Albania – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un neo-neorealismo è possibile https://www.carmillaonline.com/2023/05/14/un-neo-neorealismo-e-possibile/ Sun, 14 May 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77261 di Paolo Lago

Fabio M. Rocchi, La disputa sul raki e altre storie di vendetta, Besa Muci, Nardò, 2021, pp. 191, euro 15,00.

Parafrasando il titolo di un suggestivo pamphlet di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile (titolo che prende spunto da una frase che Picasso pronunciò di fronte al quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo), si potrebbe affermare, invece, che un certo neo-neorealismo è possibile. Intendendo con l’azzardata espressione “neo-neorealismo” un modo stilistico che per alcuni aspetti prende le mosse da quell’inesausto campo di discussione culturale che è stato il [...]]]> di Paolo Lago

Fabio M. Rocchi, La disputa sul raki e altre storie di vendetta, Besa Muci, Nardò, 2021, pp. 191, euro 15,00.

Parafrasando il titolo di un suggestivo pamphlet di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile (titolo che prende spunto da una frase che Picasso pronunciò di fronte al quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo), si potrebbe affermare, invece, che un certo neo-neorealismo è possibile. Intendendo con l’azzardata espressione “neo-neorealismo” un modo stilistico che per alcuni aspetti prende le mosse da quell’inesausto campo di discussione culturale che è stato il neorealismo, la cui esigenza era di uscire dalle formule letterarie del ventennio fascista e di opporvisi: una discussione e una produzione di arte e di cultura, quindi, ben radicate in solide prerogative antifasciste. La convinzione che sia possibile si rafforza dopo la lettura della raccolta di racconti di Fabio M. Rocchi, “La disputa sul raki e altre storie di vendetta”. Se, probabilmente, non è più possibile guardare con occhio ‘neorealista’ a un territorio come quello italiano, ormai deturpato da sguardi estetizzanti e ‘borghesizzanti’ – incentrati appunto su una classe borghese ed alto-borghese – sia nella letteratura che nel cinema (ad eccezione, forse, delle opere di Claudio Caligari e di alcune pellicole di Matteo Garrone, di Emanuele Crialese e dei fratelli D’Innocenzo), è necessario rivolgersi a territori marginali, nel sud e nell’est del mondo. Ma anche a quelli più vicini in cui il concetto stesso di Europa e di benessere europeo si sfalda, quei “confini dell’impero”, per utilizzare il titolo di un bel libro del giornalista free lance Giuseppe Ciulla nel quale sono descritti “5000 chilometri nell’Europa dei diritti negati”: diritti civili, sociali e sul lavoro. Basta spostarsi a est, laddove è crollato su sé stesso il grande pachiderma sovietico lasciando soltanto rovine da dare in pasto al capitalista occidentale più cinico e spregiudicato.

Fra tali territori c’è anche l’Albania, che l’autore sceglie di declinare all’interno delle varie narrazioni in due momenti temporali diversi: la seconda metà degli anni Novanta, quando il paese era uscito da poco dalla dittatura e molti albanesi erano immigrati in Italia, attratti dalla ricchezza occidentale e gli anni più recenti, in cui l’Albania sta conoscendo un progressivo ingresso nel benessere europeo. Il paesaggio che fa da sfondo alle vicende sembra però non essere cambiato: campagne, colline, montagne brulle e spoglie, un universo di contadini e allevatori in cui sorgono misere abitazioni isolate o fatiscenti caseggiati in strade periferiche solcate da vecchie e scarburate Mercedes. È un territorio devastato da anni di dittatura non troppo dissimile dall’Italia, che negli anni Quaranta emergeva stremata dalla guerra e da un’altra dittatura, per come è stata raccontata da Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Carlo Levi e Ignazio Silone. L’Albania è un luogo divenuto terra di nessuno, in cui gli stessi abitanti si sentono soli e disperati, legati ad un universo arcaico e ancestrale, venato da tradizioni obsolete e crudeli come il crudo rituale della vendetta, che nei racconti compare nei modi più diversi ed anche solamente allusivi, una vendetta proveniente da una terra brulla e crepata dal sole. Su questo panorama si distende lo spettro di un benessere solo intravisto e poi raggiunto tramite l’emigrazione in Italia o in altri paesi europei. È soprattutto l’Italia il fantasma del benessere più vicino e incombente per molti albanesi che vi si recano per cercare fortuna, per lavorare anni ed anni in interstizi di crudeltà e di miseria.

