Action Française – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cattolici antisemiti 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/09/25/cattolici-antisemiti-1-2/ Mon, 24 Sep 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48795 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in particolare) ed antisemitismo razziale (premessa e causa della Shoah) e i fautori della tesi della tangenza e convergenza, senza una sostanziale soluzione di continuità, tra le due principali modalità storiche di odio antiebraico.

L’autore – che delimita il campo altrimenti sterminato del suo studio, chiarendo l’intenzione di considerare esclusivamente le posizioni ufficiali ed istituzionali della Chiesa riguardo agli ebrei ed in particolare a partire dal pontificato di Leone XIII e non altri aspetti del problema dei rapporti tra il mondo cattolico, gli ebrei d’Europa e la Shoah – appoggia risolutamente la tesi della consequenzialità e continuità e pertanto, fin dalle prime pagine, prende le distanze da quello che considera un apriori storiografico dogmatico, osservato – salvo qualche rara eccezione – non solo da tutti gli storici cattolici, ma anche da buona parte degli storici laici ed ebrei, forse preoccupati questi ultimi di non incrinare i rapporti tra ebraismo e Chiesa. Un apriori che distanzia l’antisemitismo cristiano (per questo il più delle volte chiamato antigiudaismo) da quello razzista (nazista in particolare) ed eliminazionista, sostenendo che il primo non si fondi su principi razziali, ma solo religiosi e che abbia come suo fine la conversione, il cui conseguimento estinguerebbe il disprezzo e l’ostilità.

Secondo Marino Ruzzenenti codesta interpretazione dei fatti risulta essere funzionale, in buona sostanza, ad una lettura riduzionistica del ruolo svolto dalla Chiesa nella elaborazione delle categorie dell’odio antisemita e nella loro diffusione, proprio nel momento storico decisivo per lo sviluppo del razzismo come ideologia forte del pensiero e della cultura occidentali, cioè in quella seconda metà dell’Ottocento in cui sul soglio pontificio a Pio IX succede Leone XIII. Ecco allora perché l’assunto aprioristico della netta differenza propende per la separazione tra le posizioni di certi ambienti ecclesiastici, come la rivista dei gesuiti – la Civiltà cattolica – su posizioni rozzamente e grossolanamente antisemite ed il papato, quello di Leone XIII e della sua Rerum Novarum, presentato come un pontificato “sociale e liberale”. Rappresentazione lontana dalla realtà storica dei fatti, secondo Ruzzenenti, che sostiene e spiega come il papa stesso sia stato attore in prima persona della politica antisemita della Chiesa tra ‘800 e ‘900, cioè nel momento storico in cui si formarono le idee che poi sarebbero tragicamente confluite nell’antisemitismo genocida della Shoah.

In sintesi Ruzzenenti ritiene che per pesantezza delle accuse rivolte, per virulenza degli attacchi, per persistenza storica del fenomeno, per corrispondenza quasi perfetta tra provvedimenti discriminatori adottati (o auspicati) da Chiesa e stati cristiani nel passato e dalle legislazioni razziali degli anni Trenta del ‘900 poi, l’antisemitismo cattolico abbia agito da premessa, da presupposto propedeutico allo scatenamento dell’antisemitismo razziale. Infatti, anche l’argomento secondo il quale l’ostilità antiebraica cattolica non avrebbe contenuti e connotati razzisti – poiché contrari ai fondamenti della fede cristiana – è privo, pensa l’autore, di cogenza logica, dal momento che l’attribuzione collettiva e sulla base di stereotipi e pregiudizi di colpe e misfatti, il determinismo che vincola necessariamente l’individuo e il suo comportamento al gruppo e alle sue presunte caratteristiche, la trasmissione ereditaria e persistente nel tempo di quei medesimi caratteri sono tutti aspetti essenziali del razzismo, tanto che abbia il suo fondamento in principi teologico-religiosi, quanto che li ritrovi in teorie pseudoscientifiche. E la “perfidia del popolo deicida” – per racchiudere in questa formula tutti i possibili stereotipi antisemiti – che apparterebbe a tutti i “giudei” in quanto tali, che ne determinerebbe inesorabilmente i comportamenti, che si trasmetterebbe di generazione in generazione, per secoli e millenni, non può non essere considerata la base granitica di un “razzismo antisemita religioso”, che neppure l’eventuale ed auspicata conversione alla “vera fede” elimina del tutto, come dimostra – afferma Ruzzenenti – il caso spagnolo degli Statuti di Limpieza de sangre del ‘500.

