Adelphi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estranee alla norma https://www.carmillaonline.com/2024/05/29/esperienze-estranee-alla-norma/ Wed, 29 May 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82613 di Sandro Moiso

William Sloane, Attraverso la notte, Introduzione di Stephen King, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 279, euro 19,00

«Non mi vengono in mente altri romanzi come questi, per stile e per sostanza. Il mio unico rimpianto è che William Sloane non abbia continuato a scriverne. Se l’avesse fatto, sarebbe forse diventato un maestro del genere o ne avrebbe creato uno completamente nuovo.» (Stephen King)

William Sloane potrebbe costituire una “scoperta” tardiva per gli appassionati di letteratura fantastica italiani e per questo non stupisce il fatto che, come già in altre occasioni passate, siano proprio le edizioni Adelphi a [...]]]> di Sandro Moiso

William Sloane, Attraverso la notte, Introduzione di Stephen King, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 279, euro 19,00

«Non mi vengono in mente altri romanzi come questi, per stile e per sostanza. Il mio unico rimpianto è che William Sloane non abbia continuato a scriverne. Se l’avesse fatto, sarebbe forse diventato un maestro del genere o ne avrebbe creato uno completamente nuovo.» (Stephen King)

William Sloane potrebbe costituire una “scoperta” tardiva per gli appassionati di letteratura fantastica italiani e per questo non stupisce il fatto che, come già in altre occasioni passate, siano proprio le edizioni Adelphi a proporre uno dei suoi unici due romanzi nella collana Fabula con il numero 403. Una casa editrice certo non dedita in maniera specialistica alla letteratura fantastica, fantascientifica o horror che spesso, però, ha contribuito a diffondere in cerchie di lettori non esclusivamente appassionati alla letteratura di genere.

Questa non esclusività delle scelte editoriali ha fatto sì che sulle pagine dei suoi volumi siano stati riscoperti e rivalutati autori come Theodore Sturgeon, Georges Simenon con i suoi romanzi basati sulla figura dell’ispettore Maigret oppure Mervyn Peake e Shirley Jackson, soltanto per citarne alcuni. Contribuendo, senza grandi formulazioni teoriche o di principio, ad un recupero degli stessi e della migliore letteratura di genere in un ambito letterario che, nell’Italia degli abominevoli e mortiferi “studi classici”, troppo spesso aveva bellamente ignorato la loro importanza.

William Milligan Sloane III (15 agosto 1906, Plymouth Massachusetts – 25 settembre 1974, New York) potrebbe essere un altro di questi. Con soli due romanzi alle spalle, lo scrittore americano sembra infatti meritare un riconoscimento sia per quanto riguarda la letteratura fantscientifica che horror e fantastica, anche se in quello appena tradotto da Gianni Pannofino coesistono anche elementi di thriller che lo avvicinano alla letteratura inglese del mistero.

Laureatosi all’Universtà di Princeton nel 1929, Sloane è conosciuto principalmente per il suo romanzo To Walk the Night ora tradotto come Attraverso la notte, pubblicato in origine nel 1937.
La sua maggiore attività, però, non fu quella di scrittore avendo lavorato per più di 25 anni per diversi editori. Nel 1946 aveva fondato una sua casa editrice, la William Sloane Associates, che nel 1952 sarebbestavvenduta ad un’altra società. Dal 1955 fino alla sua morte fu direttore della Rutgers University Press del New Jersey.

Le sue altre opere furono comunque quasi tutte dedite alla letteratura o al teatro di genere fantastico o fantascientifico. Tra queste si possono enumerare: Back Home (1931, un dramma di fantasmi in un atto); Runner in the Snow (1931, un’opera del soprannaturale in un atto); Crystal Clear (1932, un’opera teatrale fantasy); The Edge of Running Water (1939, romanzo di fantascienza con elementi horror; adattato come il film The Devil Commands) di prossima pubblicazione presso Adelphi; Space, Space, Space: Stories About the Time When Men Will Be Adventuring to the Stars (1953) e Stories for Tomorrow: An Anthology of Modern Science Fiction (1954), due raccolte di racconti, queste ultime, entrambe curate dallo stesso Sloane.

I due romanzi To Walk the Night e The Edge of Running Water dopo essere stati stati ripubblicati insieme come The Rim of Morning nel 1964, sono stati ristampati nel 2015 con un’introduzione di Stephen King, che è anche quella che accompagna e introduce l’attuale edizione italiana. In cui il maestro dell’orrore ci informa che «nel 1937, in occasione di un pranzo di gala, Sloane conobbe Carl Gustav Jung e scoprì con una certa sorpresa che il grande psicoanalista aveva letto Attraverso la notte (nella sua forma teatrale originaria) e riteneva che l’idea centrale del libro, quella di una « mente itinerante », rispecchiasse con esattezza la sua idea di anima quale archetipo astratto e quasi soprannaturale dell’inconscio.»1.

Infatti, l’opera in questione, pur iniziando nel più classico dei modi della letteratura americana di fantascienza o dell’orrore, ovvero con un resoconto di un dramma di cui la maggioranza della società rimarrà e, probabilmente, dovrà rimanere all’oscuro per il proprio bene, non può essere pienamente ascrivibile né alla fantascienza, né al mistery e all’horror. Pur contenendo elementi di tutti e tre i generi e, come ancora afferma King:

Ignorando le convenzioni dei generi, i romanzi di Sloane risultano opere letterarie a tutto tondo.
Non di grande letteratura, forse: non è l’argomento che voglio trattare qui. Se si è in cerca della grande letteratura americana degli anni Trenta bisognerà rivolgersi a Hemingway, a Faulkner e a Steinbeck. Se tuttavia si confrontano questi romanzi con ciò che allora veniva pubblicato su riviste di fantascienza quali « Thrilling Wonder Stories » o su riviste pulp come « Weird Tales », salta all’occhio la differenza nella lingua e nello stile, nei temi e nelle ambizioni!
Sloane costruisce i suoi racconti con paragrafi accuratamente cesellati, sempre limpidi e diretti. È un uomo vecchio stampo, con un’ottima preparazione scolastica […] e aveva doti narrative non indifferenti da unire alle capacità di scrittura essenziali. […] Malgrado qualche orpello fantascientifico (semplici automatismi dell’autore, in realtà) e alcune convenzioni del romanzo mystery […] In Attraverso la notte, scopriamo che nel corpo di Luella Jamison, una giovane ritardata, si è insediata una mente incorporea – forse una forma di vita aliena giunta dallo spazio, forse un’intelligenza umana appartenente a un altro flusso temporale o a un’altra dimensione –, trasformandone la stolidità in algida bellezza classica.
Nelle mani degli autori horror suoi contemporanei – H.P. Lovecraft, Clark Ashton Smith, August Derleth – concetti spaventosi di questo tipo sarebbero stati resi con una prosa altisonante e forbita [ma] Non è mia intenzione, qui, criticare Lovecraft – sono tante le ragioni per cui gli scrittori coevi lo imitavano –, ma Sloane è più modesto nel suo approccio, più razionale, e questo rende le sue opere più accessibili e, in fin dei conti, più perturbanti. Sloane, inoltre, era capace di scrivere dialoghi serrati, una dote che pochi autori horror del periodo sembrano possedere.
[Inoltre] Lovecraft non avrebbe mai considerato la possibilità di accentuare l’orrore per mezzo dell’umorismo. In primo luogo, questa soluzione non corrispondeva alla sua concezione classica del genere; e poi Lovecraft (come molti scrittori horror passati e presenti) sembra privo di senso dell’umorismo. In questi due romanzi, invece, l’umorismo funziona, e a meraviglia2.

