1917 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

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Il nuovo disordine mondiale / 18: It’s the end of the world as we know it (and I feel fine) https://www.carmillaonline.com/2022/10/05/il-nuovo-disordine-mondiale-18-its-the-end-of-the-world-as-we-know-it-and-i-feel-fine/ Wed, 05 Oct 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74286 di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene. Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e [...]]]> di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene.
Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e degli esponenti ufficiali della cultura mainstream .

That’s great, It starts with an earthquake

E’ fantastico, inizia con un terremoto.
E’ il primo verso della canzone e serve benissimo per confermare ciò che abbiamo anticipato negli interventi precedenti sul tema della guerra e le sue conseguenze e che oggi si verifica in dimensioni ancor maggiori di quelle che si potevano immaginare fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina.

Così, mentre l’ostinazione imperialista delle parti coinvolte sta avvicinando sempre più la possibilità di una guerra non solo allargata su scala europea ma anche di carattere nucleare, il sistema di alleanze su cui si son basate le politiche economiche e militari occidentali degli ultimi settanta anni sembra destinato a subire scossoni che, fin dall’esplosione (pilotata malamente) della pandemia da Covid-19, se non lo distruggeranno ancora del tutto, sembrano destinati a ridimensionarlo in maniera ritenuta impensabile fino ad oggi.

Infatti, mentre i media mainstream hanno potuto fino ad ora sottolineare soltanto le indiscutibili difficoltà militari e politiche in cui il regime del nuovo zar è venuto a trovarsi, la crisi economica legata alla carenza di gas, alle speculazioni della borsa di Amsterdam sulla stessa materia prima e al disaccordo tra i paesi europei su come reagire alle stesse sta distruggendo nel breve periodo ciò che aveva richiesto anni per affermarsi, ovvero la stabilità e l’utilità degli accordi inerenti al funzionamento dell’Unione Europea.

Ognuno per sé sembra essere diventato il motto dell’azione dei paesi europei nei confronti di questa crisi, con la Germania, über alles, in testa nel perseguire una propria e costosissima politica energetica che risulta speculare alla decisione, presa fin dall’inizio del conflitto, di riarmare pesantemente le proprie forze armate per poter diventare a breve la terza potenza al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare.

Posizione avvallata in generale dal fatto che, in forme diverse, tutti i presunti alleati europei ed occidentali stanno già operando scelte che molto spesso danneggiano gli altri componenti delle alleanze europee ed atlantiche. Una corsa al si salvi chi può che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli parossistici.

World serves its own needs, don’t misserve your own needs.

Il mondo segue i propri bisogni, non sottovalutare i tuoi propri bisogni.
Continua così la canzone del 1987, involontaria conferma del fatto che, al di là dei discorsi ufficiali, dietro all’europeismo e all’atlantismo si nascondono le stesse spinte sovraniste che i più fessi pensano ancora essere espressione di possibili rivendicazioni popolari o, peggio ancora di classe.

Il nazionalismo non è mai morto, si era solo truccato per meglio colpire le classi meno abbienti all’interno di ogni singolo stato, scaricando le responsabilità delle scelte più dolorose per i lavoratori, il proletariato e le classi medie impoverite sulle imprescindibili regole europee di gestione finanziaria dell’esistente.

Classi imprenditoriali e dirigenti assolutamente vili e pavide, soprattutto qui in Italia ma anche nel resto d’Europa, hanno finto collaborazione e unità di intenti soltanto per non accollarsi scelte assolutamente impopolari, ma ora il travestimento è caduto e il Re è nudo. Come nella paradossale opera teatrale di Alfred Jarry, i diversi protagonisti della vicenda sono condannati a prendersi gioco l’un dell’altro in una spirale che non potrà far altro che peggiorare sempre più la situazione generale.