Emergono allora personaggi cresciuti nella povertà e nella violenza, orgogliosi, coraggiosi e ostinati come il loro eroe nazionale, Giorgio Castriota Skanderbeg, il principe albanese che nel Quattrocento guidò il paese contro l’occupazione turco-ottomana fino ad entrare nella leggenda. Come Danush, protagonista del racconto Bulloni, che senza battere ciglio percorre fino in fondo il sentiero della sua vendetta, senza ripensamenti o pentimenti. È interessante anche il modo in cui molti di questi personaggi si esprimono. L’autore, dando loro voce, mette in scena un discorso indiretto libero di matrice verista nel quale spesso si incunea una regressione linguistica fatta di frasi brevi e spezzate, pensieri che si rincorrono secondo logiche astruse e irrazionali. Parlano e pensano così molti dei personaggi che si incontrano nei racconti: Danush; il tassista Gaz che vuole imbrogliare l’io narrante, un ingegnere idroelettrico italiano che fa costruire una diga a Peshnamar, mutando e ‘occidentalizzando’ il territorio rurale albanese; Aferdita, che per vendicarsi sceglie un “imbutino”; Arti, che si immerge nel benessere di Francoforte per andare a trovare la sorella, che lì era emigrata; i fratelli del racconto Non si decide a morire; Theo, Mehmet e Arben che si ritrovano, insieme all’io narrante italiano, per una “disputa sul raki”. Nelle narrazioni allestite da Rocchi (forse con l’unica eccezione di Il festival internazionale delle letterature, riuscita satira del mondo accademico) incontriamo quindi personaggi rivestiti di una “vita violenta” e predisposti quasi naturalmente a difendere il proprio onore e la propria rispettabilità, anche a costo di atroci vendette. Il riferimento pasoliniano alla “vita violenta” (espressione che riprende il titolo di un romanzo di Pasolini del 1959) non è casuale: nella raccolta Nuvole corsare, uscita nel 2020, che raccoglie racconti di diversi autori ispirati all’opera e alla figura di P.P.P., Fabio Rocchi inserisce infatti un altro racconto incentrato su una storia di vendetta, La catana, nel cui titolo viene esplicitato (come in Bulloni o L’imbutino) l’oggetto mediante il quale il personaggio progetta di vendicarsi.

Per concludere, si può pensare che nello stesso titolo della raccolta (che, in parte, è anche il titolo dell’ultimo racconto) siano presenti tracce di quello che qui è stato arditamente denominato “neo-neorealismo”. Innanzitutto c’è la parola “disputa” che rimanda a una sfida, a un duello, una parola che però appare immediatamente associata al termine “raki”, che indica una bevanda alcolica turca all’anice ed anche un distillato di vinaccia greco e albanese. Esso appartiene ad un contesto decisamente più ‘basso’ che, appunto, abbassa la dimensione della disputa. Infine, c’è la parola “vendetta” che spicca nella sua assolutezza. Quella disputa, quindi, non potrà essere una semplice discussione ma un vero e proprio duello, uno scontro, una sfida che, per l’appunto, si viene a creare fra un turco, un greco e un albanese. Come quarto incomodo c’è anche un italiano, l’io narrante, che si fa portavoce della più nostrana grappa, parola che, come il raki, indica una bevanda alcolica di carattere popolare. E se spesso molti racconti mettono in scena un incontro o un avvicinamento fra un italiano che per i motivi più svariati si è trasferito in Albania, e un albanese, i risvolti vendicativi che segnano questi incontri corrono invece nella direzione di una fratellanza. Se negli anni Novanta erano stati gli albanesi a venire in Italia, negli anni Dieci sono invece gli italiani a cercare fortuna in Albania, dove magari trovano coloro che erano stati ex emigrati in Italia. Ecco che, come notato, si stabilisce un clima di aiuto reciproco non certo ignoto a molta tradizione neorealista. Alla fine, nel bene e nel male, a trionfare è una fraternità che accomuna i personaggi, di qualsiasi nazionalità essi siano, e li fa sentire vittime inconsapevoli di un cinico sistema che con il suo violento macchinario produttore di merci e ricchezze ingloba le loro esistenze.

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Con Salgari alle radici del tempo https://www.carmillaonline.com/2021/02/07/un-novello-salgari-in-fondo-al-buio/ Sun, 07 Feb 2021 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64802 di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è lecito pensare che questa esista soprattutto negli occhi di chi guarda al mondo come a un gioco o a una sfida.

Un gioco da bambini, o da uomini e donne che dei bambini non vogliono perdere lo sguardo. Ben distante da quello di coloro che sono invece affascinati dalle utilitaristiche tentazioni legate alla conquista, al dominio, al denaro, al potere. L’avventuriero è così, da sempre, una sorta di suonatore Jones cui, purtroppo, troppo spesso altri si sono accodati per trarre profitto, fama o successo dalle sue imprese.
Chi cerca l’avventura, di solito, esplora nuove possibilità e chi esplora, in fin dei conti, cerca prima di tutto l’avventura. Così luoghi dell’avventura possono essere individuati tanto nelle giungle delle Filippine quanto nelle valli e nelle grotte piemontesi. Illuminati dal sole del nuovo mattino o sprofondati nel buio del tempo geologico del mondo infero esplorato dagli speleologi, ben diversamente scandito e percepito da quello vissuto in superficie.

Andrea Gobetti, novello Salgari dell’avventura moderna, si è sempre mosso tra luce ed ombra, tra pareti verticali da affrontare con vertiginose salite e orridi e pozzi, sul cui fondo non arriverà mai la luce del sole, in cui sprofondare per ri/trovare ciò che la luce del giorno non può nemmeno immaginare. A differenziarlo da Salgari, che come lui visse molti anni della sua vita in prossimità delle colline torinesi, è però il fatto che mentre il padre di Sandokan e del Corsaro Nero visse le sue avventure soltanto attraverso gli occhi dell’immaginazione (e numerosi atlanti squadernati sul tavolo di lavoro), Andrea ha pienamente vissuto ciò che racconta, non importa se ogni tanto con il tono canzonatorio e spaccone dei tall tale che hanno sempre caratterizzato le narrazioni della letteratura e del folklore della frontiera americana.