Sono esperienze incomprensibili, estranee alla vita di tutti i giorni, quasi aliene, “condannate per un certo tempo a errare nella notte” prima che la mente umana possa riconoscerle per ciò che sono o liquidarle come semplici fantasie, quelle al cuore del primo dei due romanzi scritti da William Sloane. In cui la vicenda ha inizio una notte del 1936, quando due giovani in visita alla loro ex università, trovano il professor LeNormand, luminare di astronomia, avvolto da un fuoco “mai visto”, simile a “un parassita che lo possedeva e lo consumava, apparentemente dotato di vita propria”. Fiamme che ne carbonizzano il corpo risparmiano tutto il resto, compresi i vestiti e le carte su cui stava lavorando. Costringendoli a chiedersi chi è davvero Selena, l’intelligentissima, enigmatica moglie di LeNormand, comparsa dal nulla tre mesi prima, in apparenza senza passato e senza età, e destinata a sconvolgere anche la loro vita dei due giovani. Per scoprirlo dovremo attraversare, insieme al superstite dei due, una notte che avrà i contorni di un incubo, ricostruire da capo una storia «tragicamente illogica e inspiegabile», e lasciare ogni certezza, perché forse la soluzione «sta in ciò che non sappiamo».

E’ l’ignoto il motivo di ogni autentico terrore, così come l’abisso e il vuoto che sembrano circondare la vita di ognuno, le speranze e il tentativo di dare una spiegazione razionale alla solitudine (almeno apparente) della specie umana nell’universo e alla morte che sembra costituire l’unico autentico destino della stessa. Non nascondiamocelo, Chambers nel suo Re in giallo (1895) avrebbe parlato di “stelle nere”, Lovecraft di un tempo che dopo innumerevoli eoni è destinato anch’esso a morire e di “dei ciechi e idioti che ballano nudi al centro del cosmo”, ma Sloane ci avvicina allo stesso orrore attraverso la figura affascinante e perturbante, allo stesso tempo, di una donna algida e sensuale. Cosa che il solitario di Providence non avrebbe mai saputo o potuto fare nel corso dell’intera sua opera. Motivo per cui, probabilmente, Robert Bloch avrebbe poi incluso Attraverso la notte tra i suoi romanzi horror preferiti.

Va segnalata, infine, nel contesto di una casa editrice che ha fatto dell’eleganza delle copertine un proprio tratto distintivo, l’illustrazione bellissima e inquietante di Nina Bunjevac scelta per la cover, destinata certamente a suscitare l’attenzione delle lettrici e dei lettori più curiosi.


  1. S. King, Introduzione a W. Sloane, Attraverso la notte, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 12.  

  2. Ibidem, pp. 13-16.  

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Elogio dell’eccesso/2: la guerra in testa https://www.carmillaonline.com/2023/06/15/la-guerra-in-testa/ Thu, 15 Jun 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77610 di Sandro Moiso

Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, Milano 2023, pp. 156, 18,00 euro

“In me ho mille pagine di incubi di riserva, prima di tutto naturalmente quello della guerra” (Louis Ferdinand Céline, lettera a Joseph Garcin, 1930)

Sulla copertina di ogni opera di Céline, edita o inedita, come in questo caso, dovrebbe essere obbligatoriamente appiccicato un adesivo contenente l’indicazione «Maneggiare con cura».

Sono infatti opere, tutte, che possono letteralmente esplodere tra le mani e nella testa del lettore: stordendolo, nauseandolo, provocandolo, disturbandolo, travolgendone ogni residuo di perbenismo, spesso offendendolo in quel fondo [...]]]> di Sandro Moiso

Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, Milano 2023, pp. 156, 18,00 euro

“In me ho mille pagine di incubi di riserva, prima di tutto naturalmente quello della guerra” (Louis Ferdinand Céline, lettera a Joseph Garcin, 1930)

Sulla copertina di ogni opera di Céline, edita o inedita, come in questo caso, dovrebbe essere obbligatoriamente appiccicato un adesivo contenente l’indicazione «Maneggiare con cura».

Sono infatti opere, tutte, che possono letteralmente esplodere tra le mani e nella testa del lettore: stordendolo, nauseandolo, provocandolo, disturbandolo, travolgendone ogni residuo di perbenismo, spesso offendendolo in quel fondo di immancabile educazione cattolica che si annida, per cultura ed educazione impiantate a forza nelle teste di ognuno da scuola e oratori di provincia, anche in chi si ritiene immune al richiamo della religione. Morale sessuale inclusa. Famiglia, in tutte le sue forme, compresa.

Non per nulla Louis Ferdinand Céline, al secolo Louis Ferdinand Auguste Destouches (27 maggio 1894 – 1º luglio 1961), può essere considerato il più importante scrittore francese del XX secolo, un gigante della letteratura mondiale e un classico. Punto.
Ma se tale definizione appare ingiustificata e non condivisibile a chi sta leggendo queste righe, è meglio che l’interessato/a torni immediatamente a più “attuali” e amene letture, quasi sempre accomunabili da un’altra avvertenza: «Sotto l’etichetta, niente».

Sotto il nome di Céline, invece, nonostante gli anatemi, i rifiuti e le aprioristiche condanne, ci sta e si trova di tutto. Soprattutto roba per stomaci forti e per chi non voglia scambiare la visione della vita reale con quella proposta dai Teletubbies della critica mainstream e del politically correct.
Nel 1933, all’uscita del suo capolavoro, Lev Trotsky aveva già compreso che:

Louis Ferdinand Céline è entrato nella grande letteratura come altri entrano in casa propria. Un uomo maturo, munito di una vasta scorta di osservazioni da medico e da artista, con una somma indifferenza nei confronti dell’accademismo, con un senso eccezionale della vita e della lingua, Céline ha scritto un libro che rimarrà nel tempo, anche se ne ha scritti altri di questo livello. Viaggio al termine della notte, romanzo del pessimismo, è stato dettato dallo sgomento di fronte alla vita e dalla stanchezza che essa provoca più che dalla rivolta. Una rivolta attiva è legata alla speranza. Nel libro di Céline non c’è speranza.
[…] Céline non si propone affatto di denunciare le condizioni sociali in Francia. E’ vero che di tanto in tanto non risparmia né il clero, né i generali, né i ministri e nemmeno il presidente della repubblica, ma il suo racconto si svolge sempre molto al di sotto del livello delle classi dirigenti, tra gente semplice, funzionari, studenti, commercianti, artigiani e portinai […] Egli constata che la struttura attuale è altrettanto cattiva di qualunque altra, passata o futura. Nell’insieme, Céline è scontento della gente e delle sue azioni. Il romanzo è pensato e realizzato come un panorama dell’assurdità della vita, delle sue crudeltà, dei suoi colpi, delle sue menzogne, senza sbocco, né bagliori di speranza 1.

Tutti questi aspetti della sua opera sono pienamente riscontrabili nel testo, Guerra, appena pubblicato da Adelphi nella collana Biblioteca Adelphi con il numero 748. Un’opera letteralmente “salvata” dopo che ormai quasi ottant’anni fa era stata requisita, insieme a centinaia o migliaia di altre pagine, dai “partigiani” francesi. Come afferma François Gibault nella sua premessa al testo:

La ricomparsa di questo testo e di altri manoscritti inediti, tutti rubati dall’appartamento di Céline all’epoca della liberazione di Parigi, ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Sono stati restituiti agli eredi di Lucette Almansor, vedova e unica erede di Céline, a cui appartenevano, mentre il detentore si era impegnato, così almeno ha dichiarato agli inquirenti, a non consegnarglieli – il che prova come sapesse che lei ne era la legittima proprietaria. A questo sarà bene aggiungere che, dal fondo della prigione danese, Céline si era lamentato di essere stato derubato di diversi manoscritti il cui elenco corrisponde proprio a quelli che adesso sono in mano agli eredi.
Non è il caso di riferire in questa sede le circostanze nelle quali gli eredi di Lucette Almansor sono entrati in possesso del manoscritto di Guerra, insieme ad altri manoscritti di Céline, fra cui quello di Morte a credito. Ma non c’è dubbio che sia la prima volta che, tanti anni dopo la morte di uno scrittore, nella fattispecie sessanta, testi di tale importanza vengono ritrovati e possono così essere dati alle stampe dai titolari del diritto morale sull’opera, i quali si sono premurati di renderli di dominio pubblico il più rapidamente e il più scrupolosamente possibile. 2.

