AC/DC – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Living Colour: Shade https://www.carmillaonline.com/2017/10/26/living-colour-shade/ Thu, 26 Oct 2017 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41278 di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro. Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente. Poi nel settore “Black music”, zero. Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour. Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop. Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà. È il 1989 e vi dipingo il quadro: [...]]]> di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro.
Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente.
Poi nel settore “Black music”, zero.
Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour.
Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop.
Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà.
È il 1989 e vi dipingo il quadro: non ho neanche vent’anni, ascolto un sacco di musica, tengo a distanza il metal ma ho una passionaccia per l’hard rock. Una trasgressione controllata, diciamo, borghese: partendo dai suoni nobili dei Cream e di Hendrix sono arrivato ai Thin Lizzy e agli UFO passando per Deep Purple e Led Zeppelin e altre band ancora.
E poi mi piace anche la musica nera, chiaramente. Molto.
Riguardo la politica ho lo stesso caos mentale in testa: grandi rivendicazioni in una confusione dove si mescolano echi passati e istanze attuali.
È in questo nebbione che un bel giorno, scanalando, su VideoMusic – la mai troppo rimpianta VideoMusic, casereccia ed originale molto più della futura MTV – mi capita tra capo e collo un video coloratissimo dove quattro neri pestano come maniscalchi, tra immagini di Martin Luther King, Kennedy e Mussolini.
Aspetta aspetta: mmh, curiosi.
Non c’era la Rete per andare a farsi un’idea o YouTube per rivedersi il video.
No, bisognava aspettare e incrociare le dita che ripassasse il video o magari beccare l’articolo giusto sul giornale – sicuramente all’epoca – giusto: il Mucchio Selvaggio. E allora scopro che esiste un quartetto di neri che picchia duro, che mette in musica rivendicazioni artistiche (e in fondo perché i neri non dovrebbero suonare hard rock?) e politiche, e che è prodotto e distribuito da una major.
E vai di acquisto di Vivid, acquisto che, allora, era un atto di fede: compravi un disco e ti doveva bastare per un po’: erano 15mila lire, 15 sacchi sudati facendo il baby sitter o il cameriere. Trovai solo una musicassetta, mezzo alquanto infelice per certi versi e felicissimo per altri: l’ascolto in una sequenza definita ti costringeva ancor più del vinile (dove le divisioni tra pezzi erano leggibili) a seguire il discorso dell’artista. Era un percorso obbligato e l’album andava assunto nella sua interezza, non per brani.
E questo era un album di debutto eccezionale, sponsorizzato da Mick Jagger e subito amato da critica e pubblico.
Come definirlo? Hard rock con venature funky e noise, echi di Hendrix e James Brown, accenni di hip hop e una produzione scintillante e levigata che esaltava i ritornelli pop. Mettiamoci una voce calda e suadente ma capace di urlare e una chitarra istrionica che poteva accarezzarti con arpeggi alla Curtis Mayfield e sfregiarti con contorsioni metalliche. E poi i testi: i Living Colour accedono ai piani alti della classifica di Billboard (il disco sarà due volte platino, raggiungendo il sesto posto) cantando di diritti negati, razzismo, homeless, fiducia cieca nei leader, consapevolezza nera e privilegio bianco, disoccupazione e yuppies plastificati.
Vernon Reid, chitarrista e leader della band, è cresciuto tra musica pop, Stax, il funk rock di Sly Stone, ovviamente Hendrix ma anche tanto jazz, da quello classico fino a Eric Dolphy e il Coltrane più cosmico, arrivando ai Defunkt.
Le sue linee chitarristiche sono un flusso di coscienza, come il dripping di un Jackson Pollock sulla tela imbastita dalla batteria potentissima di Will Calhoun e dal basso di Muzz Skillings, e in questo turbinio senti il groove micidiale dei Parliament, ma anche il punk dei Gang of Four e dei Clash, l’eredità del CBGB e il sound metropolitano dei Talking Heads.
Vengo conquistato in pieno e da lì rimango innamorato perso di quel sound e di quel discorso. Son venuti altri album, sempre riusciti e premiati dalla critica ma meno facili per il grande pubblico. Dopo l’acclamato Time’s Up (1991) e il durissimo e inesorabile Stain (1993, col nuovo bassista virtuoso, Doug Wimbish) la band scompare dalla luce dei riflettori: la democrazia interna ha portato all’implosione.