La Francia ha annunciato che non venderà più la propria energia elettrica all’Italia e, contemporaneamente, che si opporrà alla realizzazione di un metanodotto che porti dalla Spagna alla Germania, attraversando il suo territorio nazionale, il gas alla seconda. L’Austria, per alcuni giorni e per motivi inerenti al pagamento in rubli, ha fatto sì che l’Italia non ricevesse più il gas russo attraverso il valico di Tarvisio. Paesi dell’Est europeo si oppongono, come l’Ungheria, alle sanzioni alla Russia oppure chiedono un maggiore sforzo militare, come la Polonia, nei confronti della stessa, mentre i paesi fondatori dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica iniziano a tentennare davanti alla richiesta, ribadita da Zelensky, di un ingresso dell’Ucraina nella Nato per timore di un aggravarsi e di una conseguente svolta in senso nucleare del conflitto.

La narrazione ufficiale dei media, fino a pochi giorni or sono, continuava ad insistere sul progressivo allontanamento della Cina di Xi dalla Russia di Putin, travisando le parole del primo a proposito del “rispetto” dell’integrità territoriale degli stati e della loro autonomia politica che, più che all’Ucraina e ai referendum russi sui territori del Donbasss e del Lugansk, erano rivolte agli Stati Uniti affinché interrompano la loro azione di sostegno politico e militare a Taiwan, epicentro del conflitto futuro tra le due potenze rivali. Che più che libertà e diritti riguarderà lo scontro tra il dollaro e il renminbi yuan come monete di riferimento per gli scambi internazionali.

Nella sguaiata narrazione mediatica occidentale, i problemi sembravano essere sempre e soltanto quelli degli avversari, ignorando quelli altrettanto gravi e forse ancor più reali dello schieramento euro-occidentale, in cui il divide et impera statunitense ha giocato e continua a giocare un ruolo niente affatto secondario. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire e il tam tam della guerra avrebbe dovuto ancora una volta servire a distogliere l’attenzione di massa dai problemi immediati che dalla prima derivano e che potrebbero rimettere in discussione la stessa: caro bollette, crisi azionarie, chiusura di aziende, perdita di posti di lavoro e inflazione.

Alcuni di questi fattori, sovranismo rivelato dietro alle politiche nazionali degli stati più “convintamente europeisti” e divisione tra i membri europei della Nato, potrebbero far buon gioco al nuovo governo di centro destra. L’avvicinamento di Giorgia Meloni a Mario Draghi potrebbe essere più che il frutto di un inciucio europeista, quello della necessità del capitalismo italiano di riprendersi uno spazio di manovra nelle questioni energetiche e lo stesso iper-atlantismo della prima potrebbero ben accordarsi con una protezione accordata dagli Stati Uniti a un nascente governo non troppo allineato con la Germania. La cui riduzione della potenza economica e politica, ma domani anche militare, rimane uno dei principali obiettivi statunitensi in Europa, sia per i governi democratici che per quelli repubblicani. Del quale anche l’ambiguo e disastroso attentato alle condotte di North Strem 1 e 2 potrebbe essere una conseguenza e/o un’espressione.

Ad indebolire la futura azione di governo, però, più che le lotte che iniziano a svilupparsi contro le “bollette di guerra”, potrebbero essere le differenti promesse elettorali degli alleati contro cui la stessa Confindustria, nelle parole di Bonomi (niente flat tax e niente prepensionamenti!), ha levato una differente e contrarissima voce. Rischiando di far nascere un governo già morto allo stato fetale.

The ladder starts to clatter with fear fight.

La scala inizia a traballare con la paura della lotta, continuava ancora la canzone di Bill Berry, Peter Buck, Mike Mills e Michael Stipe.
Lo dimostra il fallimento del governo di Liz Truss alla sua prima uscita con la proposta dell’abbassamento, se non l’abolizione, delle tasse per i più ricchi. Ancora una volta non tanto, per ora, per la mobilitazione del movimento “Don’t Pay” che in qualità di primo ministro aveva cercato di esorcizzare con l’istituzione di un fondo plurimiliardario per la riduzione delle bollette, ma proprio per un attacco implacabile da parte degli organismi finanziari internazionali e del loro principale organo di informazione sul territorio britannico, il «Financial Times».