Alcuni indizi fanno pensare che il manoscritto originale sia successivo alla pubblicazione del Voyage au bout de la nuit, il primo romanzo dell’autore francese ad essere pubblicato nel 1932, e che faccia parte di quella trilogia (Enfance, Guerre, Londres) che Céline si era riproposto, in una lettera al suo editore Robert Denoël del 16 luglio 1934, di dare alle stampe l’anno successivo a quello della pubblicazione di Mort à crédit (1936).

In realtà la trilogia non fu mai completata, e sarebbe qui inutile provare a ricostruire a posteriori le cause di tale abbandono, ma sicuramente molti degli elementi che compongono il testo appena pubblicato, e altri contenuti nei manoscritti “ritrovati”, figurano all’interno delle opere céliniane più conosciute, a partire proprio da Morte a credito. Coinvolgendo aspetti dell’infanzia dell’autore, della sua drammatica esperienza di guerra e del successivo soggiorno londinese.

In questa, a partire proprio dal titolo, è comunque l’esperienza bellica a dominare, come già succedeva in un’altra opera successiva, Casse-pipe3, il trita-tutto come Céline definiva la massima espressione delle contraddizioni e della violenza insite nella società “moderna”: la Guerra, per l’appunto.

Un trita-tutto in cui sono destinati a finire ed essere maciullati uomini, cavalli (l’autore apparteneva ad un reparto di cavalleria “appiedato”), vite, sogni, speranze, religione, orgoglio, nazionalismo, famiglia, morale, donne, patriottismo, ideali, dignità e molto altro ancora. Probabilmente tutto, come la guerra in corso ai confini orientali d’Europa sembrerebbe dimostrare ancora oggi.

Ferito, mutilato nella carne e nello spirito, ma premiato con un’onorificenza militare, che userà soltanto per ottenere qualche vantaggio durante il periodo di degenza all’ospedale militare oppure per poter trasferirsi a Londra per non tornare a combattere, l’autore afferma, fin dall’inizio, attraverso le parole del suo alter-ego letterario:

Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l’orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l’uno e l’altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta. Lì accanto Kersuzon era stecchito sotto l’acqua a peso morto […] Ribellarsi non serviva a niente. È stata la prima volta che ho dormito, in quella melassa piena di granate che passavano fischiando, in tutto il rumore che hanno voluto fare, senza perdere del tutto conoscenza, cioè insomma nell’orrore. Tolte le ore che mi hanno operato, non ho mai più perso del tutto conoscenza. Ho sempre dormito così nel rumore atroce dal dicembre del ’14. Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa4.

D’altra parte, al di là delle ferite fisiche e delle loro conseguenze (il “rumore in testa” che accompagnerà Cèline per il resto della vita), come avrebbe potuto liberarsi di immagini come queste?

Erano passate ore e ore, una notte intera e quasi una giornata da quando erano venuti a maciullarli. Ormai erano solo piccoli montarozzi sul pendio e poi nell’orto dove più o meno fumigavano, sfrigolavano e bruciacchiavano i nostri automezzi. Il gran carro fucina ancora non aveva finito di farsi carbonizzare a puntino, il carro foraggero non c’era più diciamo. Là in mezzo il sergente maggiore non l’ho riconosciuto. Più in là ho riconosciuto uno dei cavalli con qualcosa dietro, un pezzo di timone, nella cenere, spiaccicato sul muro della fattoria che finiva di venire giù a sbrindelli. Dovevano essere ripiombati al galoppo lì fra le macerie in pieno bombardamento, cacciati a calci in culo è il caso di dire nel bel mezzo della scarica di artiglieria. E bravo Le Drellière. Sono rimasto ancora accovacciato nello stesso posto. Era poltiglia d’obice bella triturata. Ne saranno arrivati almeno duecento di obici tutti assieme. Morti di qua e di là. Il tizio coi tascapani si era spaccato come una melagranata, è il caso di dire, dal collo fino a metà dei pantaloni. E dentro al budellame si erano messi comodi comodi due ratti che pappavano i torsoli raffermi dal tascapane. Puzzava di carne avariata e di bruciaticcio il recinto, ma soprattutto il mucchio al centro dove ci saranno stati almeno una decina di cavalli tutti sventrati gli uni dentro gli altri. L’aveva finita lì la galoppata, arrestato di colpo da una marmitta, o tre, a due metri.
[…] Io manco a dirlo non sapevo che pensare. Non ero in condizioni di riflettere per bene. Tuttavia, nonostante l’orrore in cui mi trovavo, la faccenda mi scocciava di brutto, oltre al rumore di tempesta che mi portavo appresso. Alla fine sembrava rimasto solo il sottoscritto in quello schifo di avventura. […] Per pensare, anche un minimo, mi ci dovevo mettere a spizzichi e bocconi come quando due si parlano al binario di una stazione quando passa un treno. Un pezzetto per volta di pensiero ben fatto, uno via l’altro. È un esercizio che stanca vi assicuro. Adesso sono allenato. Vent’anni, uno impara. Ho l’anima più dura, come un bicipite. Non ci credo più alle scorciatoie. Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più. Lasciamo perdere5.

Ecocidio, si dice oggi; ai tempi di Céline trita-tutto, massacro, macelleria. Termini meno ricercati, come si addice ad una situazione e a un mondo in cui di ricercato ed elegante non c’è nulla.
Ed è proprio su questo aspetto che la scrittura e la lingua scelta dal soldato mutilato si abbattono senza pietà e senza sconti. Non c’è nulla da salvare in ciò che tutto questo ha concorso a produrre. Né la famiglia:

Brutta storia. [I miei genitori] Sono rimasti seduti due o tre ore buone a guardare che mi riprendevo. A quel punto non c’avevo più tutta ’sta fretta di starli a sentire e di capire la situazione. E poi mia madre ha ricominciato a parlarmi. L’affetto era appannaggio suo. Non ho risposto. Mi faceva più schifo che mai. L’avrei saccagnata di botte, a dirla tutta. Di ragioni ne avevo mille e cento, non tutte chiarissime, ma però velenosissime. Ne avevo la pancia piena di ragioni. Lui non parlava granché. Aveva un’aria poco convinta. Faceva quei suoi occhi da pesce lesso. Adesso c’eravamo in quella guerra di cui aveva sempre parlato, c’eravamo. Erano venuti apposta da Parigi per vedermi. […] Hanno attaccato subito a parlare del negozio, delle terribili preoccupazioni che avevano, che gli affari andavano malissimo. Per via del frastuono all’orecchio li sentivo male, abbastanza però. E non mi disponeva all’indulgenza. Seguitavo a guardarli. Erano sì due disgraziati lì ai piedi del letto, eppure erano due verginelle.
«Fanculo,» ho detto alla fine «non ho niente da dirvi, smammate…».
[…] Io non aprivo più bocca. Non ho mai visto né sentito niente di più schifoso di mio padre e mia madre6.

Né la patria e i suoi rappresentanti:

Ma la serie non era completa. Una mattina mi vedo entrare nella sala un generale con quattro galloni, preceduto per l’appunto da L’Espinasse. Dalla faccia che c’avevano tutti e due, sento la sfiga che mi piomba addosso. Ferdinand, penso io, ecco il nemico, quello vero, quello della tua carne e del tuo tutto… guarda che faccia che c’ha ’sto generale, se non lo fai fuori tu, ti fa fuori lui, dovunque mi trovo, mi dico fra me e me. Pensieri così mi isolano da tutti. Ora come ora parla soltanto l’istinto e non sbaglia. Allora possono pure rifilarmi canzonette, sagre, panna montata, opera lirica, cornamuse, perfino un culo satinato dagli angeli del paradiso. Ho l’intelligenza salda, mi intosto fino al buco del culo, manco il Monte Bianco con le rotelle mi farebbe spostare. Contro il laidume degli uomini l’istinto non inganna. Basta scherzare. Si contano le munizioni7.

