Accumulazione originaria – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marx e la narrazione storica tra necessità e contingenza https://www.carmillaonline.com/2023/03/13/marx-e-la-narrazione-storica-tra-necessita-e-contingenza/ Mon, 13 Mar 2023 05:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76352 di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista “si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà [...]]]> di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?” Per rispondere a questioni di tale portata l’analisi econometrica portata avanti dai tre autori è senza dubbio necessaria. Ma si può anche affermare che sia sufficiente? L’economista Roberto Romano, in un’altra recensione, dà una risposta negativa. Pur apprezzando l’analisi dei tre autori citati sulla centralizzazione, Romano sostiene la superiorità della concreta analisi storica quando si devono spiegare dinamiche complesse che non sono riconducibili ad una mera analisi economico-quantitativa, ma devono tenere conto di livelli differenti come la politica, la politica economica, la geopolitica e la geografia economica (qui). Menziono questa discussione senza voler entrare nel merito, ma solo per richiamare l’attenzione sul fatto che alcuni nodi teorici, da sempre al centro della riflessione storica di ispirazione marxiana (e non solo), non rappresentano meri arzigogoli intellettuali. Essi, infatti, riemergono con forza quando si cerca di comprendere questioni di estrema attualità e drammaticità come quelle legate alla guerra in corso. In estrema sintesi, che rapporto c’è tra la necessità strutturale e la contingenza storica, tra le strutture sociali e l’agency, tra la macrostoria e la microstoria?

Questi nodi teorici sono affrontati in modo originale da George Garcia-Quesada nel suo libro Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. Poiché abbiamo iniziato con la guerra dei nostri giorni, rimaniamo sul tema bellico riferendo quanto dice l’autore a proposito dell’analisi marxiana della guerra civile americana combattuta tra il 1861 e il 1865. In questo contesto il rivoluzionario tedesco non si limita a chiamare in causa le leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico che si esplicherebbero attraverso un processo di modernizzazione capitalistica, portata avanti dal Nord, a detrimento dell’arretrata produzione schiavistica degli stati sudisti. Anche perché quest’ultima, secondo Marx, ha natura pienamente capitalistica. Piuttosto vengono messe in evidenza due differenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico, interdipendenti ma in competizione. Negli Stati Confederati, infatti, la coltivazione per l’esportazione di cotone, tabacco, zucchero ecc. per essere remunerativa necessitava dell’utilizzo e della riproduzione su larga scala del lavoro schiavile, e di una continua espansione delle terre fertili coltivate. Data la contiguità spaziale delle due aree, il conflitto tra il Nord e il Sud era solo questione di tempo.
Dunque la spiegazione storica chiama in causa come elementi determinanti la topografia e la decrescente fertilità del suolo oltre che condizioni di natura strettamente politica e militare per definire lo scontro tra due differenti formazioni sociali. La dimensione spazio-temporale chiamata in causa si configura con riferimento alla forma-stato, ma la spiegazione ha come ultimo referente il mercato mondiale, data l’impossibilità per l’industria britannica, potenza egemone a livello globale, di sostituire nel breve periodo la produzione del cotone, bloccata dalle vicende belliche, proveniente dagli stati confederati. In sintesi la spiegazione della guerra civile si basa su una combinazione di formazioni sociali che, sebbene generalmente orientate all’accumulazione del modo di produzione capitalistico, non possono essere ridotte ad un unico meccanismo esplicativo.

Nelle righe precedenti abbiamo fatto riferimento a due differenti concetti, modo di produzione e formazione sociale, che ora andranno chiariti facendo riferimento ai differenti livelli di astrazione in cui si articola l’analisi marxiana. La fondazione del materialismo storico, secondo Garcia-Quesada, si basa su affermazioni di carattere metastorico che costituiscono la teoria dei modi di produzione (al plurale) avendo a che fare con le condizioni generali di produzione e riproduzione di tutte le società a partire dal ricambio organico tre essere umano e natura. A un livello inferiore di astrazione abbiamo la teoria di un singolo modo di produzione che, basandosi su astrazioni storicamente determinate, si articola in tendenze o meccanismi operanti in virtù di relazioni necessarie/interne. Scendendo ancora nella scala dell’astrazione abbiamo la spiegazione di una formazione sociale in cui si sintetizzano le tendenze del livello precedente con le specifiche le condizioni in cui operano. A livello massimo di concretezza storica abbiamo, infine, le congiunture.
Sul piano ontologico il modo di produzione è astratto ma reale, mentre la formazione sociale è più concreta e con più determinazioni da spiegare. A livello epistemologico il modo di produzione è un sistema chiuso e i suoi risultati sono necessari, mentre la formazione sociale è un sistema aperto e presenta un certo livello di contingenza. In altri termini lo studio del modo di produzione capitalistico è necessario ma insufficiente per l’analisi di una formazione sociale in cui prevale perché si deve tener conto delle diverse modalità attraverso cui il capitalismo si espande entrando in relazione con altri meccanismi di tipo economico, politico, ideologico ecc.
Il concetto di modo di produzione, dunque, non esaurisce la teoria della storia di Marx ma ne costituisce il necessario punto di partenza. Questo concetto, però, rimane centrale nella teoria marxiana in quanto uno specifico processo di produzione rappresenta la condizione di possibilità per tutta l’attività degli esseri umani dal momento che questi devono organizzarsi socialmente per soddisfare i propri bisogni e sopravvivere. Esso, dunque, è il grimaldello teorico per la totalizzazione, vale a dire per articolare e integrare le differenti prassi umane in un processo storico unitario sebbene mai concluso. In questo senso il concetto di modo di produzione rappresenta la discontinuità di base nella storia, organizzando ciascuna delle diverse forme di sociali sulla base dei loro principi peculiari a partire dalle interazioni tra le prassi umane e le loro condizioni materiali. Ma a questo punto sorge una domanda. Come intendere questa discontinuità dal momento che per Marx esiste una storia unica per quanto costituita da tempi non omogenei? L’unitarietà del processo storico si può riscontrare al livello più astratto dell’analisi, perché esistono condizioni comuni, metastoriche per la riproduzione di ogni società. Ma la ritroviamo anche analizzando il capitalismo perché si tratta del primo modo di produzione che, per il suo intrinseco dinamismo, è portato a espandersi a livello globale.

Insomma, con il capitalismo abbiamo per la prima volta una storia mondiale tendenzialmente unificata. Secondo Garcia-Quesada, Marx, solo in un primo momento, concettualizza questa tendenza nei termini di una teoria stadiale dello sviluppo storico:  l’espansione capitalistica, in qualità di stadio più avanzato, impone una singola totalizzazione spazio-temporale sulla molteplicità spazio-temporali delle coeve società caratterizzate da modi di produzione meno produttivi. In breve, lo stadio più avanzato è destinato a sostituire in toto quelli più arretrati in un processo che può essere concepito come un predeterminato schema di evoluzione. A partire dai Grundrisse, però, Marx articola una concezione diversa: il modo di produzione più produttivo non elimina necessariamente gli altri, ma crea diverse formazioni sociali sotto un meccanismo dominante, l’accumulazione capitalistica, che subordina e, nel caso, rifunzionalizza le forme sociali pregresse. Da ciò deriva, da una parte, la possibilità di delineare una concezione multilineare della storia, dall’altra, la capacità di rendere visibili diversi tipi di oppressione e sfruttamento. Questa concezione si è articolata e consolidata attraverso l’approccio teorico e politico di Marx ai paesi non europei. Un approccio che ha tra i suoi esiti più rilevanti l’ipotesi di una via russa al socialismo senza un passaggio preliminare attraverso un compiuto sviluppo capitalistico.
Ripetiamolo in altro modo: la dinamica capitalistica tende verso una totalizzazione dello spazio mondiale, ma quest’ultimo assume caratteristiche contraddittorie perché contraddistinto da uno sviluppo diseguale e combinato. Lo spazio-tempo capitalistico sussume ma non annulla la molteplicità delle configurazioni spazio-temporali presenti sul globo. Qui il tempo e lo spazio, come si può intuire dal titolo del libro di Garcia-Quesada, devono essere intesi come forme sociali storicamente mutevoli, vale a dire prodotti della prassi umana che organizzano i differenti processi sociali e che, nella loro inscindibile ma variabile relazione, definiscono le coordinate di ciascuna configurazione storica. Nonostante l’inseparabilità di queste due dimensioni, Marx utilizza modelli prevalentemente spaziali per descrivere le società precapitalistiche, con particolare riferimento al rapporto tra città e campagna. La dimensione temporale non scompare ma è messa in secondo piano perché questi tipi di società sono caratterizzati dalla longue-durée. La forte stabilità è una loro caratteristica essenziale. Il capitalismo è invece concettualizzato da Marx prevalentemente in termini temporali, caratterizzato come è dall’annichilimento dello spazio da parte del tempo. La separazione dello spazio dal tempo è però il portato dello stesso sviluppo capitalistico. È possibile pensare un processo sociale in termini esclusivamente temporali a patto di presupporre implicitamente uno spazio con caratteristiche costanti. Uno spazio, cioè, astratto, globale e mercificato in cui prevale la dimensione urbana. 

