando una questione importante circa lo sviluppo delle comunità di fan: come influirà sulla fruizione sociale del prodotto seriale la scelta di piattaforme streaming, come Netfix, di rilasciare tutti gli episodi della stagione contemporaneamente?

L’intervento di Veronica Innocenti passa in rassegna la serie televisiva Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003), preceduta dall’omonimo film per le sale cinematografiche di F. Rubel Kuzui del 1992. In entrambe le produzioni, sceneggiate da Joss Whedon, si narrano le vicende di una giovane californiana che, all’improvviso, scopre di essere la prescelta per difendere l’umanità da creature mostruose. Ibridazione, ribaltamento ed ironia nei confronti delle convenzioni di genere rappresentano i punti di forza di Buffy. La serie, caratterizzata da una forte instabilità delle identità dei personaggi e da una spiccata ibridazione dei generi, è strutturata su un sistema modulare ed, al pari di diverse altre produzioni seriali contemporanee, sostiene Innocenti, risulta contraddistinta da una “particolare sensazione di permanenza”. Abbandonati i sistemi tradizionali di narrazione procedurale, le forme testuali contemporanea si sono trasformate in “ecosistemi narrativi” caratterizzati per essere “sistemi aperti, abitati da forme narrative e personaggi che si modificano nello spazio e nel tempo (…); fondati su meccanismi di rimando e rimediazione; persistenti e resilienti, cioè durevoli e capaci di resistere alle perturbazioni (…); caratterizzati da una componente biotica preponderante, cioè da una materia narrativa viva e vitale, soggetta a processi di competizione, di adattamento, di cambiamento, di modifica”. Circa l’estensione del fenomeno Buffy ben oltre al medium televisivo, Innocenti sottolinea l’importanza del suo approdo nel mondo dei videogiochi, grazie al quale si allargano notevolmente le situazioni narrative e si permette al fruitore un ruolo decisamente più attivo. Il fruitore non si trova più a seguire una serie televisiva, ma, piuttosto, è chiamato ad “inseguirla” nei diversi ambiti mediali.

Il saggio di Paola Brambilla analizza Grimm (NBC, dal 2011), serie televisiva fantastico-procedurale ove il detective Nick Burkhardt, discendente dai “guardiani Grimm”, viene ad avere a che fare con creature demoniache. Grimm viene qua indagato “quale caso di evoluzione estetica e narrativa di una serie in relazione a fattori istituzionali e commerciali, legati alle esigenze dello scenario televisivo e mediale”. Dopo aver evidenziato come la forma iniziale della serie risulti influenzata dai meccanismi interni della broadcast television (che per sua natura è sottoposta ai controlli della Federal Communication Commision e deve prevedere i break pubblicitari, con ciò che ne consegue a livello di struttura narrativa), viene analizzata l’influenza sull’evoluzione stilistico-narrativa esercitata dal posizionamento nel palinsesto ed annesse strategie competitive. Elemento sfruttato al fine di accrescere la fidelizzazione risulta quello dell’incrementare il dialogo con i fan; ad esempio nella chiusura dell’ultima stagione compaiono sullo schermo note degli autori che, “strizzando l’occhio” al pubblico più affezionato recitano: “To be continued. Oh, come on. You knew this was coming”.

the-walking-deadLo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”. Una volta constatata l’impossibilità di sconfiggere il fenomeno dei morti viventi ed una volta scoperto che tutti, indistintamente, una volta morti si trasformano in zombie pur senza essere stati morsi da essi, ogni speranza di poter tornare alla vecchia società si spegne. La questione diventa allora quella di trovare forme di coesistenza, di costruire comunità nuove pur tra mille contraddizioni e difficoltà. L’elemento di novità introdotto dalla serie è che lo spunto narrativo dell’invasione dei morti viventi rimane presente ma viene pian piano relegato più sullo sfondo ed alla questione dello statuto degli zombie (umani/non-umani) “fa da contraltare un progressivo ed inesorabile assottigliarsi della barriera che separa uomini e zombie”. Anche gli esseri umani, via via, divengono sempre più lividi, sporchi, emaciati ed inclini ad impulsi violenti primordiali e l’assottigliarsi del confine che separa esseri umani e morti viventi è accompagnato da una “progressiva normalizzazione della situazione di eccezione”. L’accoglienza nei confronti di altri esseri umani si è data sul finire della terza stagione: all’interno della prigione-rifugio vengono accolti gli abitanti Woodbury, dopo che si è palesata la vera natura del Governatore. Resta da vedere se e come vi potranno essere modalità di apertura nei confronti dei walkers.