Di sicuro interesse sono poi le analisi che Ruzzenenti propone di due casi quanto mai significativi a supporto della tesi principale dell’intero suo lavoro: si tratta delle vicende dei partiti cristiano-sociali austriaco e francese, cioè di due paesi di radicatissima tradizione cattolica, che dal pontificato di Leone XIII ricevettero incentivo e sostegno alla partecipazione alla vita politica e all’impegno nella società. È noto quanto contemporaneamente molto differente fosse la situazione del mondo cattolico italiano, ancora per molto tempo vincolato al rispetto del non expedit di Pio IX e quindi anche per questo i casi austriaco e francese risultano ancora più decisivi per comprendere quali fossero i tratti essenziali e la cornice complessiva del pensiero sociale della Chiesa nell’ultimo quarto del secolo XIX. Quello austriaco fu il primo partito cristiano-sociale a prendere il potere e a conquistare posizioni di governo in Europa, quindi dalla Chiesa fu visto quasi come un avamposto del progetto del Vaticano di spingere il laicato cattolico all’impegno nel mondo civile e sociale, al fine di ricristianizzare la società moderna, cioè quella modernità che al controllo della Chiesa aveva iniziato a sfuggire alla fine del secolo precedente, con la rivoluzione francese e il pensiero illuministico.

Nell’interpretazione dei fatti di Ruzzenenti, ciò che muoveva l’attenzione della Chiesa per la società moderna, interesse poi espresso organicamente nella Rerum Novarum, non erano l’intento del dialogo con essa, la ricerca di una mediazione delle posizioni o la volontà di rendere moderna la Chiesa, ma, tutto al contrario, un progetto neoteocratico di ri-cristianizzazione della società laica moderna, del quale l’antisemitismo era parte integrante. E le presunte aperture della Rerum Novarum, tanto valorizzate dalla storiografia cattolica, in realtà rientravano in una complessiva visione conservatrice e statica della società, che leggeva le dinamiche sociali secondo modalità tradizionali e che criticava la modernità e i suoi prodotti, cioè tanto il capitalismo quanto il marxismo, visti come espressioni complementari di uno spirito moderno materialista ed ateo ed entrambi messi in relazione all’ebraismo, che, dopo l’emancipazione iniziata a fine Settecento, era considerato dalle forze politiche e sociali conservatrici come causa e al contempo effetto della modernità stessa e comunque ad essa consustanziale. Capitalismo e marxismo, l’uno dal lato dell’individualismo liberale e l’altro da quello del collettivismo socialista, erano giudicati come prodotti dello spirito giudaico e del suo razionalismo materialista.

Dopo l’elezione al soglio pontificio di Leone XIII, nel 1878, partiti cattolici come quello austriaco e quello francese furono spinti all’azione dal Vaticano, nel quadro generale della politica voluta dal papa di lotta contro la modernità, contro la civiltà moderna laica e liberale e sulla base del collante ideologico dell’antisemitismo, che avrebbe assicurato ottime possibilità di presa e di diffusione nella due società. Il tutto si reggeva sull’equazione per cui il giudaismo, emancipato ed assimilato, coincideva con la massoneria, quindi con le forze laiche, illuministiche, razionalistiche che con la rivoluzione francese avevano preso il comando della società “moderna”, capovolgendo quella “naturale”, poiché “cristiana”, dell’ancien régime. La lotta contro la modernità era quindi tout court una lotta contro gli ebrei e le loro cospirazioni massoniche. Alla modernità la Chiesa contrapponeva il programma di una riorganizzazione sociale corporativa e al confronto tra capitale e lavoro e allo scontro di classe sostituiva l’idea dell’armonia sociale da conseguire ricollocando la Chiesa stessa al centro della società, in posizione di guida e comando.

È illuminante e meritevole di ulteriori approfondimenti l’idea di Ruzzenenti che sembra cogliere uno dei presupposti del processo di avvicinamento e poi di stretta alleanza tra cattolicesimo e fascismo in una comune e convergente visione complessiva della società e delle sue dinamiche economiche: si tratta di quel corporativismo che, mutatis mutandis, dalla dottrina sociale della Chiesa a inizio ‘900 passò al nazionalismo italiano e da questo al fascismo, divenuto prima forza di governo e poi regime. Di questa complessiva visione della società parte essenziale – e quindi anello di congiunzione decisivo tra cattolicesimo e fascismo – era l’antisemitismo, che la Chiesa coltivava ed esprimeva da moltissimo tempo e che il fascismo adottò da un certo momento in poi e – come è ben noto – con esiti nefasti per gli ebrei italiani.