Abbiamo fin qui visto l’importanza delle configurazioni spazio-tempo a livello teorico ed epistemologico. Ma c’è un altro aspetto che emerge leggendo Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. La rilevanza di queste configurazioni da un punto di vista narrativo. Nel raccontare la storia della Comune, per esempio, Marx, ricorre a uno slittamento nella scala della periodizzazione che permette una sorta di happy ending. Se ci si fermasse al breve periodo, alla congiuntura, la narrazione diventerebbe semplicemente tragica in considerazione del massacro dei comunardi. Ma su una scala temporale (e spaziale) più ampia possiamo prevedere la vittoria del proletariato. Questo slittamento ha una spiegazione politica, perché serve a motivare la prosecuzione della lotta. Al tempo stesso non si tratta di una scelta arbitraria dal momento che è possibile giustificarla sulla base della teoria marxiana la quale consente di affermare che i meccanismi generativi della lotta di classe non finiscono di operare nonostante la sanguinosa sconfitta della Comune.
La storiografia ha dunque degli aspetti narrativi che la accomunano alla fiction. Tuttavia, sottolinea Garcia-Quesada, questo terreno comune non dissolve la differenza tra i due generi e la loro specifica relazione con la realtà. Detto altrimenti, formulare un cronotopo – termine ispirato all’opera di Michail Bachtin che sta per configurazione spazio-temporale – significa per Marx articolare attraverso una narrazione il livello cognitivo, quello politico e quello estetico, anche se è il primo a prevalere perché la funzione principale in una storiografia realista è quella di dar conto dei meccanismi all’opera nel processo storico. Rimane il fatto che i cronotopi marxiani comportano sempre uno schieramento politico perché sono strutturati sulla base del conflitto descrivendo relazioni sociali diseguali con l’accumulazione del capitale come ultimo background di tutti i processi. Il resoconto marxiano della “cosiddetta accumulazione originaria”, per utilizzare un altro esempio tratto dal libro recensito, è una spiegazione narrativa che può essere formulata solo rendendo visibile il punto di vista degli espropriati, una spiegazione critica che approccia la totalità sociale dal suo lato nascosto e che implica una presa di posizione nella battaglia per la memoria.
Marx, a proposito del Capitale, parla della necessità di tenere distinti il metodo della ricerca da quello della esposizione (Darstellung) dei suoi risultati, consapevole del rischio di fare apparire l’esposizione stessa, anche in considerazione della sua articolazione dialettica, come una costruzione a priori. Ma con ciò, sostiene Garcia-Quesada, il filosofo tedesco si riferisce alla teoria del modo di produzione e dunque al livello dei sistemi chiusi. La narrazione rende invece conto della contingenza che inerisce ai sistemi aperti, cioè alle formazioni sociali e alle congiunture. La narrazione necessariamente completa l’esposizione, marxianamente intesa, al fine di spiegare la storia effettiva, collegando la microstoria con la macrostoria e, in questo modo, l’agency con le strutture e i meccanismi oggettivi che, a vari livelli, operano nelle diverse configurazioni spazio-temporali. Questi meccanismi, a loro volta, contribuiscono a definire la modalità narrativa più adatta alle società contemporanee. Se il capitalismo è il modo di produzione totalizzante per eccellenza, per descriverlo sarà necessario utilizzare un racconto a sua volta totalizzante ma, al tempo stesso, data la varietà delle forme sociali in cui esso domina, capace di fare affidamento su diverse sottotrame intrecciate in una narrazione multilineare.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Secondo Garcia-Quesada, la dimensione episodica, che può essere catturata solo attraverso la narrazione, è quella che introduce la discontinuità nello spazio-tempo definito dalla narrazione stessa, indicando le possibili trasformazioni della dimensione strutturale e, in questo modo, un momento riconfigurativo che appare nella storia. Una considerazione di cui varrà la pena tener conto anche quando affrontiamo le questioni inerenti alla guerra in corso. Attraverso le attuali vicende belliche, infatti, si manifesta una tendenza verso il baratro che apparirebbe assolutamente ineluttabile qualora ci limitassimo a svelare il dispiegarsi delle leggi generali dell’accumulazione capitalistica.

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Eccedenze produttive: per un’analisi marxista dell’autoritarismo pandemico e di guerra https://www.carmillaonline.com/2022/05/14/eccedenze-produttive-per-unanalisi-marxista-dellautoritarismo-pandemico-e-di-guerra/ Sat, 14 May 2022 21:55:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71959 di Nico Maccentelli

Prologo

La società dello scambio (valore di scambio) nel passaggio al dispositivo o pass che discrimina, seleziona, divide e e gerarchizza il corpo sociale aggredisce ed elimina quella conquista fondamentale, nata con le rivoluzioni della seconda metà del millennio scorso, in cui prendeva corpo il diritto universale dell’essere umano a essere uguale davanti alla legge e ai diritti più elementari, affrancato cioè dalla subalternità verso i nobiili, ma anche da quella pervasività nscente mercantile (mercatista) propria del capitalismo e che tendenzialmente non conosce limiti. I limiti erano stati posti [...]]]> di Nico Maccentelli

Prologo

La società dello scambio (valore di scambio) nel passaggio al dispositivo o pass che discrimina, seleziona, divide e e gerarchizza il corpo sociale aggredisce ed elimina quella conquista fondamentale, nata con le rivoluzioni della seconda metà del millennio scorso, in cui prendeva corpo il diritto universale dell’essere umano a essere uguale davanti alla legge e ai diritti più elementari, affrancato cioè dalla subalternità verso i nobiili, ma anche da quella pervasività nscente mercantile (mercatista) propria del capitalismo e che tendenzialmente non conosce limiti. I limiti erano stati posti dalla forza materiale delle classi popolari che si ergevano a rompere le catene dello sfruttamento della servitù della gleba, divenendo cittadini da sudditi che erano stati. Or bene il processo che si compie oggi è esattamente l’inverso e nello scambio diritti per comportamento la società dello scambio totale arriva a permeare l’intero corpo sociale, le istituzioni, divenendo società disciplinare e del controllo. Il citoyen torna suddito, non più di un re per virtù divina, ma di sua maestà le capital in virtù della sua potenza, non più di una classe nobiliare per titoli, ma di un’oligarchia per censo.

In questo intervento tratterò di ECCEDENZE PRODUTTIVE. Infatti, alla faccia di chi in tutti questi mesi ha cercato di scollegare l’emergenza vaccinale e le restrizioni culminate nel green pass come una sorta di necessità dovuta alla pandemia, non ha capito proprio nulla dei dispositivi messi in atto dal capitalismo e delle nuove forme di fascismo biopolitico finalizzate al controllo sociale e al disciplinamento della popolazione per mezzo della discriminazione, del ricatto e della trasformazione dei più elementari diritti come persino il lavoro (che solo diritto non è ma necessità per sopravvivere) in premi sulla base dei comportamenti.