Seguono anni di silenzio fino a un insperato ritorno nel 2003, con Collideoscope, album che riprende un discorso effettivamente lasciato a metà.
All’epoca scrivevo per Rolling Stone e mi arriva la proposta di intervistare Reid. Un po’ per il mio inglese, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il compito mi sembra richieda una maggiore preparazione, lascio stare, ma vedo finalmente i Living Colour dal vivo, a Trezzo. Sono sotto il palco e quando i musicisti accedono direttamente dal camerino penso a un effetto speciale, vedendo la nube che li precede. Errore: ganja pura che ci stordisce e inebria durante un concerto fenomenale, cominciato con Back in Black degli AC/DC e punteggiato da tutti i pezzi fondamentali della band, oltre a una durissima Seven Nation Army dei White Stripes, qui da noi non ancora coro da stadio.
Dopo un album interlocutorio del 2009 (The Chair in the Doorway), il silenzio, interrotto l’anno passato da un singolo, una cover di Notorious BIG, Who Shot Ya, tristemente emblematica.
E finalmente, dopo tanta attesa, a settembre 2017 arriva il nuovo album, Shade.
Che è una badilata nei denti, con la chitarra spigolosa di Reid che detta ancora legge, e basso e batteria che hanno un piglio che non trovereste in tante band di biancuzzi arrabbiati. All’attacco crunchy dei Metallica si sovrappone la sinuosità di un Prince (e tantissimo altro ancora, ovviamente), cadenzando il clangore della rabbia di una battaglia per la dignità e il rispetto che sembrava fuori tempo trent’anni fa e che oggi è più rilevante ancora, mannaggia.
L’album – va detto – non è facile, né radiofonico. Qui non c’è nulla di danzereccio, al limite il groove leggero della cover di Inner City Blues, ennesimo omaggio (a Marvin Gaye) che dà le coordinate del lavoro, così come la giustamente trasfigurata Preachin’ Blues di Robert Johnson. Del resto Corey Glover da anni andava annunciando un disco blues. Solo che qui il blues è riletto secondo la lingua arroventata di questi cinquantenni incazzati: non aspettatevi le classiche dodici battute o shuffle allegrotti. Del blues c’è lo spirito, i testi amari aggiornati alla situazione del terzo millennio, c’è l’ossessività ritmica e l’incessante lavoro delle chitarre che non si vergognano di prendersi lo spazio per dei (misurati) assoli, eloquenti nell’esprimere rabbia e dolore.
È stata un’attesa ben ripagata, insomma. E quanto è commovente, dopo anni di lavorazione, trovare un disco eccezionale quando non esistono più i negozi dove venderlo?

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 72 https://www.carmillaonline.com/2015/06/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-72/ Thu, 11 Jun 2015 20:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22948 ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

@DzigaCacace usa Twitter come un tumblr

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 54 https://www.carmillaonline.com/2013/10/18/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-54/ Thu, 17 Oct 2013 22:01:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10051 di Dziga Cacace

Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete stare a galla  

ddv5401531 – Lo splendido Ferro 3 di Kim Ki-Duk, Corea del Sud 2004 Strani giorni, in attesa. Ansie da paternità, lavori nella nuova casa da seguire, dolori lombari inopportuni, appetito feroce. Le voglie dovrebbe averle Barbara e invece sono io a mangiare come una bestia: con la gravidanza (sua) ho preso già 3 chili e ieri ho sbafato un sushi per due. Oggi è sabato e ho dormito tanto e lavorato poco, cosa che non ha migliorato il mal di schiena ma [...]]]> di Dziga Cacace

Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete stare a galla  

ddv5401531 – Lo splendido Ferro 3 di Kim Ki-Duk, Corea del Sud 2004
