1984 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I ratti dell’immaginario https://www.carmillaonline.com/2021/04/21/i-ratti-dellimmaginario/ Wed, 21 Apr 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66087 di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con [...]]]> di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con i lacrimogeni sparati in faccia a chi si oppone ai loro devastanti e inutili progetti, con la criminalizzazione dei lavoratori in lotta, con la distribuzione di anni di reclusione o di sorveglianza speciale per chi si ostina a battersi contro le miserie dell’esistente e, per finire in “gloria”, con generali in pompa magna che vorrebbero farci credere di essere al servizio della società e della “nostra” salute.

Negano l’evidenza della gestione fallimentare della pandemia e dell’esistente, negano o ignorano l’assoluta dipendenza di ogni loro decisione dalle necessità immediate o future del capitale, rovinano le mezze classi fingendo di rappresentarle e si accaniscono sui lavoratori salariati e i giovani in una epocale trasformazione del lavoro e della distribuzione che lascerà sul campo milioni di disoccupati oppure di lavoratori destinati a compiti sempre più umili, non garantiti e sottopagati.

Per fare ciò, però, non possono accontentarsi di disciplinare la società e il lavoro ma, come si è già detto su queste pagine (qui) devono anche riuscire a reprimere e disciplinare ogni aspetto dell’immaginario, individuale o collettivo.
Per raggiungere questo obiettivo hanno dovuto andare oltre i limiti della normale produzione di narrazioni tossiche cui ci hanno abituato da tempo le fake news sistemiche e di Stato; hanno superato i limiti di una produzione culturale mainstream, contro cui questa rivista si batte ormai da molti anni poiché ritiene l’immaginario un campo di battaglia fondamentale per la definizione del nostro futuro, e hanno iniziato a porre severi limiti alla libertà di immaginare, in ogni sua forma ed espressione.

In tale ipotesi la libertà d’opinione sarà definitivamente seppellita e si potrà essere liberi di immaginare soltanto se si immaginerà ciò che il Capitale e lo Stato riterranno utile e proficuo immaginare. La capacità di immaginazione sarà trasformata in reato della mente, in associazione a delinquere del desiderio e dovrà essere rigidamente controllata da una sorta di polizia politica dei sogni.

Nemmeno George Orwell con 1984 era giunto a tanto e anche Ray Bradbury, con il suo Fahrenheit 451, era tutto sommato rimasto ancorato ai roghi di libri già visti tante volte nella storia. Tentativi messi in atto, anche in tempi recenti, per cancellare la memoria del passato e la sua cultura.
Oggi invece si vuole cancellare il futuro e la capacità di immaginarlo insieme al presente.
Presente e futuro che devono certamente preoccupare molto, se non addirittura spaventare, gli attuali signori della guerra economica, sanitaria e psichica per farli giungere ad una pratica che forse solo Philip K. Dick aveva saputo adeguatamente descrivere in alcune sue opere.

Disciplinare la mente significa disciplinare l’immaginario, mentre immaginare significa, il più delle volte, anticipare. Ecco allora che ciò che viene messo in atto oggi, anche attraverso l’operato della magistratura, è proprio questo: il tentativo di negare il futuro o un’immagine altra del presente.
Sia ben chiaro: si tratta di una partita per la vita e per la morte di un presente oscurantista che per rendersi eterno deve uccidere sul nascere qualsiasi ipotesi altra. Anche se presente soltanto in un romanzo.

Come è accaduto nel caso di Marco Boba, al quale va la piena solidarietà di tutta la redazione di Carmilla, che sembra esser precipitato in una dimensione degna dell’Inquisizione tardo medievale, poiché dopo una condanna in primo grado a quattro anni di detenzione per “incendio volontario” a seguito dei frammenti da fuoco d’artificio caduti su un capannone interno al carcere torinese delle Vallette, durante una manifestazione di protesta al suo esterno nel febbraio del 2019, è anche diventato oggetto di un provvedimento di sorveglianza speciale proposto nei suoi confronti, a causa del suo romanzo Io non sono come voi edito nel 2015 dalla cooperativa editoriale Eris di Torino. Infatti, come si afferma nel comunicato della casa editrice:

