afro-pessimismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 3: Ragazze selvagge https://www.carmillaonline.com/2024/12/18/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-3-ragazze-selvagge/ Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85830 di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti [...]]]> di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti della Perla di Labuan, ovvero Lady Marianna Guillonk, dei romanzi del ciclo della Malesia, o di Donna Dolores, marchesa del Castillo, che si batte contro l’imperialismo yankee nei due romanzi dedicati alla guerra ispano-americana a Cuba e nelle Filippine del 1898; oppure di Yalla, moglie di Nuvola Rossa, e di sua figlia Minnehaha, la Scotennatrice, che si battono per il popolo Sioux contro l’invasione bianca del West americano o, ancora, di Maria Federowna che organizza la fuga del fratello dagli orrori della prigionia in Siberia cui era stato condannato come ribelle polacco; di Jolamda la figlia del Corsaro nero o di Honorata, la Regina dei Caraibi, nel ciclo dei corsari e dei pirati delle Antille, e, per finire, di Capitan Tempesta ovvero della bellissima Eleonora, duchessa d’Eboli, che, ispirata direttamente alla figura della Clorinda inventata dal Tasso, anima le pagine dei romanzi dedicati allo scontro tra mussulmani e imperi cristiani nel Mare Mediterraneo, sempre l’autore più celebre dei romanzi di avventura ci mette al cospetto di donne giovani, belle, dallo spirito ardente e fiero, incapaci di sottomettersi alla volontà di avversari più potenti o di uomini forti più per ricchezza che per coraggio proprio.

Molto prima delle eroine dei film di George Lucas o di Tarantino e di quelle che hanno in seguito animato mille pellicole avventurose, dagli ultimi film del ciclo di Mad Max a Rebel Moon e altri ancora, sono esistite donne, giovani, belle e coraggiose che, pur non essendo né nobili né ricche o di discendenza illustre, hanno davvero messo a soqquadro la società bianca e borghese americana a cavallo tra XIX e XX secolo. Certo, non allo stesso modo delle militanti della Comune di Parigi come Louise Michel oppure come Clara Zetkin e le altre donne terroriste russe del periodo precedente la Rivoluzione russa o, ancora, le giovani operaie di San Pietroburgo che l’avevano avviata nel febbraio del 1917, ma abbastanza decise e selvagge da mettere in allarme una società che dell’oppressione di genere, “razza” e classe aveva fatto, e fa tutt’ora, il suo tratto distintivo.
Ed è proprio di queste donne e delle loro vite ribelli e “bellissime” che ci parla la scrittrice e accademica newyorchese Saidiya Hartman, nel testo pubblicato da minimum fax: Vite ribelli, bellissimi esperimenti.

La studiosa, che è nata nel 1961 ed insegna alla Columbia University, si occupa di storia culturale, fotografia e filosofia etica e durante l’intera sua carriera si è concentrata sulla cultura afroamericana e sulle intersezioni tra diritto e letteratura. Oltre che di quest’opera, pubblicata in lingua originale nel 2019 con il titolo Wayward Lives, Beautiful Experiments. Intimate Histories of Social Upheaval, è stata autrice di Perdi la madre, pubblicata in Italia da Tamu nel 2021 (qui) e di Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America. Tra i molti riconoscimenti, ha ricevuto una borsa di studio Fulbright, una Guggenheim Fellowship nel 2018, una MacArthur Fellowship nel 2019. Nel 2022 è entrata a far parte dell’American Academy of Arts and Sciences.

Puoi trovarla nel gruppetto di attraenti teppisti e ragazze troppo sveglie che si radunano all’angolo della strada e canticchiano l’ultimo ragtime, o mentre se ne sta di fronte a Wanamaker e fissa bramosa un bel paio di scarpe esposte in vetrina come fossero gioielli. Guardala nel vicolo mentre si passa un boccale di birra con le amiche, bella e sfacciata, col suo vestito preso in saldo e i nastrini di seta; ammirala mentre si sporge dalla finestra di un palazzo, gustandosi lo spettacolo del quartiere e sfidando la forza di gravità. Imbocca una qualsiasi delle strade che attraversano la città tentacolare e la incontrerai mentre se ne va girovagando. I forestieri chiamano «slum» le strade e i vicoli che formano il suo mondo. Per lei è semplicemente il posto in cui vive.1.