Strani giorni, in attesa. Ansie da paternità, lavori nella nuova casa da seguire, dolori lombari inopportuni, appetito feroce. Le voglie dovrebbe averle Barbara e invece sono io a mangiare come una bestia: con la gravidanza (sua) ho preso già 3 chili e ieri ho sbafato un sushi per due. Oggi è sabato e ho dormito tanto e lavorato poco, cosa che non ha migliorato il mal di schiena ma mi ha predisposto per un menù coreano. Siccome non gradisco piatti a base di carne di cane e aglio, opto prudenzialmente per un film: Ferro 3 avrà sí e no tre pagine di dialoghi. È cinema puro, narrato per immagini. È splendido. Un giovane vive sfruttando le case vuote altrui. Entra, si prepara la cena, lava i suoi indumenti e – per ripagare l’ospitalità – ripara qualcosa (orologi, bilance, stereo), dorme, se ne va. In un’incursione incontra una donna disperata che vuole fuggire dal marito. Altre vicissitudini e una lieta fine, inaspettata quanto poetica. Film elegante e violento come un colpo di mazza da golf, lineare, ritmato, senza alcuna ridondanza e fotografato in maniera entusiasmante. Il cinema come vorrei che fosse sempre: inaspettato, originale e poco parlato. E stupido io che perdo tempo con tante cagate occidentali, ripetitive e preconfezionate, e ancora indugio di fronte all’immensa cinematografia orientale. Dopo il film, ovviamente, cena indocinese abbondantissima che procura incubi notturni a base di involtini primavera volanti tra nuvole di drago. Visto in sala con pubblico educato, proiezione corretta, intervallo eliso dalla pellicola e però luci accese sui titoli. Ma non mi lamento. E ho già fame. (Cinema Ariosto, Milano; 12/3/05)

ddv5402532 – Nostalgia canaglia con Franco Battiato – Dal cinghiale al cammello a cura di Luca Volpatti, Italia 2004
Pausa pasquale e finalmente tre giorni di pausa dal lavoro. Barbara è gonfia come una mongolfiera e sta sudando sulla tesi di dottorato, con l’esame sempre più vicino. Io scribacchio osservando attonito i telegiornali: siccome il dibattito politico interno è il più infimo del mondo non si ciancia altro che della Pasqua e del tempo. E poi stanno morendo il Papa, Terri Schiavo e il principe Ranieri di Monaco e se ne parla esattamente in quest’ordine. Sul Papa non mi pronuncio perché qualcuno potrebbe accusarmi di profanità. Terri Schiavo passerà alla storia come involontaria vittima di chi ha trovato il bel boccone da gettare alla platea televisiva, affamata di drammi in diretta. Su Tg1 e Tg2 è tutta una condanna della moderna barbarie dell’eutanasia, dimenticando che non si tratta di eutanasia, ma si avvicinano i referendum e allora, si sa, il voto cattolico e bla bla. Ranieri di Monaco, infine, non se lo incula nessuno, ma non si sa mai e allora ci tengono aggiornati col bollettino medico. Per testimoniare il mio disprezzo all’establishment medievale che ci tiranneggia mi guardo i video del compositore italiano più intransigente e puro, Francuzzo Battiato mio: l’ho amato fin dagli ingenui undici anni, quando non capivo niente di ciò che diceva e soffrivo perché Gianfranco Manfredi lo aveva iscritto alla “nuova destra” (un pezzo famoso sulla Stampa, con argomentazioni per nulla peregrine, peraltro). Eravamo un milione ad aver comprato La voce del padrone e lo ballavamo febbricitanti, festeggiando la vittoria ai campionati del mondo di calcio in Spagna. I dischi successivi li comprarono sempre meno persone, ma io rimasi fedele e recuperai subito le opere sperimentali e quelle progressive dei primissimi anni Settanta (prog sui generis, eh? Sfido a trovare roba simile), rimanendo spesso affascinato ma talvolta anche basito. Franco era anni luce avanti, altroché. Ecco cosa ho scritto per gli amici di Rodeo, con la consueta prosa deidratata ed ermetica per stare nell’esiguo numero di battute concesse: “Il cut up postmoderno di tutta la nostra eredità canzonettistica, l’avanguardia europea e la tradizione romantica ottocentesca; la Sicilia, nostra Arabia interiore; l’intolleranza verso la mediocrità culturale