Questo importante nucleo tematico viene di seguito approfondito da Ruzzenenti nelle pagine dedicate al pensiero di Giuseppe Toniolo (o di Agostino Gemelli), figura assolutamente centrale per la genesi e lo sviluppo del pensiero economico sociale del cattolicesimo italiano, e non solo, e padre nobile del movimento cattolico italiano novecentesco. Toniolo elaborò una organica e generale teoria economica che intendeva, per sua stessa dichiarazione, muovere una critica del capitalismo moderno, dopo averne colto genesi e sviluppo e con finalità restauratrici, cioè con l’idea di ripristinare l’ordine sociale cristiano tradizionale. Si tratta di quella “neoteocrazia della modernità” che Ruzzenenti attribuisce al pontificato di Leone XIII come sua cifra essenziale, ovvero del «progetto di ricondurre il progresso tecnologico, industriale ed economico (le rerum novarum, appunto) all’interno di una società cristianamente ordinata secondo i principi eterni della Chiesa e della potestà divina rappresentata sulla terra dal pontefice, come vigeva nell’aura età media». (p. 77) Per questo Giuseppe Toniolo propose una “filosofia della storia” secondo la quale lo spirito laico e razionalistico del Rinascimento e poi a seguire il protestantesimo avrebbero sovvertito l’ordine naturale e divino delle cose e della società, introducendo un sistema economico e relazioni sociali incentrate esclusivamente sul principio del profitto individuale che causa eccessiva disuguaglianza. Insomma si tratta di quel capitalismo delle origini che trovò, secondo Toniolo, nel mutuo feneratizio, nel monopolismo e nel commercio speculativo i suoi pilastri fondamentali; in altre parole quello che, se volessimo attualizzare i concetti dell’economista cattolico, oggi chiameremmo capitalismo finanziario o finanziarizzazione dell’intera economia o subordinazione dell’economia produttiva all’economia finanziaria e speculativa.

Nel medioevo era stata la Chiesa a porsi come argine a queste storture economiche e sociali e, secondo il pensatore ed economista cattolico – dal 2012 beato, per decisione di papa Benedetto XVI – aveva tentato di opporsi alla deriva della società istituendo e promuovendo il sistema dei Monti di pietà, come alternativa alla speculazione, immancabilmente – anche per Toniolo – monopolizzata dagli ebrei. Ecco il punto saliente, pure secondo Toniolo, la degenerazione capitalistica della modernità costituiva un tutt’uno con l’imposizione dell’egemonia del dominio giudaico all’interno delle società cristiane. Lo strumento vincente di questo progetto/complotto giudaico per il controllo del mondo cristiano era quindi quello economico-finanziario.

L’anticapitalismo di Toniolo – come risulta dalle riflessioni di Ruzzenenti – cioè quello della dottrina sociale della Chiesa di Leone XIII, quello della Rerum Novarum, quello dei partiti cattolici sorti e promossi dal Vaticano in Austria, Francia e altri paesi cattolici, quello che poi a inizio ‘900 in Italia fu espresso anche dal nazionalismo e che in seguito, sia attraverso quest’ultimo sia grazie alla politica di avvicinamento tra fascismo e cattolicesimo, entrò nel fascismo era reazionario, antimoderno e apertamente antisemita.

Tornando ai partiti cristiano-sociali, quello austriaco fece breccia soprattutto presso la piccola borghesia, spaventata dal marxismo ed egualmente dal grande capitale e dalla modernità, che venivano identificati con l’ebraismo. A questo si aggiungevano numerosi elementi di nazionalismo völkisch, che sostenevano l’idea della contrapposizione inconciliabile tra Judentum e Deutschtum. Nel programma del partito del 1894 si ritrovano affermazioni antisemite sconcertanti, così come nei discorsi, ampiamente riportati da Ruzzenenti, del suo più importante leader Karl Lueger. Tutto questo non solo era noto alla Chiesa, ma – sottolinea l’autore – approvato dal Vaticano e da papa Leone XIII, nonostante alcune perplessità espresse da certi gruppi o esponenti del mondo cattolico viennese. Un così diffuso antisemitismo, in buona parte dovuto anche al solido e duraturo successo del partito cristiano sociale austriaco, può aiutare a capire – osserva Ruzzenenti – perché la “piccola” Austria, una volta annessa al Terzo Reich nel 1938, abbia dato un contributo percentualmente altissimo alla messa in opera delle politiche antisemite naziste e della Shoah.

Analogo è il caso francese del partito cattolico denominato “Democrazia cristiana”, che attinse a piene mani alle idee del campione indiscusso dell’antisemitismo francese dell’epoca: Édouard Drumont, autore de La France juive e fondatore del giornale reazionario ed antisemita La Libre Parole. Pure in questo caso, aiuti ed appoggi da parte del Vaticano e del papa agli ambienti e ai gruppi antisemiti francesi non tardarono ad arrivare, così come a tutto il fronte antidreyfusardo. La vittoria della Francia laica nell’affaire Dreyfus, paradossalmente, peggiorò la situazione, perché gli ambienti cattolici antisemiti si convinsero ancora di più che ci fosse un complotto ebraico in atto e che avesse ormai irrimediabilmente conquistato la guida del paese. È questo l’humus, alla crescita del quale la Chiesa cattolica contribuì in maniera fondamentale, da cui si sviluppò il partito dell’Action française di Charles Maurras, che fu antisemita, nazionalista, fascista, filomussoliniano, filofranchista e che animò la politica della Repubblica di Vichy, emanando una legislazione antisemita, senza che vi fosse alcuna esplicita richiesta o pressione da parte dell’occupante tedesco e che guidò il rastrellamento degli ebrei francesi per la loro deportazione a est.

