abbigliamento – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La moda fra senso e cambiamento identitario https://www.carmillaonline.com/2021/01/28/la-moda-fra-senso-e-cambiamento-identitario/ Thu, 28 Jan 2021 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64682 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e con la scrittura di Charles Baudelaire, derivino premesse utili a comprendere le trasformazioni subite dalla moda nei tempi recenti. Come intuito dall’intellettuale tedesco, il termine moda manifesta una certa ambiguità denotando tanto una valenza negativa, per così dire “istituzionale”, riferita allo spettacolo consumistico, che una “meno convenzionale” che si manifesta attorno ai più recenti concetti di look, stili, e anti-mode. Muovendo dalla lettura politica operata da Hannah Arendt del rapporto tra gusto e senso comune in Kant e passando dal problema del contrasto tra il carattere di élite e quello di massa della moda posto da Jurij Michajlovič Lotman, Calefato ragiona su come la moda possa essere considerata un sistema capace di garantire una mediazione tra gusto, senso comune e comunità.

Tra i primi studiosi ad affrontare la moda attraverso un approccio semiotico, Algirdas Julien Greimas si interessa al vocabolario di questa per la sua peculiarità di prestarsi sia a una funzione tecnica di strumento di comunicazione interno a un gruppo specifico, che di risultare applicabile a tutti quei fenomeni sociali che hanno un carattere di attualità. Il “privilegio del verbale” di Greimas, sostiene Isabella Pezzini, non sembra discostarsi granché dalla convinzione di Lotman che vede nella lingua il “sistema modellizzante primario” di una cultura e che include la moda e l’abbigliamento nel suo progetto di semiotica della cultura.

A proposito dello studio della moda secondo una prospettiva semiologica, Pezzini si sofferma sul passaggio di testimone fra Algirdas Julien Greimas e Roland Barthes preoccupandosi di mettere in luce lo scarto che separa i lavori dei due. Mentre il primo sviluppa la sua analisi come studio storico-sociale del vocabolario francese orientato su uno strutturalismo storicista, il secondo esplora i parallelismi esistenti tra il linguaggio nel suo complesso e l’abbigliamento. La moda è vista dal francese come una lingua su cui mettere alla prova l’ipotesi saussuriana di una teoria generale dei segni contemplante al suo interno la linguistica. Se nello studiare il rapporto tra linguaggio e moda tanto Barthes che Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora, suggerisce Terraciano nell’introduzione al volume, è piuttosto all’ambito dei social network che occorre far riferimento.

Per la formulazione di una teoria semiotica della moda, sostiene Ugo Volli nel suo intervento, è necessario partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale nella consapevolezza di come già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, sia organizzato in vista della produzione di senso. Nel ricavare un elenco di unità morfologiche di base della cultura vestimentaria occidentale moderna è possibile notare come, nonostante alcuni momenti di rottura, in genere il cambiamento proceda lentamente e senza grandi mutazioni. Tratteggiate le differenze principali che caratterizzano l’analisi degli indumenti in un approccio di tipo interpretativo e in uno di tipo generativo, si tratta, secondo Volli, di verificare se la semiotica, formatasi a partire dall’ipotesi sincronica della linguistica, sia applicabile alla moda che è caratterizzata da una natura diacronica.

Nel parlare di moda ci si riferisce a qualcosa di ben più complesso rispetto all’analisi dell’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda, scrive Giulia Ceriani nel suo contributo, significa confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione e occorre considerare la sua peculiarità testuale in funzione dell’intenzionalità espressa dal fruitore effettivo che spazia dall’adesione emulativa, all’indifferenza sino al rifiuto di quanto di normativo ancora il sistema contiene. Attraverso l’iconizzazione e la condivisione sul web, la creatività della moda riesce in diversi casi a rappresentare fenomeni di cambiamento configurando identità che non riescono ad esprimersi agevolmente in altro modo

La seconda sezione del volume, dedicata agli oggetti, dopo essersi aperta con il contributo di Paolo Fabbri, che struttura attorno a una dettagliata analisi del cappello un sistema semiotico applicabile a ogni altro oggetto del sistema moda, lascia spazio alla disamina di Jorge Lozano del termine “lusso” a partire dalla pluralità di valorizzazioni che vi si possono attribuire e che, in una girandola di contraddizioni e opposizioni, come per certi versi già aveva compreso Benjamin, contempla tanto un’idea di superfluo che di necessario, di ostentato che di raffinato. Lo studioso, derivata la definizione di lusso dalla congiunzione su un quadrato semiotico della categoria semantica di /esclusivo/ con quella del suo opposto /eccezionale/, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui si è storicamente guardato al lusso, giunge a individuarne il suo particolare carattere contemporaneo a partire dal legame che manifesta con la pratica dei selfie e la personificazione degli oggetti.

Ora, in piena simulazione generalizzata, sotto il dominio dei big data, in cui il futuro non tramonta e regna il presentismo, l’autentico emerge come tendenza, che, sebbene non possa sostituire l’unico, l’unicità, la caratteristica fondamentale dell’esclusivo, funge da consolazione. Da parte sua, l’eccezionale dell’originale e genuino, di ciò che ha l’aura e appartiene alla patria del lusso, attualmente adotta altre manifestazioni pregne di soggettività, espresse nel cyberspazio, configurate con nuovi materiali. Questa nuova eccezionalità può coesistere perfettamente con il non esclusivo, promuovendo quello che considero il nuovo lusso. (p. 137)

Riprendendo le riflessioni di Barthes, Floch e Greimas a proposito di passioni e prossemica, Gianfranco Marrone, propone un’interessante analisi semiotica degli occhiali a partire da come l’esigenza sociale estetica abbia per certi versi finito per scalzare tanto la funzione dei modelli da vista, con il suo presupporre un movimento del soggetto verso il mondo, quanto quella dei modelli da sole, che presuppone il movimento inverso del mondo verso il soggetto. «Il corpo-meccanismo e il corpo-rifugio cedono il passo al corpo desiderato e desiderante, soggetto di seduzione e oggetto di piacere» (p. 140). Ad esemplificare la trasformazione avvenuta si pensi a come dai modelli di occhiali con lenti da vista capaci al tempo stesso di riparare dalla luce solare si sia passati al caso, per certi versi opposto, dei modelli con lenti trasparenti non correttive: un ribaltamento epocale che ha trasformato gli occhiali da strumento per vedere in oggetto per essere visti.

Maria Pia Pozzato, prendendo in esame la tematica della modest fashion riguardante l’abbigliamento rapportato ai codici della religione islamica, ricostruisce come dal punto di vista semantico, in tale contesto, si sia data negli ultimi tempi una riformulazione del concetto di /modestia/, non più riconducibile alla rinuncia alla seduttività, all’anonimato, alla povertà di ornamento, all’astoricità: la modestia della modest fashion, sostiene Pozzato, sembra mantenere soltanto un sema di /pudicizia/ implicante la non visibilità di alcune zone del corpo lasciate invece maggiormente scoperte dalla moda occidentale. Il risultato che ne deriva si indirizza verso una moda “a doppia versione”, anziché di contrapposizione.

Paolo Sorrentino, chiudendo la sezione del volume dedicata agli oggetti, ricorrendo a una prospettiva lotmaniana, analizza la risemantizzazione operata dalla moda contemporanea di un capospalla appartenente alla tradizione sarda rapportandolo al sistema vestimentario dell’isola che lo ha via via escluso dalle pratiche quotidiane marginalizzandolo all’ambito dei rituali carnevaleschi.