Giovedì 1 aprile è successa una cosa molto grave, e prima di parlarvene abbiamo voluto prenderci qualche giorno per riflettere. Scusate la lunghezza, ma in certi casi ogni parola è importante.
A un nostro autore, Marco Boba, è stata notificata da parte della Questura e della Procura di Torino una richiesta di sorveglianza speciale. Sino a qua, purtroppo, niente di straordinario. Negli ultimi anni questa misura preventiva molto pesante è stata richiesta e applicata più volte a militant* e attivist* di tutti i movimenti. Per chi non fosse avvezzo, la sorveglianza speciale consiste in un insieme di regole e divieti che vanno a colpire la persona nella propria quotidianità a causa di quella che viene definita “pericolosità sociale”, quindi è un provvedimento che colpisce le persone al di là di uno specifico fatto ma per un “comportamento generale”1.
Quello che noi troviamo davvero pericoloso e allarmante è che all’interno di questa richiesta di sorveglianza speciale sia stato inserito il romanzo –Io non sono come voi– che Marco ha pubblicato con noi nel 2015 come aggravante e/o prova. Anzi, il fulcro di questa prova nello specifico è la frase che noi come editori abbiamo scelto di mettere nel retro di copertina: «Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tendenzialmente tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta.» Una frase che dice il protagonista del libro in un dialogo. Una frase che come sempre estrapoliamo dal romanzo per far capire a chi si ritroverà il libro in mano qual è il cuore della storia, il mood, l’atmosfera, lo stile narrativo.
Parliamo di un romanzo di finzione, con un protagonista di finzione. Il romanzo è scritto in prima persona, al presente, scelta tra l’altro fatta non in origine dall’autore, ma dopo un lungo confronto tra autore ed editore. Editing, normale editing.
Che il romanzo sia di fantasia tra l’altro è dichiarato sin da subito, nella sinossi presente nell’aletta che si discosta totalmente dalla biografia dell’autore e in due pagine esplicative finali.
Non basta lo sfondo, il contesto, l’ambientazione, per decidere che un romanzo è autobiografico. I fatti principali che costituiscono la trama e il motore principale della narrazione sono chiaramente inventati, di finzione.
Ecco, a noi sembra davvero pericoloso che una finzione possa diventare una prova, che il dialogo di un personaggio di un romanzo possa diventare una prova, che le opinioni o le azioni di un personaggio di finzione possano diventare una prova, che una frase scelta dall’editore, per promuovere al meglio un libro, possa diventare un’aggravante e che una questura o una procura si possano occupare di una materia che dovrebbe restare appannaggio di chi fa critica letteraria.
In questi anni più volte si è invocato il reato d’opinione. Dalla vicenda di Erri De Luca, assolto dall’accusa di istigazione a delinquere per essersi espresso a favore dei sabotaggi contro la Tav, alla studentessa accusata di aver partecipato attivamente a delle azioni No Tav solo per aver utilizzato il “noi partecipativo” nella sua tesi di laurea in Antropologia culturale sul movimento stesso.
Ma ci sembra che a questo punto non stia diventando illecito solo avere un’opinione, ma anche il puro e semplice immaginare. Una società in cui non solo si paga per le proprie opinioni, ma addirittura per le opinioni o le azioni dei propri personaggi d’invenzione sarebbe la trama perfetta per un romanzo distopico. Ma per qualcuno, invece, è la realtà, perché sta accadendo.

Per Marco Boba, militante anarchico di lunga data, scrittore, occupante di case ed ex-redattore di Radio Black Out, il pm erede dell’operato anti-movimentista del duo Rinaudo e Padalino ha richiesto un provvedimento di sorveglianza speciale della durata di due anni basato, incredibilmente, su prove costituite non soltanto da una frase tratta dalla quarta di copertina del romanzo edito da Eris, come è stato detto già prima, ma anche da una recensione on line del libro stesso, oltre che dalla cattiva condotta suggerita dalla più che discutibile condanna precedentemente inflittagli nel primo grado di giudizio.

Sembra così, nell’operato della giustizia torinese, che la fantasia sia davvero andata al potere, visto che fantasiosi rappresentanti della magistratura perseguono reati di immaginazione, utilizzando qualsiasi forma o applicazione dell’immaginario per tarpare le ali non solo a quella che in tempi ormai lontani si sarebbe definita creatività, ma ad ogni forma di movimento dalle caratteristiche anti-sistemiche o antagoniste.

Dilungarsi ulteriormente su un episodio che più che appartenere ad una dialettica viva e reale tra le forze e le classi sociali potrebbe essere stato tratto da una farsa di Totò e Peppino, non sarebbe necessario se l’utilizzo a buon mercato e a largo raggio della sorveglianza speciale, accompagnato da accuse fantasiose, non fosse diventato pratica corrente nei confronti dei militanti NoTav, di coloro che come Eddi hanno combattuto per la libertà del Rojava oppure per gli anarchici cagliaritani e le giovani donne giunte da poco alla militanza antagonista, com’è successo recentemente a Firenze.