Nel novembre del 1896 – ricostruisce Ruzzenenti – «nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale della Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale». (p. 25) Il congresso discusse sulle norme antiebraiche la cui adozione il partito avrebbe sostenuto e promosso e ne individuò cinque; le prime due dichiaravano: «1. Il decreto del 1791, che ha dato il diritto di cittadini francesi agli ebrei, deve essere abolito. 2. Nel frattempo, gli ebrei devono essere esclusi dall’insegnamento pubblico, dalla magistratura, dagli impieghi amministrativi e dai gradi dell’esercito». (p. 27) È sin troppo facile osservare come questi provvedimenti, insieme ad altri, sarebbero stati adottati in seguito dalle legislazioni antisemite dei fascismi del XX secolo. In sostanza – conclude Ruzzenenti – si può sostenere che in Francia l’antisemitismo, profondamente radicato a fine ‘800 e inizio ‘900 e dai toni violentissimi, sia nato, si sia sviluppato e diffuso all’interno del mondo cattolico, sulla base del tradizionale odio antiebraico cristiano-cattolico e con l’aperto appoggio del Vaticano.

Tra gli organi della Chiesa che più si impegnarono nella politica antisemita, la Civiltà cattolica fu certamente in prima fila ed in particolare per opera – ricorda Ruzzenenti – di padre Giuseppe Oreglia, autore di numerosissimi articoli trasudanti un antisemitismo virulento. Nelle pagine della Civiltà cattolica si realizza anche il passaggio senza soluzione di continuità tra “antigiudaismo” e “antisemitismo” per mezzo della “razzializzazione” degli ebrei, che vengono esplicitamente definiti “razza” e in quanto tali, cioè in quanto “razza”, a loro vengono attribuite le peggiori caratteristiche dello stereotipo antisemita. È all’interno di questo quadro ideologico complessivo che la Chiesa spinse in Austria e Francia i partiti cattolici alla partecipazione all’agone politico, in vista di un progetto di riconquista cristiana della società, per la realizzazione del quale l’arma principale da utilizzare era proprio l’antisemitismo, al punto che fu la Chiesa stessa a richiedere per prima l’adozione di legislazioni speciali antiebraiche già a fine ‘800.

«Inoltre, ed è il caso di sottolinearlo, lo stesso Oreglia in un articolo del 1880 ipotizzava esplicitamente misure restrittive nei confronti degli ebrei in Europa, come la negazione della cittadinanza, la confisca dei beni e delle proprietà terriere, l’allontanamento dall’insegnamento e dal giornalismo, in buona sostanza i provvedimenti che, come abbiamo visto, diventarono a fine secolo programma politico dei partiti cattolici francese e austriaco e che, mezzo secolo dopo, formeranno l’ossatura della legislazione antisemita nazista e fascista». (p. 35)

Ed è sempre la Civiltà cattolica che arriva alla elaborazione del concetto della “segregazione amichevole”, che di fatto la Chiesa manterrà anche successivamente e che le permise non solo di tollerare, ma addirittura di considerare come opportuni molti dei provvedimenti antisemiti delle legislazioni razziali fasciste. Sulla rivista dei Gesuiti nel 1881 si leggeva: «Ma […] può ognuno congetturare quanta sia la sapienza dei moderni legislatori che, seguendo i principii liberali e massoni, tolsero ogni freno di leggi eccezionali a una razza forastiera a ogni paese dove abita; e quanto sia per essere vana e fuoco di paglia qualsivoglia agitazione antisemita, la quale non riconduca una legislazione speciale per gli ebrei; in forza di cui essi non siano già perseguitati o vessati, ma difesi e frenati contro sé medesimi e le loro vessazioni e persecutrici tendenze sempre riuscite fatali prima ai popoli che non seppero frenarli e poi agli stessi ebrei; contro i quali presto o tardi suole poi sempre prorompere l’odio e la vendetta popolari». (p. 37) Insomma, è da loro stessi – e dalla loro connaturata malvagità – che gli ebrei devono essere difesi, quindi segregati, come il sistema medievale dei ghetti aveva fatto in passato, in quella “età d’oro” della società cristiana che la Chiesa di fine ‘800 vorrebbe restaurare.