diffusa, i lampi rock dell’occasionale schitarrata, il piacere della danza e dei cori classici… Battiato è l’unico cantautore italiano completamente originale, che ha sempre guardato a Est mentre i colleghi aspettavano appecoronati un segnale da oltreoceano. E quando s’è trattato di realizzare videoclip per accompagnare i suoi dischi ha evitato il mainstream esterofilo o il mediocre didascalismo italico (pensate a Michelangelo Antonioni e all’atroce video di Fotoromanza della Nannini). Battendo le strade della videoarte e della sperimentazione ha sempre inventato qualcosa di diverso, ottenendo che musica e immagini funzionassero assieme e mai come in questo caso vale citarlo: «Il giorno della fine non ti servirà l’inglese»”. Posso aggiungere che alcuni video sono tagliati in 16/9 senza motivo e che sulla clip di Bandiera bianca (che ricordavo diversa, mah) spunta un birichino time code. Ma non importa. Grande. (Dvd; 27/3/05)

??????Tonno caldo, s’il vous plaît
Scrivere per Rolling Stone ti apre un sacco di porte: ne approfitto e vado a testimoniare lo stato di forma degli amati Hot Tuna, in double bill a Milano assieme ai Nine Below Zero. Avrebbero voluto chiamarsi, nel 1969, Hot Shit, ma al settore vendite della RCA l’idea di distribuire merda calda non era sembrata cosa (in compenso esisteva un gruppo di neri hendrixiani di Detroit chiamati Black Merda che – chissà perché! – qui in Italia non ebbero alcuna penetrazione commerciale o più prosaicamente – e appropriatamente – non vennero per nulla cagati). Comunque il Tonno caldo era la costola blues dei Jefferson Airplane nei primissimi anni Settanta, poi passati a un hard rock un po’ fracassone e infine ritornati in vecchiaia a un country gradevole: gli squarci chitarristici di Jorma Kaukonen e il basso tonante di Jack Casady si sono acquietati e gli assoli sono oggi affidati a un mandolino tintinnante. Se volete farvi un’idea di cosa facessero, il primo omonimo album, dal vivo, è un capolavoro, tra traditionals e jam acustiche siderali. Arrivo ben prima del concerto e conosco il rosicone Ezio Guaitamacchi, giornalista musicale di grande passione, passabile competenza e incerto italiano scritto. L’idea che ci sia un possibile concorrente a parlare con gli Hot Tuna lo rende affabile come un qaedista a una sagra della salamina da sugo nel ferrarese. Me ne sbatto e vado all’attacco del gigantesco Jorma. Il sessantacinquenne è un omone sorridente (con incisivo frontale in oro) che si vede che s’è goduto la stagione psichedelica. Mi stringe la mano con la sua destra, enorme, e parlottiamo del più e del meno. So che suoneranno il giorno dopo a Genova e mi faccio vanto dei miei modesti natali. Lui si illumina e mi dice: “Pesto!”, e poi si finisce a parlare di caruggi e di Beppe Gambetta, il chitarrista flatpicking genovese che qui da noi è pressoché sconosciuto ma in USA è un nome importante. Lo lascio perché la band deve mangiare. Sul palco, come dei profughi. Approccio la press agent che ha qualche ossessione burocratica: pur essendo uno davanti all’altra, vuole che gli faccia la mia richiesta d’intervista via fax a New York. Credo di non aver capito e le dico: but… I’m here! E lei, imperturbabile: I need your fax, please. Vabbeh. Mi accontenterò della stretta di mano di Jorma, sai? Il concerto dura un’ora e dieci, melodico e ben suonato, ma alla fine sono un po’ saturo e mollo il colpo: i grintosi Nine Below Zero li vedrò un’altra volta, dài. (C-Side, Milano, 30/3/05)

ddv5403533 – Il tracollo clamoroso di Sex and the City, Season 6 di Aa.Vv., USA 2004