Dopo l’opposizione dei mercati, di buona parte del partito conservatore e dei maggiori quotidiani britannici, che hanno definito il piano, per l’abolizione delle tasse più alte per i più ricchi e del tetto alla remunerazione dei dirigenti bancari, della Truss e del suo ministro delle finanze Kwarteng, in alcuni casi, come folle e cattivo (mad and bad), il quotidiano della finanza inglese non ha potuto far altro che sottolineare come:

Resta da vedere se la disputa sulla rottamazione del tasso di 45p tempererà le ambiziose riforme dal lato dell’offerta di Truss volte a stimolare la crescita. Quando è diventata primo ministro il mese scorso, si è impegnata ad affrontare questioni di lunga durata relative alla pianificazione per aumentare la costruzione di case e l’accessibilità economica dell’assistenza all’infanzia, ma il suo fallimento con la riforma fiscale potrebbe farla riflettere. Un deputato conservatore che sostiene Truss ha dichiarato: “Se non riesce a ottenere un taglio delle tasse di 2 miliardi di sterline, non riesco a vedere come abbia una speranza nell’inferno di pianificare la riforma o qualsiasi altra cosa. Liz voleva essere radicale, ma ha fallito al primo ostacolo”1.

Nessuna altra Tatcher sembra dunque delinearsi all’orizzonte, sia sul piano internazionale che italiano, e questa potrebbe già essere una buona notizia per chi si oppone al modo di produzione dominante. Le cui difficoltà stanno esplodendo ben più rapidamente di quanto si potesse immaginare e senza nemmeno una sconfitta militare intercorsa davvero sul campo.

Semmai se c’è una cosa che, sul campo di battaglia, può essere anch’essa sintomo della fine di un certo mondo che conosciamo può essere individuata nel fatto che uno dei fattori delle difficoltà militari russe deriva proprio dal rifiuto di combattere e arruolarsi di molti giovani, e meno giovani, russi richiamati o chiamati alle armi in questo periodo.
Confermando quanto sostenuto da tempo, oltre che da chi scrive queste note, da Domenico Quirico in un coraggioso articolo su «La Stampa» del 30 luglio di quest’anno.

L’unica speranza che questo macello finisca dunque non è nelle abilità e nelle qualità dei leader dell’Est e dell’Ovest, regrediti a termini rozzi e primitivi, stupefacenti in un tempo e in un mondo reputati civili. Risiede semmai nella volontà rivoluzionaria di porvi fine di coloro che combattono, che vengono ogni ora, ogni giorno uccisi, da una parte e dall’altra, ucraini e russi. Abbiamo bisogno tutti, e soprattutto noi europei che questa guerra subiamo a un passo, di uno sciopero, eversivo, rivoluzionario, dei combattenti che riproponga con successo quanto accaduto nel 1917, durante la Prima guerra mondiale.
Dalle trincee in cui milioni di uomini ogni giorno sopportavano il contatto con la morte e ogni istinto di vita sotto i bombardamenti, la sporcizia, il furore omicida sembrava dover inaridire fino alla radice, esplose, dilagò improvviso irresistibile universale il grande sciopero della pace. In Russia fu, subito, Rivoluzione. Negli altri Paesi belligeranti (in Italia fu Caporetto) ci vollero i plotoni di esecuzione per domare la rivolta. Ma non fu che una breve tregua prima che il moto dilagasse un anno dopo come un fuoco in una pianura riarsa.
Ucraini e russi sono entrati in guerra ammalati dei loro particolarismi, di nazionalismo orgoglioso gli uni, di imperialismo brutale gli altri. Per due, tre mesi questi particolarismi e l’odio che la sofferenza fa crescere nei confronti del nemico, di chi ha aggredito e specularmente di chi, ostinato, non si arrende, resiste, uccide, sono stati sufficienti per motivare i combattenti, per sorreggere la propaganda.
Ma a contatto delle verità eterne e immutabili che la sofferenza sociale della guerra rimette ferocemente in luce giorno dopo giorno, gli uomini nelle trincee del Donbass e di Cherson sentiranno che il cerchio del loro orizzonte impedisce loro di pensare e di agire, li soffoca in una atmosfera assassina di morte e di inutili volontà.
[…] La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro.
[…] Non sono Putin e Zelensky, o Biden, che possono spezzare il cappio della guerra. Gli uomini di buona volontà a cui deve rivolgersi, scavalcando, ignorando i capi, sono gli uomini disperati, sporchi, esausti, straziati delle trincee. Il popolo della guerra.
Dopo mesi di sofferenza, di avversione alimentata tra loro, ora ucraini e russi hanno una cosa in comune: la sofferenza. Ora non credono più a quello che è accaduto, sanno che ancora una volta tutto è avvenuto per un errore di calcolo criminale2.