Sulla base di queste considerazioni, sostiene Ruzzenenti, continuare a dire che l’antigiudaismo religioso della Chiesa cattolica sia stato costitutivamente altro dall’antisemitismo razziale dei fascismi successivi appare argomentazione speciosa ed altrettanto si dovrebbe dire delle reticenze della storiografia cattolica nel riconoscere l’antisemitismo del pontefice, che viene percepito come una contraddizione rispetto alle presunte aperture alla società e alla modernità della Rerum Novarum, aperture che in realtà si muovono in tutt’altra direzione, cioè in quella di una “restaurazione neoteocratica“. Insomma si potrebbe dire che per Ruzzenenti definire Leone XIII un “papa sociale” perché emanò la Rerum Novarum sarebbe come pensare – come si erano illusi di poter fare i neoguelfi di metà 800 – a Pio IX come a un “papa liberale” solo perché indirettamente diede inizio al biennio delle riforme. La vera differenza tra i due papi, secondo Ruzzenenti, sta nel fatto che Pio IX dopo il Sillabo e la Quanta Cura si arroccò su posizioni di intransigente chiusura e rifiuto di dialogo con la modernità, mentre Leone XIII volle entrare nell’agone politico e sociale per creare un argine al laicismo, al liberalismo, alla democrazia e soprattutto al socialismo, assumendo una posizione attiva e di attacco alla modernità, ma uguale rimaneva il fondamento ideologico dei due papi. Per questi fini Leone XIII rispolverò il tomismo e lo impose come paradigma della visione della società, promuovendo una sorta di medievalismo a cavallo tra ‘800 e ‘900.

[continua]

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Parole di destra https://www.carmillaonline.com/2017/02/13/parole-di-destra/ Mon, 13 Feb 2017 22:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36374 di Armando Lancellotti

ensemble-boltanskiLuc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00

A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto [...]]]> di Armando Lancellotti

ensemble-boltanskiLuc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00

A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni europee del 24-25 maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel fatto di considerare la spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle forme linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che, qualche anno fa ripescati dalla loro condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al punto da essersi trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno importante è l’intento di contribuire al risveglio di una sinistra francese (e poi europea) che disorientata e tramortita non sembra in grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio”].
«Pertanto» – scrivono gli autori – «se non si vuole vedere la sinistra spegnersi e scomparire dallo spazio politico […] è urgente approfondire l’analisi della sua condizione attuale, elaborando un’autocritica paragonabile a quella che fu necessaria alla fine degli anni Cinquanta con lo stalinismo e che, attraverso i movimenti del maggio 1968 rinnovò la sinistra negli anni Settanta» (p. 16).

E nei poco più di due anni intercorsi tra l’uscita del libro e la sua traduzione italiana la situazione politica francese, europea, occidentale non pare certo essere migliorata, come dimostrano la crescita esponenziale dell’estrema destra in Austria o in Germania (dove nel 2016 gli attacchi di formazioni neofasciste contro i migranti sono raddoppiati, secondo i dati della stessa polizia tedesca) o le politiche intraprese dal governo Orbán in Ungheria o dal governo del PiS (il partito di Kaczyński) in Polonia e in generale dai paesi del gruppo di Visegrád, sempre più arroccati su logiche nazionalistiche e di ostinata e ottusa chiusura ai migranti. L’elezione di Trump alla fine dell’anno completa un quadro fosco che rischia di incupirsi ulteriormente nella prossima primavera con le elezioni presidenziali francesi, che pare abbiano già scontato l’affermazione al primo turno, precedente il ballottaggio, di Marin Le Pen.

L’intento del libro, scrivono i due autori, è «quello di reagire alla diffusione di idee, termini e temi reazionari che l’estrema destra contemporanea spacciava come cose evidenti e neutre, ma che aveva invece riesumato rivisitando le sue tradizioni» (p.7). Il riferimento è «all’Action Française, un movimento che, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento e oltre, ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo di un nazionalismo aggressivo e xenofobo, pretendendo, come altri fascismi europei, di sposare la causa di una cultura alta, minacciata dalla modernità cosmopolita, e un’idea ancestrale di popolo minacciato dall’immigrazione» (p.7).

Idee e parole vecchie, ma riproposte come nuove e rivoluzionarie in un quadro di disarmante disorientamento politico, che rende possibili operazioni ideologiche quali quelle dell’estrema destra in tutta Europa, che pretende di presentarsi come l’unico attore politico capace di elaborare ed esprimere un pensiero coraggiosamente sconveniente, sprezzantemente sincero e perciò controcorrente ed anticonformista ed incurante delle precauzioni politicamente corrette e delle cautele ipocrite dell’intellighenzia di sinistra erede della presunta “dittatura culturale sessantottina”, ma proprio per tutti questi motivi portatrice di un pensiero schiettamente ed autenticamente “popolare”.

Le parole ed il loro uso efficace sono da sempre straordinari strumenti di lotta politica, soprattutto quando si verificano fenomeni di trasgressione linguistica o di traslazione e deformazione semantiche che culminano nel capovolgimento del significato delle parole. Le trasgressioni linguistiche «rendono […] lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili» (p. 9) e l’imbarbarimento linguistico-politico verificatosi nell’Italia berlusconiana con la Lega di Bossi può costituire per noi italiani un caso paradigmatico di questo fenomeno.