Vorremmo poter dire di questa giustizia fai da te, di questi apparati repressivi, dello Stato e dei governi imbelli, non ragionar di lor ma guarda e passa, ma l’unica cosa che possiamo invece affermare in questo momento e in solidarietà con tutti coloro che da questi provvedimenti e dalle violenze sono ormai quasi quotidianamente colpiti è che anche noi non siamo come voi e che molti ancora si aggiungeranno alle nostre fila, poiché il vostro operato sta proprio lavorando in quella direzione.

Grazie dunque a tutti coloro che, nel tentativo di ingabbiare e portarci via il nostro immaginario, faranno sì che questo diventi sempre più forte, chiaro, potente e condiviso.


  1. Per un approfondimento su pericolosità sociale e sorveglianza speciale si veda qui  

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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Emergenza di Stato https://www.carmillaonline.com/2015/11/29/emergenza-di-stato/ Sun, 29 Nov 2015 22:00:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26904 di Alessandra Daniele

they_live (3)Mentre la Francia entrava in Stato d’Emergenza permanente, anche la capitale amministrativa e politica dell’Unione Europea è stata militarizzata e messa in totale stato d’assedio. Uffici e scuole chiuse, strade deserte, metropolitana bloccata, pattuglie armate e mezzi blindati ovunque, rastrellamenti, perquisizioni, retate. Ai cittadini è stato prescritto di non affacciarsi alle finestre, e se l’avessero fatto, di non comunicare a nessuno ciò che avrebbero visto. Non è la trama d’un episodio di Black Mirror, né del prequel di The Walking Dead, è successo a Bruxelles, sta [...]]]>
di Alessandra Daniele

they_live (3)Mentre la Francia entrava in Stato d’Emergenza permanente, anche la capitale amministrativa e politica dell’Unione Europea è stata militarizzata e messa in totale stato d’assedio.
Uffici e scuole chiuse, strade deserte, metropolitana bloccata, pattuglie armate e mezzi blindati ovunque, rastrellamenti, perquisizioni, retate.
Ai cittadini è stato prescritto di non affacciarsi alle finestre, e se l’avessero fatto, di non comunicare a nessuno ciò che avrebbero visto.
Non è la trama d’un episodio di Black Mirror, né del prequel di The Walking Dead, è successo a Bruxelles, sta in gran parte ancora succedendo, ed è stato giustificato con la caccia a un singolo presunto terrorista, del quale non si sa bene neanche se sia ancora affiliato o già dissociato e in fuga anche dall’ISIS, e che comunque non è stato trovato.
Nessuno ha protestato più di tanto per la clamorosa sospensione della democrazia e dello stato di diritto, seguita ai roboanti proclami sull’imperativo categorico di difendere a ogni costo le conquiste della Civiltà Occidentale come la democrazia e lo stato di diritto.
Le prove tecniche di golpe sono perfettamente riuscite.
Non che le classi dirigenti abbiano davvero urgente bisogno d’un golpe militare vecchio stile, ormai la democrazia in Europa è appena un sipario, e neanche di velluto pesante, è una tendina della doccia di plastica trasparente.
Comunque adesso sappiamo per certo che in nome d’una sicurezza impossibile gli europei sono prontissimi a buttare nel cesso anche questa tendina, e consegnarsi a una dittatura militare che, nel loro interesse, gli vieta anche di affacciarsi alle finestre
Intanto in Italia, Renzi promette di controbilanciare il giro di vite poliziesco con qualche elemosina alla “Cultura”.
“Per ogni telecamera nuova che viene installata vogliamo un nuovo regista teatrale che sperimenti” ha detto testualmente il nostro Cazzaro in Capo. Magari un nuovo regista che metta in scena una versione sperimentale di “1984” durante la quale tutti gli spettatori vengano schedati.
Non ci resta che aspettare che le telecamere di controllo riprendano uno scambio di bustarelle, perché le classi dirigenti italiche riscoprano la sacralità del garantismo, e l’inviolabilità della privacy. La loro.
Dopo il teatro sperimentale, quale altro baluardo della nostra Cultura il governo s’impegnerà a sostenere in funzione antiterrorismo? In questi giorni Salvini e Sallusti hanno molto insistito nel dire che il crollo della Civiltà Occidentale cominci nelle scuole che non fanno il presepe. “Uno dei principali Valori dell’Occidente” l’ha testualmente definito Sallusti di fronte a un’accigliata Gruber in giubbotto di pelle steampunk. Renzi potrebbe quindi decretare il presepe obbligatorio in tutti gli edifici pubblici e privati. Il decreto Cupiello.
A sostenere il vero principale Valore dell’Occidente, lo shopping più o meno natalizio, ci penserà l’indotto del giro d’affari bellico.
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Fraternité (Ricordando chi è ancora senza nome) https://www.carmillaonline.com/2014/07/22/fraternite/ Mon, 21 Jul 2014 22:01:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15900 di Luisa Catanese