Nella terza e ultima sezione di La moda fra senso e cambiamento, dedicata agli spazi, avvalendosi del lavoro che Denis Bertrand dedica all’importanza della raffigurazione spaziale nel discorso del romanzo, Isabella Pezzini approfondisce la nascita e l’attestarsi del grande magazzino francese nella seconda metà dell’Ottocento così come traspare dal romanzo Au bonheur des dames (1883) di Émile Zola. Venendo invece a spazi commerciali più recenti, Bianca Terraciano si concentra sulle modalità con cui alcuni negozi di moda, nell’era dell’e-commerce e dei social network, vadano alla ricerca di elementi distintivi che ne giustifichino la presenza e da questo punto di vista risulta di un certo interesse il rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Sempre restando a tendenze contemporanee, Claudia Torrini e Tiziana Barone indagano la propensione della moda contemporanea a ricorrere sempre più frequentemente all’arte come medium e su come l’intrecciarsi dei due ambiti comporti la condivisione di un linguaggio che permette al brand di proporre il suo sistema valoriale in quanto marca e al tempo stesso curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

Al rapporto tra moda e costruzione identitaria sono invece dedicati gli ultimi interventi del volume. Nella semiotica Ana Claudia Mei Alves de Oliveira ricerca gli strumenti utili allo studio delle diverse maniere in cui la moda propone di vestire il corpo influendo sul soggetto e sulla costituzione della sua identità sociale. Preso atto di come, almeno a partire da metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si sia sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, Luca Marchetti passa in rassegna alcune opere che riguardano appunto la costruzione identitaria.

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Guida agli stili nell’arte e nel costume. L’età contemporanea https://www.carmillaonline.com/2020/03/09/guida-agli-stili-nellarte-e-nel-costume-leta-contemporanea/ Mon, 09 Mar 2020 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58150 Gioacchino Toni, Gianluca Ruggerini, Guida agli stili nell’arte e nel costume. L’età contemporanea, Odoya, Città di Castello (PG), 2020, pp. 432, € 25,00

[Si riporta un breve stralcio tratto dal testo ove vengono riprese alcune riflessioni dell’artista Enrico Baj e del filosofo-urbanista Paul Virilio. A seguire una scheda dell’opera – ght]

Il sistema dell’arte contemporanea risulta imprescindibilmente legato al mercato, alle strategie di promozione e valorizzazione economica delle opere e degli autori: dal momento in cui l’opera diventa una forma di investimento, parallelamente al livello estetico-culturale assume sempre più rilevanza un livello economico-speculativo. In questo intreccio, si giocano i rapporti degli [...]]]> Gioacchino Toni, Gianluca Ruggerini, Guida agli stili nell’arte e nel costume. L’età contemporanea, Odoya, Città di Castello (PG), 2020, pp. 432, € 25,00

[Si riporta un breve stralcio tratto dal testo ove vengono riprese alcune riflessioni dell’artista Enrico Baj e del filosofo-urbanista Paul Virilio. A seguire una scheda dell’opera – ght]

Il sistema dell’arte contemporanea risulta imprescindibilmente legato al mercato, alle strategie di promozione e valorizzazione economica delle opere e degli autori: dal momento in cui l’opera diventa una forma di investimento, parallelamente al livello estetico-culturale assume sempre più rilevanza un livello economico-speculativo. In questo intreccio, si giocano i rapporti degli artisti contemporanei con il mercato, di volta in volta conflittuali o assecondanti. Il mercato stesso oscilla tra l’imposizione di nuove mode, improvvise rivalutazioni e rincorsa a quanto il panorama artistico tende a produrre autonomamente. La scena contemporanea è attraversata costantemente da tentativi di autonomia dai meccanismi commerciali e di sottomissione, più o meno volontaria, alle direttive da questi esercitate. Ne risulta in definitiva un sistema strutturato attorno a varie figure che, in percentuali variabili, concorrono al suo mantenimento: l’artista, il critico, il curatore di mostre, il mercante, le gallerie, i musei pubblici e privati, i collezionisti, i finanziatori, i creatori di eventi, i mass media, il pubblico di addetti ai lavori e di semplici appassionati ecc.

Sulla base della sperimentazione più o meno consensuale delle dinamiche di questo “sistema”, i fermenti contemporanei di autoriflessione dell’arte su se stessa spingono sempre più autori a interrogarsi sulle modalità e sui ruoli giocati nella propria appartenenza alla contemporaneità. In apertura di nuovo Millennio, in tal senso, l’artista Enrico Baj e il filosofo-urbanista Paul Virilio, discutendo delle modalità con cui l’arte e gli spazi che la accolgono vengono percepiti a quelle date, individuano nell’arte contemporanea una delle dimensioni privilegiate utili a cogliere lo spirito dei tempi, tanto che, sostengono i due, il mercato dell’arte ha preannunciato l’avvento della New Economy e con essa di numerose altre virtualità (E. Baj, P. Virilio, Discorso sull’orrore dell’arte, Elèuthera, Milano, 2019).

Nell’attuale maniera di rapportarsi all’arte, continuano Baj e Virilio, si sarebbe prodotto una sorta di plusvalore divenuto talmente importante da rendere impossibile una critica seria. In tale contesto, secondo i due, la critica sembra spesso non andare oltre al mero pettegolezzo celebrativo e l’opera d’arte pare giocarsi le proprie carte in maniera del tutto autoreferenziale, come una macchina progettata allo scopo di produrre «pseudo-filosofie, pseudo-estetiche, pseudo-problematiche». Una macchina inutile, dunque, al pari di quelle ironizzate dal Dada. Baj e Virilio manifestano in realtà una critica serrata nei confronti dell’intero sistema-arte contemporaneo, caratterizzato, a loro dire, da un’autoreferenzialità che si irradia su vari livelli: dai direttori dei musei ai curatori di mostre, dai critici alle opere stesse, il tutto indirizzato alla logica dello spettacolo e alla speculazione del mercato. Un sistema chiuso, totalmente ripiegato su se stesso, precluso al pubblico se non per la piccola parte che gli compete: «l’arte, come tutto oggi, diventa affare di esperti, mentre gli altri sono esclusi, possono solo partecipare a visite guidate, tanto per informarsi» (p. 20).

Ad essere attaccata è anche la marginalità a cui sono costrette le arti plastiche, la cui crisi, sostiene Virilio, sarebbe «il proseguimento di quello che è accaduto negli anni Venti e Trenta tra il cinema e la pittura […]. Il cinema parlato ha inferto un colpo fatale alle immagini: il sonoro ha anticipato quel che succede oggi con il video e l’infografia. L’arte motorizzata, attraverso la video arte e l’informatica, ha contribuito a eliminare progressivamente molte tecniche della rappresentazione» (p. 22). Il sistema-arte contemporaneo sembrerebbe quasi imporre il divieto di dipingere; nelle gallerie newyorkesi imperversano foto e video installazioni. Sostiene Baj: «Le immagini che contano sono quelle che la tecnica rende vistose e con cui la qualità dell’artista non ha nulla a che vedere» (p. 22).