Speleologo, alpinista, scrittore ed esploratore dei confini reali e immaginari del mondo, l’autore (classe 1952) del testo pubblicato dalla Società Editrice Milanese vive da molti anni in Lucchesia. Nel corso di un’esperienza più che cinquantennale ha conosciuto personaggi straordinari, ha fatto parte dei giovani arrampicatori ispirati dall’amico Giampiero Motti, teorico visionario del “nuovo mattino” ispirato dall’arrampicata californiana e da una diversa interpretazione della Montagna e della Natura; ha percorso abissi ritenuti insondabili ed è stato autore di numerose pubblicazioni e collaboratore nella realizzazione di vari documentari1.

Soprattutto, anche quando in gioventù è stato attivo in una delle formazioni più agguerrite e vituperate della sinistra extra-parlamentare, è sempre stato prima di tutto un militante dell’avventura e del sogno. Un’avventura e un sogno che richiedevano coraggio, ma anche elementi onirici e di autentica estasi, che una volta perduti avrebbero trasformato l’azione dirompente in mera archeopolitica, adatta soltanto ad amministrare l’esistente2. Un’esperienza di cui rimangono tracce significative, sotto forma di ricordi, anche nell’ultimo libro.

Se il titolo di quest’ultima opera offre già motivo di riflessione al lettore in quel guardar le stelle dal fondo di un pozzo, anche la prima opera edita di Andrea Gobetti portava con sé più di una promessa: Una frontiera da immaginare3. Ma quella frontiera, che all’epoca l’autore situava soprattutto tra le cime e le grotte del massiccio del Marguareis, nelle Alpi piemontesi, nel corso degli anni si è allargata e allontanata di un bel po’. Sia verso l’esterno “geografico”, sia in direzione di quell’inner space che è inseparabile da qualsiasi discorso sul sogno e l’avventura moderna.

Se scendi sottoterra, benché vivo e vegeto, subito alcune strane novità ti saltano agli occhi e anche addosso […] Nel buio scopri alcune curiose trasparenze.
La più nota è detta “Guarda la stella dal fondo del pozzo”, distaccati dalle luci del mondo e vedrai più lontano di quanto la massa degli abbagliati per vocazione non voglia né possa immaginare.
Un’altra trasparenza di quel buio primordiale scioglie il velo del tempo, ci mostra reale e presente una parte del mondo rimasta uguale a se stessa da migliaia se non milioni di anni. Nelle grotte il tempo non è più quel mostro furioso che in superficie divora uomini e panorami; pare invece paziente, fiero di sé mentre dedica tutta la sua arte agli arabeschi del vuoto.
Lo puoi accarezzare, tanto pare immobile.
[…] In questo su e giù di visioni spaziali, temporali, umane e fantastiche si eccitano, s’illudono e si consumano gli ardori degli speleologi, spesso mal accompagnati dalle solite scomodità notturnofile: il sonno, l’umido, il freddo, la fatica, la paura.
Perché ci vadano e perché tu li segua non è ben chiaro, ma laggiù nulla lo è. Forse le predette scomodità sono antidoti, vaccini contro mali ben peggiori in libera circolazione superficiale; forse sei matto, cerchi di andare dove il denaro non è mai arrivato4.

Certo, già prima di giungere allo splendore delle architetture sotterranee e prima ancora di poter contemplare l’opera del tempo secondo una differente prospettiva occorre affrontare un mondo esterno che spesso può riservare notevoli sorprese. Dall’apparizione improvvisa di un gruppo di guerriglieri comunisti nella giungla filippina, in cui si dileguano poi come fantasmi, alla cena preparata con un’anguilla da sette chili pescata da un membro di una delle tante spedizioni in un grande lago già in parte sotterraneo che custodisce l’accesso ad una gigantesca e inesplorata grotta tropicale.

Sorprese talvolta marcate dalla violenza, come spesso nel mondo di superficie accade e magari preannunciata dalla visita in sogno dell’amico Grundhal, come durante un viaggio in Albania al tempo delle sommosse popolari (che certo non risparmiarono le violenze ai danni dei rappresentanti del governo) degli anni ’90, oppure dallo stupore di fronte ad una massa di bianco calcare ancora mai sfidata e fino ad allora soltanto sognata.

Alla mia età scopro che si realizzano, a fronte delle delusioni e dei fallimenti riguardanti molti dei progetti in cui ho creduto in età adulta, i veri desideri di gioventù: una montagna di bianco calcare si erge ancora completamente inesplorata.
«Be’, sono qui, tutt’attorno a te» ride lei. «E ora che te ne fai di me, vecchio malvissuto?»
Lei e io siamo due esseri lontani uno sproposito, sia su scala spaziale che su scala temporale. Entrambi però siamo vuoti dentro, abbiamo la pelle traforata da migliaia di buchi grandi e piccini, siamo percorsi da fiumi e battuti dal vento. Tutti e due difendiamo una stabile temperatura interna. In fondo siamo più simili di quel che sembra, potremmo anche diventare amici.
Ogni volta che frequento grotte sconosciute finisce che scopro qualcosa di me, ma loro sono tante, mentre io solo uno.
«Ci vuole la banda» dice dal nulla la voce di un amico perduto.
Icaro, l’amico per vocazione.
Ci siamo mossi insieme in tantissime occasioni, quasi sempre cavandocela benissimo, finché non è caduto.
Ancora mi capita di consultarlo dentro di me, o forse è lui che viene a trovarmi quando non so dove sta il bandolo di una matassa appena avvistata5.