E così via con tutto il resto, con tutti gli scarti e gli avanzi di una società di cui l’ospedale militare in cui Ferdinand trascorre una parte della guerra trasmette l’immagine all’ennesima potenza. Luogo in cui il sesso sfiora la necrofilia, anche se, in fin dei conti, l’attività sessuale, in tutte le sue forme, è l’unico indizio di una permanenza di vitalità; la tragedia si trasforma in farsa, il ghigno del cinico si afferma sulla smorfia di dolore e la pietà per l’umana condizione, anche la più disgraziata e immeritevole, fa capolino là dove il lettore ormai non se l’aspetterebbe più.

Quanto c’è qui del Céline che conosciamo? In primo luogo la visionarietà allucinata, presente nella sua integrità; l’invenzione di personaggi biechi, grotteschi e spassosissimi; le situazioni assurde, atroci, esilaranti; il registro basso, quasi un basso continuo, ossessivo; l’onda – nascente e già innervata al periodare – della sua petite musique; e molto altro ancora. Ci troviamo davanti a un torso sgomentante per terribilità, a volte quasi inguardabile per violenza, per crudezza, che anche dietro al rictus più osceno serba un’ombra velata di pietà8.

Già, la petite musique celiniana, fatta di argot, invenzioni linguistiche e grammaticali, neologismi, turpiloquio; sempre tesa alla ricerca non della parola colta o raffinata oppure del merletto letterario, ma di quella più efficace, utile, straziante o insultante per cogliere la realtà materiale e la meschineria della vita, oppressa e priva di qualsiasi forma di coscienza, nella loro più intima essenza. In cui non può sussistere alcuna forma o speranza di salvezza.
Trotsky, nello scritto più sopra citato, aveva ancora rilevato come

Céline, per come è, discende dalla realtà francese e dal romanzo francese. Non deve certo arrossire per questo: il genio francese ha trovato nel suo romanzo un’espressione insuperata. Partendo da Rabelais, anche lui medico, una magnifica dinastia di maestri di prosa epica si è ramificata per quattro secoli, dal gran ridere della gioia di vivere, alla disperazione e alla desolazione, dall’alba luminosa alla notte profonda. Cèline non scriverà più alcun libro dove esploda una tale avversione per la menzogna e una tale sfiducia nelle verità. Questa dissonanza deve risolversi. O l’artista si adatterà alle tenebre, o vedrà l’aurora9.

Trotsky si sbagliava a proposito del fatto che Céline non avrebbe più scritto libri altrettanto rabbiosi (il manoscritto di Guerra è lì per dimostrarlo), ma coglieva il senso dei passi successivi.
L’autore francese infatti si sarebbe fatto, ed è rimasto, il vero, forse unico, cantore delle tenebre che hanno attanagliato il ‘900 (secolo tutt’altro che breve) e che ancora ci attanagliano. Compreso dalla Beat generation e da pochi altri davvero. Elemento, invece, decisamente spiacevole per chi oggi rincorre un modello borghese perfetto in cui le contraddizioni e gli odi che attanagliano il mondo non possono essere mostrati in tutta la loro essenza e brutalità. Di classe, genere, economici o appartenenza culturale e nazionale, comunque essi siano. In cui l’odio per l’esistente deve essere per forza rimosso costantemente, affinché non diventi il motore di un ribaltamento epocale.

Céline potrà essere odioso per il suo antisemitismo, comunque fortemente connaturato alla società francese fin dai tempi dell’affaire Dreyfus, ma mai ha smesso di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre altri, nel difendere la civiltà e la cultura occidentale, hanno esaltato ed esaltano ancora oggi sia le sue forme accademiche e istituzionali che il suo, ben più rozzo, sogno militarista di espansione e conquista. Anche nelle proposizioni apparentemente più liberali.

Il primo non è mai stato perdonato, mentre altri, anche dichiaratamente fascisti, hanno poi potuto facilmente riciclarsi, all’ombra dell’intellettualità che conta, in qualità di “filosofi” o autori alla moda10.

C’è allora da chiedersi se il suo libello più osteggiato e condannato, il suo libro “infernale”, sia tale per l’evidente antisemitismo in esso contenuto oppure per quanto vi è affermato a proposito degli intellettuali à la page e da salotto, per cui Cèline provava sincero schifo e disgusto.

Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è, ve l’assicuro, raffinata neanche tanto così. Io, servitor vostro, credo davvero di esserlo, un raffinato! Sputato! Autenticamente raffinato. Fino a poco tempo fa, facevo fatica ad ammetterlo… Resistevo… E poi un giorno mi sono arreso… Al diavolo!… Però sono un po’ infastidito dalla mia raffinatezza… Cosa si finirà per dire? Pretendere? Insinuare? Un vero raffinato, raffinato per diritto, per costume, garantito, di solito deve scrivere almeno come il sig. Gide, il sig. Vanderem, il sig. Benda, il sig. Duhamel, la signora Colette, la signora Femina, la signora Valéry, i « Théâtres Français »… sdilinquirsi sulla sfumatura… Mallarmé, Bergson, Alain… spompinarsi l’aggettivo… goncourtizzare… cristo! Inculare le mosche, frenetizzare l’Insignificante, cinguettare in pompa magna, pavoneggiarsi, chicchirichire ai microfoni… Rivelare i miei « dischi preferiti »… i miei progetti di conferenze… Potrei, potrei certamente diventarlo anch’io, un vero stilista, un accademico « pertinente ». È una questione di lavoro, un’applicazione di mesi… forse di anni… Si può ottenere tutto come dice il proverbio spagnolo: « Molta vaselina, tanta pazienza, e l’elefante s’incula la formica ». Ma sono ormai troppo vecchio, troppo incancrenito, troppo incarognito sulla maledetta strada del raffinamento spontaneo… dopo una dura carriera di « duro fra i duri » per ritornare indietro ora! e andare anche a concorrere per la libera docenza di trine e merletti! Impossibile! Il dramma sta qui11.

E’ difficile, estremamente difficile, appropinquarsi a una tale scrittura e lo si nota anche in coloro che muovono dalle migliori intenzioni, come capita nella premessa a Guerra, in cui lo sforzo di dare un fondo di veridicità ai fatti narrati sembra più importante del cogliere le “cause” dell’ira profonda e nel dolore che lo animano.

Ora, capite, nessuno scrittore rispettabile al mondo vorrebbe Céline come collega, se non forse François Villon, morto nel 1463, ben prima della nascita di Céline, ma ciò costituisce proprio la sua autentica fortuna: nessuno che voglia brillare di luce impropria accostandosi a lui senza alcun merito, come ogni tanto, invece, capita nei confronti di altri scrittori, non più in grado di difendere la propria alterità dall’aldilà.

Motivo, fra i tanti, per cui, anche se nessun “raffinato” vorrebbe essergli accostato, vale ancora oggi la pena di lasciarsi trasportare e abbagliare dalla lettura delle intense pagine di uno scrittore, forzatamente, unico.


  1. L. Trotsky, Céline e Poincaré, 10 maggio 1933, pubblicato su «Atlantic Monthly» nell’ottobre del 1935, ora con il titolo Un romanziere e un politico in L. Trotsky, Cultura e socialismo, Opere scelte vol. XIII (pp. 245- 253), Prospettiva Edizioni, Roma 2004, pp.245-246  

  2. F. Gibault, Premessa a L.F. Cèline, Guerra, Adelphi, Milano 2023, p. 15  

  3. L. F. Céline, Casse-pipe, Einaudi, Torino 1995, prima edizione francese nei «Cahiers de la Pléiade», 1948.  

  4. L. F. Céline, Guerra, op. cit., pp. 25 – 26. Parole in grassetto ad opera del recensore.  

  5. Ivi, pp. 26 – 27.  

  6. Ivi, pp. 48 – 49  

  7. Ivi, p. 56  

  8. O. Fatica, Nota del traduttore in L.F. Céline, op. cit., p.156  

  9. L. Trotsky, op. cit., p.253  

  10. Si veda in proposito: Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008.  

  11. L. F. Céline, Bagatelle per un massacro, traduzione di Giancarlo Pontiggia, Guanda, Milano 1981, (prima edizione francese 1937)  

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La memoria anticoloniale del popeline https://www.carmillaonline.com/2023/03/22/la-memoria-del-popeline/ Wed, 22 Mar 2023 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76250 di Sandro Moiso

Jamaica Kincaid, Biografia di un vestito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 45, euro 5,00

Occorre tornare con la memoria agli anni Cinquanta per ricordare come le donne dei ceti sociali più umili parlassero con rispetto e ammirazione per il popeline, un leggero tessuto di cotone, lucido, compatto e resistente anche se morbido. Il cui nome deriva dal francese che, in origine, indicava un tessuto pregiato e pesante per l’uso invernale, prodotto nel XIV secolo ad Avignone allora residenza papale, da cui il nome originario di ‘papaline’.