Ipotesi rafforzata ancora dagli scontri avvenuti in una base di arruolamento in prossimità di Mosca.

Nel 223esimo giorno di guerra in Ucraina, una maxi rissa tra nuove reclute e soldati è scoppiata in una base dell’esercito russo vicino Mosca. Secondo quanto riferito da Baza, «i nuovi arrivati» non hanno ricevuto un caldo benvenuto, ma al contrario «i soldati che prestavano servizio» nella base gli «hanno ordinato di consegnargli i vestiti ed i telefoni cellulari». Le nuove reclute – chiamate alle armi nel quadro della mobilitazione parziale annunciata da Puti – hanno respinto le richieste e ne sarebbe scaturita una rissa nella quale avrebbero avuto la meglio, tanto che circa 20 soldati si sarebbero rinchiusi in un edificio e avrebbero chiamato la polizia per chiedere aiuto3.

And a government for hire and a combat site
But it’ll do, save yourself, serve yourself.
World serves its own needs, listen to your heart bleed
It’s the end of the world as we know and I feel fine

E un governo a noleggio e un sito di combattimento/ma lo faranno e allora salvati, servi te stesso/Il mondo serve i propri bisogni, ascolta il tuo battito cardiaco/È la fine del mondo come lo conosciamo e mi sento bene.

Sì, a vederla in positivo e nonostante tutto, il vecchio mondo sta finendo. Con i suoi conflitti imperialistici e il suo scellerato dominio di classe. Con le sue tragiche diseguaglianze e le sue menzogne. E’ un mondo solo, come Draghi mentre parlava davanti ad un’aula delle Nazioni Unite deserta. Un mondo vecchio e moribondo che vorrebbe pace sociale e stabilità soltanto per continuare con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, dell’ambiente e di ogni risorsa vitale fino al loro esaurimento. Un treno che sta lentamente rotolando sui binari della propria distruzione.

Per tutto questo, dunque, è giunto il momento per chi si batte nei movimenti di carattere sindacale, territoriale e ambientale di unire le forze in direzione di un unico obiettivo comune: accelerare la tendenza all’inevitabile superamento dell’attuale modo di produzione. Whatever it takes!

(18 – continua)


  1. Sebastian Payne, George Parker e Jim Pickard, Truss finally admits defeat on tax benefit for the wealthy, «Financial Times», 3 ottobre 2022  

  2. Domenico Quirico, Uno sciopero dei soldati come nel 1917, l’unica speranza per arrivare alla pace, «La Stampa», 30 luglio 2022  

  3. Guerra Russia-Ucraina, maxi rissa tra reclute e soldati in una base vicino a Mosca, «La Stampa», 4 ottobre 2022  

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Gli echi del rivoluzionario dagli occhi di tataro https://www.carmillaonline.com/2022/05/09/gli-echi-del-rivoluzionario-dagli-occhi-di-tataro/ Sun, 08 May 2022 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71849 di Jack Orlando

Guido Carpi, Lenin vol. II. Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Stilo Editrice, Bari, 2021, 327 pp., 18€