Vale la pena di concludere questo breve excursus, in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura anche a chi non ha nessuna intenzione di affrontare pozzi e sifoni sotterranei e tutta l’umidità, la fatica e, talvolta, la paura che ne conseguono, con un’ultima riflessione dell’autore sulla memoria e sulla fortuna di poter comprendere i segreti delle montagne e delle grotte in esse nascoste, che non tutti, per loro sfortuna e per fortuna delle grotte stesse, che mai potranno diventare luoghi di turismo di massa se non in alcuni e ben delimitati casi, potranno mai comprendere.

So che non vale la pena di impegnarsi mezz’ora per ricordare un nome, un posto, una data che chi ci ascolta dimenticherà in pochi secondi.
La mia memoria è sempre stata bella strana, conserva un’infinità di cose inutili sin da quando ero ragazzo, ma già allora era incapace di dirmi dove stavano il quaderno, le scarpe da football, le chiavi della macchina.
«Non trovi niente!» si infuria mio padre nei miei ricordi più antichi.
«Non trovo gli occhiali!» mugolo adesso.
Per giunta sono trasparenti, e non li avrei comprati se ci vedessi bene.
Insomma, sono in forte disagio con le cose che si spostano, che vagano insieme a me or qui or là; con quelle ferme mi trovo meglio.
Le grotte non si muovono mai; si modificano all’interno, ma non fuori. La loro fissità è proverbiale. Credo che diffondano attorno a loro una certa qual aura di presenza antica, una stabilità temporale anomala che alcuni riescono a captare. Pare che io sia tra i fortunati6.

La conquista dell’inutile costituisce il titolo del diario tenuto da Werner Herzog nel corso dei due anni trascorsi nella foresta amazzonica per le riprese di Fitzcarraldo7, mentre I conquistatori dell’inutile è quello del diario, pubblicato per la prima volta nel 1961, dall’alpinista francese Lionel Terray8. Una definizione che va benissimo per definire l’avventura dell’esplorazione in qualsiasi contesto: infatti là dove inizia la ricerca dell’utile, come mi insegnò un certo amico fraterno ed istruttore del corso di speleologia del CAI – Uget di Torino ormai più di quarant’anni fa, finisce il divertimento.


  1. Qui alcuni titoli dei tanti libri pubblicati: Andrea Gobetti, Le radici del cielo, Centro Documentazione Alpina Torino 1986; L’Italia in grotta. Guida alle più belle grotte d’Italia , Gremese 1991; Drammi e diaframmi. Immagini e storia dei film di montagna (con Fulvio Mariani), Corbaccio 1997; L’ombra del tempo. Gli esploratori delle caverne, CDA & Vivalda 2003; Animalia Tantum (con Andrea Micheli), Skira, Milano 2000; L’uomo che scala, Visentini 2008; Le omelie del diavolo, Diffusione Immagine 2014  

  2. Forse è bene, a questo punto, ricordare come, pur partendo da ipotesi politiche diverse, un certo Lenin, in Stato e rivoluzione, abbia sostenuto che «il primo dovere di un rivoluzionario è quello di sognare»; mentre Paul Mattick, il teorico tedesco-americano del comunismo consigliare, avrebbe a sua volta successivamente riconfermato il concetto proprio nel titolo della sua autobiografia: La rivoluzione. Una bella avventura (a cura di Antonio Pagliarone, Asterios Editore, Trieste 2020)  

  3. A. Gobetti, Una frontiera da immaginare, prima edizione dall’Oglio editore 1976; seconda edizione CDA, Centro Documentazione Alpina, Torino 2001; terza edizione Alpine Studio, 2014  

  4. A. Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle, SEM 2020, pp. 5-6  

  5. A. Gobetti, op. cit.. p. 77  

  6. op. cit., p. 53  

  7. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2018  

  8. L. Terray, I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, Hoepli, Milano 2017  

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Morire a Dacca/3 https://www.carmillaonline.com/2016/08/12/morire-a-dacca3/ Fri, 12 Aug 2016 01:53:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32513 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.1
L’ICE è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico che opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche italiane, sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dello sviluppo economico.
È curioso il fatto che sia un ente pubblico ad occuparsi di promuovere la delocalizzazione all’estero delle fabbriche italiane. Promuovere, cioè, un meccanismo che qui distrugge posti di lavoro dotati di un minimo di diritti e garanzie (anche se sempre meno), condanna al degrado economico e sociale i nostri territori e pesa sulle risorse pubbliche, sulle quali ricade l’onere degli ammortizzatori sociali.
Il tutto per spostare la produzione in luoghi dove si spara sugli operai, si torturano i sindacalisti, la nocività e l’insicurezza sul lavoro sono ai massimi livelli, i salari rimangono sotto la soglia di povertà.
Il rapporto ICE glissa su questi ultimi aspetti delle così dette politiche ‘investment friendly’, però dice altre cose interessanti. Per esempio che gli investimenti diretti italiani in Bangladesh del 2009 “sono concentrati nel settore tessile, tessuti (gruppo Berto), confezioni e maglieria (gruppo Ferri), nel settore dolciario (Perfetti) e nel settore delle calzature (Filanto, Adelchi)”.
Scopriamo così che anche il distretto calzaturiero salentino è andato a morire a Dacca.
O almeno, lo scopre chi non è leccese, visto che gli abitanti del Capo di Leuca questa storia la conoscono molto bene, avendone sperimentato direttamente gli effetti nefasti.
Il declino pilotato di questo frammento di made in Italy è un emblema del defilarsi furtivo (furtivo in tutti i sensi) dei nostri ‘capitani coraggiosi’, in fuga verso più profittevoli lidi di approdo.