Ed è proprio questo [...]]]> di Sandro Moiso

Jamaica Kincaid, Biografia di un vestito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 45, euro 5,00

Occorre tornare con la memoria agli anni Cinquanta per ricordare come le donne dei ceti sociali più umili parlassero con rispetto e ammirazione per il popeline, un leggero tessuto di cotone, lucido, compatto e resistente anche se morbido. Il cui nome deriva dal francese che, in origine, indicava un tessuto pregiato e pesante per l’uso invernale, prodotto nel XIV secolo ad Avignone allora residenza papale, da cui il nome originario di ‘papaline’.

Ed è proprio questo tessuto a servire da trama per una brevissima ed efficace narrazione autobiografica che permette alla scrittrice statunitense, di origine caraibica, Jamaica Kincaid (nata nel 1949 ad Antigua) non tanto di raccontare la propria infanzia, ma piuttosto una condizione femminile e “coloniale” di cui la madre diventa l’esempio centrale. Narrazione che, nel racconto che dà il titolo anche al libretto, edito col numero 21 nell’agile collana “Microgrammi”, ruota intorno ad una fotografia scattata all’autrice in occasione del suo secondo compleanno.

Uno spaccato di vita famigliare e di vita in un paese che ha acquisito la piena indipendenza dal Regno Unito soltanto dopo il 1974, ma che fa parte del Commonwealth e dipende dalla sua corona ancora oggi, insieme all’isola di Redonda con cui forma le Indie Occidentali Britanniche; un territorio insulare, quello di Antigua, grande una volta e mezzo l’isola d’Elba1 sul quale sbarcò nel 1493 Cristoforo Colombo, che sembra concentrare nella vita degli abitanti, e soprattutto delle famiglie meno abbienti, come quella dell’autrice, tutte le condizioni di dipendenza economica e culturale in vigore nelle colonie europee del XX secolo.

Una condizione che si manifesta indirettamente nelle aspettative (scarse) di una donna (la madre) che cerca di inventarsi eventi insignificanti per nascondere, prima di tutto a se stessa, la delusione di una vita in cui una figlia, frutto di una maternità indesiderata, più che rappresentare una gioia finisce col rappresenta un peso ulteriore e un maggior carico di lavoro. Esser moglie e madre in una famiglia povera, per giunta di colore in un paese dominato dalle élite di carnagione più chiara, se non bianca aggrava, infatti, la condizione femminile, al di là di qualsiasi retorico discorso sulla famiglia, la maternità e l’amor figliale.

Riflessioni, memorie e descrizioni di ambiente che rinviano anche ad uno dei primi romanzi di un’autrice2, che oggi vive tra il Vermont e la California, che, senza cadere nello stucchevole autobiografismo intimistico oggi tanto di moda, illumina di luce allo stesso tempo fredda e abbagliante sia momenti del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e del contemporaneo passaggio dall’amore per la madre al conflitto con la stessa, che il “senso” della vita di quest’ultima. Una sorta di itinerario nell'”infelicità” della madre, sulla quale l’autrice sarebbe poi ancora tornata con il suo Autobiografia di mia madre3.

E’, in fin dei conti, la storia di uno scatto fotografico quella che la Kincaid ci narra, per ricordare una situazione da cui, secondo la sua biografia, si allontanò a sedici anni per recarsi a New York per studiare. Una situazione in cui l’unica occasione di festa poteva essere data da un compleanno per cui la madre aveva cucito con cura e perizia inaspettata un abitino giallo che sarebbe stato usato una sola volta, visto che per l’occasione successiva (il terzo compleanno) si sarebbe già rivelato di dimensioni inutilizzabili.

Il secondo racconto, Quando ho rimesso insieme i pezzi, contenuto nel volumetto, ricostruisce invece le vicende successive alla scelta di andare a New York, dove l’autrice per iniziare a scrivere avrebbe scelto di cambiare il nome originario, Elaine Cynthia Potter Richardson, in quello attuale, visto che la sua famiglia non avrebbe mai approvato la sua scelta di diventare scrittrice. Probabilmente la sua famiglia non avrebbe nemmeno approvato la vita che ben presto, tra disillusioni, alcol, sesso disordinato e droghe la giovane avrebbe iniziato a condurre negli ambienti artistici, ma non soltanto, della Grande Mela.

In questo secondo racconto a predominare è la biografia dell’autrice, insieme alle lunghe notti e serate da riempire, pur avendo pochi dollari a disposizione, e al disordine che ancora una volta sembra in parte derivare dal colore della pelle e dalla condizione cui questo condanna anche in una nazione “libera” e apparentemente “liberal”.

Fu proprio quando ormai disperavo di diventare una scrittrice che feci domanda per un posto da segretaria ala rivista «Mademoiselle». Avevo ventiquattro anni. Al colloquio di lavoro indossavo una gonna cortissima, una camicetta di nylon sotto la quale non portavo il reggiseno, scarpe rosse dai tacchi molto alti e cerchietti bianchi intorno alle caviglie, e niente cappello a coprire i cortissimi capelli biondi. «Mademoiselle» non mi assunse. La gnte con cui avevo parlato era stata molto gentile e affettuosa con me, sia al telefono sia di persona, e così mi ci volle molto per comprendere che non mi avrebbero mai assunto, Mi chiesi se fosse stato per le scarpe e i cerchietti alle caviglie, o forse per i capelli. Parlavo di queste cose con un amico, chiedendomi a voce alta perché non fossi stata presa a «Mademoiselle» quando sembrava che fossi piaciuta parecchio, e lui disse: Ma come avevo potuto fare domanda in un posto come quello – non lo sapevo che non assumevano ragazze nere?4

E’ una scrittura asciutta, distaccata quella con cui la Kincaid parla di sé e della propria identità, toccando temi talvolta scabrosi che rimandano, a tratti, alla scrittura di Lucia Berlin, altra americana (bianca) dalla vita difficile. Ma a differenza della seconda, la prima non sembra provare alcuna emozione e commozione oppure mostrare autocompatimento, nemmeno per se stessa o per la madre, mentre a trionfare sono invece osservazioni quasi di carattere entomologico, che ne fanno un’autrice in sé davvero unica. Una scrittura anti-coloniale in cui l’estraneità e l’odio per gli oppressori si può concentrare tutto in una singola frase come questa: «pagò con una banconota da una sterlina con l’effigie di re Giorgio V (un uomo brutto dal naso ossuto, crudele, affilato, non uno dei nasi gentili, morbidi, carnosi cui ero abituata allora)»5. Un risultato non da poco in un mondo in cui la letteratura sembra traboccare di sentimenti e piagnistei tesi soltanto a solleticare superficialmente la mente e le emozioni degli sfortunati lettori che vi si imbattono.

Roberto “Bobi” Bazlen (!93-1965), vero ideatore del successivo percorso della casa editrice Adelphi, avrebbe voluto che il catalogo della stessa fosse composto da libri “unici”. Forse questa aspirazione non è stato possibile realizzarla, ma sicuramente autrici ed autori “unici” l’hanno popolato e continuano ad animarlo. E tra questi, sicuramente, va annoverata Jamaica Kincaid. Imperdibile per chiunque ami la letteratura e abbia in odio il colonialismo e le sue conseguenze sui popoli che l’hanno subito.