Lo slittamento di concetti e parole dal vocabolario della sinistra a quello della destra non è di per sé una novità degli ultimi tempi e se cent’anni fa, all’inizio del secolo scorso, la decontestualizzazione straniante dei concetti di proletariato e lotta di classe ne permise il riutilizzo ad opera di nazionalismo e fascismo, oggi l’estrema destra ha gioco facile nell’impadronirsi degli argomenti della sinistra critica contro neoliberismo e globalizzazione finanziaria, facendone i propri cavalli di battaglia, dopo averli sovraccaricati di significati di destra, cioè nazionalistici, identitari, xenofobi, in una parola sola, fascisti.

«Ciò vale innanzi tutto per l’uso nel gergo dell’estrema destra di temi presi a prestito da una sinistra critica che – dopo la scomparsa del partito comunista e di fronte alla crisi della socialdemocrazia, segnata sul piano economico dall’attenzione ossessiva al debito e sul piano elettorale dalla sua incapacità a contrastare la crescita dell’astensionismo – ha cercato di ricompattarsi designando il neoliberalismo come nemico principale. Ormai immersa nella configurazione ideologica dell’estrema destra, la critica al neoliberalismo si è caricata di significati nazionalisti. Viene soprattutto rivolta contro l’Europa, accusata di essere il cavallo di Troia della globalizzazione e della finanza internazionale, impoverendo così il “vero popolo di Francia” a vantaggio, da una parte, degli immigrati, dall’altra, delle élite cosmopolite incarnate dai “bobos”, eufemismo designante i lavoratori della cultura, vilipesi per il loro essere aperti al mondo» (pp. 10-11).

Il vizio d’origine che ha consentito il travaso di temi ed argomenti prima appannaggio della sinistra radicale nel bagaglio ideologico della destra consisterebbe, secondo Boltanski ed Esquerre, nell’aver accomunato liberismo e liberalismo con conseguente estensione della critica a neoliberismo economico e globalizzazione finanziaria al liberalismo tout court, alla democrazia e alla socialdemocrazia, prestando così il fianco all’azione di innesto, sul tronco di questa critica politica di sinistra, del comunitarismo identitario nazionalista, antidemocratico, autoritario e presto xenofobo, presentato come correttivo alla globalizzazione imperante. E così la nuova pianta ha inglobato la precedente su cui si è innestata e ha messo rapidamente radici, trovando terreno fertile nella crisi economica generale e nell’immiserimento della classe operaia e dei ceti medi, che stanno rispondendo al richiamo di utopie identitarie antimoderne e antiuniversalistiche, «di tipo vagamente heideggeriano» (p. 13), che ricercano nuove possibilità di “essere nel mondo autentico” anche attraverso la proposta o il recupero di vincoli sociali di tipo affettivo ed emotivo e non più giuridico e razionale, i quali «avevano caratterizzato la rottura storica segnata, nel XVII secolo, dal sorgere del liberalismo» (p. 13).

Secondo Boltanski ed Esquerre, oggi l’iniziativa politica appartiene alla destra che ha saputo sfruttare i pesanti cambiamenti prodottisi, a seguito della crisi economica, sulla realtà quale era venuta strutturandosi dopo la fine della guerra fredda e che prevedeva come attori principali una destra liberale su posizioni economico-sociali liberiste, verso le quali convergeva anche una sinistra socialdemocratica, che lasciava alla sinistra estrema «il compito di criticare il neoliberalismo» (p. 19). La destra estrema, ai margini di questo quadro, manteneva le proprie tradizionali posizioni ostili al liberalismo politico e conseguentemente al parlamentarismo, all’individualismo e alla democrazia, ma dandosi una veste liberista in economia, nel tentativo di attirare il consenso di piccoli imprenditori e classi medie.
La svolta decisiva, intervenuta negli ultimi anni di crisi economica, è consistita invece nel recupero da parte della destra di un cavallo di battaglia del fascismo degli anni successivi alla crisi del ’29, cioè l’antiliberismo «in difesa del popolo e invocante lo Stato», associato «generalmente a un’opposizione tra la buona economia nazionale e il capitalismo cosmopolita» (pp. 21-22).

Nell’interessante quarto capitoletto, Il popolo visto da destra, i due studiosi considerano il modo in cui viene concepito e definito quel “popolo” che l’estrema destra francese intende sottrarre al campo politico della sinistra e difendere dai raggiri del capitale finanziario globale e lo fanno denunciando un altro caso di deformazione e traslazione del campo semantico delle parole.
«L’intelligenza politica d’estrema destra ha […] saputo rimodellare nel corso del tempo il tema classico dello sfruttamento, che era servito di base al movimento operaio e soprattutto ai comunisti, riorientandolo in riferimento a un’altra figura, dall’apparenza meno tinta di marxismo e più “democratica”, quella della rappresentazione. In questa chiave, il popolo non soffre soltanto la disoccupazione e la miseria ma, prima di ogni altra cosa, lamenta un deficit di rappresentazione, un termine usato con un’accezione vaga che va dalla rappresentanza politica in senso stretto alla rappresentazione mediatica nelle forme culturali» (p. 27).