Barbara concede la visione: a dottorato concluso, pancione in crescita, Papa sepolto e trasloco in alto mare, non resta altro da fare che godersi l’ultima e definitiva serie di Sex and the City e, cautela, vi dico come va a finire, ma vi assicuro anche che non vale la pena vederlo. Pier Paolo e Nuria mi avevano effettivamente messo in guardia. Prima della visione attribuisco il loro disappunto alla mancata fruizione in versione originale, poi, a serie ultimata, devo ammettere: il capitombolo è acrobatico. Non completo, nel senso che in questa serie si trovano anche diverse cose carucce, ma ciò che manca completamente è la protagonista. Le tre comprimarie di Carrie entrano nella vita reale: Miranda è di nuovo assieme Steve, se lo sposa e va a vivere a Brooklyn; Charlotte è talmente innamorata di Harry Goldenblatt che – da WASP che era – diventa ebrea e ottiene in adozione un bimbo (cinese); Samantha sconfigge il tumore al seno e ha una fedelissima love story con un cameriere che diventa il sex symbol nazionale. Certo, c’è l’esagerazione tipica della fiction, ma tutte le comprimarie imboccano un sentiero preciso, perlomeno plausibile. E sono belle nella loro maturità. Invece, fin dal primo episodio, Carrie è drammatica: pensa alle sue Manolo Blahnik e a poco altro. Prima ha un’insignificante storia con lo scrittore Berger (si prendono e si mollano senza un perché); poi c’è un approccio impalpabile con Big (malato) e infine il salto nella fiaba, ma dell’orrore: Carrie s’innamora pazzamente di un artista, Aleksandr Petrovsky, interpretato da Michail Baryshnikov. Nella città più viva del mondo, la protagonista sceglie il più noioso e meno eccitante uomo del 16° secolo. Un ampolloso vecchiaccio che può risultare appetibile solo a una lettrice rincoglionita di Barbara Cartland. Una follia. Aggiungiamoci poi che Sara Jessica Parker è invecchiata peggio di tutte, col naso e il mento che le cascano come alla Strega Nocciola, gli occhi piccini strozzati dalle rughe e pure la ricrescita. Ma chi l’ha truccata, Boris Karloff? Insomma, in questa sesta serie viene a mancare il motore centrale: mancano il mestiere di Carrie, non hanno senso le sue scelte, è francamente insopportabile il suo carattere. Poi uno vede i credits, ricorda che la Parker è uno dei produttori, e capisce e subisce tutto. Tutta la parte finale della serie è una fiera della banalità: Carrie, da vera burina del Midwest si stufa di Parigi in una settimana “perché ha già visto due volte tutti i musei”! Poi, all’improvviso, il frignone e sensibilissimo Petrovsky diventa un egoista uomo di merda (come se Carrie fosse una generosa altruista). Passa di lì Big, e voilà, les jeux son faits!: fuga a New York e si torna al vecchio amore che, svelato il mistero, si chiama John. Speravo meglio. (Dvd; 2, 3, 8, 9, 10, 11, 12/4/05

ddv5406534 – Banalmente perfetto, When Harry Met Sally… di Rob Reiner, USA 1989
Il miglior film che Woody Allen non ha fatto negli ultimi quindici anni lo vidi la prima volta a Champoluc, da solo, dubbioso dell’insistente consiglio di Pier Paolo. Poi altre innumerevoli volte, senza averne mai abbastanza. E oggi lo rivedo con infantile piacere, godendo della lingua originale: nel genere della commedia brillante, siamo vicini alla perfezione. Oddio, non è tutto esilarante e spesso si gioca col risaputo, ma si tratta della ricetta giusta per la commedia bourgeois che ti fa ridere, ti commuove un po’ e, anche se sai benissimo che non può finir male, ti fa trepidare fino in fondo. Il riferimento ad Allen è palpabile, al limite del plagio (il riferimento a Casablanca è una strizzata d’occhio a Provaci ancora Sam, ma tutto il film sembra Io e Annie e Manhattan assieme). Però qui si tratta solo di una storia d’amore, della romance perfetta, mentre nel Woody che conta ogni film è stato un ulteriore capitolo nella costruzione dell’autobiografia esistenziale dell’uomo complessato del XX secolo. Sceneggiatura e attori in stato di grazia. Regia funzionale e scelte musicali di gusto. Bravissima New York. Meg Ryan non ha fatto altro di memorabile e oggi si barcamena, tirata e rifatta. Billy Crystal ha invece azzeccato poche cose (Analyze This). Peccato. Il dvd offre un discreto making of: How Harry Met Sally in cui Rob Reiner e Nora Ephron si bullano assai, raccontando di come i personaggi siano costruiti su di loro e bla bla. Ma è talmente riuscito il film che il compiacimento si perdona volentieri. (Dvd; 3/4/05)