E’ questo l’incipit di un libro di storia sociale che si legge, davvero, come un romanzo. E’ questa figura senza nome e senza identità ufficiale, che riassume in sé tutte le figure di donne che verranno nelle successive 450 pagine. Più che un’introduzione, La terribile bellezza dello slum, il primo capitolo del testo della Hartman, che inaugura anche il primo libro, Lei, il suo cammino errante attraverso la città, pare un trailer cinematografico tanta è la forza visiva con cui l’autrice ci porta nel mondo che intende narrare e ricostruire.

Cosa significa, infatti, desiderare una vita bella quando la sopravvivenza stessa non può essere data per scontata? Come si fa a immaginare la libertà quando si è costrette a sottostare alle regole dell’esclusione? Due o tre generazioni dopo la fine della schiavitù, le giovani donne nere scoprivano la città e le sue promesse e rifiutavano i ruoli angusti che la società aveva loro assegnato. Prima degli scrittori, prima dei predicatori e degli studiosi di questioni razziali, le ragazze nere si interrogavano sul senso profondo della libertà e scoprivano che era possibile portare avanti una vera e propria rivoluzione agendo sull’unica dimensione di cui potevano avere almeno il parziale controllo, quella della loro vita individuale.

In fin dei conti non è forse questo il motore di ogni avventura e di ogni ribellione? Contro l’ingiustizia; contro la miseria, esistenziale ancor più che economica; contro la norma abitudinaria, creata dagli oppressori ma interiorizzata dagli oppressi. E non è forse, in tante avventure, la gioventù a rivoltarsi contro, non la vecchiaia, ma contro un mondo vecchio, nelle sue forme e nelle sue leggi?

Per descrivere il mondo attraverso gli occhi delle donne nere, giovani e ardimentose, Saidiya Hartman parte dagli archivi – fascicoli della polizia, articoli, album di famiglia, resoconti dei sociologi – da cui trae l’ossatura delle vicende che racconta. Soprattutto dalle fotografie d’epoca e d’archivio di cui, fin dalle prime righe, trasmette al lettore la grande forza documentaristica ed evocativa. Fotografie, come quella di Ada Overton Walker usata per la copertina che pare riassumere in sé, in un unico scatto del 1917, tutta la bellezza e l’orgoglio contenuti nelle storie narrate.

Vite ribelli, bellissimi esperimenti racconta storie di amore liberissimo, di madri «single» ma tutt’altro che sole, di lavori umilianti rifiutati e di affetti nati dentro le stanze di un carcere femminile. Riportare alla luce ciò che è stato cancellato o rimosso, dare la parola al silenzio: questo è il lavoro straordinario che Hartman svolge con rigore e partecipazione, incrociando le storie di queste donne disobbedienti a quelle di personaggi e vicende più noti, ma lasciando che sia sempre «il coro» ad occupare il centro della scena.

Differenziandosi da tanto accademismo afro-americano, ma non solo, che ha dato della condizione nera una formulazione che di fatto la assolutizza, privandola di qualsiasi possibilità e capacità di rottura con l’esistente:

Saidiya Hartman enfatizza la capacità di resistere della gente nera. In Vite ribelli, bellissimi esperimenti impiega il metodo della “affabulazione critica” per svelare le storie delle giovani donne nere e delle persone di genere non tradizionale negli Stati Uniti a cavallo del ventesimo secolo. In città come New York e Filadelfia, queste donne, a poche generazioni di distanza dalla schiavitù, erano sottoposte a nuove forme di razzializzazione e di asservimento e oppressione di genere. Hartman argomenta che queste donne nere erano impegnate in “piccole” rivoluzioni “per costruire vite autonome e bellissime, sottrarsi alle nuove forme di asservimento che le attendevano, e vivere come se fossero libere”. Hartman crea una contro-narrazione rispetto ai documenti ufficiali, nei quali troviamo silenzio o rimozione quando cerchiamo prove di queste vite ribelli. In una breve annotazione teorica, ci ricorda che il termine “ribelle” fa parte di una famiglia di parole che include “errante, fuggitivo, recalcitrante, anarchico, ostinato, spericolato, fastidioso, riottoso, tumultuoso, ribelle e selvaggio”2.