Fraternité CataneseLa memoria percorre strade tortuose. Arrivata alla meta non vi soggiorna per sempre. Dimentichiamo, ritorniamo sui nostri passi, spesso non ricordiamo la via, ma riusciamo a ritrovare luoghi che sappiamo di avere già frequentato, che negli anni abbiamo consumato fino a renderli al tempo stesso familiari ed estranei. Una decina di anni fa mi capitò di parlare di 1984 di George Orwell a ragazzini delle medie. A casa ripresi in mano questo libro, che avevo letto, solo in parte, da studente, dopo averne discusso al liceo durante l’ora di storia, proprio nell’anno 1984.

«Quindi la faccia del [...]]]> di Luisa Catanese

Fraternité CataneseLa memoria percorre strade tortuose. Arrivata alla meta non vi soggiorna per sempre. Dimentichiamo, ritorniamo sui nostri passi, spesso non ricordiamo la via, ma riusciamo a ritrovare luoghi che sappiamo di avere già frequentato, che negli anni abbiamo consumato fino a renderli al tempo stesso familiari ed estranei.
Una decina di anni fa mi capitò di parlare di 1984 di George Orwell a ragazzini delle medie. A casa ripresi in mano questo libro, che avevo letto, solo in parte, da studente, dopo averne discusso al liceo durante l’ora di storia, proprio nell’anno 1984.

«Quindi la faccia del Grande Fratello disparve a sua volta e i tre slogan del Partito, invece, apparvero a lettere cubitali:

LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA

Ma la faccia del Grande Fratello, tuttavia, sembrava persistere per parecchi secondi sullo schermo, come se la sua impronta, lasciata sulle pupille di tutti, fosse troppo viva per essere cancellata immediatamente. La donnetta dai capelli color sabbia si gettò riversa sullo schienale della sedia che le stava di fronte. Con un tremulo bisbiglio che parve quasi un “O mio Salvatore!” essa tese le braccia verso lo schermo. Quindi seppellì il volto tra le mani. E fu chiaro che s’era messa a pregare».

L’inizio del libro, mentre lo leggevo con l’intento di rintracciare un’impronta di un passato che non vuole passare, un’immagine rifratta del nostro paese e delle guerre più recenti, mi suggerì questo commento, che poi pubblicai su una rivista.
«Quando la guerra viene definita intervento umanitario e operazione chirurgica, quando si chiama effetto collaterale l’uccisione di civili inermi, quando qualsiasi progetto, intenzione di combattere e superare i rapporti sociali ed economici del mondo presente, affinché gli umani non siano servi, strumenti e merci di altri umani, è indicata come via all’inferno e alla schiavitù, non si deve aspettare a lungo per sentirsi dire e quasi convincersi che l’ignoranza di sé e degli altri, la perpetua distrazione, il consumo smemorato, la sonnolenza digestiva, un’esistenza da sonnambuli, il marciare in truppa al suono di un jingle pubblicitario siano gioia di vivere, prosperità sociale, anzi forza.
Quando finalmente la guerra sarà pace, la libertà schiavitù e l’ignoranza forza, il titolo di un romanzo sulla società totalitaria, utopia negativa del XX secolo, potrà dar nome a un nuovo programma televisivo che ci guidi con dolcezza al nulla quotidiano».
Non riesco a rammentare se quando scrivevo queste parole ero consapevole di creare un piccolo mondo parallelo, piuttosto simile a quello da cui scrivo ora, un mondo in cui il titolo del romanzo più famoso di Orwell è The Big Brother invece di Nineteen Eighty-Four. Non mi importa stabilire se si trattasse di un lapsus o di una scelta, di una sorta di lattice verbale per agguantare rifiuti tossici. Non importa. Ho ricordato un testo scritto un decennio fa perché proprio in quelle pieghe, per l’ultima se non l’unica volta in vita mia, avevo infilato una parola, sonnambulo, di cui mi ero appropriato, qualche anno prima, dopo averla messa a fuoco come parola chiave, come figura centrale di un testo di Franco Fortini, l’autore su cui ho scritto la tesi di laurea.
Sulle poesie di Fortini avevo discusso la tesi un martedì 14 luglio, il giorno della Presa della Bastiglia. L’ho ricordato pochi giorni prima di comprare un libro che sento il bisogno di leggere, un romanzo che si svolge durante la Rivoluzione francese, L’armata dei sonnambuli.