ddv5405For Those About to Rock: Gov’t Mule…
Ho come la vaga impressione che dopo che mia figlia sarà nata, andare a sentire musica rock diventerà un pelino più difficile. Ma è solo un sospettuccio, eh? Comunque faccio una settimana di indigestione, concedendomi tutto ciò che il ricco menù meneghino offre. Parto il 4 aprile con i Gov’t Mule all’Alcatraz. Il trio rock blues è diretto da Warren Haynes, chitarra dei sempreverdi Allman Brothers, e si dedica al recupero di certo hard rock settantino, condito da spezie sudiste. Li ascolto dall’esordio del 1994, collezionando i loro dischi col fervore ottuso del completista, sempre incerto nel capire se mi piacciano veramente o se senta solo un debito nostalgico verso quel suono e quell’attitudine libertaria (per dire: è incoraggiata la registrazione del concerto e lo scambio libero con altri fan). E in effetti mi fracasso un po’ le palle. Haynes suona da dio però mi emoziono solo all’inizio, quando viene intonato a cappella un gospel da paura (Grin in Your Face, credo). Poi la scaletta prevede roba vecchia e nuova, con il denominatore comune della noia, seppur di fronte ad assolazzi inventivi e scintillanti. Mi illumino con due cover: 30 Days In the Hole degli Humble Pie e Maybe I’m a Leo dei Deep Purple, ma se speravo in un’epifania live totale, questa non c’è stata. O forse pensavo ad altro, boh.
ddv5407…Queen…
Il giorno dopo sono ad Assago, nella tribunetta VIP, mica cazzi. L’eccitazione è palpabile perché stanno arrivando i Queen. O quelli che si chiamano così, oggi. Ecco: come ci eravamo lasciati? Con un mastodontico concerto celebrativo a Wembley, alla memoria di uno dei più eccessivi e spettacolari frontman della storia del rock, Freddie Mercury. Era il 1992: in uno stadio stipato all’inverosimile s’erano esibiti gli aspiranti eredi alla corona ed eravamo tutti rimasti stupiti dalla viscerale interpretazione di George Michael, preoccupati ma non troppo che i Queen ripartissero con lui. Nel tempo abbiamo elaborato il lutto con ulteriori spaventi, tipo il panzuto Robbie Williams che, per un deprecabile filmetto di cappa e spada, ha blaterato We Will Rock You affiancandosi agli ineffabili Brian May (chitarra, per chi non frequenta) e Roger Taylor (batteria e grandissima voce a sua volta). Ma la musica vera, quella live? Ed ecco la risposta, temuta ma anche segretamente aspettata per tutti questi anni: i Queen tornano, senza il bassista John Deacon ma con un nuovo cantante. Nuovo per modo di dire, giacché Paul Rodgers era già calvo all’isola di Wight, nel 1970, quando conquistò il mondo con l’inno dei Free, quella All Right Now che conoscono anche i bambini grazie a uno spot pubblicitario. Adesso Paul esibisce un parrucchino impeccabile e degno di Elton John (altro pretendente al trono). In attesa che cominci la festa il pubblico si trastulla con holas a profusione, espone curiosi striscioni (“Proud to be your subjects”…eh?!) ed esulta all’arrivo, a tre metri da me, di Zucchero. Sono tutti troppo giovani per ricordarsi quando ha fatto almeno un grande album (Rispetto) e troppo ignoranti per conoscerne gli attuali ripetuti plagi. Poco lontano c’è Luzzatto Fegiz che chissà se domani firmerà sul Corsera la consueta articolessa precotta zeppa di errori. Il caso vuole che la simpatica compagnia di vecchietti inglesi sia in tour in Italia nei giorni di lutto per la morte del Papa. Roma è invasa dai fedeli e l’emergenza fa perdere la testa a Bertolaso, il capo della protezione civile: chiede che i Queen – di cui si proclama fan! – annullino i concerti oppure suonino musica sacra (!). Ovviamente i nostri eroi non cedono al ricatto cesaropapista e, prima di far deflagrare gli amplificatori, concedono