Les-Revenants-01Chiara Grizzaffi affronta la serie francese Les Revenantes (Canal+, dal 2012) in cui confluiscono i topoi di diversi generi, tra questi l’horror, il thriller ed il dramma. Seppure l’idea della serie derivi dal film omonimo realizzato nel 2006 da Robin Campillo, nella realizzazione seriale di Fabrice Gobert e Frédéric Mermoud, i cambiamenti sono parecchi. Venendo alla produzione di Canal+, le vicende narrate ruotano attorno ad un’immaginaria cittadina delle montagne francesi ai piedi di una diga, ove, pian piano, iniziano a far ritorno alle rispettive dimore personaggi deceduti da tempo. Il rapporto che si instaura tra questi personaggi che improvvisamente ritornano e gli abitanti della cittadina è al centro della vicenda. Altri elementi inquietanti si aggiungono, man mano, alla narrazione: la scoperta che il lago delimitato dalla nuova diga ricopre il vecchio paese sommerso da un’inondazione causata dal cedimento della precedente diga; il fatto che l’età di coloro che ritornano pare essere restata quella del momento della loro scomparsa mentre il resto del paese ha continuato ad invecchiare, l’inquietante figura della “guida spirituale” della comunità, i poteri che sembrano avere alcuni revenant, l’impossibilità di lasciare il paese da parte di chi tenta di andarsene e finisce poi per ritrovarsi sempre al punto di partenza, l’inspiegabile calo del livello dell’acqua del bacino delimitato dall’imponente nuova diga, la presenza di cadaveri di animali che sembrano essersi lanciati volontariamente nel lago, il fatto che alcuni dei revenant iniziano a manifestare piaghe di decomposizione sulla pelle dal sapore cronemberghiano ecc.
L’intera vicenda è contraddistinta, secondo Grizzaffi, da un tono perturbante; ciò che pur pare familiare allo spettatore, ben presto, a partire dalla sigla di testa, si presenta ad esso come estraneo. Se i primi episodi risultano “più intimisti”, gravitanti attorno al “conflitto psicologico” tra i personaggi, la trama sfocia, nell’approssimarsi all’epilogo, nel paranormale, lo scenario diviene post-apocalittico e la cittadina appare sempre più isolata dal resto del mondo tanto in termini spaziali che temporali, in una perturbante atmosfera sospesa in cui si mescola la temporalità bloccata dei ritornanti con lo scorrere del tempo dei cittadini che, pare, rallentare sempre più. Il finale pare zombie-oriented, con decine e decine di revenant che escono dalla foresta per dirigersi, tra le nebbie, verso l’abitato. Il rifiuto da parte dei vivi di consegnare Adèle ai revenant, porta allo scontro e l’ultima immagine ci mostra la città sommersa dalle acque.
La serie Les revenantes, sostiene acutamente Grizzaffi al termine del suo scritto, al di là dei riferimenti ai diversi generi (horror, thriller ecc.), “svela una complessità e una stratificazione maggiori: l’umanizzazione dell’orrore, il forte accento sui risvolti psicologici o sugli aspetti più banali del dolore e il rifiuto di motivare o spiegare la componente soprannaturale della trama, costituiscono una sfida per gli spettatori costretti a stare al gioco nonostante le regole – solitamente stabilite anche dalle coordinate di genere – in questo caso non siano chiare. (…) E, forse, tutto questo ci dice qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo: in un’epoca in cui l’oblio è un diritto da riconquistare e le tracce del nostro passato, soprattutto quelle digitali, sopravvivono anche alla nostra morte, rischiamo davvero di essere condannati al passato”.