Il Bangladesh a sud di Lecce

> Io ho cominciato a lavorare alle scarpe a nove anni
> A nove anni ! E si può ? Si poteva ?

> In quei periodi si poteva, perché la mattina andavamo a scuola, e il pomeriggio si lavorava.
> Addirittura ! Da ‘lu mesciu 2
> ‘Lu mesciu’, come si chiamava questo mesciu ‘Uccio’.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

L’intervistato ai microfoni de ‘L’indiano’, trasmissione di approfondimento di Telerama3, si chiama Giorgio, operaio calzaturiero da quando aveva 9 anni.
‘Lu mesciu Uccio’ invece era il defunto Antonio Filograna, Cavaliere del Lavoro e fondatore del calzaturificio Filanto di Casarano (LE), ai tempi in cui nel basso Salento lavoravano in fabbrica anche i bambini delle elementari. Più o meno come in Bangladesh.

Alla fine del secolo scorso le fabbriche de lu mesciu Uccio erano arrivate ad occupare nella provincia di Lecce 3.300 dipendenti diretti, senza contare l’indotto.  Con un ritmo di 50.000 paia di scarpe al giorno si attestavano ai vertici della classifica dei produttori europei.
Il sindacato non ci metteva piede. Trent’anni fa ci aveva provato Rosa, un’operaia dello stabilimento di Patù, ad iscriversi alla CGIL, ma lu mesciu Uccio considerava l’iscrizione al sindacato quasi un’ offesa personale: all’ ‘interesse’ dei suoi operai ci pensava lui ! Così Rosa era stata licenziata in tronco. Più o meno come in Bangladesh4.
Con gli anni, come vedremo, Antonio Filograna sul sindacato cambierà idea.

Alla fine del secolo scorso, in seconda posizione fra i calzaturieri salentini, si era attestato Adelchi Sergio (Sergio è il cognome), nipote di Filograna, con 2.500 dipendenti negli stabilimenti Adelchi e Nuova Adelchi fra Specchia a Tricase (LE).
Intorno alle due concentrazioni, una miriade di piccole aziende e laboratori permetteva a lu mesciu Uccio e a suo nipote di attingere facilmente da una rete di decentramento a basso costo e a chilometro zero. Laboratori dove la regola era quella della ‘doppia busta’. Nel senso che di buste paga gli operai ne avevano due: una ufficiale e un’altra ufficiosa, molto più leggera della prima5.
In ogni modo, i salari erano comunque calmierati dai patti territoriali, contratti provinciali di gradualità che permettevano agli imprenditori salentini del tessile, abbigliamento e del calzaturiero di stare al di sotto delle retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Così come erano calmierate altre tipologie di ‘pretese’: le malattie professionali da collanti e i loro danni permanenti alla salute si sistemavano informalmente, con quattro soldi alla famiglia e la consegna del silenzio.
Poi, un bel giorno, il Bangladesh sotto casa a Filograna e a suo nipote cominciò a non bastare più.
Per questo sottoposero i loro imperi  a processi di frammentazione e delocalizzazione all’estero. Due fasi strettamente connesse fra loro.

Delocalizzazioni all’italiana

Fu Adelchi Sergio a sperimentare per primo la strategia del ‘cluster’.
Si trattava della creazione di una rete di unità produttive intestate a parenti o amici e formalmente indipendenti dalla casa madre, ma in realtà tutte riconducibili ad essa.
Un sistema che non avrebbe avuto nessun senso da un punto di vista industriale, se non quello di attivare un gigantesco gioco delle tre carte dove soldi, dipendenti e macchinari apparivano e sparivano. Soprattutto sparivano: i dipendenti salentini in mobilità, e i soldi, i macchinari, il know how, il portafoglio clienti in Albania, Etiopia e Bangladesh.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Il ‘gioco’ ebbe inizio nella seconda metà degli anni ’90, quando La Nuova Adelchi attraversò l’Adriatico per costituire a Tirana la Donianna, una joint venture italo/albanese. Un bel posto, Tirana ! Un posto dove un operaio delle scarpe prende 200 euro lordi al mese6.
Nello stesso anno (1996) a circa 7.000 km di distanza, un certo Elahi Manzur, proprietario di concerie in Bangladesh, mentre si chiedeva se non fosse il caso di porre termine alla sua fallimentare avventura nel settore calzaturiero, trovò ‘un collaboratore italiano che era disposto a fornire i disegni, aiutarlo ad aumentare la produzione e la commercializzazione’ di scarpe7. Adelchi Sergio, of course.

