Abba – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni – 85 https://www.carmillaonline.com/2022/07/14/divine-divane-visioni-85/ Thu, 14 Jul 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72543 di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011 Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non [...]]]> di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)

982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)

986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)

990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)

991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)

994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)

995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)

997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)

1001 – Breaking BadThe Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)

1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)

(Continua – 85)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 59 https://www.carmillaonline.com/2014/05/20/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-59/ Mon, 19 May 2014 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14692 di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città! È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà [...]]]> di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città!
È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà grande affetto: “Dopo il punk, ultima scossa tellurica datata 1977, il rock che non vive di maniera ha ripreso a vivere solo grazie all’innesto di nuove forme musicali e al recupero di quelle tradizionali, diventando una creatura mutevole, spesso sfuggente, ma ancora vitale perché crogiuolo di suoni e significati. E speranze. La Mano Negra è l’incarnazione più riuscita di questo meticciamento, tanto da dargli un nome, patchanka, che tutti utilizziamo per indicare quel cocktail inebriante di rock’n’roll, punk, musica araba, reggae e quello che saltava in testa ai membri della band in quel momento. Una fusione viscerale e coinvolgente, politicamente esplosiva perché autonoma, avulsa dai canoni spettacolari dello showbiz: rock per pensare e per ballare, dove l’attività del bacino asseconda quello degli emisferi cerebrali. Out of time documenta con generosità (sono 6 ore, tutte meritevoli) la storia di questa banda di delinquenti che ha rifiutato le lusinghe dello star system andando a suonare (perlopiù gratis) nelle periferie del mondo, regalando emozioni e catturando ogni volta nuove energie vitali per la propria arte. Il doppio dvd presenta 4 coloratissimi film documentari, 17 videoclip (molti inediti) e altre 17 tracce audio tra cui – guarda un po’ – saltano fuori cover di Little Richard, Elvis, Fats Domino e Chuck Berry, le radici della rivoluzione. Musica e immagini ci rendono un universo di truffatori, puttane, sbronze e consapevolezza politica, contro l’odierno strapotere culturale e politico yanqui. Edizione in francese (di tali Joseph Dahan, Thomas Darnal, Philippe Teboul) con sottotitoli, ma musica e immagini parlano da sé. Facce scure, sorrisi, chitarre, trombe e tamburi… come dice la Mano Negra: pura vida”.
E poi che altro cinema c’è stato? Beh, il mio, perché il 12 maggio Bruce Springsteen era in città e io (mesi prima) avevo già deciso che non avevo l’età per cercare i biglietti. Però, la mattina, un mio vicino mi fa: “ne ho uno che mi avanza… interessa?”. Secondo te? Ad Assago siamo tutti ipnotizzati da un concerto bello, intenso e musicalmente validissimo che fa seguito all’album tributo We Shall Overcome – The Seeger Sessions: folk, work song, un po’ di Woody Guthrie e nessuna concessione al repertorio del Boss. Alla prima canzone scoppio a piangere, davanti a gente che non conosco. Non sono l’unico a commuoversi e mi abbraccio con uno sconosciuto. Il mio amico Max non ha dubbi: non è passione musicale condivisa, è solo depressione incipiente.
Il 30 invece ho visto, sempre ad Assago ma stavolta con acustica degna di un mercato ittico, Santana: concerto buono ma non eccezionale, con qualche chicca (A Love Supreme, l’attacco di Santana III) ma troppi pezzi da Supernatural e dai recenti album danzerecci che sembrano prodotti in un villaggio vacanze. Sono piazzato in tribuna Gold ed è un pacco perché è lontanissima dal palco: la vera fiesta è sotto, con una marea di latinos che hanno finalmente una meritata serata para gozar en paz. Seduto vicino a me c’è Antonio Ricci che al cellulare, sornione, dà indicazioni per la messa in onda in diretta di Striscia la notizia: “Allunghiamo il brodo… mettici Capitan Ventosa”. Sotto la tribuna bambini, vecchie signore che ballano il merengue anche se non c’entra nulla e tanti giovani ingiacchettati che quando riconoscono le hit si scamiciano, “esagerando” per manifestare il loro apprezzamento. Per tornare a casa ci metto un’ora e mezza, come se abitassi ancora a Genova: i vigili ti dirottano solo sulla tangenziale dove ci sono lavori, incidenti e polizia e non è possibile puntare direttamente verso il centro città. Tutti provano a superare tutti e la coda conosce un processo di gemmazione inarrestabile. Questa è la Milano che ha eletto ieri Letizia Moratti sindaco. Addavenì la dittatura, ma quella cattiva cattiva. (Dvd; 26 e 27/5/06)