  1. «Un universo lungo una ventina di chilometri e largo una quindicina» nella sintetica descrizione che ne fa l’autrice stessa in un altro suo libello: Un posto piccolo, Adelphi, Milano 2000 (ed. originale A Small Place – 1988)  

  2. J. Kincaid, Annie John, Edizioni Adelphi, Milano 2017 (prima edizione in lingua originale 1983-1985)  

  3. J. Kincaid, Autobiografia di mia madre, Adelphi, Milano 1997 (ed. originale 1995) cui vanno affiancati ancora, per amor di precisione: Lucy, Adelphi, Milano 2008 (ed. originale 1990), ancora sull’infanzia dell’autrice; Mr. Potter, Adelphi, Milano 2005 (ed. originale 2002), dedicato al padre assente, odiato e amato allo stesso tempo («Mr. Potter è crudele, indifferente, ripiegato su se stesso. Non ha mai amato nessuno, neppure le molte bambine con il naso uguale che gli hanno generato troppe donne diverse») e Mio fratello, Adelphi, Milano 2020, (ed. originale 1997).  

  4. J. Kincaid, Biografia di un vestito, Edizioni Adelphi, Milano 2023, p. 41.  

  5. Ibid., p.15  

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Un enigma letterario: la trilogia di Gormenghast https://www.carmillaonline.com/2023/01/17/un-enigma-letterario-prime-riflessioni-sul-tito-di-gormenghast-di-mervyn-peake/ Tue, 17 Jan 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75520 di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].» «Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto. […] [...]]]> di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].»
«Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto.
[…] «E ora fammi vedere mio figlio» disse il Conte, lentamente.
«Mio figlio Tito. È vero che è brutto?» (Tito di Gormenghast – Mervyn Peake)

E’ un paesaggio a dir poco desolato quello che circonda il castello dei Conti de’ Lamenti, dominato dall’aspro e altissimo monte Gormenghast e costituito da lande in cui dominano la polvere e la pietra oppure terreni paludosi sconfinati e in cui la vegetazione è costituita da cactus, foreste di rovi impenetrabili e boschi di alberi ritorti e minacciosi. Lo stesso castello millenario che prende il nome dal monte soprastante sembra costituire, con la sua struttura labirintica e tentacolare definita da secoli di bizzarrie architettoniche volute da settantasei generazioni della stessa famiglia nobiliare, una diretta emanazione e continuazione delle rocce e delle cavità che caratterizzano la montagna.

Gli abitanti del gigantesco maniero sono tutti grotteschi nelle movenze e nell’aspetto, sia che si tratti dei rappresentanti della aristocratica famiglia che dei servitori. Storpi, magrissimi, gobbi, grassi oltre ogni dire, deformi oppure dotati di nasi lunghissimi e volti equini. Portatori, tutti, delle stimmate del proprio egoismo incise nelle posture assunte e nel fisico. Il conte Sepulcrio e la gigantesca contessa Gertrude, la figlia pre-adolescente Fucsia e le zie gemelle, sorelle del conte, Clarice e Cora; la piagnucolosa balia settuagenaria Mamma Stoppa, il segaligno e torto (nel corpo e nell’animo) maggiordomo Lisca, il grasso sadico e perverso capo-cuoco Sugna, il dottor Floristrazio e la sorella Irma, insieme all’autentica anima nera rappresentata dal giovane Ferraguzzo, ragazzo di cucina che grazie alla sua mente perspicace e freddamente calcolatrice scala le più infide e infime trame delle gerarchie di un mondo che non vuole conoscere e riconoscere altro da sé. Tutti intenti a danzare un mostruoso e sgraziato minuetto ritmato da regole e leggi, riti e doveri improbabili che soltanto il vecchissimo Agrimonio, maestro di cerimonie, e successivamente il figlio Barbacane, zoppo e perennemente in guerra con tutti coloro che lo circondano, conoscono e dettano quotidianamente. Al Conte e a tutta la servitù.

Ma anche gli abitanti del piccolo e malsano borgo che si è sviluppato vicino alle pareti e alle rocce del castello non sono da meno. L’unica loro attività sembra essere quella di intagliatori di sculture di legno, attività artigianale riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile che viene valutata annualmente dal Conte stesso e premiata con l’esposizione delle opere migliori in una galleria dimenticata del castello, e mai visitata da nessuno, custodita dal sonnolento e indolente Stoccafisso. Uomini e donne del borgo conservano però una certa grazia e bellezza fino al compimento del diciannovesimo anno di età, momento in cui la pelle incartapecorisce e la bruttezza della vecchiaia prende il posto dell’aura della giovinezza.

Tra gli stessi non vi è nessuna forma di comunitarismo, se non quello rappresentato dalla dipendenza dal castello e dai suoi nobili proprietari. Anzi la rivalità, sul piano artistico e personale può raggiungere livelli di odio e violenza abissali. Come dimostra la vicenda di Keda la, momentaneamente, bella e giovane vedova del più famoso, e vecchio, scultore del borgo senza nome, divisa tra l’amore per due giovani e abili intagliatori rivali, Rantel e Braigon. Un triangolo amoroso destinato ad una drammatica e sanguinosa conclusione. Anche se una bimba, partorita in seguito da Keda, ne rappresenterà il frutto dopo la tragica scomparsa dell’ormai invecchiata madre.

Nella Presentazione anteposta all’attuale edizione italiana della trilogia, Anthony Burgess1 avverte i lettori che «sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan (Tito di Gormenghast nella traduzione italiana – NdR) alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico»2.
Eppure, eppure…

Forte rimane la tentazione di interpretare il gotico sogno di uno scrittore, Mervyn Peake (1911- 1968)3, tormentato per gran parte della vita da depressioni e crisi che lo avrebbero progressivamente portato all’irreversibile malattia mentale e alla morte, in chiave simbolica e allegorica, anche perché la monumentale trilogia del “mondo” di Gormeghast e il suo giovane principe Tito, può davvero essere considerata come uno degli enigmi della letteratura fantastica del Novecento. Il cui motivo del contendere non è offerto soltanto dalle numerose e svariate interpretazioni che è possibile dare di un testo che considerare labirintico è ancora troppo poco e la cui scrittura dipinge sotto gli occhi del lettore strati su strati di situazioni rinviabili ad infiniti tòpoi, personaggi e situazioni della letteratura gotica, grottesca o orrorifica.

L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica’, ma il termine è inadeguato. Leggendo Titus Groan abbiamo l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo col dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore dovrà prendere i personaggi molto sul serio4.

E la stessa difficile collocazione dell’opera (Fantasy? Gotica? Diario indiretto di una “lucida” e progressiva follia? Espressione del malessere di un secolo, il Novecento, che già Kafka aveva anticipato?) a costituire una parte dell’enigma. Difficoltà data sia dalla sua struttura che dal progressivo peggioramento delle condizioni della salute mentale del suo autore sia, ancora, dal suo inserimento in un catalogo, quello di Adelphi, voluta da Roberto Calasso, un intellettuale magmatico e controverso, che nel corso di un cinquantennio ha fatto conoscere ai lettori italiani titoli e autori, spesso osteggiati da altri editori oppure dalle consorterie politico-culturali cattoliche e tardo zdanoviste o, ancora, fasciste.

Autori che spesso praticavano una letteratura di carattere fantastico, passando per il noir, la fantascienza di Theodor Sturgeon, la letteratura americana del Sud immaginato e descritto da William Faulkner, le opere di Antonin Artaud e Nietzche, la Mitteleuropa di Joseph Roth e Karl Kraus, le grandi mitologie e religioni, il nichilismo e i testi iniziatici (o supposti tali). Un direttore e un indirizzo editoriale che è stato sempre poco amato, se non apertamente osteggiato, sia dalle correnti estreme della Destra politica e cattolica che dalla Sinistra osservante dell’ortodossia più dogmatica e d’antan.
Lasciamo, però, ancora una volta che a parlare sia Anthony Burgess:

Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 19465. L’autore aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventura del protagonista e l’elaborazione del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950)6 e in Titus Alone (1959)7 i quali però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo.
[…] Peake si è attirato lodi, ma anche sospetti. Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft8.