La polemica nei confronti del sistema-arte va ovviamente letta attraverso la filigrana di una più ampia messa in discussione dei modelli esistenziali contemporanei. Secondo Virilio, per certi versi, artisti come Alberto Giacometti e Francis Bacon, con le loro immagini capaci di mostrare il “miserabilismo dell’uomo”, hanno annunciato l’imminente deriva, una deriva in cui, commenta Baj, l’essere umano, oppresso dalla tecnica, disperdendosi nel web nel tentativo di superare se stesso subisce un vero e proprio processo di disincarnazione, di annullamento fisico. Per questa via il collegamento è presto servito e la disincarnazione dell’arte consegue a quella dell’essere umano: «Da un lato vi è la società che spinge nella direzione dell’annientamento critico e morale, dall’altro ci sono degli artisti che non sono più interessati a realizzare opere che possano suscitare interessi, emozioni, coinvolgimento e modificazioni del comportamento e del pensiero umani. Per tale via si crea un vuoto che deve essere riempito con dei succedanei (ersatz) della società dello spettacolo, del narcisismo e dell’immagine, dove la fotografia trionfa» (p. 42).

Come uscire da una tale gabbia? Secondo i due, “l’incidente” è sempre in agguato – come più volte è accaduto in passato nel sistema-arte – e da esso può prendere il via lo sgretolamento dei vincoli. Intanto, suggeriscono, occorre riappropriarsi del corpo, nella sua fisicità, nella sua materialità, sebbene in questo richiamo sia implicito il limite, evidente oggi ancor più di quando scrivevano i due autori, di un ulteriore paradosso contemporaneo, evocato intorno alle domande su cosa sia divenuto però nel frattempo il corpo fisico, e soprattutto su quanto l’immaginario contemporaneo voglia, possa e sappia fare i conti con il corpo trasformato nel corso del tempo.

Nella denuncia dell’inutilità di tanta arte contemporanea proposta dai due autori, non si può non ravvisare un parallelo a distanza con la contestazione Dada, condotta però in quel caso attraverso uno statuto di vacuità cercato, pianificato nelle macchine prese a soggetto, ma in definitiva nell’opera d’arte in sé. Anche nell’esperienza del dadaismo, la critica finale era volta al razionalismo positivista borghese, alla sua tendenza alla mercificazione di ogni aspetto della vita quotidiana – comprese l’arte e la letteratura passata e presente – nonché al suo «linguaggio ingannevole». «L’arte serve per ammucchiare denari e accarezzare i gentili borghesi?», si chiedeva polemicamente Tristan Tzara nel Manifesto Dada del 1918, mentre Marcel Duchamp opponeva le sue “macchine celibi” all’universo utilitaristico imperante.

Ma se il Dada cercava di far girare a vuoto – per renderla improduttiva – un’arte asservita al potere e alla mercificazione, l’inutilità a cui fanno riferimento Baj e Virilio, invece, è paradossalmente utile. Utile al mercato in un sistema avviato, nel passaggio di millennio, a una finanziarizzazione e a una virtualizzazione in cui anche il nulla può essere trasformato da un buon pubblicitario in merce, inconsistente e insignificante quanto si vuole, ma redditizia.

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Scheda dell’opera

Gioacchino Toni, Gianluca Ruggerini, Guida agli stili nell’arte e nel costume. L’età contemporanea (Odoya, 2020)

Il cammino dell’arte contemporanea è visto, in sostanza, come la tensione dialettica tra due modelli, l’uno dei quali volto a raggiungere una sintonia tra la sensibilità dell’uomo e una tecnologia di specie meccanica, mentre l’altro modello si ispira all’avvento dell’elettronica, tratto caratterizzante del postmoderno. (Renato Barilli, L’arte contemporanea, Feltrinelli 2014)

L’abito è sempre stato il tramite di una rappresentazione pubblica, ma le dimensioni del pubblico sono passate dal salotto alla sala da ballo, poi alla città, per finire al mondo globale, e contemporaneamente dal rotocalco e dal grande schermo hollywoodiano al piccolo schermo della TV, fino al portatile e ubiquo schermo del cellulare e della nuova televisione degli anni Duemila, Instagram e Pinterest, con il relativo proliferare dei selfie più o meno professionali. (Nicoletta Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, in D. Baroncini (a cura di), Moda, metropoli e modernità, Mimesis 2018)

A breve distanza dal testo riferito alla modernità [qua], giunge in libreria il volume Guida agli stili nell’arte e nel costume dedicato all’età contemporanea. Il saggio di Gioacchino Toni e Gianluca Ruggerini analizza le esperienze artistiche del periodo con particolare attenzione al contesto culturale e materiale in cui si sono manifestate e ai protagonisti che le hanno animate. Attraverso inserti dedicati al costume viene inoltre restituito il quadro dell’epoca in termini di immaginario collettivo e orientamenti di gusto con un occhio di riguardo all’abbigliamento e ai mass media più influenti del periodo (cinema, televisione, web). L’apertura è dedicata alle sperimentazioni postimpressioniste, indagate dagli autori nelle cesure che attuano rispetto agli schemi di vita e ai riferimenti culturali della tradizione occidentale. Il generale scollamento dell’arte dalla rappresentazione mimetica conduce da un lato lungo la via dell’astrazione (attraverso una stilizzazione delle forme naturali) e dall’altro verso quella della concretezza (dove l’arte mira, sull’onda dell’immaginario industriale, alla realtà artificiale). Passate in rassegna le Avanguardie storiche, il volume affronta le “poetiche della materia” degli anni Quaranta e Cinquanta, le “poetiche dell’oggetto” degli anni Sessanta e Settanta e le proposte artistiche che, dalla fine degli anni Sessanta, si propongono di istituire un nuovo rapporto con la realtà circostante. L’ultima parte del volume individua le principali trasformazioni del sistema dell’arte contemporanea giunto al cambio di millennio, riflettendo sulle nuove dinamiche del mercato artistico e sul ruolo del circuito espositivo-museale.

 

 

 

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Nero https://www.carmillaonline.com/2020/01/14/nero/ Tue, 14 Jan 2020 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56917 di Gioacchino Toni

Nonostante in tutte le lingue occidentali esistano numerose espressioni che ricorrono al colore nero per alludere a qualcosa di inquietante, funesto o irriducibilmente non omologabile, non di meno rappresenta anche il colore dell’eleganza formale e del potere. Se il nero lo si vede immancabilmente sfilare nelle passerelle di alta moda, altrettanto caratterizza i guardaroba di diverse culture alternative giovanili e se da un lato identifica le frange estreme di ribellione metropolitana, dai vessilli anarchici, agli autonomen, fino ai black bloc, altrettanto distingue l’abbigliamento dei paladini del binomio law & order, dalle divise di alcuni corpi di polizia alle [...]]]> di Gioacchino Toni

Nonostante in tutte le lingue occidentali esistano numerose espressioni che ricorrono al colore nero per alludere a qualcosa di inquietante, funesto o irriducibilmente non omologabile, non di meno rappresenta anche il colore dell’eleganza formale e del potere. Se il nero lo si vede immancabilmente sfilare nelle passerelle di alta moda, altrettanto caratterizza i guardaroba di diverse culture alternative giovanili e se da un lato identifica le frange estreme di ribellione metropolitana, dai vessilli anarchici, agli autonomen, fino ai black bloc, altrettanto distingue l’abbigliamento dei paladini del binomio law & order, dalle divise di alcuni corpi di polizia alle toghe in uso nei tribunali.

Se oggi viene dato per scontato che il nero sia un colore, non sempre è stato così. Nel corso dei primi secoli dell’Età moderna il nero ed il bianco sono stati allontanati dall’universo dei colori, tanto da rappresentarne un’alternativa, ed è soltanto con il Novecento che nell’immaginario collettivo, nelle scelte artistiche e negli studi scientifici, è stata abbandonata la plurisecolare rimozione delle proprietà cromatiche del bianco e del nero.