ddv5902lenny586 – Splendido Lenny di Bob Fosse, Usa 1974
Quando rivedo un film dopo tanti anni, ho sempre una paura tremenda. Perché la memoria addolcisce tutto e a 17 anni non avevo pensieri: ogni film era un regalo, una storia nuova con delle immagini da affidare al catalogo dei ricordi. E infatti Lenny ce l’ho ancora stampato qui in testa: le scene, le facce dei personaggi, le interpretazioni, il bianco e nero aspro e doloroso, anche la musica. E poi la vecchia nonna ebrea che fa Feee feeee!, Dustin Hoffman in un ruolo della vita, la battaglia artistica contro la società e le convenzioni, la disperazione, la solitudine e i propri demoni combattuti con armi suicide come alcol e droga. Ho letto l’anno passato Come parlare sporco e influenzare la gente, curato da Luttazzi, e qui ritrovo quel sapore amaro e disincantato. Film amato ai tempi del liceo e anche a quelli dell’università: il timore di non aver capito nulla allora è fugato: Lenny è ancora bellissimo (oppure non capisco niente anche adesso, fate voi). (Dvd; 4/6/06)

ddv5903TheCorporation587 – Il mappazzone The Corporation di tre tizi, Canada 2003
Film paratelevisivo dei carneadi Mark Achbar, Jennifer Abbott & Joel Bakan, frutto del rimontaggio di un ciclo di episodi più lunghi. Gode di meriti dovuti alla sua natura no global ma, sinceramente, è un pasticcio montato neanche granché bene. Tante storie di capitalismo sfruttate senza un’idea dietro che non fosse il metterle in fila. E mancano anche le conclusioni su cosa produca questo sistema mondiale, fermandosi al singolo cattivello preso con le mani nel sacco. In più l’edizione italiana parla continuamente della Corporazione, qualcosa che a me evoca dei sindacati fascisti e non il Nuovo Ordine Mondiale (per non parlare del SIM, ecco). Peccato, anche se vedendo cosa raccontano, meglio che l’abbiano fatto, dài. (Dvd; 6/6/06)

ddv5904Vergeat589 – Il capolavoro artigianale Vic Vergeat Live at Music Village di Riccardo Festinese ed IO, Italia 2006
Questa è una storia lunga ed è meglio raccontata a voce, ma il succo è che a fine novembre dell’anno passato abbiamo organizzato in pochi giorni le riprese di un concerto di Vic Vergeat, un amico musicista sulla cui vicenda di milite chitarrista ignoto Riccardo ed io stiamo progettando un documentario. In due giorni abbiamo messo su una squadra di 4 persone (noi compresi) approfittando dei potenti mezzi televisivi della redazione in cui lavoriamo (abbiamo cioè fregato nastri, microfoni e telecamere). Poi, in loco s’è decisa la regia, impostato le luci e scelto coll’artista una scaletta. E poi ci siamo affidati alla buona sorte. La prima serata non è stata eccezionale né per Vic né per noi: stavamo ancora capendo tutti come comportarci. La seconda è venuta benissimo, band e troupe in forma, con l’unico personale problema di tenere la telecamera dritta mentre balli. Il Dvd lo abbiamo montato all’antica, mettendo al passo tutte le camere e scegliendo gli stacchi – pochi – in modo preciso, non a cazzo come sembra di moda fare adesso. È venuto sinceramente bene e le advanced copies mandate alle riviste musicali hanno fruttato una marea di recensioni entusiastiche, dovute anche all’affetto per il musicista e per la modalità produttiva da banditi, a costo veramente ridottissimo. L’unico problema è che il Dvd, poi, la Cramps non lo ha praticamente distribuito. Io l’ho portato materialmente da Black Widow, negozio di settore di Genova, e le dieci copie che gli ho lasciato sono state tutte acquistate entro una settimana. Misteri del mercato. È stata una bella esperienza e sul curriculum adesso vanto regia, direzione della fotografia, montaggio e produzione di un titolo. Che però non ha dato gli esiti sperati. Amen. (Dvd; luglio 2006)