Sospesi tra le atmosfere delle opere di Franz Kafka (dalla Metamorfosi a Il processo oppure Il castello) e, a tratti del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Ionesco, dando vita ad un universo in cui non esistono il Bene e il Male e nemmeno un Dio, ma in cui a valere sono soltanto i riti, le tradizioni e le regole che si tramandano di generazione in generazione, divenendo sempre più assurde e incomprensibili ma pur sempre irrinunciabili per i detentori del Potere e il suo mantenimento, i tre romanzi di Mervyn Peake potrebbero costituire per chi, come il sottoscritto, non ha mai particolarmente amato l’opera di Tolkien, una valida alternativa al Signore degli Anelli, altra monumentale trilogia della letteratura fantasy e fantastica.

A far da contraltare all’opera di J. R. R. Tolkien può contribuire il fatto che in quella di Peake l’eroe è quasi del tutto assente o, perlomeno, al termine del primo romanzo non ha ancora compiuto il secondo anno di età, costituendo per le quattrocentosessanta pagine che lo compongono più un oggetto della storia narrata che il soggetto. Ancor di più, però, a fare del Gormenghast un’alternativa al Lord of the Rings contribuisce il fatto che mentre nel secondo gli eroi devono riportare o ricostruire l’ordine sconvolto dal ritorno di Sauron e del Male che rappresenta, nel primo è proprio l’invadenza e il predominio dell’ordine dato a costituire la causa del disagio e dello scontro tra i diversi interpreti del dramma.

Il mondo di Gormenghast, a differenza della Terra di mezzo, non è un luogo pacifico dove gli appartenenti alle varie razze umane o diversamente umane (elfi, nani, hobbit, uomini) potrebbero, soltanto con un po’di buona volontà, collaborare pacificamente e condurre tranquillamente le loro bonarie (hobbit), scorbutiche (nani) e illuminate (elfi) esistenze a fianco degli uomini se non fosse per il ritorno di un Male antico e odioso, destinato a riportare il buio là dove dovrebbe risplendere soltanto la luce.

No, quello disegnato da Peake è un mondo di conflitti, più o meno malcelati, dove solo la tradizione, le leggi e i riti più antichi possono impedire la “naturale” dissoluzione di un ordine che costituisce non soltanto “una certa qual massiccia corposità architettonica”, ma anche l’intero orizzonte in cui tutti i personaggi si muovono, senza alcun riguardo o curiosità per ciò che potrebbe estendersi oltre i suoi confini.

Non vi è divisione tra Bene e Male nel Titus Groan, non vi è religione o magia se non quella della celebrazione dei riti fini a se stessi. Non c’è sacralità né, tanto meno, un’autorità morale o spirituale superiore, cui far riferimento. Non ci sono neppure una vera scienza o un vero raziocinio, esiste soltanto la Legge, che non è possibile interpretare, ma soltanto seguire. Tanto che la vecchia biblioteca, dove il conte Sepulcrio passa la maggior parte del suo tempo, prima del suo incendio e della sua distruzione, è composta per la maggior parte da testi scritti dagli antenati dello stesso.

Un tempo fermo, apparentemente immobile, che solo Tito potrà forse, un giorno, scuotere o abbandonare. Ma questo al termine del primo romanzo del ciclo non è ancor dato sapere. L’ordine e la pace, in tale contesto, non costituiscono una conquista, ma un”obbligo” noioso e mortifero. Siamo ad anni luce di distanza dall’epica tolkeniana. In un mondo in cui il sole sorge ad est e tramonta a ovest, esiste il petrolio e insieme ad esso molti altri oggetti del viver quotidiano inglese tra XIX e XX secolo.

Il dubbio che sorge, nel lettore, è costituito dal fatto che, al di là di quanto affermato da Burgess nella Presentazione, quella dipinta da Peake sia un’allegoria della società inglese successiva al secondo conflitto mondiale: un ordine che ha perso pezzi importanti del proprio impero, ma che vuole mantenersi immutabile con suoi riti e le sue tradizioni. Come anche i recenti funerali della regina Elisabetta II e la saga infinita della famiglia reale (Carlo ora Carlo III, Diana, Camilla, Harry, Meghan, William e consorte) sembrano ancora confermare (grazie anche alle serie televisive prodotte da Netflix).

Se sia davvero così non è dato sapere con certezza, ma certo la carica nichilista ed eversiva contenuta non soltanto nelle pieghe del romanzo fa sì che lo stesso finisca coll’acquisire un significato devastante nei confronti dei sistemi di potere, anche per l’attuale vigente in un Occidente che non vuole riconoscere ordine altro dal proprio, che lo pone in uno spazio ben diverso e provocatorio rispetto a quello che, anche a sinistra, si è voluto definire per l’opera di Tolkien nel suo insieme. Tanto che anche lo stesso Burgess è costretto ad ammettere che nelle pagine del romanzo:

Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso?
Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampa del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico9.

Allora, soltanto per giungere a una prima conclusione, il vero enigma del Gormenghast sta forse proprio nel chiedersi perché tanta cultura pretesa alternativa o di sinistra abbia speso tanto tempo nel contendere alla destra un ciclo sostanzialmente tradizionale come quello del Signore degli Anelli e abbia tralasciato di prestare attenzione a un ben più feroce e sovversivo esempio di critica dell’ordine esistente come quello rappresentato dal ciclo comunque epico di Peake. Forse perché la tradizione manichea che accomuna certa destra e certa sinistra, con la rigida divisone tra Bene e Male, è destinata ad essere l’ultima a morire? Speriamo, sinceramente, di no.


  1. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 1917 – Londra, 1993), è stato scrittore, critico letterario, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista e traduttore. E’ considerato uno dei più importanti autori inglesi del secondo dopoguerra e tra le sue opere più significative vanno annoverate: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1962), Notizie dalla fine del mondo o La fine della storia (The End of the World News: An Entertainment, 1982) e la Trilogia malese (Malaysian trilogy, 1958-1960). Nei suoi romanzi uno dei temi centrali è costituito dall’uomo schiacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici e oppresso dagli apparati dello Stato. Nella Trilogia malese ha descritto il crepuscolo nel quale si è chiusa la dominazione inglese nelle colonie dell’Estremo Oriente.  

  2. A. Burgess, Presentazione in M. Peake, Gormenghast. La Trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, p. 13  

  3. Mervyn Peake fu, oltre che scrittore, poeta, pittore e affermato illustratore di libri per l’infanzia e non soltanto, come dimostra la tavola qui accanto in cui sono raffigurati alcuni personaggi del suo romanzo: Ferraguzzo, Fucsia, Signa e Lisca  

  4. A, Burgess, op. cit., pp. 10-11  

  5. In Italia per la prima volta nel 1981 per Adelphi e con il titolo già precedentemente citato: Tito di Gormenghast  

  6. In Italia: Gormenghast, Adelphi 2005  

  7. In Italia: Via da Gormenghast, Adelphi 2009  

  8. A. Burgess, op. cit., p. 10  

  9. Ibidem, p. 13  

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Lo strano, prevedibile suicidio di Majakovskij. https://www.carmillaonline.com/2015/09/15/lo-strano-prevedibile-suicidio-di-majakovskij/ Mon, 14 Sep 2015 22:39:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25253 di Cassandra Velicogna

Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi, Adephi, Milano, 2015 pagine 284, 19,00 €