Lo spostamento all’estero di alcune fasi produttive della Nuova Adelchi in realtà era iniziato nel 1989, ma non aveva comportato un disimpegno negli stabilimenti salentini, le cui esportazioni erano ancora sostenute dalle svalutazioni competitive della lira8.
A ridosso del nuovo millennio, il decentramento cominciò però a trasformarsi in una lenta, ma coerente, strategia di smobilitazione, agevolata dalla costruzione in madre patria di un sistema di scatole cinesi.
La prima fra queste, primogenita del cluster Adelchi, fu la Selcom Srl, un aziendina molto dinamica che appena nata provvide subito a 400 assunzioni ed al relativo inoltro della domanda per ottenere i benefici della 488/92.
Per inciso, la legge 488/92 è quella che prevede ancor oggi contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per le imprese che creano ‘nuova occupazione’ in aree svantaggiate del nostro belpaese.
Peccato che per la Selcom non si trattasse esattamente di ‘nuova occupazione’, ma di 400 ignari lavoratori della Nuova Adelchi, che “passarono da un’azienda all’altra, a loro insaputa. Sparì il rigo sulla busta paga relativo alla data di assunzione, livello e scatti di anzianità. E questo successe sia sulle buste paga Selcom, sia su quelle della Nuova Adelchi, tutto per camuffare il passaggio degli operai“.9

Visto che il meccanismo funzionava, da lì a poco si replicò con un’altra azienda del cluster:

Calzaturificio Adelchi.

Calzaturificio Adelchi.

Nel 2000  quattro  catene  di  montaggio,  circa duecento  persone,  vengono  trasferite  dalla  Nuova  Adelchi  al calzaturificio Adelchi: è il secondo trasferimento in due anni. Il concetto è questo: l’azienda dichiara lo stato di crisi, ma sono stati loro stessi, negli anni, a costruire la crisi con i vari passaggi: se trasferisco sei catene, i miei incassi diminuiscono perché diminuisce la mia capacità produttiva“.10

E così via. La Nuova Adelchi  passava le linee produttive e il relativo fatturato alle sue diramazioni informali (C.R.C. Srl, K.N.K. srl, Magna Grecia Srl, Sky Srl, G.S.C. Plast Srl, Sergio’s). Poi si dichiarava in ‘crisi’ e metteva i dipendenti in mobilità, in modo da farli riassumere nelle aziende figlie, che a loro volta potevano così usufruire, per milioni di euro, dei forti sgravi contributivi destinati a chi assume dalle liste di mobilità, e dei finanziamenti della 488.
Gli operai si trovavano a lavorare per una ditta diversa, pur restando negli stessi capannoni, davanti alle stesse macchine di sempre.
Nel frattempo i macchinari nuovi, acquistati con i finanziamenti della 488, prendevano la strada dell’est, ceduti in ‘prestito d’uso gratuito’ alle ditte albanesi, romene e bulgare della rete di decentramento estero11.

Ovviamente non veniva svelata la natura fittizia della crisi, che anzi veniva addebitata a tutt’altri motivi: per esempio alla fine dei contratti provinciali di gradualità, che costringeva (orrore) a pagare agli operai i salari pieni.
Ma soprattutto imperava il mantra della ‘globalizzazione’. Della serie: ‘la crisi c’è perché i clienti vanno a comprare all’estero’ (… cioè, dalle mie filiali delocalizzate!). L’argomento era particolarmente esilarante, dato che era stata proprio la Nuova Adelchi a portare all’estero il suo portafoglio clienti.

Apex Adelchi Footwear 2006

Assemblea annuale Apex 2006. Adelchi Sergio è il 3° da sinistra.

Comunque, ufficialmente la povera Nuova Adelchi si dibatteva nelle difficoltà, seguita dalle sue aziendine satelliti che intorno al 2005 cominciarono  a mettere pure loro i dipendenti in cassa integrazione.
Ma nel frattempo, come se la passava in Bangladesh Elahi Manzur ?
Benissimo !
La sezione calzaturiera del suo gruppo (Apex), che fino a 10 anni prima sembrava avviata verso un destino fallimentare, grazie al socio italiano andava a gonfie vele.
Nel 2006 Adelchi Sergio era entrato in joint venture con lui, costituendo la Apex Adelchi Footwear Limited, con un investimento di 1.739.330.43 euro12.
In pratica, mentre in Italia piangeva miseria mettendo la gente in cassa integrazione, i soldi per investire in Bangladesh li aveva trovati eccome ! E nella joint venture ci metteva non solo i capitali, ma anche la partecipazione tecnica e di marketing. Sovraintendeva alla creazione di marchi dai nomi italiani accattivanti, e soprattutto indirizzava la produzione bengalese al suo parco clienti, lasciando senza acquirenti la casa madre salentina.
Inizialmente le scarpe prodotte in Bangladesh almeno transitavano per lo stabilimento di Tricase, prima della consegna ai clienti europei.
Agli operai del Capo di Leuca era affidata l’ultima ‘rifinitura’, quella che rende un paio di calzature veramente di classe: “Noi, negli ultimi anni, abbiamo per la gran parte solo cambiato il marchio alle scarpe che ci arrivavano già belle e pronte dall’estero. Via il Made in Albania o il Made in Bangladesh, ci appiccicavamo il Made in Italy”.13