ddv5905ER590 – Il capolavoro seriale E.R. Anno 1 di Aa.Vv., USA 1994/95
Mi sono detto: massì, tra un match e l’altro della Coppa del mondo di calcio in Germania, mi vedo un episodio tanto per gradire e capire perché tanti decerebrati perdono le bave per un maledetto telefilm, come drogati davanti al video per ricevere la dose settimanale. E poi, ovviamente, la scimmia m’è salita in spalla: diventato campione del mondo senza troppo entusiasmo (fuorché nella semifinale coi tedeschi, quando ho gridato afono per non svegliare Sofia), non sono però riuscito più a staccarmi dal serial. Perché è vero: E.R. è altissima narrazione popolare che affronta cronaca e vita, con un linguaggio, un ritmo e un’abilità narrativa e tecnica notevoli. È un capolavoro fruibile a tutti i livelli, io chiaramente al più basso, quello emozionale, de panza, amando subito tutti i personaggi, vivendone i problemi, sentendoli incredibilmente vivi e veri. E il dvd è un’invenzione geniale: 40 minuti a sera, in lingua originale, col formato giusto. E poi tutti a nanna. (Dvd; giugno, luglio e agosto 2006)

??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????591 – Adorabile Volver di Pedro Almodòvar, Spagna 2006
Primo film in sala da un anno e quattro giorni a questa parte, di nuovo a Champoluc: serve un’estate intera e vuota, ormai, per riuscire ad andare al cinema. E per fortuna questo è un bel film che ti sbilancia con le consuete follie almodovariane che tu accetti dicendoti: e beh, Almodòvar! Del resto sei stanco, dormi poco, capisci già quasi niente di tuo… e poi, come per magia, alla fine, tutto ha un senso, il mosaico si ricompone e capisci che sei uomo di poca fede di fronte all’abilità di Pedro. E poi quelle facce, gli occhi di Penelope, quei colori, quella musica, quelle lacrime. E sei felice. (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 14/8/06)

ddv5907JoeCocker592 – Il felicemente caotico Joe Cocker Mad Dogs and Englishmen di Pierre Adidge, USA 1971
Quando non c’era il dvd e neanche uno straccio di tivù musicale, se ti perdevi un concerto non ti restava che andare al cinema. E beccarti un film come questo: la cronaca di un tour incredibile che attraversò gli USA nel 1970. Reduce da altre tournée e beneficiato dalla performance immortalata dal film su Woodstock, Joe Cocker fu letteralmente costretto dai discografici a tornare on the road. In pochi giorni quel geniaccio di Leon Russell (il pianista di Delta Lady… ah no? Non la conoscete? Strano…) gli mise su una band funkyssima, con sezione fiati e coriste da infarto: una ventina di crociati del rock (e del blues e del gospel e del soul etc. etc.) con bambini e cani a carico, incubo di ristoratori e albergatori nel cuore dell’Amerika. La regia è minimale: sesso e droga sono pressoché invisibili, ma li leggi negli occhi dei protagonisti, occhi distrutti dalla fatica (in poco più di due mesi, 58 concerti) e dalla tensione che stava montando, dal momento che Cocker non sopportava il ruolo di Russell, vero leader sopra e sotto il palco. Il film è disordinato ed eccitante come i concerti ripresi, talmente intensi che il catarroso Cocker ci ha messo quindici anni per riprendersi e diventare il crooner pelato per yuppies di metà anni Ottanta. Il proletario inglese di allora sembra il bisnipote di quello odierno. Ha ancora i capelli e due basette da ufficiale napoleonico e se l’air guitar è l’abilità a mimare la sei corde ecco a voi il campione del mondo di air orchestra, capace di assecondare coi movimenti spastici del corpo tutti i musicisti che lo accompagnano sul palco. Film tenero, quando si pensava che il rock potesse cambiare il mondo ed evitare la prossima guerra. (Dvd; 23/8/06)

ddv5908MyArchitect593 – Inaspettatamente sentimentale, My Architect di Nathaniel Kahn, USA 2003
Oggi un po’ dimenticato quando si cita il Movimento Moderno, l’architetto e urbanista Louis Kahn gode di grande fama tra gli intenditori. A me, personalmente, è sempre stato pesantemente sulle balle. Quando studiavo architettura non amavo le sue (poche) realizzazioni monumentali e un po’ ottuse e un prof che ritengo un coglione lo magnificava apoditticamente (sono un po’ invelenito, lo ammetto, perché la carogna mi aveva fatto sputare sangue per l’esame di Composizione II). Grazie a questo documentario scopro che Kahn era anche un farfallone, indebitato fino al collo e incapace di gestire i suoi affari che comunque lo avevano portato in giro per il mondo come guru architettonico ben prima degli odierni archistar. Il figlio avuto fuori dal matrimonio indaga sul padre che non ha conosciuto abbastanza e scopre quanto detto sopra. Ma gli vuole bene lo stesso e gli dedica questo affettuoso filmetto dove si cercano tracce del padre ripercorrendone anche la carriera. Ci sono momenti grandiosi (un bengalese che, davanti al parlamento di Dacca, chiede: “Chi? Farrakhan?!”), altri crudi (l’urbanista pratico che massacra il lavoro dell’architetto), altri ancora impudichi o calorosi. Documentario altalenante, curioso, formalmente impreciso come lo sono le opere fatte col cuore e non con la testa. Per cui fa piacere vederlo. (Dvd; 26/8/06)