Nell’ambito delle sue ricerche volte a ricostruire la storia dei colori nelle società europee, la storia del nero è stata attentamente indagata da Michel Pastoureau nel suo Noir. Histoire d’une couleur (2008) – Nero. Storia di un colore (I ed. 2013, Ponte alle Grazie) – mettendola in relazione con la storia di altri colori, in particolare con quella del blu, a lungo considerato dall’immaginario occidentale come un “particolare tipo di nero”.

Nella sua ricostruzione Pastoureau procede consapevole del fatto che ogni descrizione ed ogni notazione di colore è inevitabilmente culturale e ideologica e che non è possibile proiettare le definizioni, i concetti e le classificazioni del colore propri della contemporaneità sul passato in quanto inevitabilmente altri rispetto a quelli in uso nelle società lontane. «La nozione di colori caldi e colori freddi, di colori primari e complementari, le classificazioni dello spettro o del cerchio cromatico, le leggi della percezione o del contrasto simultaneo non sono verità eterne, ma solo tappe della mutevole storia delle conoscenze» (p. 17).

In Europa, nel periodo compreso tra la fine dell’Età medievale ed i primi secoli della modernità, dopo essersi guadagnati uno statuto speciale grazie all’invenzione della stampa, alla diffusione dell’incisione ed alla riforma protestante, il nero ed il bianco finiscono col perde progressivamente il loro statuto di colori, tanto da venire letteralmente esclusi dalla nuova catalogazione derivata dalla scoperta dello spettro cromatico, poco dopo la metà del Seicento, da parte di Isaac Newton.

«Tra due secoli particolarmente oscuri, il XVII e il XIX, quello dei Lumi è una sorta di oasi colorata. […] Quasi ovunque arretrano i toni bruni, viola o cremisi, le sfumature scure e sature, i contrasti violenti in uso nel secolo precedente. Nel campo dell’abbigliamento e dei mobili trionfano le tinte chiare e luminose, i colori allegri, le tonalità “pastello”» (p. 218). Anche se tali cambiamenti sono più evidenti nelle classi sociali più elevate, sostiene Pastoureau, riflettono comunque un’atmosfera generale che, dagli anni Venti, si prolunga fino agli anni Ottanta del secolo in Francia, Inghilterra e Germania, mentre in altri paesi il legame con le tinte scure appare più duraturo.

Nella seconda metà del Settecento il nero ricompare attraverso l’esotismo: «nei decenni 1760-1780, grazie all’arte e alla letteratura nasce la moda dell’uomo nero. Sull’onda dell’esotismo viene spesso ritratto da pittori e scultori, mentre diversi romanzieri fanno delle coste africane e delle loro isole l’ambientazione ideale per storie romanzesche» (p. 225). Gli africani di pelle nera, a lungo chiamati “Mori”, nel Settecento diventano “Neri” o “Negri” e, verso la fine del secolo, con l’abolizione della schiavitù da parte della Convenzione francese nel 1794, per la prima volta iniziano ad essere definiti “di colore”: tale «assimilazione lessicale di un uomo dalla pelle nera a un uomo “di colore” sembra comunque preparare il ritorno del nero, molto prima del bianco, all’interno dell’ordine cromatico» (p. 224).

Se la curiosità per le colonie e gli africani resta un fatto abbastanza marginale, è piuttosto l’ondata romantica che attraversa l’Europa artistica e letteraria, a rivalutare, pian piano, il nero.

Alla comunione con la natura, ai sogni di bellezza e di infinito succedono idee nettamente più cupe che resteranno in primo piano sulla scena letteraria e artistica per quasi tre generazioni. Rifiutare la sovranità della ragione, proclamare il regno dell’emozione, versare lacrime e autocommiserarsi non basta più: l’eroe romantico è diventato un personaggio instabile e angosciato, che non solo rivendica “l’ineffabile felicità di essere tristi” (Victor Hugo) ma si crede segnato dalla fatalità e si sente attratto dalla morte. Fin dagli anni sessanta del Settecento – The Castle of Otranto di Horace Walpole esce nel 1764 – i romanzi “gotici” inglesi avevano imposto un certo gusto per il macabro, ma questa moda si accentua al volgere del secolo – The Mysteries of Udolfo di Ann Radcliffe è del 1794, The Monk di Matthew G. Lewis del 1795 – e con essa il nero fa il suo grande ritorno. È il trionfo della notte e della morte, delle streghe e dei cimiteri, dello straordinario e del fantastico. Satana stesso riappare e diventa l’eroe di numerose poesie e di molti racconti – in Germania quelli di Hoffmann; in Francia quelli di Charles Nodier, di Théophile Gautier e di Villiers de L’Isle-Adam. Il Faust di Goethe esercita in questo campo un’influenza notevole, soprattutto la sua prima parte pubblicata nel 1808. […] La storia si svolge in un’atmosfera particolarmente nera. Non vi manca nulla: la notte, la prigione, il cimitero, il castello in rovina, la cella, la foresta, la caverna, le streghe e il sabba, la notte di Walpurga sulle alture del Blocksberg, nelle montagne dello Harz. L’epoca di Werther sembra molto lontana, e al blu del suo abito si è sostituita, sotto la penna di Goethe, una tavolozza che più scura non si può (pp. 227-229).

Nella primavera del 2019, il parigino Musée d’Orsay ha dedicato la mostra “Le modèle noir de Géricault à Matisse” alle problematiche estetiche, politiche, sociali e razziali, oltre che all’immaginario sotteso alla rappresentazione dei “soggetti neri” nelle arti visive secondo una scansione in tre sezioni dedicate ad altrettanti periodi: l’era dell’abolizione della schiavitù (1794-1848), il periodo della “Nuova pittura” fino alla scoperta, da parte di Matisse, del cosiddetto “Rinascimento di Harlem” – movimento artistico-culturale afroamericano sorto nei primi anni Venti negli Stati Uniti – e, infine, i primordi delle avanguardie novecentesche e le successive generazioni di artisti post-bellici e contemporanei.

Anche l’abbigliamento vira al nero alla fine del Settecento per poi imporsi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda Rivoluzione industriale fino agli anni Venti del Novecento.

È il tempo del carbone e del catrame, quello delle ferrovie e del bitume, più tardi quello dell’acciaio e del petrolio. Ovunque, l’orizzonte diventa nero, grigio, marrone, scuro. Il carbone, principale fonte di energia per l’industria e i trasporti, è il simbolo di questo nuovo universo. […] Nella tavolozza dei neri non c’è ormai più posto per la poesia e la malinconia: il carbone porta con sé il fumo, la fuliggine, la sporcizia, l’inquinamento. Il paesaggio urbano si trasforma profondamente, le fabbriche e le officine si moltiplicano, le strade cambiano aspetto, il contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri si accentua: pietra bianca e vegetazione da un lato, sporcizia e miseria dall’altro. Inoltre, gli uomini con le loro attività aprono tutto un mondo sotterraneo. Non solo quello della miniera, che diventa il luogo simbolico delle mutazioni industriali e delle tensioni sociali, un luogo particolarmente oscuro e pericoloso, dove le “facce nere” rimangono vittime del grisù e della silicosi; ma anche quello dei tunnel, delle gallerie, delle officine situate nel sottosuolo e anche delle prime metropolitane inaugurate a Londra nel 1863 e a Parigi nel 1900. Si circola sotto terra, si lavora in fabbrica, si vive rinchiusi, si illumina con il gas, più tardi con l’elettricità; la luce si trasforma a sua volta e con essa si trasformano lo sguardo e la sensibilità. Mentre il sole e l’aria aperta diventano un lusso inaccessibile per una parte della popolazione urbana, nuovi sistemi di valori prendono il posto dei precedenti (pp. 232-233).