Ho comprato il romanzo di Wu Ming che si intitola L’armata dei sonnambuli. Vorrei cominciare subito a leggerlo, ma la parte più severa della mia mente mi ha imposto di aprirlo solo verso la metà di giugno, quando comincerò a lavorare meno, o magari alla fine del mese, quando sarò già in ferie.
Finché studiavo all’università, ogni sera andavo a letto tardi e mi svegliavo tardi al mattino. Adesso la sera ho sonno, troppo sonno per leggere un romanzo lungo senza frantumarlo tra sera e sera e ancora ogni singola sera nel mio dormiveglia.
Non lavori in miniera o in fabbrica, mi dico. Apparecchio e sparecchio, riempio e svuoto lavatrici, apro e chiudo finestre, faccio spesa e colloco le merci in dispensa e in frigorifero. Non lavo mai la macchina, ma pulisco ogni giorno tavoli o lavandini. Certi pomeriggi vado a prendere mio figlio a scuola e sto con lui ai giardini pubblici. Non so quando finisce il lavoro e inizia il riposo. Lavoro a scuola, compilo e correggo a casa le verifiche, emendo o glosso i libri che i miei alunni dovranno studiare, leggo qualche articolo, scendo in apnea di fronte a questo schermo o, molto più raramente, sul divano, davanti allo schermo più grande. Certe notti, quando mio figlio è già addormentato, riesco a leggere. Non di rado dopo quattro pagine mi cade la testa sul libro.
Prima che si dorma devo ricordarmi chi sono. Ecco la genealogia della morale di stasera, la mia preghiera della buonanotte. Mi sono educato a svegliarmi la mattina presto senza provare rancore per la libertà di quelli che ora ripetono la libertà della mia giovinezza. Possiedo la casa in cui vivo anche perché alcuni miei antenati hanno lavorato per una vita, e ancora lavorato, in nero, dopo il lavoro. Posso permettermi un lavoro retribuito a tempo parziale perché ho una casa. Guadagno circa dieci euro all’ora, quasi il doppio della mia compagna. Mi compiaccio di recuperare razioni dell’unica vita che abbiamo, cedendo lavoro e reddito a chi ne ha più bisogno. «Sono il tuo datore di lavoro», dico ai colleghi e alle colleghe precari. Non pretendo di essere buono solo perché non estorco una quota del loro reddito. Mi persuado di essere decente se penso che un Berlusconi, votato da milioni di berluschini, ci ha governati. L’amor proprio, la minuscola virtù che presumo di intravedere mentre mi taglio la barba sono il modo più facile per sputare in faccia a quei milioni di miei connazionali.
Da qualche tempo, diceva qualcuno, siamo insonni quando vogliamo dormire e ci assopiamo quando dovremmo restare svegli. Non mi lamento, non è sempre così.
La mia compagna esce dalla camera di nostro figlio. Tra poco dormiremo tutti. Dall’ombelico dei miei sogni, fradici, sbucheranno i roditori della Storia. Mi sono laureato sedici anni fa, il giorno della Presa della Bastiglia. Questa sera ho sonno, ma presto, molto presto, lo giuro, leggerò L’armata dei sonnambuli. Mi aspetto di trovarci anche l’altra metà del cosiddetto suffragio universale, la canaglia, il volgo disperso che nome non ha; le periferie, le chiaviche, i depositi alluvionali, i teatri profondi della storia; i limiti scuri della nostra vita, la follia.
«Quand’ero studente, gli anni fuori corso all’università, con i compagni, sono stati una lotta di lunga durata contro la psichiatria: ho preferito pagare le tasse di iscrizione invece delle sedute da un terapeuta», diceva un mio amico. Quando ho scritto la tesi, ero in grado di trovare, sfogliando i suoi libri, qualsiasi frase di Franco Fortini. Ora fatico a ricordare. Prima di dormire, mentre ti vedo, professore delle medie di ruolo, seduto al tavolo su cui non riesci più a correggere le verifiche dei tuoi alunni, io voglio ricordare, voglio ritrovare alcune parole di Fortini. Anche lui, mi ripeto, da qualche parte, ma non ricordo dove, usa la parola sonnambulo. Nei suoi versi, il sonno e la veglia sono immagini insistenti. Alla fine, all’inizio, nelle fessure della sua poesia, una poesia della veglia, troviamo erbe o piccole bestie, i nostri limiti oscuri e il sonno. E questo è il sonno, edera nera…
Un mio amico, Riccardo, un nostro compagno di università, aveva scritto una tesi di dottorato su Fortini. Si uccise gli ultimi giorni dell’estate 2005. Un altro, Matteo, si era ucciso gli ultimi giorni d’estate del 1992.
Non parlo di me, caro prof. Se non hai voglia di ricordare, dormi. Li penso spesso, anche ora, mentre cerco di trovare sonnambuli tra le parole di Fortini. E pensando a Riccardo, non posso fare a meno di ricordare uno scritto di Fortini, Contro la retorica del suicidio: «Dobbiamo esserci tutti», concludeva. Ecco, ho ritrovato i sonnambuli. «I nostri sonnambuli» sono nello stesso libro, uno dei miei preferiti: Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984.
Lo sfoglio, ormai sveglio, e subito ritrovo parole di cui conservavo un’impronta sbiadita: «Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora». Ricordo, prendo a rileggere la conclusione dell’articolo, che si intitola Il controllo dell’oblio, già pubblicato il 24 febbraio 1982, sul Corriere della sera, col titolo Perché non vogliamo ricordare?
I limiti oscuri della vita individuale, la storia, la politica: sì, è vero, le ombre si vendicano. Dovrei scrivere un testo di sole citazioni. Lo diceva Brecht? Mi ricordo che c’era un collage di citazioni all’inizio del Libro bianco sulla legge Reale del Centro di iniziativa Luca Rossi… Torno a leggere Il controllo dell’oblio di Fortini: memoria involontaria, surrealismo di massa, sonnambulismo, adolescenze prolungate, espropriazione del «ricordo», colonizzazione, Simone Weil.
«I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione, degradata, dell’ “estetico”».
No, torno indietro: «Come mille volte è stato rappresentato dal teatro comico, finiremo col credere che le cose siano andate in modo diverso dal vero… Sappiamo come si fa a dimenticare e a far dimenticare. Il controllo dell’oblio, ci dice Le Goff, è uno dei più spietati strumenti di potere. Ne sanno qualcosa anche gli odierni cittadini degli Imperi. L’interdetto della memoria – questa affascinante istituzione che varia di età in età e di tirannia in tirannia, fino a noi – non opera mai da solo, ha bisogno di un’altra istituzione sorella, il cui nome risale alla rivoluzione giacobina: l’amalgama. Con il principio dell’amalgama, soprattutto se introdotto o coltivato dalla legislazione, si possono estendere criminalizzazione e ostracismo a strati sempre più vasti. L’importante è che, anche se in minima misura, ognuno sia colpevole o colpevolizzabile; dunque bisognoso di dichiararsi “uomo” di qualcuno, di chiedere una qualsiasi protezione…».
Protezione, amalgama. L’amalgama, oggi, ha molteplici forme. E non sempre consiste, nella nostra piccola società, nella remissione di un debito, in uno stipendio o in una carriera.
Vado a dormire. Domani mi sveglio alle sei e venticinque.