un minuto di silenzio. Il pubblico obbedisce rispettosamente e, giuro, c’è parecchia gente che prega. Poi, alla prima nota di Tie Your Mother Down comincia il karaoke collettivo. Non importa granché chi canti: il concerto è una celebrazione di Freddie e del suo Mito, immortale: è lui, l’assente, che riscuote i boati più clamorosi quando sul maxischermo appare il profilo da roditore o durante Bohemian Rhapsody, che canta su nastro preregistrato. Molti critici hanno storto il naso, ma Brian May ha chiarito papale papale: “Lo facciamo per i fan e per noi”. Uno sfrenato rito pagano di condivisione della memoria, all’insegna del divertimento, cosa che ai critici sembra sfuggire sempre. La band riscuote il tributo e il pubblico ammutolisce solo quando vengono sciorinati le hit della Bad Company (altro grande gruppo cafone di Rodgers). Dei Queen si perde l’impasto di vaudeville, opera e pop, ma ne guadagna il versante hard e blueseggiante che aveva caratterizzato i primi (splendidi) album. Manca anche l’impatto scenico di Mercury: se ricordate oltraggiosi tutini in lycra scollati fino al pube, qui dovete accontentarvi di una trasgressione da pensionante in Florida: la hawaiana fuori dai calzoni di Rodgers e la camicia settecentesca abbinata a scarpe da tennis bianche di May. E anche il contorno è decisamente compassato: nel 1978, Freddie e soci offrivano ai giornalisti ospiti delle loro feste ostriche, champagne e (ehm) intrattenimento orale privato. Ora c’è quasi uno spirito chiesastico, con sacro e profano intrecciati. Ma The Show Must Go On, come cantato in maniera autoassolutoria. Il Papa è morto e così la Regina, ma questo cadavere si conserva benissimo.
(Ma voi vi ricordate quando è scomparso Freddie? Erano anni senza Internet però si sapeva delle sue condizioni: io stavo preparando l’esame di Composizione 2 – un calvario grazie a un prof ottuso come un mattone – e lavoravo a un modellino in polistirolo e poliplat di 1 metro per due ascoltando a rullo la cassetta di Live Killers, una bomba sonora se mai ce n’è una. Il 24 novembre prendo una pausa: stoppo il nastro e inavvertitamente accendo la radio che non sento mai e apprendo le news. Sad sad day). (Una settimana dopo ho preso un insultante 25 e tempo dieci minuti fuori dalla facoltà ho brutalizzato assieme a Hilda il modellino dentro un cassonetto di piazza Sarzano. Così, per dire, ma il ricordo di Mercury e di quell’esame merdoso sono legati in maniera indistricabile).
ddv5408…e Judas Priest!
Finisco la mia grande abbuffata con un concerto che più metal non si può. Al Mazda Palace, il 10 aprile arrivano i Judas Priest, complessino mai amato troppo, ma curioso. È come una festa comandata e si raduna tutta la famiglia dell’heavy. Ci sono i reduci e le matricole; c’è il maturo rocker col capello ostinatamente lungo, anche quando la fronte alta arriva sino alla nuca, a fianco del sedicenne che esibisce i primi peli e al post yuppie sotto la cui giacca batte ancora un cuore metallico. Per una sera tornano tutti kids, soli contro il mondo dei grandi, col braccio alzato e l’ugola che si arrampica verso acuti da soprano, indossando le magliette storiche di quando si era un grissino, ora deformate da pance da bevitore di birra. Ma non importa, nessuno vuole cedere l’uniforme e i colori: ecco il jeans elasticizzato alto sulla caviglia, l’Adidas da basket, il chiodo nero e, sopra, il giubbotto in denim con le immancabili pecettone degli Iron e degli AC/DC. Qualche filologo si presenta addirittura col berretto sadomaso in pelle nera, come faceva lo storico frontman dei Judas tornato finalmente all’ovile, Rob Halford, quando doveva nascondere la pelata. L’atmosfera è elettrica e gli indigeni Domine aprono, trascinando il pubblico con dei coinvolgenti “tuttinziemeeeh!”