ECCEDENZE PRODUTTIVE dicevo, sì perché la storia del capitalismo della sua riproduzione sociale, ossia dei suoi processi di riproduzione della società è fatta di eccedenze produttive, ossia di una massa di forza lavoro eccedente che, proprio perché eccedente, fa entra in concorrenza i lavoratori tra loro e abbassa così il potere contrattuale. Dunque una forza-lavoro il cui costo e condizioni di lavoro e di vita si abbassano in funzione dei profitti del capitale. Per questo questa storia è storia della lotta di classe, di contesa tra borghesie e capitalismo da un parte e proletariato e masse popolari subalterne dall’altra sulla ripartizione della ricchezza sociale.

Le ECCEDENZE PRODUTTIVE pertengono ciò che determina profitto, salario e condizioni di lavoro, ossia il potere contrattuale della forza-lavoro. Ma più in generle, se consideriamo il salario come attuale, differito e indiretto, il conflitto tra classi sociali riguarda anche la ripartizione della richezza sociale, quanto cioè diviene reddito e servizi e quanto rendita. Tutta la lotta di classe si basa su questa contesa, determinando i rapporti di forza tra classi, gruppi sociali, sino a raggiungere una dimensione politica nella coscienza e nell’organizzazione di classe e divenire lotta per il potere politico, nell’intera società. Tale dimensione informa la classe da classe in sé a classe per sé.

Le eccedenze produttive in ultima analisi allontanano i mezzi di produzione dall’appropriazione sociale, collettiva. dalla loro gestione popolare socialista. Non è solo un fatto contrattuale. Ciò contrasta la necessaria socializzazione epocale dei mezzi che riproducono la società.

Ecco allora cosa sta alla base di questa torsione autoritaria che abbiamo vissuto con l’avvio della fase pandemica da covid-19, fino al passaggio dei conflitti intercapitalistici su scala internazionale da tendenza alla guerra imperialista a guerra vera e propria tra NATO e Russia verso il terzo conflitto mondiale, anche se ancora camuffata da guerra Ucraina-Russia. 

Ma se partiamo dall’avvio del tentativo egemonico delle élite mondialiste atlantiste avviato con la pandemia, quella che viene chiamata impropriamente “dittatura sanitaria”, non è altro che la dittatura del capitale su ogni ambito sociale. Il ricatto, le restrizioni, l’esautoramento delle vecchie democrazie borghesi, ritenute inadeguate dai poteri forti della Trilateral e del Bilderberg già qualche decennio fa, questo combinato bio-autoritario, consente di condurre con successo sia una guerra interna che annichilisce i settori sociali in una sorta di controrivoluzione preventiva a tenaglia: istituzioni, partiti di regime, sanità privatizzata di fatto e media mainstream, che una guerra esterna nella crisi strutturale di capitale che già dalla fine del secolo scorso attanaglia il capitalismo costringendolo a cure non risolutive. 

Le eccedenze produttive di capitale fisso e quelle di capitale variabile, ossia mezzi di produzione e forza-lavoro eccedenti in questo passaggio possono venire distrutte per la terza volta (guerra imperialista) nel tentativo di effettuare una “demolizione assistita”, una guerra glocal, ossia globale ma circoscritta al nostro continente.

Ma vediamone i vari passaggi.

Non sappiamo e forse non sapremo mai se questa pandemia sia stata voluta e creata da circoli ristretti a guida statunitense delle classi dirigenti a livello mondiale. Ma quello che ormai possiamo dare per assodato è che l’uso che il capitale monopolistico finanziario e i suoi esecutivi hanno fatto di questa pandemia è stato in direzione di una grande ristrutturazione capitalistica che non ha coinvolto solo le catene del valore, la produzione e la circolazione del capitale, ma i rapporti sociali stessi in un cambiamento antropologico devastante.

Concentrazione di capitali, assoggettamento delle economie locali alle filiere delle multinazionali (la cd amazonizzazione), vedi i lockdown e le regole paranaziste sull’economia di prossimità, sono gli elementi fondativi di una nuova società irrigimentata alla pura logica del profitto dei grandi gruppi finanziari e multinazionali.

In questo processo autoritario di vera e propria guerra sociale interna, tutte le tecniche per gestire con efficacia un esercito industriale di riserva e precario si sono condensate nell’avvio di un dispositivo interoperativo con il quale il comando capitalista potrà decidere come usarlo e quando per concedere diritti o toglierli, selezionare, discriminare: aspetto essenziale per mettere in concorrenza la forza-lavoro, ricattarla per renderla sempre più flessibile e creare un mondo dove persino i bisogni primari diventano un optional, ossia condizionati allo scambio diritti e servizi per comportamenti. Mi riferisco a quello che Osvaldo Costantini in un recente e mirabile intervento su Carmillaonline definisce: «creazioni di differenze all’interno del corpo proletario mediante la gerarchie delle cittadinanze» e ancora specificando: «… il bisogno costante del capitalismo di creare un sistema a geometria variabile che produca una gerarchia sociale nella popolazione, in modo da estrarre plusvalore dalla diversità» e «Una sostanziale e continua operazione di creazione di barriere all’esercizio di diritti e al mantenimento degli status che, seguendo David Harvey, possiamo notare onde svelare la diffusa abitudine del capitalismo a prosperare sulla produzione della differenza»(1)

Dunque le eccedenze produttive, che da sempre il capitale gestisce per abbassare i salari e intensifcare lo sfruttamento, in Italia sin dal pacchetto Treu fino al renziano jobsact, giocano un ruolo fondamentale in questo avvio dell’autoritarismo bio-politico e ipertecnologico. Se da una parte infatti, si attacca il piccolo capitale imprenditoriale, il lavoro autonomo con le restrizioni, dall’altra si annichilisce ogni possibilità rivendicativa e di ricomposizione politico-sindacale del proletariato combinando in un mix devastante per il corpo sociale e operaio dispositivi ben collaudati di scomposizione delle soggettività con quelli nuovi utilizzati con la pandemia.

Il green pass, che oggi si chiama così, domani avrà altri nomi con altre modalità di controllo premiale o sanzionatorio, ha fatto da apripista verso il dispositivo interoperativo. Mentre schiere di illustri marxisti, una vasta compagneria non capiva neppure quanto fosse necessario e vitale difendere i milioni di lavoratrici e lavoratori messi a casa senza stipendio perché non volevano vaccinarsi. Il tutto nel nome di una necessità emergenziale completamente gestita dal capitale: dalle cure negate per imporre alla popolazione i sieri, ai megaprofitti.

Questo dispositivo interoperativo che potrà decidere se puoi avere un alloggio o te ne devi andare come sta sperimentando l’ACER di Fidenza dopo aver azzerato il punteggio, o se meriti un premio perché non hai avuto multe, come sta sperimentando il comune di Bologna con un inizio soft, è l’espressione più sofisticata di gestione delle eccedenze produttive, in grado di colpire ed emarginare chi si oppone e disobbedisce, in grado quindi di imporre la pax del capitale anche per la sua guerra imperialista, anche per la guerra esterna: la guerra interna in funzione della guerra esterna.

Ma di più: in un’era in cui il capitalismo si rivela pura accumulazione per il profitto, senza alcuna funzione positiva per l’umanità che diviene secondaria se non azzerata, le spinte conflittuali e le tensioni sociali vanno preventivamente contrastate. Questo dispositivo interoperativo separa ancora di più i mezzi di produzione, della riproduzione sociale, dalla forza-lavoro, già prima menzionati, poiché aumenta notevolmente il potere del capitale sui lavoratori e nella società in genere, aggiungendosi come dispositivo di comando a quelli già utilizzati sulle eccedenze produttive in tempi normali.