Presto leggerò L’armata dei sonnambuli. Posso aspettare la fine di giugno, ma potrei anche iniziare domani sera, capitoletto dopo capitoletto, scena dopo scena. Non ora, però. Domani devo svegliarmi presto. Ho sonno, riuscirei a leggere solo poche pagine. Questa sera mi dispongo a rileggere, a risvegliare pagine che giacciono in qualche cella della memoria: «Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata?».
Torno a leggere, questa volta fino in fondo, Il controllo dell’oblio.
I nostri sonnambuli vivono nella dimensione, degradata, dell’estetico. Abbiamo bisogno di storia, di ricordo volontario: oggetti, strumenti che passino di mano in mano, che in sé contengano giudizio e scelta, che ci strappino al magma dei paradisi e degli inferni interiori. Costruire dure sequenze di una temporalità non individuale, esigere un patto fra persone e generazioni…

Ho iniziato a leggere atto dopo atto, scena dopo scena, lottando contro tutta la stanchezza sedimentata in questi dieci mesi di lavoro, ma con lento piacere, il romanzo L’armata dei sonnambuli. Se tra un paio di settimane non l’avrò finito, potrò leggere o rileggere con più agio durante le ferie, la mattina o nelle ore più pigre del pomeriggio.
Questa sera ho meno sonno del solito.
Apro un cassetto, una scatola, una busta; leggo e riascolto la voce di un vecchio amico che ora sta troppo lontano: «Per portare all’azione dieci partigiani», conclude la lettera, «occorre che essi siano in grado di separarsi subito dopo l’azione e di ritrovarsi in un luogo stabilito. Durante il periodo in cui tutti sono sciolti, ognuno è solo, potenzialmente fa quel che vuole, non ha nessun obbligo particolare, eppure si ritrova con gli altri il giorno dopo. Un’azione individuale e collettiva di questo genere richiede più energie morali di un esercito regolare».
Così penso a volte di ritrovare gli amici e le amiche, le compagne e i compagni lontani. Non mi accontento dei sentieri della memoria: ho nostalgia del futuro, di una fraternità, di una condivisione che, nella vita, nella lotta quotidiana, consenta di ricordare, capire, sentire, afferrare la materialità delle cose che, con troppa fretta, altri chiamano spirituali.
Per vie più strette e tortuose, più vive di quelle della memoria, ci incontreremo in un luogo più alto e visibile, estraneo e familiare, dove si ascolta la voce di chi non trova le parole, dove a tutti s’insegna e s’impara da tutti, anche dagli sconosciuti, forse già incrociati per strada, vicini ma estranei, presto dimenticati, per lungo tempo e ancora oggi senza nome.