10 del mattino del Majakovskji Carmillaonline Il defunto odiava i Pettegolezzi14 aprile 1930 : il “sipario” si alza in medias res. L’attrice Veronika “Nora” Polonskaja, allora amante e amica di Majakovskij, entra nella stanza del poeta nella kommunalka condivisa con Lili e Osip Brik in vicolo Gendrikov, ne esce correndo pochi attimi dopo, sotto lo sguardo attento della signora Skobeleva, “coinquilina” osservatrice figlia del suo tempo. Vladimir Vladimirovic Majakovskij si è sparato all’età [...]]]> di Cassandra Velicogna

Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi, Adephi, Milano, 2015 pagine 284, 19,00 €

10 del mattino del Majakovskji Carmillaonline Il defunto odiava i Pettegolezzi14 aprile 1930 : il “sipario” si alza in medias res. L’attrice Veronika “Nora” Polonskaja, allora amante e amica di Majakovskij, entra nella stanza del poeta nella kommunalka condivisa con Lili e Osip Brik in vicolo Gendrikov, ne esce correndo pochi attimi dopo, sotto lo sguardo attento della signora Skobeleva, “coinquilina” osservatrice figlia del suo tempo. Vladimir Vladimirovic Majakovskij si è sparato all’età di 37 anni “tre centimetri sotto il capezzolo sinistro” macchiando di rosso la buffa camicia gialla che aveva indossato per l’occasione. Non vi sono dubbi: Majakovskij ha tirato il griletto autonomamente, ma cosa l’ha spinto a questo gesto?
Lo sparo è il cuore del libro e attorno ad esso il tempo e le argomentazioni si aprono come cerchi concentrici. Appaiono sulla scena uno a uno tutti i “personaggi” della vita del poeta, chiamati a “deporre” dall’autrice come fosse l’epilogo di un libro di Agatha Christie. Dapprima le testimonianze quasi scontate: “depone” Jasnin, marito non geloso della Polonskaja, lui non c’entra e comunque sostiene che i due non avessero rapporti carnali. Un marito pronto a testimoniare il coninvolgimento marginale della moglie nella relazione con il poeta. Dunque la Polonskaja non amava Vladimir Vladimirovic?
Le dichiarazioni dell’attrice, la cui unica vera passione era il MChAT, al quale tra le altre cose rappresentava il famoso Uccellino Azzurro di Maeterlinck messo in scena da Stanislavskij, sono altalenanti. Da un lato teneva buono il poeta con la promessa di lasciare il marito, dall’altro, come anche la fidata Lili Brik, era stufa dei suoi atteggiamenti impulsivi e infantili.
La vita del poeta, che aveva già pubblicato i suoi versi più famosi e si barcamenava tra nuovi progetti e testi teatrali di poco successo – Banja, appena rappresentato, era stato un sonoro fiasco –, cercava con questa infatuazione di scacciare il ricordo di Tat’jana Jakovleva, sua precedente fiamma, che gli aveva preferito le sfilate di Coco Chanel e qualche piccola parte cinematografica. Aveva preferito Parigi a Mosca. Certo il rapporto con la provocatrice, geniale e sempre libera Lili Brik, che si definiva “sua moglie” proseguiva, in quel brillante ménage a trois con Osip Brik, insolitoMajakovskij Oeip e Lili Brik Carmillaonline Il defunto odiava i pettegolezzi per l’epoca, anche nell’ambiente degli intellettuali moscoviti.
Dunque una storia d’amore andata male? Il biglietto che Majakovskij lascia “al compagno governo” cita la madre, le sorelle, Lili Brik e Veronika Polonskaja chiedendo per loro “una vita tollerabile, grazie”, ma questa è solo la pista superficiale di questo giallo particolare. Non è facile addentrarsi nel milieu degli artisti della Russia di quegli anni. Tante cose sono state taciute, riscritte, censurate o mostrate solo nella versione ufficializzata. Certo è che all’interno di ogni circolo di amicizie artistiche si annidavano, come facendone parte a buon diritto, gli agenti dell’Ogpu ex Cekha. Un convitato di pietra mica da poco a vegliare sui versi, i progetti e le performances del poeta. Laddove i detrattori l’ avrebbero voluto sempre più rivoluzionario e lo consideravano oramai un poeta finito, Majakovskij rilanciava con metafore e versi dedicati a un pubblico sovietico “adulto”, che avrebbe potuto capire l’ironia del paradosso. Per esempio Cimice: la storia fantastica dell’ex iscritto al Partito che viene scongelato nel 1979 dopo quarant’anni di sonno e insieme a lui si scongela una cimice da letto. Il proprietario dello zoo ritiene di dover conservare in vita la cimice nutrendola con sangue umano e l’uomo scongelato si offre come naturale volontario. Dalla gabbia dello zoo, l’uomo scongelato, pasto della cimice scongelata, viene inviatato a tenere un breve discorso: «Cittadini, fratelli, amici, Cari! Quanti siete! Anche a voi vi hanno scongelato? Perché soltanto io resto in gabbia? Cari! Abbiate compassione, che tortura!». Un’ironia tanto sottile da far storcere il naso: “e dov’è la lotta di classe?, dove la rivoluzione?, dove lo sforzo industriale delle masse comuniste?”.
Majakovskij, amato da una stretta cerchia e spesso obbligato a difendersi dagli stessi studenti, viveva costantemente sotto le pressioni dei critici come Arbuzov o Agranov e spesso il concetto di critico si sovrapponeva al concetto di agente dell’OGPU. Non che li temesse, quel pezzo d’uomo che era Valdimir Vladimirovic Majakovskij. Più che altro non riusciva proprio a comprendere il perché di quell’inganno collettivo. L’inganno che non prevedeva se non come segreto inconfessabile una sfera privata. E qui entra in campo un concetto centrale e assolutamente fondamentale: il byt. Per l’Enciclopedia Sovietica il byt era la sfera di vita sociale non produttiva in cui rientrava la soddisfazione di bisogni materiali nel campo del cibo, dell’abbigliamento, dell’assistenza medica e dell’acquisizione di beni spirituali e Majakovskij Carmillaonline Il defunto odiava i pettegolezziculturali. Insomma una sfera che definiremmo privata, dell’individuo. Ma nel grande organismo rivoluzionario non vi può essere individuo né, tantomeno un cantore dell’individuo, figuriamoci poi un poeta tanto borghese da suicidarsi per amore!
Ecco dunque che Serena Vitale apre al dubbio, insinua e sostiene, argomenta e definisce. Un suicidio sì, ma indotto. Indotto da chi gli mise in mano la pistola: il compagno Agranov dell’OGPU, benedetto forse da Polonskaja, che forse a quello stesso organo di controllo non era così estranea. Ecco quindi spiegate tante cose. Per esempio perché ad essa non toccarono le sorti della Brik, raschiettata via certosinamente dalle famose foto con Majakovskij.
Non sono gli unici misteri legati al suicidio del grande poeta, Serena Vitale ne tira fuori infiniti dal cilindro, complice il tempo passato, gli archivi desecretati e alcune interviste a un esperto di balistica…
Servirebbe un’intera recensione solo per definire la forma de Il defunto odiava i pettegolezzi: un po’ saggio, un po’ giallo, ma ben oltre entrambi. La fiction più avvincente non informa così dettagliatamente sul suicidio di Majakovskij e la non-fiction delle migliori può certamente fornire con dovizia i particolari, ma non raggiungerà facilmente il ritmo e la suspence di questo libro, che Adelphi ha deciso di illustrare per l’occasione. Il linguaggio e la descrizione di fatti, oggetti e personaggi sono curati nei minimi particolari, ma questo non fa che aumentare il fascino del congegno narrativo. Un libro davvero inedito e originale, che probabilmente non ha pari nemmeno in Russia.
La morte dell’autore de La nuvola in calzoni ebbe anche degli effetti e non solo delle cause: in primis la famosa telefonata di Stalin a Bulgakov, impensierito per le migliori menti della sua Unione Sovietica; in secundis l’apoteosi a “primo poeta” della Russia comunista di Majakovskij stesso, che con una pallottola in un cuore sensibile alla critica non poteva più approfondire quei versi privati e individuali che forse, insieme a un po’ di affetto sincero, l’avrebbero salvato.

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