Come vedete l’approccio che abbiamo dato alla nostra scelta di sostenere e lottare con il movimento contro il green pass e l’obbligo terapeutico è tutt’altro che una scelta circoscritta alla dimensione sanitaria.

Questa ristrutturazione sociale, sul piano marxista, è paragonabile all’accumulazione originaria descritta da Marx nelle enclosure del capitalismo pre-industriale, in cui la terra veniva alienata ai contadini che si inurbavano trasformandosi in forza-lavoro, formando una sovrappopolazione sempre più ricattabile in quanto già da allora eccedenza produttiva. Una massa di forza-lavoro eccedente per questa ristrutturazione digitale e delle filiere andrà a peggiorare il potere contrattuale dei lavoratori e la miseria sociale sempre più dilagante. Se prima avevamo “semplicemente” le delocalizzazioni e la progressiva espulsione dai cicli produttivi di manodopera nell’aumento del capitale fisso, oggi la devastazione delle piccole e medie imprese a favore dell’amazonizzazione, della concentrazione dei capitali nella catena del valore, rappresenta uno scarto epocale avviato con la gestione capitalistica di questa pandemia.

Sempre Osvaldo Costantini osserva:«uno dei pilastri del capitale è la sottrazione di autonomia delle popolazioni nell’accesso ai mezzi di sussistenza, più precisamente la separazione tra la forza lavoro e i mezzi di produzione; una operazione mediante la quale la forza lavoro è trasformata in merce tra le merci. Brutalmente riassunta in questo modo la famosa accumulazione originaria di Marx, su di essa va costruita la necessaria riflessione che tale processo sembra essere in costante e continuo funzionamento all’interno dello stesso controllo capitalistico della riproduzione sociale (più o meno la tesi di David Harvey della accumulazione per spossessamento)» (2)

E ancora Marx sulla classe operaia inglese e le contraddizioni con quella migrante irlandese (3) con criteri di gerarchia e divisione nei diritti, nelle paghe, nel lavoro stesso, ma soprattutto di divisione per imperare. Come non leggere infatti, la diversa scelta fatta in materia di vaccinazioni e di accesso con il green pass allavoro stesso, se non una grande divisione capitalistica tra lavoratori e nel sociale tra la stessa popolazione a partire dai settori più disagiati e subalterni?

Le tecniche di controllo della produzione, di determinazione dei costi della forza-lavoro li abbiamo già visti attraverso l’attacco ai bisogni e ai diritti delle parti più deboli del proletariato. Come il diritto di cittadinanza e il relativo permesso di soggiorno per i migranti quale strumento di gestione del mercato del lavoro con l’immissione di forza-lavoro a basso costo, creando precarietà diffusa, divisione nella classe su basi razziali, zero diritti sul lavoro e bassi costi di produzione. Aspetto che i vari sovranisti non hanno compreso proseguendo con questa divisione oscena tra autoctoni e migranti, quando invece è l’unità di tutti i lavoratori salariati e precari a essere il centro di un’opposizione anticapitalista.

Stessa logica del green pass è il decreto Lupi che attacca il diritto all’abitare, attaccando quei comportamenti trasgressivi che puntano alla riappropriazione di condizioni di vita minimali attraverso le occupazioni abitative. La tecnologia digitale, biometrica, la concentrazione dei dispositivi di controllo in un unico dispositivo interoperativo, riassume tutte queste esperienze biofasciste, creando giorno dopo un giorno un grande frankenstein foucaultiano che trasforma le istituzioni e le relazioni sociali stesse in istituzioni totali, governate non dall’essere umano, ma da tecnomacchine, computer, reti di dati, algoritmi che determinano cosa puoi o non puoi fare in base a parametri di volta in volta prefissati. Detto per inciso, il credito sociale cinese, sul quale non mi dilungo, è un’esperienza all’avanguardia per il comando del capitale sulla forza-lavoro e sul controllo sociale della popolazione, che ci fa dire che non è questo il socialismo che vogliamo.

Questa chiave di lettura sostanzialmente materialistico-dialettica, ci porta a vedere i movimenti reali che hanno fatto irruzione nella società in opposizione a questi dispositivi di controllo e discriminatori in due anni di restrizione, come elementi di un’autonomia popolare, operaia. Nella lotta dei portuali di Trieste non abbiamo visto i santini e i rosari, ossia il sostrato culturale che permea la classe da decenni di subordinazione al mainstream e alla religione, ma il tentativo di esercitare rigidità di classe, incidendo in un ganglio vitale della catena del valore del capitale: la circolazione delle merci.

La sovraneria vede solo gli interessi degli autoctoni e rappresenta un’opzione nazionalista, mentre non sono gli interessi corporativi, non sono i confini e le culture, le etnie a essere elemento dirimente questa contraddizione che è di classe e non nazionale, bensì internazionalista e meticcia, da campi di Foggia a Parigi, dai riot di Amburgo a Manchester, a Lisbona.

Invece la compagneria vede le schifose discriminazioni sui migranti ma non quelle su milioni di lavoratori messi a casa senza stipendio, vede le lotte della logistica, ma solo quelle che non mettono in discussione la sua credenza quasi religiosa su una scienza neutra, su un scientismo fideistico, un ossimoro. Quindi ecco le distanze dalla lotta dei portali triestini, quasi fossero degli ammorbati, che di già sarebbero no vax, no?

Invece di lavorare politicamente nei movimenti per come essi si presentano si fa del facile sociologismo: quelli sono fascisti, terrapiattisti, oscurantisti e via dicendo. Per questo l’assemblea antifascista contro il green pass, forse per intuito e necessità di liberazione più che per analisi, ha saputo andare oltre questi pregiudizi che stanno ammazzando la sinistra di classe. Il suicidio finale di chi da anni non esce dal suo guscio autoreferenziale.

È per questo che oggi, il controllo sulla popolazione accumulato con l’esercizio dispotico delle restrizioni con la censura e la propaganda dei media di regime, e con l’ignavia complice delle forze politiche che si dicono d’opposizione, la guerra interna per ora vinta serve quella esterna con le medesime pratiche di criminalizzazione del paria: dal no vax al filo-putin. E l’opposizione contro la guerra ha un vulnus nell’incomprensione di questi due anni di attacco autoritario, di stravolgimento della convivenza civile, dei diritti nati con i citoyen del 1789.

Senza lotta alla gestione autoritaria e ai dispositivi di comando come il green pass, non può esservi una reale lotta contro la guerra. Senza la disobbedienza e il boicottaggio per riappropriarci della nostra vita sociale non ci può essere diserzione dalle logiche della guerra. Le liturgie del comando sono le medesime. Non si può fare una lotta a metà, glissando su uno degli aspetti costitutivi oggi del dominio capitalistico sui lavoratori e sulla società.

Unità popolare contro il capitalismo biofascista, e guerrafondaio significa questo.

In definitiva l’eccedenza produttiva, l’eccesso di forza lavoro è la condizione strutturale del rapporto capitale/lavoro, su cui si articola poi un reticolo di dispositivi che selezionano, gerarchizzano, sanzionano, premiano, escludono o includono. 

Ma le eccedenze produttive sono anche destinate al macello della guerra. Ossia lo sbocco alla crisi del capitalismo. Sono fattore fondamentale nella gestione autoritaria della pandemia ai fini del comando sulla forza-lavoro e nel contempo possono essere “smaltite” nella guerra che oggi può estendersi a tutto il continente con armi nucleari tattiche.