Pietro Bianchi analizza la serie True Blood (HBO, 2008-2014) a partire dall’ambientazione: il profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Tale mondo ha esercitato un certo fascino sull’immaginario americano, tanto che numerosi sono i film ambientati in tale località che riesce a mescolare eccessi e contraddizioni. Non è difficile immaginare come la rappresentazione del Sud rurale si sia alimentata di stereotipi propri della cultura urbana nordamericana che hanno finito con il costruirne un’immagine in cui le contraddizioni sono portate all’eccesso; di queste terre si elogia la genuinità e l’autenticità ma al tempo stesso ci si spaventa per l’arretratezza tecnologica e culturale. Bianchi sostiene che ”True Blood non ci vuol fare vedere il Sud, ci vuole far vedere l’immagine del Sud. Quell’immagine che l’ha reso un oggetto del desiderio delle élite colte e urbane americane e dei film di Hollywood degli ultimi anni. Il fatto che di questo luogo vengano mostrati con insistenza i tratti di eccesso sessuale, fisico, estatico; o che venga continuamente riaffermato il surplus di autenticità e veracità, costituirà il filo rosso dell’intera serie. La presenza dei vampiri serve infatti a raddoppiare all’interno dell’intreccio, quello che la rappresentazione del Sud costituisce all’esterno nell’immaginario contemporaneo”. Nella serie si sommano gli eccessi propri delle creature soprannaturali con le esperienze umane quando queste si fanno estreme. L’esperienza dell’andare oltre la propria umanità, secondo Bianchi, “non ha niente a che vedere con il registro del magico o del soprannaturale, ma con qualcosa di estremamente razionale e che la psicanalisi definisce ‘pulsione di morte’”. Nella serie la comparsa dei vampiri si accompagna “all’impossibilità di alcuni personaggi di riuscire a fari i conti con la distruttività del godimento”. Tale ragionamento porta l’autore a concludere che di “soprannaturale”, nella serie esaminata, c’è proprio la pulsione di morte, ossia “un principio di superamento dei limiti del vivente che tuttavia si trova al cuore dell’umano” e le creature soprannaturali (vampiri, licantropi ecc.) “sono un modo per dare manifestazione a ciò che di innaturale vi è nell’essere umano, non un modo per mettere a tacere l’umano con ciò che umano non è”.

person of interestLo scritto di Valentina Valente si occupa di Person of Interest (CBS, dal 2011), serie che mescola thriller spionistico ed aspetti avveniristici di derivazione fantascientifica ma esplicitamente ancorata a questioni che toccano il mondo reale ormai disseminato di telecamere di controllo a circuito chiuso e banche dati utili a tracciare i profili degli individui. La “Macchina” in grado di riconoscere e mappare gli individui sfruttando CCTV e banche dati, compare in quanto commissionata, in seguito all’11 settembre, dal governo statunitense, al fine di sventare attacchi terroristici. Grazie all’integrazione umana dei due protagonisti, la Macchina si rivela in grado di fornire informazioni riguardanti anche crimini non di carattere terroristico. Ed è di questo uso che si occupa Person of Interest. Nella serie si esplicita, secondo Valente, una distinzione tra chi, avendo accesso agli “strumenti della conoscenza e dello sguardo”, dunque detiene il potere, e chi, è inconsapevole. La Macchina costituisce la linea di separazione tra questi due mondi. Altro elemento su cui si sofferma tale analisi riguarda le caratteristiche dei luoghi entro cui si dipana la narrazione. La biblioteca-rifugio rappresenta il luogo della ricerca e della pianificazione, tale spazio è l’unico a presentarsi allo spettatore come sicuro, tanto che non viene quasi mai inquadrata la porta di accesso al fine di rafforzare l’idea di spazio inviolabile. Il commissariato di polizia che, normalmente viene presentato nei film e nelle serie televisive come spazio sicuro, in questo caso appare come luogo concepito per “impedire la riservatezza”; si tratta di un’ambiente corrotto, potenzialmente pericoloso. L’ambiente principale, continua Valente, è la città, New York. In questo caso lo spettatore ne prende visione principalmente attraverso la videosorveglianza. I dispositivi video “non sono soltanto oggetti diegetici che per un breve momento caratterizzano la narrazione (…) o sono semplicemente gli oggetti prevalenti per lunghi brani narrativi (…), ma connotano la configurazione visiva dell’intera opera”. I dispositivi di sorveglianza oltre ad essere “oggetto diegetico” rappresentano una “modalità di fruizione di immagini” a cui il pubblico contemporaneo è abituato, perciò “la loro varietà di topologia di immagine non è spiazzante, ma amplifica la complessità della collocazione dello sguardo nella frammentarietà della metropoli contemporanea”.