Avevamo già incontrato Lenin di recente, su queste pagine (qui), attraverso le pagine di Guido Carpi e della sua biografia del sensei bolscevico. Ci ritroviamo di nuovo qui a percorrere i sentieri di Vladimir Il’ič Ul’janov, quasi sempre in un frustrante e recalcitrante esilio; lo si era congedato all’alba del 1905, prima dello scossone rivoluzionario, fermi con lo sguardo su uno dei sommi cardini della sua opera: il militante, il rivoluzionario [...]]]> di Jack Orlando

Guido Carpi, Lenin vol. II. Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Stilo Editrice, Bari, 2021, 327 pp., 18€

Avevamo già incontrato Lenin di recente, su queste pagine (qui), attraverso le pagine di Guido Carpi e della sua biografia del sensei bolscevico.
Ci ritroviamo di nuovo qui a percorrere i sentieri di Vladimir Il’ič Ul’janov, quasi sempre in un frustrante e recalcitrante esilio; lo si era congedato all’alba del 1905, prima dello scossone rivoluzionario, fermi con lo sguardo su uno dei sommi cardini della sua opera: il militante, il rivoluzionario di professione che opera da cinghia di trasmissione tra processo (di rottura) oggettivo e volontà (politica) soggettiva, figura deputata al rovesciamento dell’esistente.
Lo riprendiamo ora nella frattura del 1905, per accompagnarlo fino alle soglie di quel fatidico ‘17, in un decennio dove il vecchio mondo scivola nella catastrofe fino a frantumarsi nelle trincee, e dove per il rivoluzionario si rivelano in tutta la loro importanza la centralità del partito e la imprescindibile dialettica tra tattica e strategia, tempi duri per gente dura e menti radicali.

Andiamo rapidi, che non stiamo qui a far gli storici; la parentesi rivoluzionaria del 1905, quella del pope Gapon e dei gendarmi che sparano sulla folla con le icone sacre, vede Lenin (come quasi sempre) in una posizione di minoranza all’interno della socialdemocrazia, e con un apparato bolscevico impostato sulle indicazioni del che fare: partito ristretto, cospirativo, portato avanti da un èlite “neogiacobina”; una struttura atta a muoversi agilmente negli interstizi e nel mondo ben poco accomodante dello zarismo russo.

Il 1905 pone i rivoluzionari di fronte a una situazione inedita: l’irrompere sulla scena delle masse operaie come attore autonomo in grado di stabilire una propria agenda sganciata, a volte contrapposta, dagli interessi dello Stato o della borghesia. I lavoratori si dotano dei propri strumenti di decisione ed organizzazione, i Soviet, e l’incedere del processo rivoluzionario allarga le maglie della partecipazione alla vita pubblica, dalle libertà politiche alla stampa.
La fase è di attacco, di allargamento, e avanza convulsa. Va da sé che chi non tiene il passo resta indietro, come legge di natura, gli animali che non si adeguano alle mutazioni ambientali periscono.

Di qui una revisione dei principi d’azione bolscevichi che si orientano verso la messa in piedi di un partito di massa, in grado di occupare quei nuovi spazi di manovra convogliando le energie della massa in movimento, con l’esperienza combattiva del militante.
Non si tratta di scegliere tra vecchie maniere e nuovi democraticismi, come per quasi tutti i moderati. Non c’è teleologia del socialismo che tenga, né riforma che valga.
È sempre il processo rivoluzionario a portarsi appresso, come effetto collaterale, una politica di riforme; viceversa nessun riformismo o forma di rappresentanza può davvero far avanzare il percorso di emancipazione.
Si tratta di occupare tatticamente i posti disponibili in una Duma sostanzialmente impotente, per parlare al popolo dei lavoratori e non al potere burocratico, di usare le possibilità di stampare giornali legali non per tessere le lodi della libertà d’opinione ma per formare e radicalizzare la soggettività combattiva in lotta; i bolscevichi stanno nei soviet non per abbracciare il moto perpetuo e progressivo delle masse verso l’utopia socialista, ma per articolarne e coordinarne le potenzialità su di un piano di attacco che arrechi danni e sottragga terreno quanto più possibile al nemico.
Si dialoga con la spontaneità proletaria, unica davvero a rompere gli argini del potere, ma la si articola in organizzazione per portarla ad un livello superiore, per darle nuovo spazio e non farla rifluire.
Portare all’estremo le conquiste democratiche, accelerare la rivoluzione fino al punto di non ritorno.
O tutto o niente.