Con l’avvento dell’autoritarismo biopolitico, della sorveglianza e del controllo sociale le eccedenze produttive, articolate in una massa precaria, precarizzata, vanno schiacciate con un sistema interoperativo ad algoritmi che decide automaticamente chi e cosa in base ai comportamenti. I centri di comando del capitalismo, dei suoi apparati statali definiscono i criteri e le modalità del controllo e della selezione sulla massa precaria e in generale, precarizzando e gerarchizzando ancora di più il corpo sociale. Poi il dispositivo interoperativo opera con un “pilota automatico”, formattato sugli obiettivi da conseguire. Che una prassi luddista post-industriale e anti-transumanista diventi l’espressione della resistenza popolare collettiva (e individuale nelle circostanze di vita di ognuno) al processo di irrigimentazione e macchinizzazione del corpo sociale? È questa forse l’espressione conflittuale dell’autonomia di classe in un mondo-capitale totalmente dominato dalla digitalizzazione delle relazioni umane? Sono queste le “gocce di sole nella città degli spettri”, per parafrasare un’opera scritta da Curcio nelle carceri speciali?

Ho dunque accennato che nell’analisi marxista in generale il capitalismo risponde alle sue crisi economiche di sovrapproduzione o sovraccumulazione con la guerra, ossia con la distruzione di capitale eccedente: impianti, infrastrutture e forza-lavoro. C’è il rischio molto forte che la gestione delle eccedenze produttive sul fronte europeo si traduca in un ridimensionamento delle eccedenze produttive stesse, in particolare del nemico, ma anche degli alleati da parte del paese imperialista dominante, ossia gli USA e con essi la Gran Bretagna, quella che viene definita l’anglosfera. Ma per il capitalismo occidentale a guida USA, per la NATO che ne è suo strumento di comando sull’intero blocco di paesi imperialisti, il nemico, ovvero il competitore, qual è? 

Il nemico per gli USA-NATO è di fatto duplice: l’Europa da una parte e la Russia dall’altra. L’entità europea per gli USA e la Gran Bretagna (ecco spiegata una delle ragioni dell Brexit…) non deve infatti unirsi in un polo euroasiatico economico-sociale che riassuma Russia ed Europa insieme, fatto di mercati, impianti e infrastrutture a tecnologia avanzata, risorse energetiche e funzionali alle nuove tecnologie: ciò sarebbe un grave problema per gli USA in quanto sarebbero in presenza di un gigantesco player affacciato tra l’altro sui mercati asiatici. La vera partita si gioca per questa contesa, che gli europei non stanno affrontando nel giusto modo, ponendo un freno alla strategia bellica del dividi et impera degli USA. 

Gli esecutivi dell’UE sono in diversi modi tutti assoggettati alla politica di Washington, che detta legge, che determina i tempi e i modi dell’azione bellica, disattivando ogni possibilità diplomatica con la Russia. Sul piano geostrategico un conflitto che divida la Russia dal resto dell’Europa per gli USA è un toccasana. E la guerra in Europa con mezzi nucleari tattici e limitati al solo continente europeo, non è un’ipotesi peregrina. Gli esecutivi vassalli sottostanno a questa strategia che nella migliore delle ipotesi distrugge l’Europa con un’economia di guerra lunga degli anni e nella peggiore fa leva sul fatto che la Russia e la NATO impieghino mezzi nucleari tattici in una guerra “glocal” limitando la distruzione al solo continente europeo. 

Ecco il perché di un dominio autoritario. Prima educhi all’obbedienza le masse, ritardando i tempi della giusta e ovvia rivolta sociale… e poi le distruggi al momento giusto evitando la rivolta generalizzata, tensioni sociali che superino il livello di guardia. Ecco perché è un imperativo mobilitarci contro la guerra imperialista e contro la NATO che ci sta portando alla miseria dilagante se non al disastro di una guerra su vasta scala. È una strategia che va attaccata rispondendo colpo su colpo, con la lotta e l’organizazione autonoma di classe, alla guerra sociale interna che ci stanno facendo senza avercela dichiarata. Dobbiamo metterci in queste condizioni, non ci sono altre vie.


 

Note

  1. Osvaldo Costantini, Pandemia, stato, capitale, Qualche bilancio
  2. Ibidem
  3. Lettera di Marx a Sigfried Meyer e August Vogt, Marx, 9 aprile 1970
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Contro l’unilaterale racconto della modernità https://www.carmillaonline.com/2018/09/27/contro-lunilaterale-racconto-della-modernita/ Wed, 26 Sep 2018 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48746 di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo e dei rapporti di produzione/sopraffazione di stampo occidentale.

La figura e l’azione dell’intellettuale originario della Martinica hanno infatti influenzato non soltanto i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa e di quello che un tempo veniva definito, con un termine che derivava ancora da uno schema classificatorio figlio della concezione di progresso tipica dell’Occidente conquistatore, Terzo Mondo e dei suoi leader . Non solo ha influenzato Che Guevara e il Black Panther Party, ma anche, guardando con più attenzione, l’opera successiva di Michel Foucault oppure il radicalismo di una intellettuale e militante come Houria Bouteldja (qui).

Le sue opere principali,1 scritte sostanzialmente nel decennio 1951- 1961 e pubblicate in gran parte dopo la sua morte per leucemia, sono ancora di grandissima attualità e utilità, soprattutto per chi voglia adoperare e applicare nelle proprie ricerche il concetto di post-moderno così come è stato definito da Jean-François Lyotard.

Se infatti appare sempre più evidente come le grandi narrazioni globali prodotte dall’Illuminismo, dal Positivismo e da un troppo male inteso Marxismo, che Karl Marx per primo avrebbe rigettato, siano sempre meno adeguate per spiegare e ricostruire le vicende che hanno portato agli attuali rapporti di potere e dominazione tra classi sociali, generi e nazioni e se è sempre più evidente come il concetto di razza e nazione siano sempre più fragili di fronte alla reale esperienza storica e alle più moderne ricerche e conferme della genetica,2 l’opera di Fanon può ancora costituire non soltanto una guida per la ricerca e per l’azione, ma anche un autentico grimaldello per scardinare troppo facili certezze e assunti che finiscono spesso per l’inquinare ancora la riflessione e il pensiero politico di un malinteso antagonismo ancora influenzato dalle teorie tardo ottocentesche. Di fatto dal liberalismo e dal razionalismo positivista di stampo borghese ed eurocentrico.

E’ per questo motivo che l’opera di Sandro Luce, pubblicato da Meltemi in una collana, Linee, che da tempo presta particolare attenzione alle ricerche prodotte dai Postcolonial Studies e da quelle degli studiosi dei Subaltern Studies, è interessante, utile e necessaria.
L’autore, dottore di ricerca presso l’Università di Salerno e autore di un saggio su Michel Foucault3 e di numerosi altri pubblicati su riviste e volumi collettanei, nella prima parte del testo sottopone il pensiero di Fanon alla “prova della modernità” mentre nella seconda analizza la sua influenza sugli studi postcoloniali aprendo una sorta di serrato confronto tra gli autori di questa corrente e le principali intuizioni e formulazioni dello stesso, in particolare sui temi dell’idea di nazione e di cultura, dell’anticolonialismo e degli intrecci tra corpi, psiche e dominio coloniale.

Quest’ultimo punto si rivela particolarmente significativo, considerato che il “vissuto”, individuale e collettivo, assume nella riflessione fanoniana una centralità decisiva. Da qui

i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio dei saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.
Fanon mette in campo una vera e propria “fenomenologia del corpo” che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva.4

Ma Fanon apre anche la riflessione su come la violenza sui corpi si accompagni ad una forse ancora più pericolosa: quella esercitata sulle culture “altre” attraverso un’assimilazione al canone europeo «per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta». Motivo per cui la lingua, il velo delle donne, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa possono diventare strumenti di rivendicazione culturale, utili a diffondere il verbo rivoluzionario proprio rovesciando e mostrando la reale funzione degli assunti di un’unilaterale narrazione della modernità, bianca e occidentale.

«Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano».5 Allo stesso tempo

l’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito.6

Questo aspetto, naturalmente, finisce col riguardare la definizione del concetto di Nazione, che rischia, una volta assunto un canone identitario “stretto”, di assumere i connotati in esso infusi dal canone europeo, con tutte le conseguenze inerenti la repressione delle minoranze o di coloro con non appartengono alle etnie o alle classi dominanti una volta raggiunta la liberazione dall’assoggettamento coloniale. Contribuendo così a diffonderne, ancora ed ancora, le sue velenose radici. Tema particolarmente importanti all’interno degli studi postcoloniali e motivo per il quale, secondo Luce:

Solo attraverso un’operazione di ‘provincializzazione’ del lessico politico-giuridico della modernità occidentale e della sua attitudine generalizzata e formalizzante, dietro le quali si nascondono inevitabili forme di gerarchizzazione ed esclusione, sarà possibile provare ad immaginare quelle […] ‘sfere pubbliche diasporiche’, crogiuoli di un ordine politico post e trans-nazionale nel quale le soggettivazioni politiche saranno l’esito, mai definitivo, di rivendicazioni e di antagonismi che nascono dalla relazione tra elementi eterogenei e da un’attività di immaginazione, che sia capace di “strappare il velo del reale” e trasformarsi in impulso per l’azione.7

A questo punto però, anche se il testo di Sandro Luce non si addentra in questo discorso, sarebbe d’uopo sottolineare che i Postcolonial Studies e le formulazioni di Fanon potrebbero costituire sicuramente anche un ottimo punto di partenza per ripercorrere la storia dello stesso Occidente e della stessa Europa in cui una mai abbastanza discussa unità culturale e cristiana nasconde, in realtà, un lungo processo di sradicamento e repressione di tutte le forme comunitarie, di tutte le culture e di tutti i modi di produzione che hanno preceduto l’avvento prima della società mercantile e del suo dominio formale e, successivamente, di quella capitalistica, industriale e finanziaria, e del suo dominio totale sulle genti, le culture e l’immaginario, Una battaglia durata secoli, iniziata molto prima dell’avvento della rivoluzione industriale e spesso liquidata troppo facilmente a ‘sinistra’ con la riduttiva formula dell’“accumulazione originaria”.

In cui il moderno concetto di nazione «colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita in linguaggio della metafora.»8 Linguaggio in cui l’idea dello Stato-nazione ha costituito la metafora più potente, per cui la violenza esercitata sui corpi e sul corpo sociale nel suo insieme ha finito col sostituire la sacralità del corpo e dei corpi (compresi quelli dei re e dei santi) con il corpo sacro e intangibile dello Stato nazionale.

In questo modo l’individuo europeo potrebbe scoprire di aver vissuto con molto anticipo i drammi vissuti successivamente dai popoli colonizzati e dati per scontati come conseguenza dell’”inevitabile” progresso e della modernità e ritrovarsi così davanti alla necessità di strapparsi anch’egli dal volto la “maschera bianca” impostagli ormai da lungo tempo. Cancellando così in un sol colpo le panzane di cui si nutrono non solo i sovranismi e i nazionalismi, ma anche i socialismi e le democrazie nazionali e contribuendo alla riscrittura di un discorso di lotte che, una volta liberato anche dagli identarismi partitici non solo parlamentari, possa realmente aprirsi ad una maggiore integrazione tra comunità, generi, etnie, culture accomunate dalla volontà/necessità di opporsi all’oppressione politica, economica e culturale odierna.
Superando in questo modo anche l’annosa questione del “soggetto rivoluzionario” per riscoprire i ‘soggetti’. In ogni angolo del mondo.
Pensiamoci.


  1. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962; F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015 e tutti gli altri scritti raccolti sia nelle opere selezionate curate da Giovanni Pirelli e raccolte in Fanon, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino 1971, che negli Scritti politici volume I. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006 e Scritti politici volume II. L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma 2007  

  2. Occorre a questo proposito qui ricordare la figura di Luigi Luca Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che con la sua ricerca sul genoma umano ha sicuramente contribuito a demolire definitivamente il concetto di “razza”, così come il colonialismo e l’imperialismo occidentali avevano contribuito a creare a partire dalla seconda metà del XVIII secolo proprio allo scopo di creare una separazione netta e un muro invalicabile tra dominatori e dominati, tra popoli bianche a popoli altri secondo una linea del colore assolutamente insignificante in Natura. Si consiglia a questo proposito la lettura o la consultazione di L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996 sintesi del ben più ampio L.L. Cavalli Sforza, A. Piazza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997  

  3. S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009  

  4. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 9-10  

  5. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p.10  

  6. Ivi, p. 11  

  7. Ivi, pp. 186-187  

  8. H.K. Bhabha, I luoghi della cultura in H.K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 196 cit. in S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p. 180  

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Quando le latrine saranno d’oro https://www.carmillaonline.com/2017/07/28/quando-le-latrine-saranno-doro/ Thu, 27 Jul 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39712 di Luca Cangianti

Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00.

“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” [...]]]> di Luca Cangianti

Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00.

“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” Gli scritti curati da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione si collocano all’interno di questa forbice storica: in queste pagine infatti il profilo del rivoluzionario russo è quello del padre costituente e soprattutto dello statista costretto a calare la teoria marxista in un contesto emergenziale di guerra e sottosviluppo.

Vladimiro Giacché limita il suo lavoro di selezione agli scritti economici posteriori alla Rivoluzione d’Ottobre suddividendoli in tre periodi: quello riguardante i primi sei mesi di potere sovietico, il comunismo di guerra e la Nuova politica economica (Nep). Il pensiero di Lenin nel corso di queste tre fasi subisce evoluzioni, sia a causa delle emergenze del momento che per gli esiti delle sperimentazioni cui i singoli provvedimenti economici venivano sottoposti. Nei primi scritti si affrontano: i problemi sollevati dalla legge sulla socializzazione della terra che aboliva il latifondo distribuendo i campi ai contadini; il decreto sul controllo operaio che non intaccava né il diritto di proprietà né la funzione direttiva del capitalista; la nazionalizzazione del settore bancario. Gli scritti del periodo della guerra civile si focalizzano invece sulla crisi alimentare e sulle requisizioni delle eccedenze cerealicole. Nella primavera del 1918 fu infatti vietato il commercio privato del grano e istituito il monopolio statale con acquisto a prezzo fisso. Infine i contributi che vanno dal marzo 1921 allo stesso mese del 1923 sono dedicati alla Nep che sostituì le requisizioni emergenziali – volte al sostentamento degli operai e dei soldati a danno dei contadini – con un’imposta in natura, pagata la quale si riacquistava la libertà di vendere localmente i cereali.