A mutare è anche l’atteggiamento nei confronti del colorito assunto dalla pelle: alla fine dell’Ottocento a preoccupare l’alta società non sono più i contadini, ma gli operai, sporchi e lividi. Se durante l’Ancien régime e fino alla prima metà dell’Ottocento, per gli appartenenti alla buona società avere la pelle chiara significa distinguersi dai contadini, a partire dalla seconda metà del secolo l’imperativo diviene quello di differenziarsi dagli operai costretti a lavorare in spazi chiusi o sotto terra,

la cui pelle non vede mai i raggi del sole. La sua carnagione e` pallida, grigiastra, inquietante. La “buona società” comincia allora a cercare il sole e l’aria aperta, inizia a frequentare la riva del mare (più tardi la montagna), diventa di bon ton esibire un colorito abbronzato e una pelle liscia. Queste pratiche e questi nuovi valori si accentuano nel corso dei decenni e raggiungono a poco a poco le classi medie agiate; l’importante è non essere scambiati, a qualunque costo, per un operaio! La cosa dura per diversi decenni. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, quando le vacanze al mare e la pratica degli sport invernali a poco a poco si democratizzano e si estendono, negli anni Sessanta e Settanta, a una parte delle classi inferiori, la “buona società” volta progressivamente le spalle all’abbronzatura, ormai alla portata di tutti, o quasi. È molto più chic non essere abbronzati, soprattutto al rientro dal mare o dalla montagna (pp. 234-235) .

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dunque, le città industriali europee “cambiano colore” a causa del carbone, del fumo e della fuliggine.

Da qui la permanenza negli abiti maschili di colori scuri, in particolare il nero, troppo caro per essere portato dagli operai – le loro tenute da lavoro sono blu o grigie – ma che negli uffici e nel mondo degli affari diventa una specie di uniforme. Questo nero dell’abito si vuole serio e austero e in parte è legato a una solida etica del lavoro che per vari decenni, fino alla Prima guerra mondiale e anche oltre, resta diffusa nel mondo delle banche e della finanza, negli uffici ministeriali e della funzione pubblica, nonché in quelli amministrativi e nelle società commerciali. Questa etica vieta i colori troppo vivaci o troppo vistosi, e considera il nero l’unico segno di serietà e di autorità. Per questo motivo viene usato da tutti coloro che detengono un potere o un sapere: giudici, magistrati, avvocati, professori, medici, notai, pubblici ufficiali (p. 236).

Anche le professioni che richiedono un’uniforme, come poliziotti e gendarmi, fanno uso del nero, almeno fino ai primi decenni del Novecento, quando inizia ad imporsi il blu oltremare, “meno severo” e, pragmaticamente, meno soggetto a mostrare la polvere. Per certi versi il ricorso al nero in ambito lavorativo sembra ridurre le barriere sociali: è utilizzato tanto dai borghesi quanto dagli appartenenti all’alta società, è il colore degli abiti da cerimonia ma al tempo stesso anche quello dei domestici.

Fin dal Cinquecento la riforma protestante impone ad ogni buon cristiano l’allontanamento dai colori troppo vivaci e la preferenza per le tinte sobrie, soprattutto nere/grigie (ma anche bianche) e tale preferenza resta in vigore ancora nella produzione su larga scala di oggetti di consumo di massa delle industrie europee e americane della seconda metà dell’Ottocento, nonostante la chimica industriale permetta già una grande varietà di colori. È il mondo della pittura che, già nell’Ottocento, decide di rispondere all’egemonia del nero optando per colori luminosi sull’onda delle teorie del chimico Eugéne Chevreul e, per certi versi, anche per rispondere alla nascente fotografia che non potendo per qualche tempo riprodurre i colori, finisce con il supportare, di fatto, come più tardi farà il cinematografo, il perdurare dell’egemonia del “bianco e nero”.

Nel corso del Novecento spetta nuovamente ai pittori andare controcorrente rispetto al gusto dominante che nel frattempo sembra aver abbandonato il nero.

Verso gli anni venti-trenta, il nero diventa o ridiventa un colore pienamente “moderno”, come i colori primari (o sedicenti tali): il rosso, il giallo, il blu. In compenso, il bianco e soprattutto il verde vengono guardati diversamente e non hanno sempre diritto a un simile statuto. […] Tuttavia, anche se i pittori sono stati i primi a ridare al nero la sua piena modernità, già alla vigilia della Prima guerra mondiale, e nel corso di tutto il secolo, sono soprattutto i designer, gli stilisti e i sarti ad assicurargli una forte presenza e a lanciare la sua moda nell’universo sociale e nella vita quotidiana. Il nero del design non è né il nero principesco e lussuoso dei secoli precedenti, né il nero sporco e miserabile delle grandi città industriali; è un nero insieme sobrio e raffinato, elegante e funzionale, gioioso e luminoso, insomma, un nero moderno (p. 250).

Dunque, anche nel mondo della moda il nero conquista centralità e sebbene il ricorso ad esso si attenui attorno agli anni Venti del Novecento, questo colore continua a restare irrinunciabile per tale settore. «Una simile predominanza del nero si osserva in altri ambiti creativi (negli architetti per esempio) o in quelli legati al denaro (i banchieri) e al potere (i “decisori”)» (p. 251). Se il nero si propone allo stesso tempo come moderno, creativo, serio, autorevole ed autoritario, esso può mostrarsi anche ribelle e trasgressivo, come attestato dall’abbigliamento adottato da diversi gruppi giovanili poco inclini a sottostare ai valori dominanti.

Poco diffusa nel XIX secolo – è per esempio assente dalle grandi rivoluzioni del 1848-1849, dove si agita solo la bandiera rossa delle forze rivoluzionarie – la bandiera nera appare più spesso nel secolo successivo, quando diventa un emblema della sinistra che si vuole più radicale di quella che sventola la bandiera rossa, come fu il caso in Francia al momento delle grandi manifestazioni studentesche del maggio 1968. Sul piano politico, questo nero ribelle e anarchico non deve essere confuso con altri neri. Da una parte il nero, nettamente conservatore, dei partiti della Chiesa, attivi e influenti nell’Europa del XIX secolo, ma in seguito più in ombra. È il nero dei curati in sottana e dell’abito tradizionale del clero. Dall’altra il nero poliziesco e totalitario delle milizie del Partito fascista italiano (le “camicie nere” organizzate dopo il 1919 per sostenere la marcia verso il potere di Benito Mussolini) e quello, più mortifero, delle SS (Schutzstaffel) e delle Waffen-SS del regime nazista, più a destra delle camicie brune delle SA (Sturmabteilung), liquidate nel 1934 (pp. 252-253).

Riservando un’attenzione particolare all’ambivalenza che storicamente ha caratterizzato la simbologia del nero – considerato sia in modo positivo (come rimando a fertilità, umiltà, dignità, autorità) o in maniera negativa (nel suo veicolare un’idea di tristezza, lutto, peccato, inferno, morte) –, oggi, sostiene lo studioso, il nero vestimentario sembra ormai aver perso quella carica di aggressività che lo ha contraddistinto in passato.