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Em/pietà https://www.carmillaonline.com/2014/04/15/empieta/ Mon, 14 Apr 2014 22:15:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14090 di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?” “Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta. In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e [...]]]> di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?
Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta.
In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e doloroso.
Il peccato e il male esistono.
Il Male assoluto travestito da Bene assoluto.
Lo Spirito che si fa carne. Corrotta.
E come un antico cataro urla la sua denuncia.

E’ un urlo assordante e allo stesso tempo pacato quello di Luca.
La rivolta che sgorga dal cuore di chi non vuole levarsi al di sopra, ma che, umanamente si accolla la sua parte di responsabilità.
Ma rigira il dito nella piaga, Luca.
E fa urlare. I potenti.

Giornalisti dal nome altisonante.
Inquisitori incanutiti e irranciditi nella caccia di colpe là dove, spesso, non ci sono.
Critici che non vogliono la critica dell’esistente.
Uomini che vogliono soltanto i “nomi”.
Che nei fatti narrati sanno riconoscere i nomi, ma non la sostanza.

Perché la sostanza fa paura, soprattutto quando attraverso la letteratura si avvicina alla verità.
Anche quando la verità dovrebbe rimanere inconfessabile.
Oppure rimanere custodita dallo sguardo dei servitori del dis/ordine.
Sempre, “c’è un poliziotto che guarda”.
E’ il refrain del libro.

Luca, però, si tiene, almeno nella parte iniziale e in quella finale del suo romanzo, più vicino a “I misteri di Parigi” di Eugène Sue o a “I miserabili” di Victor Hugo, piuttosto che al “1984” di Orwell. Attualizzandoli e immergendoli nelle fogne vere e nel dolore degli ultimi delle metropoli dell’Est.
D’altra parte non può esistere nemmeno l’anti-utopia, là dove non è più possibile alcun tipo di utopia.
Soprattutto quando questa è sostituita dalla “corresponsabilizzazione”, dall’associazionismo, dalla retorica del “bene” e dalla solidarietà pelosa di chi vuol fare di ogni aiuto soltanto un “progetto”.

Soprattutto in quelle città del “fu” triangolo industriale dell’Italia settentrionale che, insieme agli stabilimenti e all’occupazione, sembrano aver perso qualsiasi speranza e qualsiasi tipo di solidarietà di classe.
Là dove l’elemosina di facciata si accompagna al peggiore localismo e al calcolo più cinico spacciato, però, per rinnovamento politico ed economico. E dove la “lotta alla Mafia” è diventata la parola d’ordine destinata a sostituire quelle ben più pericolose dell’antagonismo di classe.

I raffinati custodi della cultura odierna non vogliono sentire parlare di contratti di lavoro. Non vogliono sentire parlare di lavoro precario.
Il volontariato deve bastare e il terzo settore deve trionfare come modello.
Dalle Coop rosse e cattocomuniste alle associazioni, fino a diventare modello unico per il lavoro a venire attraverso il job act.
Dove anche il lavoro offerto nelle condizioni più miserevoli diventa atto di “carità”.

Il “raffinato” intellettuale e il moralista legnoso si danno la mano nel fare la carità.
Sì, ma poi basta…eh!?
Cosa vogliono di più questi disgraziati raccolti in mezzo alla strada?
Non gli basta vivere all’ombra dei loro datori di lavoro?
Non gli basta respirare la stessa aria che respirano loro?
Non gli basta respirare le parole dei Santi?

Il vero “raffinato”, un raffinato ufficiale, avrebbe detto Céline, nel suo libro più proibito, deve: “ frenetizzare l’insignificante, cicalecciare, darsi delle arie, gracidare nei microfoni delle radio… rivelare i miei «dischi preferiti»… i miei progetti di conferenze…
Deve evitare la critica dei potenti. Evitare la critica dell’esistente, per poterne cantare le lodi.
Raffinato sì, come lo zucchero.

Privato di ogni asprezza, di ogni sostanza nutritiva.
Destinato soltanto alla bulimia oratoria televisiva .
Produttore di diabete da troppa dolcezza, elargita con troppa facilità.
E guai se trova in qualcuno lo spirito di Alfieri che si rifiutava di respirare anche solo l’aria respirata dai tiranni.