L’intera periodizzazione è tuttavia attraversata da un filo rosso ben definito: secondo Lenin senza lo sviluppo delle forze produttive e la conseguente crescita culturale delle masse il comunismo è impossibile. Di conseguenza la Russia postrivoluzionaria, essendo un paese sottosviluppato e devastato dalla guerra, avrebbe dovuto attraversare una serie di fasi di transizione – quali il capitalismo di Stato e il socialismo – necessarie a “preparare – con un lavoro di una lunga serie di anni – il passaggio al comunismo.” La forma di potere instaurata in Russia dopo la rivoluzione, infatti, lungi da configurarsi come socialismo o comunismo, per Lenin è solo un governo proletario gestito da comunisti che cercano le vie più efficaci per sviluppare le forze produttive. Da questo punto di vista egli consiglia l’introduzione del taylorismo, il sistema del cottimo e quello dei premi; si schiera contro l’egualitarismo retributivo e per l’utilizzo degli intellettuali borghesi: “bisogna imparare il socialismo in larga misura dai dirigenti dei trust, bisogna imparare il socialismo dai massimi organizzatori del capitalismo.”
Secondo Lenin – che in questo segue Marx – il capitalismo è il metodo più potente per sviluppare la produttività del lavoro. Il sottosviluppo russo quindi può essere superato se lo Stato proletario gestito dai comunisti riesce a sviluppare in vitro forme di capitalismo controllate dal potere politico: “Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive”. Le forme di questo capitalismo gestito e controllato dallo Stato sono le concessioni estere (che rafforzano la grande produzione di contro alla piccola), le cooperative (che facilitano la sorveglianza statale in economia e preparano il terreno al socialismo), l’intermediazione commerciale (il capitalista viene assunto dallo Stato per fare il commerciante), l’appalto di settori industriali o di appezzamenti di terra a capitalisti nazionali.
Che la soluzione del capitalismo di Stato non sia esente da pericoli è ben chiaro a Lenin: i capitalisti potrebbero avere il sopravvento, “cacceranno i comunisti, e allora sarà la fine di tutto”, oppure “il potere statale proletario” saprà “guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio”.
La garanzia del successo dell’operazione sta tutta nella soggettività dello Stato quale motore e garante del cambiamento. Ma come fanno i comunisti a dominare lo Stato se la società rimane dominata dal capitalismo? Potrebbero farlo solo se fossero un agente storico sottratto agli influssi della società. Ma che i materialisti storici siano esenti dal materialismo storico sarebbe un paradosso: mentre le forze produttive si sviluppano, l’esistenza di funzionari comunisti gestori della proprietà e di proprietari capitalisti non è una realtà che possa rimanere a lungo senza conseguenze per l’orientamento del processo rivoluzionario. Come qualsiasi gruppo sociale cercheranno di rafforzare e solidificare le proprie posizioni avendo leve di potere importanti per riuscirvi. Questo non significa condannare a priori ogni misura transitoria messa in atto da un governo rivoluzionario in condizioni d’emergenza o di sottosviluppo. Significa solo rendersi conto che, in mancanza di un processo espansivo mondiale e di una dialettica tra potere statale e autorganizzazione sociale, una società postcapitalista è soggetta a potenti pressioni degenerative, interne ed esterne.

Marx nella Critica al programma di Gotha teorizza una “prima fase” della società comunista “non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica”, ovvero portando “quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le ‘macchie’ della vecchia società dal cui seno essa è uscita”. Si tratta di una fase di socializzazione delle forze produttive e, di conseguenza, della forza lavoro: è come se il lavoratore ricevesse “dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritir[asse] dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente”. È da notare che né Marx né Engels abbiano mai chiamato questa “prima fase” socialismo, o peggio modo di produzione socialista, dandole quindi una connotazione d’autonomia. Si trattava della teorizzazione di una possibile fase transitoria precedente alla “fase più elevata della società comunista” in cui si produce tendenzialmente tutto con quantità lavorative tendenzialmente nulle, e il capitalismo è superato al livello planetario. Ora, se il proletariato giunge al potere in una fase dello sviluppo delle forze produttive troppo lontana dallo scenario posteconomico del comunismo, la transizione, lungi dall’essere una “prima fase” avrà una più alta probabilità di ossificarsi in formazioni economico-sociali dominate da una perdurante divisione di classe (es. capitalismo di Stato) o di casta (es. socialismo reale). In questi casi, specialmente se il processo rivoluzionario è confinato in un solo paese accerchiato dalla concorrenza capitalista, lo sviluppo delle forze produttive rischierà di configurarsi come un’accumulazione originaria che da un capitalismo meno sviluppato condurrà a un capitalismo più sviluppato – come del resto testimonia la storia dell’Urss.

Le rivoluzioni tuttavia scoppiano senza chiedere il permesso e senza che sia certificato il grado di sviluppo delle forze produttive. I rivoluzionari che si trovano a gestire il potere hanno il compito di trovare le strategie adeguate a sfruttare le brecce di libertà costituenti apertesi con il collasso dello status quo, possibilmente senza perdere mai il contatto con i limiti storici nei quali agiscono e senza dimenticare le lezioni dei fallimenti precedenti. Da questo punto di vista Economia della rivoluzione è un libro di storia dell’economia e del pensiero economico fondamentale. La raccolta e il lucido saggio introduttivo di Vladimiro Giacché ci consegnano infatti l’elaborazione teorica e l’azione politica con la quale Lenin pensò di colmare lo iato tra la miseria ereditata dallo zarismo e la promessa di un mondo di abbondanza. L’esito non fu quello sperato, ma il tema della transizione è destinato a ripresentarsi, come dimostrano non da ultime le esperienze dei governi progressisti latinoamericani. Ecco perché a cento anni di distanza dal 1917 i problemi economici affrontati in questo volume non perdono di attualità.

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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I mostri dell’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2016/03/14/i-mostri-dellaccumulazione-originaria/ Mon, 14 Mar 2016 22:00:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29203 di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che [...]]]> di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che abita gli schermi “sembra essere oggi lo stesso cannibale barbaro e senza regole o il mostro dalle fattezze orrende che per cinquecento anni di espansione coloniale e imperialismo occidentale è stato combattuto dall’uomo ‘del Progresso’.” Con questa chiave di lettura e con una vasta strumentazione interdisciplinare che spazia dall’antropologia culturale agli studi di genere, queer e postcoloniali, Giuliani esamina la produzione cinematografica e televisiva fantahorror seguita agli eventi dell’11 settembre 2001 per indagare le paure e le forme politiche contemporanee che si celano dietro le narrazioni della fine del mondo.

copertina_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiGià George Romero aveva rappresentato i non morti come reietti della società capitalistica che tornano per chiederci il conto; nella Terra dei morti viventi lo zombie Big Daddy acquista perfino una coscienza antagonista e una soggettività politica. In serie televisive come Les revenants e In the flesh quest’aspetto è approfondito e accompagnato da un fattore mutuato dalle nuove guerre globali: la difficoltà di confinare territorialmente il nemico. In questi esempi “democratici” s’ingenera una dialettica di conflitto e convivenza tra vivi e non morti, mentre in altre narrazioni “reazionarie” come REC o WWZ la “cattiva coscienza coloniale” ritorna per contaminare mortalmente la vita quotidiana di un condominio metropolitano o per assediare le mura delle città umane. In questi casi il rapporto tra umani e morti viventi può essere unicamente di reciproco sterminio.
Gli zombie, insomma, sono il colpo di frusta dell’accumulazione originaria descritta da Karl Marx nel Capitale. Si tratta di quella fase di genocidi, violenze efferate ed espropri di beni comuni, necessaria a creare le condizioni d’avvio del modo di produzione capitalistico. Da questo punto di vista la natura di tale violenza può ben definirsi colonialista, indipendentemente dal suo verificarsi durante la conquista delle Americhe o in un contesto nazionale come quello delle enclosures inglesi. Illustrare questo snodo teorico con la figura dello zombie è un’operazione molto riuscita di modellistica concettuale, che ricorda per potenza euristica l’uso marxiano del vampiro come metafora sostanziale del plusvalore.

La figura dell’alieno è utilizzata dall’autrice per indagare il rapporto tra le società occidentali e l’alterità migrante. Il tentativo di far convivere gruppi culturalmente diversi di persone, senza contatto e reciproca dialettica, entra in crisi con gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, perché normalmente i gruppi sociali sono gerarchicamente ordinati e in competizione tra loro. In questo modo, la pari dignità dei gruppi sociali, come per tutte le forme astratte di uguaglianza, si rivela essere un modo per ribadire le forme esistenti di dominio. Il multiculturalismo così “non sarebbe stato per anni che un nuovo dispositivo ideologico in grado di democratizzare e ribadire, sotto nuove spoglie e per mezzo di inediti meccanismi, i vecchi metodi di gestione delle differenze”. Dalla crisi di tale politica nascono varie alternative di relazione con l’Altro: quella della segregazione descritta in District 9, quella dell’eliminazione illustrata nella Guerra dei mondi e in The Mist, quella dell’assimilazione per l’utilizzo dell’Altro nei lavori usuranti come in Moon e quello della convivenza, rappresentata nella scena finale di Monsters. Qui assistiamo a un’effusione affettiva tra piovre extraterrestri, che se non molestate possono vivere pacificamente accanto agli insediamenti umani.