ddv5909Hitchhikers594 – The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Garth Jennings, Gran Bretagna 2005
Siam dalle parti del capolavoro, e ve lo dice uno che la fantascienza non la capisce mai fino in fondo. In origine uno sceneggiato radiofonico, poi libro, infine film. Conoscevo il testo (che però avevo anche abbastanza dimenticato) e trovo magnifica la riduzione cinematografica, che conserva invenzioni, stupore e ironia: procuratevi un asciugamani, che si parte. (Scusate, ma non so cosa scrivere di più… non so: 42? Grazie per il pesce? Dai, un film così non si commenta, si ama e basta). (Dvd; 30/8/06)

ddv5910InsideMan595 – Molto cool, Inside Man di Spike Lee, USA 2005
È un giovedì e ci diamo un tono da genitori che non subiscono la dittatura dei figli e che vanno allegramente al cinema. Anche a metà settimana, capito? Ed è tutto falso, ma il film lo vediamo veramente, anche se poi non c’è tempo neanche per un toast e una birretta. Inside Man non è niente male e ci va bene così: solido film di genere, con megarapina in banca, simpatia evidente per i delinquenti e investigatore scaltro (Denzel Washington) che esibisce con gusto la sua sensuale blackness. Dialoghi serrati e ben gestiti, attori notevoli, bellissima fotografia sgranata e regia inventiva. E si parla anche della psicosi newyorchese post 11/9 e delle libertà individuali sotto tiro, senza che stavolta Spike parta col trombone retorico, ma facendolo per cenni brevi e sapidi. Bravo. E bravi. Noi. (Cinema Gloria, Milano; 7/9/06)

ddv5911lecollinehannogliocchi596 – Il pessimo anatroccolo Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja, USA 2006
Rifacimento putridissimo di un classico dell’horror che non ho mai visto. Di questo posso dire che la prima parte non mi sembra granché. Lo comunico placidamente a Barbara nell’intervallo, sospirando per la sfiga di chi va poco al cinema e in più si piglia un film dissenterico. Poi però c’è una svolta maligna e il film diventa cattivello come si deve: la bellissima Vinessa Shaw viene ammazzata senza pentimenti (cosa che aggiunge mistero al plot: hai veramente seccato una così? …una che vale da sola la visione del film? Naaa, dài…) e assume importanza anche un sottotesto politico prevedibile ma orchestrato decentemente. Insomma: volevo gli zompi e qualche idea e alla fin fine – siccome son di bocca buona e maltrattato dall’insonnia – li ho avuti. Rilevo che sono tra i pochissimi a cui sia minimamente piaciuto il film. Ci sarà qualche motivo, temo. (Cinema Ducale, Milano; 14/9/06)