Ne consegue una categorizzazione manichea che contrappone un “popolo buono” da promuovere e salvaguardare ad uno “cattivo”, esattamente come proponeva il fascismo tra le due guerre – ancora un caso di recupero di temi ed argomenti dell’estrema destra primonovecentesca – nel tentativo di ritagliare uno spazio per la propria “terza via” nazionalistica, alternativa al cosmopolitismo del grande capitale finanziario e all’internazionalismo e al collettivismo comunisti. Solo che allora il “popolo buono” si definiva attorno ad un tipo antropologico rurale, tradizionale, antico, che non aveva ancora conosciuto gli effetti corruttori della modernità, dell’urbanizzazione, della massificazione che avevano nel frattempo fagocitato il proletariato «ridotto allo stato di folla gregaria, imbastardito da uno stile di vita depravato e confuso da idee moderniste» (p.28) e socialiste.

Oggi, invece, a seguito dei numerosi passaggi storico-politici intercorsi, delle profonde trasformazioni del modo di produzione capitalistico e della crisi del marxismo e del socialismo, il mondo operaio non ha più la carica di pericolosità di un tempo e – di nuovo un caso di “travaso” da sinistra a destra – può assurgere agli occhi della destra estrema al ruolo di “popolo buono” «a cui appartengono, per esempio, gli “uomini di quarant’anni, bianchi, eterosessuali, sposati, con figli, residenti in regioni in declino, minacciati dalla disoccupazione”, insomma la “gente normale”», da contrapporre al “popolo cattivo”, «fatto di gente che vive di forme d’assistenza sociale: froci, lesbiche, intellettuali precari, arabi, neri, sans-papiers, abitanti delle banlieues, puttane, femministe e donne col velo» (p. 29). Ed è a questi “francesi normali” che va riconsegnata la Francia, come va predicando il Front National della Le Pen.

Altre stelle polari della costellazione ideologica dell’estrema destra europea odierna sono la politica securitaria e l’ossessione identitaria, che tra loro si intrecciano e si rimandano.
Secondo Boltanski ed Esquerre, il tema secutitario è stato messo in relazione con quello di una “moralità popolare” che si ritiene minacciata da attacchi provenienti da più parti ed in particolare dagli stranieri (musulmani delle banlieues degradate su tutti) e dai bobos, inutili intellettuali che chiacchierano dei loro presunti valori di sinistra. Ma il concetto di morale a cui si riferisce il discorso della destra estrema francese è declinato e definito nella forma più povera e banale che si possa concepire e cioè come buon senso popolare, come decenza, buone maniere, buona educazione e rispetto dei valori di un tempo. Questa interpretazione svilente del concetto di moralità ha condotto all’equiparazione o quanto meno alla comparazione tra reati gravi ed inezie (la cosiddetta – scrive Boltanski – “teoria del vetro rotto”), che innanzi tutto «ha consentito […] l’estensione degli atti passibili di sanzione legale e, in questo modo, le misure di controllo fin quasi alla provocazione» (p. 34) ed in secondo luogo ha condotto all’attribuzione indistinta ad un intero gruppo sociale, ad una parte della popolazione o ad una categoria della patente di immoralità, cioè di inciviltà, ora a causa di costumi lassisti e troppo permissivi ed ora per motivi opposti, cioè per la «intransigenza nel trasmettere usi appartenenti ad altre “culture”, intolleranti, violente e maschiliste, quasi per definizione; e quindi, evidentemente, non solo diverse dalla “nostra”, ma anche incompatibili» (p. 34).

Il buon senso morale del “popolo buono” è messo in pericolo non solo dall’inciviltà delle periferie degradate, palestre di criminalità, ma anche «dalla hybris devastatrice dei “bobos” e di altri “liberali
acculturati” che vogliono far passare per ideali di sinistra i loro desideri sfrenati e le loro tendenze bizzarre. Per compiere finalmente una vera Rivoluzione (nazionale) conviene perciò scoprire in noi stessi, insieme (ma senza gli “altri”), ciò a cui teniamo veramente, sollevando il velo che la (falsa) critica – silenziosamente all’opera da un bel pezzo – ha gettato sui nostri (veri) valori, che invece ci permettono di stare in piedi, per nasconderne la necessità e offuscarne la dignità. Insomma, si tratta di stabilire cosa vogliamo conservare» (p. 35-36).

Del bisogno e della difesa di una identità si fa un gran parlare negli ultimi decenni, essendo questo tema uno dei più dibattuti sia sul piano politico sia su quello culturale ed intellettuale, soprattutto da parte di coloro che ne denunciano allarmati la scomparsa: innanzi tutto i nazionalisti e i cattolici, ma – ritengono Boltanski ed Esquerre – anche quelle correnti della sinistra che si richiamano alla tradizione del repubblicanesimo. Questo porta ad un forte addensamento attorno ad uno stesso tema e a rischiosi intrecci tra correnti, movimenti, orientamenti diversi e distinti, ma accomunati da una sorta di “ossessione per l’identità”. Soprattutto il repubblicanesimo, trasformato in una «sorta di mito politico» è riuscito «ad assurgere a incarnazione di un’identità francese allo stesso tempo nazionale e universale, come dovrebbe essere la cultura repubblicana, considerata tanto più universale quanto più è nazionale» (p. 40).