Infine Giuliani passa in rassegna alcuni film come E venne il giorno, Cecità, The Impossible, Melancholia, Codice 46 e Upside down illustrando l’immaginario reazionario che si nasconde dietro lo scenario di “disastro permanente” inaugurato con l’11 settembre. Le fantasie dominanti che emergono sono quelle della restaurazione del soggetto mainstream, dell’eliminazione eugenetica degli elementi “inferiori” e della ricostruzione della comunità a partire dalla situazione emergenziale – tutti elementi, questi, che ritroviamo nella pratica politica contemporanea.

Zombie, alieni e mutanti è un saggio di spessore accademico che attraverso le figure orrifiche della recente produzione cinematografica indaga con profondità i legami sociali, valoriali e affettivi delle comunità umane. Da questo punto di vista s’inserisce nel dibattito degli studi culturali e postcoloniali, fornendo al contempo al più vasto pubblico degli appassionati di fantahorror nuovi e inaspettati spunti di riflessione.

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Il sacco d’oro e lo sviluppo ecuadoriano https://www.carmillaonline.com/2015/01/03/sacco-doro-sviluppo-ecuadoriano/ Fri, 02 Jan 2015 23:01:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19853 di Luca Cangianti

Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera, Jaka Book, 2014, pp. 116, € 12,00

2014 01 03 formenti magia bianca magia nera “Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente”. L’affermazione di Alberto Acosta, presidente dell’assemblea costituente ecuadoriana, riguarda l’attuale governo del paese andino ed è contenuta nel reportage storico-giornalistico di Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera. Da quando è stato avviato il processo politico della Revolución ciudadana, capeggiata dall’attuale presidente della repubblica Rafael Correa, l’Ecuador è stato investito da un consistente sviluppo economico che ha migliorato le [...]]]> di Luca Cangianti

Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera, Jaka Book, 2014, pp. 116, € 12,00

2014 01 03 formenti magia bianca magia nera “Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente”. L’affermazione di Alberto Acosta, presidente dell’assemblea costituente ecuadoriana, riguarda l’attuale governo del paese andino ed è contenuta nel reportage storico-giornalistico di Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera. Da quando è stato avviato il processo politico della Revolución ciudadana, capeggiata dall’attuale presidente della repubblica Rafael Correa, l’Ecuador è stato investito da un consistente sviluppo economico che ha migliorato le condizioni di vita degli strati popolari. Acosta precisa tuttavia: “Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, né, tantomeno, si sta costruendo qualcosa che possa essere definito socialismo del XXI secolo; nella migliore delle ipotesi, lo possiamo definire un regime post neoliberale, certamente non post capitalista.”

Il libro di Formenti fornisce alcuni spunti informativi e di riflessione, utili a chi voglia approfondire gli esperimenti politici bolivariani in corso in vari paesi dell’America Latina. Nella prima parte del libro sono riassunti i principali avvenimenti della storia ecuadoriana dagli anni ’90 fino a oggi, passando per gli eventi insurrezionali del 2005 e l’approvazione della nuova costituzione progressista ed ecologista di Montecristi. La seconda parte si basa sullo studio di documenti, sull’analisi della stampa locale, ma soprattutto su una serie di interviste in profondità che ci restituiscono il ventaglio delle principali posizioni presenti nel dibattito locale. Nella terza parte, infine, si cerca di tirare le fila anche da un punto di vista teorico, affrontando molti interrogativi stimolanti, ma di non facile risoluzione.

Il governo di Rafael Correa pur dichiarandosi progressista, è fortemente contestato dalla sinistra e dal movimento indigeno. L’accusa è di non aver realizzato la riforma agraria e di tradire il dettato costituzionale riguardante il diritto all’autogestione delle comunità indigene. Le terre amazzoniche sarebbero infatti sottoposte a uno sfruttamento delle risorse naturali disastroso per la vita e la salute delle comunità, e funzionale solo al processo di modernizzazione capitalistica.
Le forze governative rispondono che dividere la terra in molti appezzamenti impedirebbe lo sviluppo di un’agricoltura moderna e utilizzano la metafora del mendicante che seduto pigramente su un sacco d’oro non utilizza le proprie risorse per emanciparsi dalla povertà. Questa sarebbe la condizione dell’Ecuador se rifiutasse di porre mano alle sue ricchezze naturali dando ragione agli egoismi delle popolazioni amazzoniche e al loro ecologismo “infantile”. Infatti, secondo il paradigma sviluppista sostenuto dal governo in carica, il cambiamento sociale e la ridistribuzione economica sono possibili solo in presenza di un processo di crescita industriale finanziata dalle risorse naturali presenti nel paese.

Nonostante le molte critiche riguardanti la criminalizzazione delle lotte sociali (cfr. Carmilla del 16.9.2014) Correa detiene ancora un largo appoggio popolare, manifestatosi nelle elezioni presidenziali del febbraio 2013 nelle quali è stato rieletto con oltre il 57% dei voti. Di contro, le forze indigeniste e di sinistra (contando sia la lista dell’Unidad plurinacional de las Isquierdas che quella del movimento Ruptura 25) hanno ottenuto un disastroso 4,6%, anche se a livello locale continuano ad avere consensi più consistenti. D’altra parte il sostegno al governo ha cominciato a scricchiolare nelle elezioni locali dello scorso febbraio: Alianza País, il partito di governo, ha perso infatti Quito, Guayaquil e Cuenca, le città più grandi del paese.
Secondo Formenti alla base dell’arretramento delle forze che si oppongono allo sviluppismo ci sono errori politici passati come l’appoggio del partito indigenista Pachakutik al colpo di stato che nel 2003 portò alla presidenza del colonnello Lucio Gutiérrez. Questo, infatti, nonostante i proclami populisti della prima ora, si rivelò un mero continuatore delle stesse politiche neoliberiste che avevano condotto il paese al collasso economico. Tale sostegno politico ha indebolito l’influenza sulla società ecuadoriana che il movimento indigeno aveva costruito negli anni ’90 attraverso un lungo percorso di lotte.

Lo scorso 17 settembre si è svolta un’importante manifestazione nazionale, organizzata dalle forze sindacali, indigene e studentesche dell’opposizione di sinistra, che si è conclusa con scontri, cariche della polizia, arresti e una scia di violente accuse tra governo e movimenti sociali. Tale radicalizzazione del conflitto rende di grande attualità gli interrogativi affrontati nella terza parte del libro di Formenti: in che senso il movimento indigeno può incarnare i valori egualitari della costituzione di Montecristi, trascendendo la propria specificità etnica? Il buen vivir delle popolazioni precolombiane, contenuto nello stesso dettato costituzionale, è un ingenuo tentativo di preservare una sorta di comunismo primitivo, agreste e forse anche reazionario? O può costituire un’alternativa alle inevitabili distruzioni umane, sociali ed ecologiche che comporta lo sfruttamento delle risorse naturali dell’Amazzonia?
Magia bianca, magia nera offre alcuni spunti di riflessione riferendosi a una lettura eterodossa del pensiero marxiano sull’accumulazione originaria, intesa in senso ricorsivo, e al tema delle comunità agricole tradizionali nella Russia zarista. A tal proposito, come afferma Ettore Cinnella nel saggio L’altro Marx (cfr. Carmilla del 3.9.2014), “Roso dall’atroce sospetto che il capitalismo, là dove era più avanzato, non generasse spontaneamente il suo becchino (così come aveva fino allora creduto), Marx andava in cerca di nuove vie rivoluzionarie”. Confrontandosi con alcuni intellettuali russi, il filosofo ipotizzò così che un modo di produzione comunitario ancora non sussunto al capitalismo potesse fungere da base per il superamento di quest’ultimo. Una possibilità da non escludere è quindi che in Ecuador il processo di mutamento sociale riprenda ad avanzare proprio con questo tipo di dinamiche. Si tratterebbe della vittoria della magia bianca precolombiana, contro la magia nera dello sviluppismo occidentale.

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