Luca non ha più voluto respirare la stessa aria dei tiranni, anche se profumava di incenso. Anche se per lui deve essere stato doloroso, oltre che necessario, narrare le vicende di Aza, Adrian, Alberto, Mauro, don Silvano, Delfino, Isabella, Delia e del giudice grasso. E di molti altri ancora.
Perché l’elemento autobiografico preme con urgenza nella scrittura di Rastello.
Torna alla mente Dante:” Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’rodo, / parlar e lagrimar vedrai insieme1 .

Anche se il traditore non è soltanto uno e non è il nome famoso che tutti vogliono individuare.
No, il tradimento è di tutta una società, di tutto un ambiente fasullo e perbenista.
Fatto di riviste patinate e di giornali ben informati.
Costruito sul nulla delle buone intenzioni.
Che come sempre lastricano la strada per l’inferno.

Abbiamo bisogno di rimandare la lotta, Adrian, ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta. Abbiamo bisogno di concedere a noi stessi ancora un brandello di questa vita che in fondo non ci impegna, di tenere un francobollo di orizzonte al fondo delle nostre giornate senza cuore. Ed è don Silvano che ce lo permette: lui garantisce che farà il lavoro al posto nostro. Tutti lo amano, i potenti, i belli, i celebri, e la suora che trema sotto il suo sguardo. Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene. […] E’ l’eroe di questo tempo, è la consolazione. Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali. Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso. […] Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio: lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette tra noi e il mondo. Lascialo stare, don Silvano. Lui si nutre del disperato bisogno di conciliazione che nasce dalle nostre vite in cattività. Lui è la forma del mondo com’è.

Tu, perché lo servi?” “Perché io sono come loro. Mi credi migliore?” (pag. 191)

Perché gli oppressi sono utili e devono essere visibili soltanto quando sono vittime. Non importa se del lavoro, dell’AIDS o della “Mafia”.
L’importante è che rimangano tali e che si possano compiangere.
Guai a loro però se parlano di diritti sindacali o di rivolta.
Perché, allora, devono essere “accompagnati”, essere messi alla porta.
O in prigione.

La parte più crudele della non fiction novel di Rastello, infatti, non sta né all’inizio, nella miseria e nella vita grama delle fogne, né, tanto meno, alla fine, nelle pagine della vendetta.
Ma sta proprio al centro, in quei rapporti ipocriti di potere e sottomissione, in quell’odore di soldi e di partite di giro truccate, in quella misoginia e in quel sessismo diffusi e troppo spesso accettati come norma dalle donne “in carriera” insieme al fascino esercitato da chi detiene anche solo un frammento di potere, di cui tutto il dolore del mondo non costituisce altro che l’ovvia periferia.

La parte centrale del libro, che ne costituisce anche la parte più lunga, metaforicamente rappresenta la centralità della corruzione morale ed economica nella società del dominio capitalistico dell’esistente e dell’ipocrisia che la nasconde e giustifica.
Il denaro, lo sterco del demonio dei patarini e degli eretici medioevali, ha trionfato . Non solo nella pretesa casa di Dio, questo si sapeva, ma anche in quegli ambienti che avrebbero dovuto rappresentarne il rinnovamento.

Invece del Re ad essere nudo, nel romanzo, è il “bene”.
Il buonismo trionfante e ipocrita.
Soprattutto nella sua variante associazionistica, là dove si dovrebbe lavorare solo per il bene di tutti e disinteressatamente. E dove, a farlo disinteressatamente, dovrebbero essere possibilmente gli ultimi.
Grati, come servi o come schiavi.

Già…chissà quanto si saranno commossi coloro che hanno furiosamente criticato Luca e il suo libro guardando il patinatissimo “12 anni schiavo” !
Tutti uniti nel sentirsi buoni…tutti uniti nel criminalizzare gli altri.
Tutti uniti dal “noi” di chi pensa le cose giuste. Legali. Caritatevoli.
Pietismo contro barbarie estremista…che come si sa deve essere estirpata
Gli basterà poi chiedere scusa se vi prenderanno a calci in mezzo alla strada, come a Roma il 12 aprile, oppure dopo avervi sterminati, come in Argentina o durante un pogrom.

Non preoccupatevi.
Leggete questo libro tutto d’un fiato, com’è capitato al sottoscritto, e poi, se li incontrerete per strada o li sentirete predicare in pubblico o sul piccolo schermo, ridetegli pure in faccia.
Il loro Dies Irae sarà sicuramente peggiore del nostro.


  1. Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Canto XXXIII, vv. 7 – 9  

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