Per la Hartman, sempre secondo Okoth:

l’abolizione formale della schiavitù negli Stati Uniti non ha prodotto una reale discontinuità nella violenza razziale. Troviamo oggi i segni di tale violenza nelle “ridotte chance di vita, nel limitato accesso alla salute e all’educazione, nelle morti premature, nelle incarcerazioni e nell’impoverimento” della gente nera. L’abolizione formale e la Ricostruzione non hanno portato all’emancipazione. Questi eventi sono piuttosto serviti come tappe della “transizione fra modi di servitù e subordinazione razziale”. Mettendo in primo piano il violento processo di subordinazione razziale, Hartman vuole mostrare che la violenza della schiavitù non è limitata alla “costruzione dello schiavo come oggetto”; infatti l’umanità dei soggetti resi schiavi era fondamentale per il progetto di subordinazione razziale. I neri, perciò, non sono oggetti subumani, come affermano Wilderson, Sexton e Warren3, bensì soggetti razzializzati che sono assolutamente parte della sfera sociale e politica4.

Il documento fotografico, come si è già detto prima, è importantissimo all’interno di una ricerca in cui l’enfatizzazione e la comprensione dell’ambiente urbano di provenienza dei soggetti analizzati, ovvero delle giovani donne afro-americane povere del periodo compreso tra la grande migrazione a Nord e il Rinascimento di Harlem cui avrebbe posto fine la grande crisi economica a cavallo tra anni Venti e Trenta, svolge un ruolo chiave.