L’attenzione per i temi identitari è oggi particolarmente preoccupante dal momento che ha smascherato il suo lato oscuro, la sua seconda faccia, quella xenofoba che odia stranieri e migranti che pregiudicherebbero «la “povera” identità della Nazione» e sarebbero «veicolo di una “grande sostituzione” che segnerebbe il crollo della “nostra” civiltà sotto i colpi dell’islamismo» (p. 41-42). Anche in questo caso, l’archetipo di tale idea politica è da rintracciarsi nel passato dell’Action Française, con la differenza di un riorientamento soprattutto contro i mussulmani di «un’ostilità che nella prima metà del Novecento colpiva principalmente ebrei ed ebraismo, svolgendo un ruolo centrale nella costruzione di un vero popolo autoctono, schiacciato dai meteci e dagli altri “stranieri interni”» (p. 42).

Se queste ed altre analoghe idee, che i due sociologi francesi esaminano nelle poche pagine di questo breve ma denso saggio, sono ormai divenute “senso comune”, “spirito del tempo odierno”, se hanno già conquistato lo status dell’”ovvio”, del “ciò che va da sé” perché sottinteso dai più, quale ruolo e quale spazio rimangono alla disponibilità delle altre forze politiche francesi e della sinistra critica in particolare? Come quasi sempre accade ed è accaduto in casi di questo genere, la reazione immediata e più semplice, per non dire semplicistica, consiste in un generale slittamento verso destra di tutte le forze politiche, quasi a volere «attutire il colpo accompagnandolo» (p. 61). Ma se questo è più facilmente comprensibile per una destra liberale che per opportunismo elettorale mutua dalla destra estrema alcuni punti programmatici, più difficile da comprendere e giustificare risulta l’analoga operazione compiuta dal Partito socialista francese, tutto intento a «compiere grandi sforzi per occupare il posto, ritenuto vuoto, del centro, o piuttosto del centro-destra, a seguito del declino imbarazzato di una destra “moderata” e “sociale” (che a lungo si è rifatta al gollismo). […] Ne è una dimostrazione l’ultima trovata di un “socialismo” ormai alla frutta, giunto al governo senza altro progetto se non quello di una gestione esemplare, secondo i criteri delle banche, delle agenzie di rating e delle autorità di Bruxelles; ridotto al soccorso di imprese capitaliste – cioè di coloro che le possiedono – invece di occuparsi prioritariamente della riduzione delle diseguaglianze» (p. 62 ).

Ma ancora più preoccupante è – a parere di Boltanski ed Esquerre – quanto accade nel campo dell’estrema sinistra e proprio con le considerazioni allarmate che i due autori propongono sul disorientamento rinunciatario della sinistra radicale concludiamo la presentazione di questo interessante libretto tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Mimesis.
«Ma ciò che accade nell’estrema sinistra è ancora più preoccupante. In questo caso gli spostamenti […] dipendono […] da una sorta di sudditanza nei confronti di una base che tende a sfuggirle nel suo progressivo spostarsi quasi impercettibilmente e quasi innocentemente, se non inconsapevolmente, verso destra. […] Ma ciò che colpisce, nell’estrema sinistra attuale, è […] l’assenza quasi totale di ideologia e, allo stesso tempo, non il compimento di azioni dettate da analisi sbagliate, ma l’assenza di analisi e quindi di orientamento consapevole da cui far discendere delle azioni. L’ondata altermondialista di inizio anni Duemila e quella, dieci anni dopo, degli indignati e dei movimenti di occupazione contro l’1% dei più ricchi (ispirati da “Occupy Wall Street”) si sono esaurite senza riuscire a impedire alle società europee di finire in balia di una destra sempre più tirata verso l’estremo. […] Ma perché le posizioni di sinistra possano distinguersi nettamente da quelle dell’estrema destra bisognerebbe almeno che poggiassero su analisi innovative. Da una parte in grado di connettere la situazione politica attuale ai grandi cambiamenti che hanno coinvolto le classi sociali, le forme di proprietà, la distribuzione dei vantaggi e del potere, ossia le forme di dominio nell’Europa occidentale […]. Dall’altra in grado di rinnovare un internazionalismo che, in condizioni non meno difficili di quelle che stiamo conoscendo attualmente, ha rappresentato la forza e il vertice del movimento operaio. Inoltre, non dovrebbero trascurare le trasformazioni ecologiche in corso. Infine, converrebbe riflettere sulle condizioni di estensione della democrazia, anzitutto nelle sue forme elettorali che, a prescindere dalle modalità in cui si svolgono le consultazioni, sono proprie all’esigenza democratica» (pp. 62-64).

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