. Poi arrivano i Nostri: Halford sfoggia con eleganza cappottini a metà tra Nosferatu e lo zio Fester, sino all’apoteosi dello spolverino metallico, che sembra un lampadario uscito dal carrozziere. E dopo l’outing sessuale (è felicemente gay), ha fatto anche quello tricotico e la testa lucida consente particolari giochi di luce riflettendo i fari sul pubblico. Muovendosi tra rampe, elevatori e forconi (simbolo della band), viene snocciolato un repertorio immenso e a fianco degli inni storici anche le nuove canzoni fanno la loro porca figura. Il pubblico è in delirio, stordito da volume terremotante e parecchie lattine da mezzo litro di birra: quando le chitarre tacciono è un percussivo florilegio di rutti, non scherzo. La tribuna stampa intanto è vuota: i critici militanti sono nella bolgia a cantare. A fine concerto, Rob fa l’entratona a bordo della Harley Davidson (spenta), ma anche se le sgasate sono in playback nessuno si lamenta perché stasera, quella che si prova è purezza, integrità e anche un po’ di consapevole cialtroneria. C’è una disponibilità genuina a sognare e a lasciare i mostri là fuori. Questo è un rumoroso e divertentissimo esorcismo per sentirsi gli ultimi difensori della fede, gli unici che non si sono ancora arresi al pensiero unico, musicale e politico. (4, 5 e 10/4/05)

ddv5409535 – Ancora una volta Ho fatto splash di Maurizio Nichetti, Italia 1980
Da quando la Provincia di Milano è stata occupata dai cosacchi comunisti del PD, andare a vedere un film all’Oberdan è un piacere radical chic: proiezione corretta, pubblico educato con la mazzetta dei quotidiani sotto il braccio, visione al buio dei titoli di coda. E un programma curatissimo. Purtroppo non mi capita spesso, anche solo per criticare, ma stasera l’occasione è ghiotta: Ho fatto splash con il regista e le tre protagoniste presenti in sala. La città è attraversata da wannabe scrocconi che affollano i mondani e insulsi cocktail del Salone del Mobile, tutti vestiti da gggiovani. Io non ho dubbi: mi metto il mio camicione da boscaiolo grunge e vado all’Oberdan a ubriacarmi di cinema, con uno dei film che più ha segnato la mia infanzia. In sala convenevoli di rito e poi un documentario di Mietta Albertini sul lavoro di Nichetti. Affabulato ma interessante e si apprezza il lavoro di editing al torrenziale autore. Poi viene il momento della memoria: Luisa Morandini parla di quella felice esperienza cinematografica, lontana 25 anni. Affettuose testimonianze anche di Carlina Torta e di Angela Finocchiaro. Poi parte il film. Io sono stravolto e con un mal di testa boia, ma resisto fino alla fine, facendomi cullare da una storia che ritrovo poetica, sognante, capace di farci andare al di là dello specchio ma anche di individuare i germi consumistici che stavano aggredendo l’Italia. C’è lo spaesamento giovanile del riflusso e il potere pervasivo, ipnotico e, nel caso del protagonista, sonnifero, della televisione. Gag a ripetizione e un ritmo narrativo diverso rispetto a oggi: c’è qualche momento un po’ moscio (però forse è colpa mia: alla quarta visione e stanco morto, non sono granché attendibile) ma sono tantissimi, invece, quelli che risultano ancora fantastici; su tutti il matrimonio di Carlina col ricevimento che va in vacca, così come la disastrosa Tempesta shakespeariana messa in scena da Strehler (che “è sempre Strehler!”). Tra le comparse Gero Cardarelli, l’uomo che verrà inghiottito dal Gabibbo, e anche Manuela Blanchard, volto pubblicitario degli anni Ottanta (altra intuizione del regista) e conduttrice storica di Bim Bum Bam. Son pinzillacchere da collezionisti, lo so. A fine proiezione un saluto veloce a Luisa che mi presenta la Finocchiaro (di cui, undicenne, ero innamorato… e mi dichiaro!) e poi la metropolitana fino a casa, dove la gravida dorme il sonno dei giusti. La bimba sta arrivando, yuk yuk, e questo è un film che rivedrò con lei. (Cinema Oberdan, Milano; 13/4/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 54)

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