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Fino a che la triangolazione non è sembrata troppo costosa, e l’Apex  Adelchi Footwear Limited non ha cominciato a spedire direttamente il prodotto finito ai clienti  europei, e poi a fatturarglielo senza più passare per la Nuova Adelchi.
In questo modo le esportazioni della Apex schizzarono nel 2007 a 58,87 milioni di $, ed a 72,37 milioni di $  nel 2008, e via crescendo14.  Vampirizzando la Nuova Adelchi. E non solo l’Apex le sottraeva il fatturato. Le accollava pure le perdite !
Nella maggior  parte  dei  casi,  la  merce  può  arrivare al cliente con dei difetti; il cliente che si trova in Germania non rimanda la merce  in  Bangladesh  per  farla  ricondizionare, sosterrebbe un costo enorme; la merce torna a Tricase; La Nuova Adelchi se  la  prende  in  carico  per  il  ricondizionamento;  costi  di  trasporto,  in  andata e  in ritorno,  costi  di  riparazione,  tutto  a carico  della  Nuova  Adelchi“.15

Non stupisce che in queste condizioni gli stabilimenti italiani fossero condannati al tracollo.
Fra il 2006 e il 2007 la maggior parte delle aziende del cluster sono state liquidate. Sopravvive solo la Sergio’s, per il mercato del lusso.
La Nuova Adelchi è fallita, spolpata fino all’osso. Prima di chiudere, dai suoi magazzini sono scomparse rimanenze per 53 milioni di euro, occultate ai controlli tramite la falsificazione dei bilanci.
L’Apex, al contrario, è diventata il primo produttore di scarpe del subcontinente indiano. Ne produce 4,5 milioni di paia all’anno per 130 clienti (grosse catene distributive) in 40 paesi, e tre milioni di paia per il mercato domestico, distribuite tramite i suoi 550 outlet, destinati alla classe media.
Non dipende più da Tricase, nemmeno per  la ricerca & sviluppo, che viene fatta in un grande centro a Taiwan, anche se ha mantenuto il vezzo dei nomi italiani per le sue linee (Nino Rossi, Venturini). E’ un’azienda ‘etica’, che paga gli operai addirittura l’equivalente di 90 euro al mese16, molti di più dei 61 del salario minimo vigente in Bangladesh.  In pratica, con il loro salario Apex, gli operai Apex possono comprarci un paio di scarpe Apex, e gli rimangono pure 10 euro !
Non ci è dato sapere quanto Adelchi Sergio abbia beneficiato di tanta fortuna, che è girata tutta estero su estero. Né lo andrebbe a dire in giro.
Inquisito per truffa aggravata ai danni dell’Inps e bancarotta fraudolenta17, oggi è un tenero vecchietto che dice di vivere con la pensione di 700 euro al mese18, impossibilitato a pagare i molteplici creditori. (Continua)

[Nella foto in alto: operai alla Apex Adelchi Footwear Limited, 2012.]

 


  1. ICE, Aggiornamento al 2° semestre  2009, Bangladesh, p.7. 

  2. ‘Maestro’ in dialetto salentino. 

  3. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano , Telerama, gennaio 2014. 

  4. Scarpe di lusso stipendi da fame. Così il Salento è diventato una colonia del Made in Italy, min. 2,20 

  5. Idem. 

  6. Francesco Clemente, Albania, la Cina vicina che fa le scarpe all’Italia, Linkiesta, 1/09/2012. 

  7. Naazneen Karmali, Bangladesh’s Apex Group Emerges As Shoemaker To The World, Forbes, 27/08/14 

  8. Gianfranco Viesti, Francesco Prota, Delocalizzazione e Made in Italy: il caso pugliese

  9. Tommaso, ex dipendente di La Nuova Adelchi, in: Michele Frascaro, Adelchi, il vero volto della crisi, in “L’impaziente’, n. 21, dicembre 2009, pp. 8/18. 

  10. Idem. 

  11. In particolare: le albanesi Berttoni Shpk, Donianna Shpk e Green Shoe hpk, la romena S.C. Montana S.A e la bulgara Oraden srl. Tricase: nei guai il fondatore del gruppo calzaturiero e il figlio, La Gazzetta del Mezzogiorno, 12/10/07. 

  12. Ajoy Paul, Supply Chain and Business Strategy of Apex Adelchi Footwear Limited, 2/12/11. 

  13. Rocco, ex operaio Nuova Adelchi, in: Tiziana Colluto, Scarpe all’estero e cassa integrazione nel Salento: per i 700 operai Adelchi è la fine, Il Fatto Quotidiano, 20/01/2012 

  14. Ajoy Paul, op.cit. 

  15. Michele Frascaro, op. cit. 

  16. Naazneen Karmali, op. cit. 

  17. Maxitruffa all’Inps sequestrati 8 mln ad Adelchi di Tricase, La Gazzetta del Mezzogiorno, 16/05/2011. Chiara Spagnolo, Adelchi, bancarotta da 53 milioni a processo il re delle calzature, La Repubblica, 9/05/2013. 

  18. Giuseppe Cerfeda, La fine di un impero, Il Gallo, 22/01/2016. 

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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Il nostro D-Day https://www.carmillaonline.com/2014/06/14/d-day/ Fri, 13 Jun 2014 22:14:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15335 di Sandro Moiso d-day

E’ stato commemorato nei giorni scorsi ciò che dal punto di vista del pensiero antagonista non può sembrare altro che l’inizio del trionfo su scala europea del controllo indiretto del capitale finanziario sulla forza lavoro e sul territorio e della, momentanea, sconfitta del controllo diretto da parte dal capitale industriale sulla manodopera e qualsiasi tipo di risorsa economica.