Per secoli, tutti gli abiti e i tessuti che toccavano il corpo dovevano essere bianchi o non tinti. Sia per ragioni igieniche e materiali – li si faceva bollire, cosa che li scoloriva – sia per ragioni morali, i colori vivaci […] erano considerati impuri o disonesti. Poi, tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, il bianco degli indumenti intimi, delle lenzuola, degli asciugamani ecc. si è progressivamente colorato […] Sugli indumenti intimi hanno fatto la loro apparizione nuove tavolozze che hanno a poco a poco assunto connotazioni sociali e morali. […] In opposizione al bianco, colore onesto e igienico, il nero ha avuto a lungo la reputazione di essere indecente o immorale, riservato alle donne libertine, se non alle professioniste del sesso. Oggi non è più così. Non solo il nero non ha più alcuna connotazione che lo rinvii alla prostituzione, né alla dissolutezza, ma da una [trentina] d’anni a questa parte è diventato in Europa occidentale, al posto del bianco, il colore più portato nel campo degli indumenti intimi (p. 254-255).

Nell’immaginario contemporaneo, sostiene Pastoureau, ormai il nero continua ad essere considerato un colore pericoloso o trasgressivo solo nell’ambito dei fatti linguistici e delle superstizioni.

Essi veicolano credenze e sistemi di valori che vengono da lontano, che né i cambiamenti della società, né i progressi tecnici, e neppure le trasformazioni della sensibilità arrivano a modificare o a sradicare. In tutte le lingue europee esistono così numerose locuzioni di uso corrente che sottolineano la dimensione segreta, vietata, minacciosa o funesta del colore nero: “mercato nero”, “lavoro in nero”, “pecora nera”, “bestia nera”, “lista nera”, “libro nero”, “buco nero”, “serie nera”, “messa nera”, “essere di umor nero”, “vedere tutto nero”, “giornata nera” ecc. Espressioni simili, che mettono in evidenza un nero negativo o inquietante, si incontrano in tutte le lingue occidentali anche se a volte ci sono delle differenze tra una lingua e l’altra e per una stessa espressione il colore può cambiare. […] I proverbi e i detti popolari non sono da meno e veicolano fino a date molto recenti un certo numero di superstizioni legate al colore nero. Essi testimoniano della sopravvivenza di credenze o di comportamenti a volte molto antichi (pp. 255-256).

Secondo lo studioso il simbolismo del nero – sia negativo che valorizzante – ha ormai perso buona parte del suo vigore.

Lo “chic” che un tempo potevano rappresentare la redingote, lo smoking, l’abito o il tailleur nero ha perso terreno a causa dell’onnipresenza di questo colore negli abiti quotidiani sia maschili che femminili. L’autorità stessa non si esprime più in nero, né nei palazzi di giustizia, né sul terreno sportivo. I poliziotti e i gendarmi si vestono di blu, i giudici portano di solito abiti civili e gli arbitri hanno abbandonato il nero per ostentare colori vivaci. Così facendo, del resto, hanno perso una parte del loro potere. […] Ovunque altrove il nero sembra essere rientrato nei ranghi, come mostrano i sondaggi d’opinione sui colori preferiti. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Europa come negli Stati Uniti, queste inchieste danno più o meno gli stessi risultati, a prescindere dal sesso, l’età o l’ambiente sociale delle persone intervistate. Tra i sei colori di base – blu, verde, rosso, nero, bianco, giallo, citati qui in ordine di preferenza – il nero non è né il più apprezzato (blu) né il meno amato (giallo) (pp. 257-258).

In conclusione della sua ricostruzione della storia del nero, Pastoureau si chiede se il fatto che il nero oggi venga, per la prima volta, situato a metà della gamma cromatica consenta o meno di identificarlo come un colore medio, neutro, un colore come tutti gli altri. Per certi versi sembrerebbe essere così ma, come si diceva in apertura, al di là di tutte le normalizzazioni proprie della contemporaneità, il nero sembra essere un colore ancora capace di affiancare alla sua banalizzazione-normalizzazione sprazzi di inquietudine, per quanto non del tutto immuni dall’imperante spettacolarizzazione.

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Estetiche del potere. Moda e significati politici nello spazio pubblico della prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/20/estetiche-del-potere-moda-e-significati-politici-nello-spazio-pubblico-della-prima-modernita/ Tue, 20 Aug 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54145 di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il [...]]]> di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il termine costume ai periodi precedenti, è ormai messa in discussione in quanto così facendo si rischia di rimuovere il dinamismo pur presente anche nelle epoche precedenti alla società industrializzata. Secondo diversi studiosi converrebbe consentire ai due termini di interagire anche alla luce del fatto che all’interno di ogni determinato sistema moda sono comunque operanti tanto stabilità che cambiamento.

Il volume di Eugenia Paulicelli, Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019), passando in rassegna la moda così come è stata testualizzata e codificata attraverso un discorso sul vestire e sullo stile nell’Italia del Cinque e Seicento, contribuisce a spiegare come, sin dai primi secoli dell’età moderna, la moda rappresenti un’importante istituzione sociale agente sull’immaginario collettivo capace di trasmettere significati estetici, politici ed economici nello spazio pubblico.

Se l’abbigliamento e la moda vanno annoverati tra gli strumenti attraverso cui la cultura umanistica ha trasmesso l’ideologia, il gusto e lo stile con cui l’élite europea ha forgiato le sue identità in termini estetici, la produzione letteraria italiana del XVI e del XVII secolo dedicata a tali argomenti permette di comprendere meglio il ruolo politico assunto dalla moda a livello europeo nella prima modernità.

Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – oltre ad analizzare testi di Baldassarre Castiglione (Venezia, 1528), Cesare Vecellio (Venezia, 1590 e 1598), Giacomo Franco (Venezia, 1610), Agostino Lampugnani (Bologna, 1648) presenta alcune protagoniste femminili che fanno da contraltare alla costruzione della mascolinità: Elisabetta Gonzaga, Caterina e Anna Sforza, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Lucrezia Marinella e, soprattutto, Arcangela Tarabotti, a cui dedicheremo presto spazio.

Moda e moderno, sottolinea Paulicelli, hanno comuni radici etimologiche (dal latino modus); moderno si riferisce a ciò che è attuale, contemporaneo ed il termine moda riprende l’idea di norma, modalità, finendo gradualmente per essere associato a quanto appare come novità.

La prima modernità italiana è caratterizzata da un recupero dell’antichità finalizzato a nuovi modelli culturali, politici ed artistici in linea con i nuovi tempi. Come spesso accade nei momenti di grandi cambiamenti, e la prima modernità è sicuramente uno di questi, finiscono col fronteggiarsi l’entusiasmo per le novità e il tentativo di controllarle. «In effetti, nel contesto della moda, l’euforia umanistica di un essere simile a Dio nel controllo della sua apparenza e del suo posto nel mondo, libero di auto-creare, sarebbe contrapposta a norme introdotte per standardizzare la bellezza, le buone maniere, il gusto nel vestire e nello stile, nel senso di “saper vivere”». (p. 36) Nel contesto umanistico, alla celebrazione dello spirito di autodetermiazione dell’essere umano si contrappone l’idea di dover normalizzare la bellezza, le maniere, lo stile ed il gusto nell’abbigliamento.