L’analisi di Rossella Catanese e Valerio De Simone passa in rassegna Bates Motel (Universal Television Group – The Wolper Organization – A&E, dal 2013), serie che sembra un prequel anomalo di Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Le storie narrate si svolgono attorno alla famiglia Bates, nel corso dell’adolescenza di Norman. L’anomalia, se si vuole intendere la serie come prequel di Psyco, consiste nel fatto che la collocazione temporale contraddice tanto l’opera hitchcockiana, quanto il remake realizzato da Gus Van Sant nel 1998, essendo, la serie, ambientata in epoca a noi contemporanea e non prima degli anni Sessanta, nel caso anticipasse Hitchcock, né prima degli anni Novanta, nel caso decidesse di rifarsi alla versione di Gus Van Sant. Inoltre, cambia la località: un piccolo paesino sulla costa dell’Oregon, White Pine Bay, al posto della cittadina californiana di Fairvale. Bates Motel, pertanto, non può essere indicato né come un vero e proprio prequel, né, tantomeno, come, ennesimo, remake. Secondo gli autori la serie è piuttosto considerabile una rielaborazione, una rilettura di ambientazione contemporanea di un’opera ormai diventa classica. Dalla seconda metà degli anni Duemila sono numerosi i casi in cui vengono riprese opere cinematografiche o vecchie serie di successo ed ambientate ai giorni nostri con diversi cambiamenti. La serie Bates Motel, secondo Catanese e De Simone, può essere definita un “double re-imagined”: viene infatti doppiamente ri-immaginato ciò che non è stato mostrato precedentemente per poi collocarlo ai nostri giorni al fine di accrescere “il processo di identificazione” dei teenager. bates_motel_06Al fine di marcare lo stato di isolamento di Norman, viene mostrato indossare abiti “retrò”, per certi versi atemporali, differenziandolo così dalla comunità dei suoi coetanei vestiti invece in maniera contemporanea. Ulteriore elemento su cui si sofferma l’analisi riguarda il ruolo della crisi economica nella serie. Mentre in altre serie la crisi che ha attraversato gli Stati Uniti nel 2008, sostengono gli autori, risulta rappresentata come “evento traumatico di passaggio”, nella serie in esame diviene un elemento essenziale. “In Bates Motel il processo che ha generato la crisi viene capovolto: a generare la crisi non sono le speculazioni dei professionisti della borsa, bensì le proteste di un gruppo di ambientalisti” che mettono in crisi il business del commercio di legname, fino ad allora perno dell’economia locale, aprendo le porte alle attività illegali che sommergono la cittadina. È lo stesso dimesso motel a divenire emblema della crisi economica, motel che già nella versione hitchcockiana esibisce, nelle intenzioni del regista, il “grigio squallore della working class, i sogni infranti del benessere negato”. L’analisi di Catanese e De Simone insiste sulla centralità del motel segnalando come sin da Psyco di Hitchcock il set, composto da motel ed annessa casa sulla collina, sia pensato come “concretizzazione del paesaggio interiore del protagonista”, e finisca per rappresentare “il terrore collettivo per l’abiezione degli omicidi seriali, trauma culturale per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta”. Il motel, nell’analisi esposta dagli autori, diviene “un’eterotopia, un luogo privo di riferimenti geografici o culturali, che condensa gli elementi aleatori e precari di un’idea di estraneità”, l’orrore non è più confinato nella spettrale casa sulla collina ma “appare improvvisamente nella banalità quotidiana e anonima del motel”, mentre l’isolamento dei due edifici, casa/motel, sembra replicare, simbolicamente, “l’io diviso del protagonista e contemporaneamente la sua dipendenza dalla personalità materna”.

L’ultimo contributo del libro curato da Sara Martin, è di Mimmo Gianneri e si occupa di Battlestar Galactica (Sci Fi Channel, 2004-2009), versione re-imagined della serie televisiva di fine anni Settanta Galactica (Glen A. Larson Productions – Universal TV, 1978-1979). La serie andata in onda a partire dal 2004 si inserisce nelle produzioni che intendono riprendere in maniera allegorica la società statunitense dopo l’11 settembre: “la flotta coloniale è alle prese con le conseguenze di un attacco al proprio cuore che si rivela fin da subito un’offensiva al proprio modello culturale e alle proprie certezze ideologiche”. Dal punto di vista stilistico la serie decide di adottare uno stile “documentaristico” con ambientazioni realistiche ed un “paesaggio sonoro costituito da suoni diegetici”. La colonna sonora riveste un ruolo fondamentale nella comprensione della filosofia della serie, tanto che l’analisi di Gianneri si concentra principalmente sul sonoro a partire dalla scelta di preferire al cliché della musica sinfonica, tipico di tanta fantascienza, sonorità non occidentali, al fine di sottolineare simbolicamente “la composizione culturalmente eterogenea della flotta in fuga”. Nell’economia del soundscape, sottolinea lo studioso, “la musica percorre una strada parallela a quella del sonoro diegetico realistico e aptico in una vera e propria divisione dei ‘compiti’. Se il suono diegetico è il prodotto del sudore, della fatica quotidiana e, in ultima misura del lavorio del metallo arrugginito che circonda le navi-prigioni perse in cerca di una ‘casa’, la musica extradiegetica rappresenta una forza esogena di pacificazione” E le rare occasioni in cui il sonoro diegetico ed extradiegetico dialogano, rimandano alla presenza di un’entità superiore tanto che il ritrovamento della Terra pare fondarsi sulla “capacità di cogliere e interpretare, da una prospettiva terrena – fatta di tradimenti, morti e ferite interiori – i segni divini (cioè musicali) percepibili”.

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