Niente di più e niente di meno. Stati Uniti e Gran Bretagna contro Germania, in una sorta di campionato mondiale che aveva come unico obiettivo finale quello delle forme che il comando sul lavoro avrebbe dovuto assumere dopo la [...]]]> di Sandro Moiso d-day

E’ stato commemorato nei giorni scorsi ciò che dal punto di vista del pensiero antagonista non può sembrare altro che l’inizio del trionfo su scala europea del controllo indiretto del capitale finanziario sulla forza lavoro e sul territorio e della, momentanea, sconfitta del controllo diretto da parte dal capitale industriale sulla manodopera e qualsiasi tipo di risorsa economica.

Niente di più e niente di meno. Stati Uniti e Gran Bretagna contro Germania, in una sorta di campionato mondiale che aveva come unico obiettivo finale quello delle forme che il comando sul lavoro avrebbe dovuto assumere dopo la fine delle ostilità. Che, però, non sono mai finite.

Come ben dimostrano i conflitti scoppiati ancora una volta qui in Europa, con buona pace di coloro che insistono col dire che l’attuale unità europea abbia saputo garantire un periodo di stabilità durato più di sessant’anni.
Le guerre balcaniche che hanno viste coinvolte nei primi anni novanta, subito dopo la riunificazione tedesca, la Serbia, la Slovenia, la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. Poi il Kosovo e oggi, sempre più allargando l’area dei conflitti europei, l’Ucraina.

Guerre in cui i paesi europei non possono dirsi estranei e nemmeno gli Stati Uniti.

Guerre, la cui responsabilità, è stata scaricata interamente sui conflitti inter-etnici e sugli odi politici e religiosi antichi e locali. Soltanto per tener nascosti agli occhi dei cittadini europei, ammaliati dal discorso democratico e da un benessere ormai scomparso, la reale portata imperiale della competizione militare ed economica in corso allora come oggi.

Giulio Tremonti, vent’anni fa circa, grosso modo ai tempi delle rivolte in Albania contro il sistema delle piramidi finanziarie che avevano segnato il trapasso da un socialismo disumano al capitalismo delle migrazioni e della miseria, aveva affermato su una prestigiosa rivista politica americana, la Aspen Review, che occorreva riportare la povertà dell’Est nelle buste paga dell’Ovest.

Ebbene, ci sono riusciti! Ma lo scontro per chi deve comandare in Europa la forza lavoro, per le forme di sfruttamento che questa deve subire e per i vantaggi derivanti dal suo basso costo prosegue, nonostante le fasulle celebrazioni e le farsesche cerimonie svoltesi nei giorni scorsi.

Non saranno, però, i beceri nazionalismi a risolvere tale problema, mentre il loro progressivo diffondersi non è altro segno che dell’espandersi di quello scontro anche nel cuore dei paesi un tempo più ricchi. Esattamente come successe a partire dai Balcani tra la fine del 1990 e i primi mesi del 1991.

Il nostro D-Day non c’è ancora stato. Nonostante i tredicimila morti tra i militari degli eserciti contrapposti e i ventimila morti tra i civili della Normandia nessuna liberazione è giunta davvero fino a noi.

Ci resta in compenso la memoria dei bunker tedeschi del Vallo Atlantico, oggi sfruttati dal punto di vista di un turismo che sa di necrofilia e che all’epoca rappresentarono, al momento della loro costruzione, una notevole fonte di arricchimento per le ditte coinvolte nella loro realizzazione.

Realizzazione che, guarda caso, vide l’impiego di grandi quantità di calcestruzzo e di manodopera sottopagata o non pagata del tutto, costituita in massima parte da volontari, lavoratori forzati o prigionieri.
Vi ricorda qualcosa? Magari l’Expo? Oppure il Mose o il TAV? Non sbagliate.
val clarea

I nostri bunker ci sono ancora tutti. Come le centinaia di militanti No TAV imputati nei processi intentati contro di loro dalla Procura di Torino sanno bene ancora oggi.
Il lavoro coatto esiste ancora e chi si oppone alle sue logiche e definito ancora terrorista e banditen.

La devastazione militare dei territori c’è ancora tutta. Così come ci sono ancora tutti i campi circondati da filo spinato e controllati da mezzi blindati e truppe in assetto di guerra. Sia che si tratti di presidiare un inutile e costosissimo buco scavato nelle montagne, sia che si tratti di tener rinchiusi come animali gli immigrati sbarcati sulle nostre coste.

No, il nostro D-Day non è ancora venuto.
Perché il nostro D-Day vedrà la fine di ogni bunker, di ogni menzogna, di ogni dittatura sul lavoro e di ogni devastazione dell’ambiente. Solo quello, allora, celebreremo.
E sarà una grande, grandissima festa!

N. B.

Il presente intervento è stato letto domenica 8 giugno davanti al cantiere TAV in Val Clarea nell’ambito delle iniziative promosse in occasione della manifestazione “Una montagna di libri contro il TAV” giunta ormai alla sua terza edizione grazie alla creatività, alla volontà, al coraggio e alla determinazione dei militanti del Movimento No TAV, della Libreria Città del Sole di Bussoleno, della Tabor Edizioni e dell’Associazione ArTeMuDa. A loro rivolgo ancora il più sincero ringraziamento per avermi permesso, per qualche giorno, di far parte di una delle comunità umane migliori tra tutte quelle che ho conosciuto nel corso della mia vita.

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