ddv5912blackmoreMr. Blackmore, I suppose…
Ritchie Blackmore è l’uomo responsabile di milioni di chitarristi grazie al riff primordiale di Smoke on the Water. Eccentrico, taciturno, spigoloso: dai tempi dei Deep Purple, la fama che lo precede non è rassicurante. Ha fatto impazzire compagni di band coi suoi scherzi pesanti, ha licenziato frotte di musicisti e ha spiazzato i critici con interviste aggressive o dichiarando l’amore per gli ABBA. Dieci anni fa ha imbracciato l’acustica (e spesso anche il liuto) per dedicarsi con perizia alla musica rinascimentale, lasciando tutti di stucco. Ma ha anche ideato un gioco di ruolo: lui è il menestrello in leggings, la futura sposa Candice Night la sua dama e il pubblico la corte danzante. Tutti in costume, come in Non ci resta che piangere. Da allora, complici le esplicite prese per il culo dei critici, non parla più con la stampa rock. Io però ci provo nonostante si dica che Ritchie sia succube non solo della compagna, ma addirittura della futura suocera. Non si sa mai e infatti, siccome non è prevedibile, il giorno prima del concerto che tiene a Milano, arriva un fax che dice: «Sì!». Per cui dopo un’esibizione divertente – e nel consueto clima folle – attendo fuori dai camerini la chiamata. Quando è il momento la prima sorpresa: il chitarrista non è più in calzamaglia e stivaloni, ma è vestito da calciatore della Germania, con tanto di scarpini. Non scherzo. Candice invece, è ancora in costume e presenzia, regalandomi una serie di scambi dialogici degni di una Casa Vianello medievale. Vi risparmio tante ciance, ma Blackmore adora Bob Dylan, Zidane e purtroppo difende Bush. Vado poi dritto alle polemiche con la stampa che non gli perdona di aver abbandonato l’hard rock e lo demolisce puntualmente da anni a ogni disco che pubblica. Azzardo che i nostalgici siano loro, non lui. Ritchie diventa rigido e scandisce le parole una per una, temo che s’incazzi: «Questo È Corretto Al Cento Per Cento». Pfuii… «Ma non m’importa che ci trattino male. Se c’è un brutto pezzo su di noi non m’interessa leggerlo. Se è buono… beh, sono cose che so già. Sono annoiato da interviste sul rock, metal, l’hard… preferisco parlare di altre cose». Allora rilancio: è vero, come hanno scritto, che a casa ti piace passare il battitappeto? «Beh, è vero!». Interviene Candice: «È per questo che mi piace!». Ma perché, tutto ciò? «Sai, nel 1981 viene a trovarmi a casa il mio batterista dei Rainbow. Stavo passando il battitappeto e lui c’è rimasto male: “Ma tu sei una rockstar!”. Tre settimane dopo siamo in tour e in albergo decido di spostare il letto dalla parete. Ho il sonno leggero e da quel lato c’era casino. Quando sposti un letto in albergo, sotto c’è un mondo. Vivo. E allora ho passato il battitappeto e ovviamente in quel momento è arrivato il batterista… e da allora la voce è girata…». Da qui in poi è tutta discesa e allora mi permetto: suonare musica del Rinascimento non è una fuga dal presente? «Sì, certo. Abbiamo tutti fantasie. La mia è di essere ubriaco nel quindicesimo secolo. Non mi piace il mondo di oggi. Musicalmente fa schifo. Mi piace ascoltare musica antica, non la radio». Candice elabora: «E poi, la fuga dal presente… c’è chi va allo stadio, chi passa le ore sotto una macchina a riparare il carburatore… a noi piace andare in giardino, con la luna piena e un falò e suonare musica romantica, con gli amici, nella natura. È una fuga, certo, ma dal PC, dal cellulare…». Ma perché, lo avete? Candice chiarisce: «Solo per le emergenze, io. Lui no, figurati». Chiudo con la più banale domanda, che in tempi di disagio esistenziale mi illumina sempre un po’: alla fine, cosa vi rende felici? Di nuovo la compagna: «A me, piantare fiori in giardino». Ritchie è più raffinato: «A me piace lamentarmi. È un passatempo inglese: sono felice quando mi lamento, è catartico, terapeutico. Sai, in America (dove vivono, N.d.C.) con il politically correct è impossibile farlo. A me piace dire ciò che penso. E quindi lamentarmi». Chiude Candice: «E quando comincia vado in giardino a piantare fiori!». Non esistessero, due così, non ci sarebbe sceneggiatore capace di inventarli. (Live, 16/9/06)

ddv5913Caimano597 – Paura! Il caimano di Nanni Moretti, Italia 2006
Film temuto. Io a Nanni ho voluto bene. Perché godevo colpevolmente compiaciuto delle gomitate complici, delle strizzate d’occhio… e gli ho perdonato anche i morettismi, quei discorsi tra noi. E vabbeh, è la sua cifra. Se non ti piace, non guardarlo. Però negli ultimi tempi mi sembrava che si fosse persa un po’ la misura e questo film – tra dichiarazioni di vario genere e aspettative della stampa – mi faceva molta paura. Una scommessa rischiosa che non volevo veder perdere. E invece, vi dirò, il film mi funziona eccome. La costruzione è azzeccata e Moretti scioglie la tensione con la sua ironia. È un atto d’accusa, certo, ma non c’è piagnisteo, semmai ferma incazzatura. E non credo abbia spostato d’un voto il confronto Prodi/Berlusconi (i voti semmai li hanno spostati altri, ma questa è una storia di cui mai nessuno vi renderà conto, neanche la magistratura). Silvio Orlando è bravissimo, Margherita Buy inaspettatamente perfetta e se la cavano bene anche tutti gli altri. Invece orrenda e spero non premonitrice la scena finale. (Dvd; 22/9/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 59)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

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(Continua – 58)

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