Non capiteresti mai nel suo isolato a meno che tu non ci abiti, o ti sia perso, o non te ne vada in giro in cerca dei piaceri forniti dall’altra metà del mondo. I voyeur nelle loro spedizioni nei bassifondi si nutrono della linfa del ghetto, la desiderano e al tempo stesso la disprezzano. I sociologi e i benefattori con le loro fotocamere e i loro studi non sono tanto meglio, intenti a osservare tutti quegli strani esemplari. Il suo distretto è un labirinto di vicoli sporchi e cortili malconci. È Africa Town, il quartiere nero, la zona dei nativi. Italiani ed ebrei, fagocitati per prossimità, scompaiono. Celato dietro la facciata della metropoli ordinata, c’è un intero mondo: gli edifici non ancora fatiscenti e le case dignitose che affacciano sulla strada nascondono i caseggiati del vicolo in cui vive. Imboccando il passaggio laterale che porta al vicolo, si varca la soglia di un mondo turbolento e rumoroso, un luogo definito dal tumulto, dal volgare collettivismo e dall’anarchia. È una fogna umana popolata dai peggiori elementi. È il regno dell’eccesso e dell’esagerazione. È un luogo di dannazione. È la piantagione estesa alla città. È un laboratorio sociale. Il ghetto è uno spazio di incontro. […] una comunità urbana in cui i poveri si riuniscono, improvvisano forme di vita, sperimentano la libertà e rifiutano quell’esistenza servile che gli è stata ascritta. È una zona di estrema privazione e di spreco scandaloso. Nei caseggiati popolari gli onesti convivono serenamente con i dissoluti e gli immorali. Il quartiere nero è un luogo privato di ogni bellezza e stravagante nel suo modo di sfoggiarla. […] Nello slum scarseggia tutto tranne le sensazioni. L’esperienza è troppa. La terribile bellezza è più di quanta si potrebbe mai sperare di assimilare, ordinare e spiegare. I riformatori sociali scattano foto agli edifici, alle kitchenette5, ai fili stendibiancheria e alle latrine. Lei passa inosservata mentre li scruta dalla finestra del terzo piano della casa nel vicolo in cui vive, ridendo della loro stupidità. […] Si chiede cosa li affascini tanto nei fili stendibiancheria e nelle latrine. Fotografano sempre la stessa roba. Le mutande dei ricchi sono tanto meglio di queste? Il cotone è così diverso dalla seta ed è esteticamente meno bello drappeggiato come uno striscione da una parte all’altra della strada? I forestieri e gli «uplifter»6 non capiscono, non colgono il punto. Vedono solo un tipico vicolo del quartiere nero, ciechi agli scambi di sguardi e ai morsi del desiderio che sconvolgerebbero le loro didascalie lasciando intravedere la possibilità di una vita che va oltre la povertà, un tumulto e uno sconvolgimento che non possono essere arrestati dalla fotocamera. Non riescono a discernere la bellezza e vedono soltanto il disordine, non si rendono conto che la gente nera crea la vita e trasforma i bisogni basilari in un’arena di elaborazione.[…] I giornalisti sbottano sulle pagine dell’Harper’s Weekly: «Oltre agli ebrei, nei caseggiati, tra scene di indescrivibile squallore e abiti pacchiani, ci vivono i neri, facendo una vita spensierata tra piaceri mondani, confusione, musica, rumore e lotte feroci che li rendono spaventosi sia per i vicini bianchi che per i proprietari di casa». Indignati alla vista di domestiche, inservienti e stivatori in abiti eleganti, di ragazzi dell’ascensore con copricapo stravaganti che si pavoneggiano all’angolo della strada, di neri esteti felici di buttar via soldi in lussi, ornamenti e luccichii, i sociologi li esortano a imparare il valore del denaro dai vicini italiani ed ebrei. I neri devono abbandonare il lassismo, l’indulgenza sessuale e gli eccessi sfrenati, usanze tipiche degli schiavi. Il passato-presente di servitù involontaria si manifesta per le strade, e la famiglia, completamente distrutta dalle navi schiaviste e dalla promiscuità delle piantagioni, viene ora distrutta di nuovo, sfasciata perché accoglie estranei. I sensi sono iperstimolati e sopraffatti. Guarda e lascia che gli occhi riescano a cogliere tutto: quegli splendidi teppisti nel cortile, in riga come sentinelle; la smodata esposizione di splendide fioriere sistemate sul davanzale di un caseggiato, le lenzuola, i fazzoletti con le iniziali ricamate, le calze di seta ricamate, l’intimo di una prostituta appeso al filo sul vicolo, quasi a sfoggiare rapporti clandestini, vite ribelli, faccende carnali. Donne con pacchetti legati con lo spago sfuggono come ombre. La luce violenta alle loro spalle le trasforma in silhouette; forme scure e astratte prendono il posto di chi sono davvero7.

Per scoprire il meraviglioso segreto e le vicende racchiuse nelle oltre quaranta biografie contenute nel testo non resta ora altro, per il lettore, che sprofondarsi nella sua lettura, per esserne affascinato e stimolato come avviene con tutti i migliori romanzi di avventura.


  1. S. Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, p. 19.  

  2. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 43-44.  

  3. Autori e ricercatori accademici appartenenti alla corrente definita da Okoth come Afro-Pessimismo 2.0. Si veda la recensione del testo di Okoth su Carmilla qui  

  4. Kevin Ochieng Okoth, op. cit., pp. 42-4.  

  5. Minuscoli appartamenti diffusi, a partire dagli anni Venti, soprattutto nei quartieri abitati dalla comunità afroamericana di Chicago e New York, ottenuti suddividendo abitazioni più grandi per massimizzare il profitto.  

  6. Persone che si dedicavano alla cosiddetta «elevazione della razza», ossia al miglioramento sociale, culturale, intellettuale e morale delle persone nere.  

  7. S. Hartman, op. cit., pp. 19-23.  

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Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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