Nel corso del Cinquecento, parallelamente allo svilupparsi in tutta Europa di una vera e propria curiosità nei confronti della novità, in parte supportata dall’entusiasmo per la scoperta del Nuovo mondo, prende piede una vera e propria “morale contro il cambiamento”. L’abbigliamento, nel suo essere una delle manifestazioni principali di trasformazione, diviene anche uno dei settori principali su cui i moralisti insistono nel condannare la mutevolezza. L’incostanza del costume, esplicitata dalle trasformazioni dell’abbigliamento, agli occhi dei religiosi rappresenta una minaccia alle fondamenta stesse della religione: nella mutazione delle apparenze viene messo in discussione quanto previsto in natura da Dio. La morale contro il cambiamento si inserisce all’interno del tentativo compiuto dal cattolicesimo di definire a livello confessionale l’esistenza quotidiana dell’individuo: la quotidianità diviene il teatro in cui si manifesta la presenza reale del divino tra gli esseri umani e la cultura della trasformazione, che si esplicita nella mutevolezza delle mode, rappresenta una rischiosa messa in discussione della sacralità presente nella quotidianità.

Il diffondersi nei primi secoli di modernità di una letteratura incentrata sull’aspetto del corpo rappresenta un evidente sintomo della formazione di una nuova soggettività. Al di là delle differenze, in tutta la letteratura dell’epoca risulta palese la consapevolezza di come l’aspetto del corpo concorra in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità di un individuo che intende governare il proprio destino.
In diversi testi si rintraccia la necessità di dare “forma e memoria” ai cambiamenti che stanno riformulando il mondo. «Per essere efficaci, le nuove forme dovevano essere accettabili per l’ordine stabilito e per essere accettabili hanno dovuto far quadrato con la tassonomia dei valori dei gruppi delle élite al potere». (p. 47)

La diffusione ed il successo a livello europeo di testi come Il libro del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione contribuirono alla standardizzazione culturale e a creare una vera e propria competizione tra le élite relativamente all’aspetto pubblico con cui mostrare il potere detenuto.

Oltre che costruita, l’identità della prima modernità è anche legiferata: l’aspetto non ha a che fare solo con la scelta degli abiti e degli accessori, ma anche con ciò che la legge consente o meno. L’abbigliamento rappresenta uno dei segni più visibili dello status dell’individuo e ciò a maggior ragione in un’epoca di rinnovamento delle relazioni gerarchiche tra le classi dettato da un’ascesa borghese che si rivelerà inarrestabile.

Sono soprattutto i casi di corss-dressing, di slittamento di abitudini e gusti tra le diverse classi, a determinare la nascita di leggi suntuarie volte a preservare e disciplinare l’ordine sociale e il controllo sulle donne, costrette a conformarsi all’immagine di modestia e decoro e al disciplinamento del corpo. Nonostante gli intenti, sottolinea Paulicelli, tali leggi non hanno saputo mantenere l’ordine previsto in quanto spesso aggirate. Da tali infrazioni, da tali slittamenti tra classi, hanno spesso preso vita nuovi stili.

Gli studi femministi hanno mostrato come il ruolo della donna, perlomeno all’interno dell’alta società, nei confronti della moda non sia stato assolutamente passivo. Anzi, il controllo che hanno saputo esercitare sulla moda e sullo stile, nonostante le norme e le leggi, sta ad indicare come l’abbigliamento sia diventato «un luogo in cui attirare l’attenzione sociale su loro stesse all’interno di un panorama culturale che cercava di annientarle come agenti del proprio personaggio, pubblico o privato». (p. 87).

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Estetiche del potere. Sul guardare: note su abbigliamento, egemonia e autonomia https://www.carmillaonline.com/2017/09/07/estetiche-del-potere-sul-guardare-note-abbigliamento-egemonia-ed-autonomia/ Wed, 06 Sep 2017 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40223 di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini [...]]]> di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini che nelle campagne europee hanno potuto indossare tale tipo di abbigliamento, cosa che soltanto qualche decennio prima sarebbe stata loro economicamente preclusa.

Pur trattandosi di un abbigliamento non certo proletario, in Europa occidentale per buona parte del Novecento è abbastanza frequente che i contadini e gli operai indossino abiti scuri completi di panciotto nei giorni di festa o nelle occasioni ritenute speciali. Osservando con attenzione l’immagine, però, secondo Berger, c’è qualcosa che tradisce il ceto sociale di appartenenza dei tre, qualcosa che impedisce loro di essere confusi con appartenenti alla borghesia e non si tratta certo della qualità del tessuto o del taglio sartoriale, poco distinguibili in una fotografia in bianco e nero di questo tipo.

Prendendo in esame anche altre fotografie simili di Sander, è possibile notare, continua lo studioso, come le anatomie, le posture ed i volti dei soggetti contadini non vengano del tutto mascherati dagli abiti borghesi. Solitamente, continua Berger, almeno a queste date, i contadini presentano corpi modellati dal duro lavoro fisico che svolgono e tradiscono un «ritmo corporeo caratteristico […] direttamente collegato all’energia richiesta dalla quantità di lavoro da svolgere in una giornata [ritmo che] si riflette in movimenti e posture del corpo inconfondibili. È un ritmo ampio e prolungato» (p. 54), inoltre tendono ad esibire una «dignità fisica tutta loro» derivata dal mostrasi abituati allo sforzo ed alla fatica.

Il completo maschile prende piede nell’Europa degli ultimi decenni dell’Ottocento «come abito da lavoro della classe dirigente. Anonimo quasi al pari di un’uniforme, fu il primo abito della classe dirigente a consacrare un potere puramente sedentario: il potere dell’amministrazione e del tavolo da conferenza. Fondamentalmente, questo vestito è concepito in funzione dei gesti che accompagnano la parola e il calcolo astratto» (p. 54). Si tratta dunque di un tipo di abbigliamento decisamente differente rispetto a quello utilizzato fino ad allora dai ceti superiori; gli indumenti indossati precedentemente erano stati pensati in funzione di attività come la caccia e l’equitazione, mentre il completo a giacca, lanciato dal gentleman inglese, tende a limitare i movimenti. Dal finire dell’Ottocento, ed in maniera ben più marcata a partire dal termine della Prima guerra mondiale, il completo maschile inizia ad essere prodotto su larga scala tanto per le grandi masse urbane che per i mercati rurali.

Tornando alle fotografie di Sander, risulta stridente, sottolinea Berger, l’abbinamento di corpi strutturati dall’abitudine alla fatica, a movimenti ampi e prolungati, con abiti nati per idealizzare la sedentarietà. L’abbigliamento tradizionale da lavoro o da cerimonia indossato dai contadini tendeva, invece, a rispettare le caratteristiche dei corpi che rivestiva; generalmente si trattava di abiti dai tagli sciolti, volti a permettere una certa libertà di movimento. «Erano l’antitesi degli abiti sartoriali, tagliati per seguire la forma idealizzata di un corpo più o meno statico» (p. 55).

Non solo nessuno obbligava i contadini ad acquistare e indossare completi borghesi ma, stando alle fotografie, questi si mostrano decisamente orgogliosi di vestirli ed è qui che, sottolinea Berger, può essere colto un mirabile esempio di quella che Antonio Gramsci indicava con egemonia di classe. «I contadini – e, se pur in modo diverso, gli operai delle città – furono persuasi a scegliere questo nuovo tipo di abito. Dalla pubblicità. Dalle fotografie. Dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Dai commessi viaggiatori» (p. 56). Berger ricorda anche come in occasione dell’Esposizione Universale parigina del 1900, fossero stati, per la prima volta nella storia, invitati ad un grande banchetto tutti i sindaci francesi, molti dei quali provenienti da piccoli paesi rurali e come per l’occasione la stragrande maggioranza di essi indossasse il completo a tre pezzi a riprova del fatto che, per le occasioni importanti, l’abito completo fosse ormai da intendersi d’obbligo.

Le classi lavoratrici – ma in questo i contadini si mostrarono più semplici e ingenui degli operi – si convinsero a adottare come propri i criteri della classe dirigente, nel caso specifico i criteri di eleganza sartoriale e di gusto. Al tempo stesso, l’accettazione di quegli standard, il conformarsi a quelle norme che nulla avevano a che fare né con la loro tradizione né con la loro esperienza quotidiana, li condannò, all’interno di quel sistema normativo, a essere sempre, e in modo riconoscibile per le classi superiori, mediocri, goffi, ordinari, insicuri. Ed è proprio così che si soccombe all’egemonia culturale (p. 56).

In conclusione lo studioso ama immaginare che, una vota giunti alla festa, magri dopo qualche birra, i tre giovani contadini, abbiano riposto le cravatte ed appese le giacche su qualche sedia per lasciarsi andare più liberamente nelle danze fino all’alba, coincidente però con l’avvio di una nuova e dura giornata di lavoro nei campi.

Le riflessioni di Berger sulle foto di Sanders sono oggettivamente acute e interessanti anche se non mancano di mostrare parzialità e limiti in parte dovuti al fatto che lo scritto in questione è stato steso nei primissimi anni Settanta e in parte addebitabili ad un approccio derivato dal concetto gramsciano di egemonia tendente a sottostimare i livelli di autonomia presenti nelle scelte e nelle pratiche della classe sociale proletaria.

Circa le parzialità determinate dalla data di stesura del pezzo (1972) occorre ricordare che proprio in quel periodo la centralità, anche a livello di immaginario, conquistata a suon di lotte e insorgenze, da parte del proletariato, ribalterà per certi versi i giochi; tanto che sarà la classe borghese a manifestare palesi derivazioni dall’abbigliamento proletario inaugurando un meccanismo di ripresa della moda dei ceti più bassi che non è venuto meno nemmeno con l’affievolirsi dell’offensiva operaia. Ancora oggi, nella smania della moda di proporre sempre più frequentemente novità per sostituire con nuove merci quelle vendute precedentemente, il citazionismo dell’abbigliamento nei confronti del mondo proletario o sottoproletario di certo non manca e gli street style sono da tempo diventati una fonte importante da cui attingere da parte di diverse categorie merciologiche indirizzate a compratori di certo non solo di estrazione popolare.

A proposito dei limiti del concetto di egemonia applicato da Berger, risulta utile rimandare alle riflessioni proposte da James C. Scott nel suo Il dominio e l’arte della resistenza (Elèuthera, 2006) [su Carmilla], tese a denunciare come le tesi basate sul concetto di egemonia gramsciano, soprattutto nella loro forma forte, fatichino a spiegare i sommovimenti sociali provenienti dal basso.

Se le élite controllano la base materiale della produzione cosa che permette loro di estorcere conformità di comportamento, e controllano anche i mezzi della produzione simbolica, assicurando così la legittimazione del proprio potere, il risultato dovrebbe essere un equilibrio che si auto-riproduce, che solo un urto esterno può compromettere. […] Se l’esistenza del conflitto sociale è un problema per le teorie sull’egemonia nelle società contemporanee, diventa una contraddizione insanabile quando le teorie vengono applicate alla realtà storica delle società contadine, o alla schiavitù e al servaggio (p. 109)

Il fatto che i dannati della terra abbiano storicamente avuto difficoltà a immaginare assetti sociali diversi da quelli conosciuti, non ha di certo impedito a questi di immaginare il completo rovesciamento dello status quo, tanto che il tema millenaristico del mondo capovolto, ove i primi e gli ultimi si invertono di ruolo, lo si ritrova nelle principali tradizioni culturali in cui sono state messe in discussione le disuguaglianze di potere, ricchezza e status.

Sul piano storico […] non ci sono prove per accreditare una teoria dell’egemonia, forte o debole che sia. Gli ostacoli alla resistenza, e sono molti, non possono semplicemente essere attribuiti all’incapacità dei gruppi subordinati di immaginare un ordine sociale alternativo. Essi immaginano sia il capovolgimento che la negazione della dominazione cui sono sottoposti e, fatto più che mai importante, hanno agito conformemente a questi valori, per disperazione o in rare occasioni perché le circostanze sembravano favorevoli […] l’immagine del diciassettesimo secolo che rappresenta il signore costretto a servire un villico seduto alla tavola imbandita era destinata a evocare simpatia più tra le classi rurali che tra i loro superiori sociali (p. 113)

Il fatto che i gruppi subordinati abbiano frequentemente immaginato il ribaltamento dei ruoli sociali sta a testimoniare come questi non siano poi così normalizzati dai discorsi delle élite che intendono convincerli dell’immutabilità sociale. Scott si interroga circa il motivo per cui le teorie dell’egemonia e dell’integrazione ideologica siano riuscite ad esercitare così tanto fascino su storici e sociologi.

Nel mondo strutturale-funzionale della sociologia parsoniana, i gruppi subordinati arrivano naturalmente ad accettare i principi normativi dell’ordine sociale, senza i quali la società non potrebbe esistere. Nella critica neo-marxista [tendente a seguire il concetto di egemonia gramsciano] viene ugualmente dato per scontato che i gruppi subordinati abbiano interiorizzato le norme dominanti, con la differenza che tali norme vengono viste come una falsa rappresentazione dei loro interessi oggettivi. In entrambi i casi, l’integrazione ideologica produce stabilità sociale: nel primo questa stabilità è positiva, mentre nel secondo è ciò che permette la continuazione dello sfruttamento di classe (p. 117)

Il motivo per cui questa idea dell’integrazione ideologica ha tale risonanza a livello storico, conclude Scott, deriva forse dal fatto che gli studiosi si sono a lungo ostinati a prendere in considerazione il solo “verbale pubblico” offerto dal potere con l’intenzione di mostrare accettazione e complicità da parte delle classi sociali inferiori. Accanto alla narrazione ufficiale del “verbale pubblico” esiste però anche un “verbale segreto” proprio dei dominati, tenuto segreto per opportunità dettate dai rapporti di forza sfavorevoli e la mancanza di analisi di quest’ultimo verbale comporta un’idea di egemonia totale detenuta dal gruppo dominante.

Tornando alle fotografie di Sander da cui siamo partiti, nel desiderio dei contadini di indossare l’abito borghese nei giorni di festa è ravvisabile esclusivamente la resa dei sottomessi al potere? Chi è obbligato ai movimenti dettati dal lavoro quotidiano, nell’indossare abiti borghesi creati per palesare l’esenzione da un lavoro fisico faticoso, non manifesta forse anche un diritto all’inattività?

La rappresentazione dei sottomessi come classe in totale balia della borghesia rischia di annullare di fatto l’idea che il conflitto, seppure a intensità variabile in base ai rapporti di forza, è pur sempre presente. Accettare l’idea che vuole i subordinati totalmente succubi del potere e delle sue narrazioni significa, per certi versi, negare loro ogni possibilità di autonomia, dunque negarli in quanto classe sociale capace di emanciparsi senza un provvidenziale intervento esterno.

Visto che non si era al superamento delle classi sociali all’epoca della fotografie di Sander e non lo si era nei primi anni Settanta, quando ne scrive Berger, se non si vuole rischiare di scivolare nel mito della fine della storia, sarebbe importante cogliere la presenza di elementi di autonomia anche nelle condotte più contraddittorie di quanti si trovano in una condizione di subalternità.

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