E quando poi la parentesi si va chiudendo, quando gli spazi si restringono, la repressione colpisce duro e le energie cominciano a smobilitare, come sopravvivere al contraccolpo?
L’ormai ex piccolo gruppo compatto, ora giovane partito di massa con articolazioni legali e non, deve operare una nuova virata e passare attraverso la porta stretta della controrivoluzione: mettere in sicurezza le varie articolazioni prima che vengano annientate; nella prassi: lasciare attivi i presidi conquistati, come i rappresentanti della Duma, per tenere viva una voce pubblica, ma investire le energie in una pratica di esercizio della forza, che sfrutti gli ultimi scampoli di tempo per un colpo di reni in grado di deviare la tendenza. È ora un bolscevismo insurrezionale che si nutre di rapine per il finanziamento, di truffe internazionali e contrabbando per l’approvvigionamento di armi, di tentativi lottarmatisti, gruppi di combattimento e granate nelle strade.

Ma all’impossibilità di tenere il confronto armato con gli apparati dell’impero zarista, si rende necessario uno spostamento ulteriore, con un non pacifico smantellamento dell’apparato militare prima che esso inghiotta l’intero partito in una spirale senza uscita. La direzione del processo deve rimanere sempre dell’elemento politico, anche quando questo tenga in mano una pistola.
È qui che Lenin imprime una nuova mutazione alla sua struttura: un partito fluido, rizomatico direbbe qualcuno, che al tradizionale centralismo bolscevico innesta una molteplicità di centri operativi indipendenti che portino avanti il lavoro sul campo, e che alla monolitica struttura-partito preferisce l’infiltrazione nelle forme legali e associative della società, per operare tramite queste un’egemonia politica sul tessuto sociale.
Un bolscevismo poco attenzionato dalla tradizione che però traghetta il partito fino al ‘17, alla resa dei conti finale col nemico storico. L’ultimo livello della sfida.

A fare questa breve cavalcata, è subito evidente una cosa: la coerenza delle forme è roba da neofiti.
Il militante bolscevico si è trovato a cambiare pelle più e più volte, ora scrittore ora agitatore politico, ora sindacalista, ora bandito e dinamitardo; così come alla sua comunità politica è chiesto un perpetuo sforzo di adattamento ed aggiornamento del sistema operativo. Anche a costo di una continua frammentazione dei rapporti personali e organizzativi, e quindi ad un costante riperimetrare il campo della propria amicizia politica. Bisogna prima dividersi, delinearsi, per poi potersi unire.

La coerenza delle forme, siano esse quelle dell’organizzazione o quelle dell’ideologia, finiscono sempre per essere pensiero autocentrato, che antepone il proprio sguardo alla realtà materiale, di fatto scollandosi da essa e diventando inutile orpello o strumento di affermazione personale.
Quella leniniana è invece dottrina di combattimento, e in quanto tale, non può mai prescindere dall’analisi concreta del campo di battaglia.
Se coerenza c’è, essa è tutta interna al rapporto dialettico tra tattica e strategia. Vero asse centrale dell’agire politico. Si preserva la rigidità strategica, perché l’obbiettivo è uno solo ed è indifferibile: l’instaurazione del comunismo da parte del proletariato attraverso le sue avanguardie organizzate. Stante questo assunto si può mantenere la flessibilità tattica per cui ad ogni passaggio di fase, come si rimodula il capitale, così corrisponde un adeguato riposizionamento della forza antagonista e delle sue pratiche.

Lenin prendeva ciò che gli serviva quando gli serviva. Ma per riporlo in una cassetta degli attrezzi dagli scomparti ben ordinati. A costituire la griglia immutabile attraverso cui il bolscevismo filtra, scompone e metabolizza ogni altro elemento, sono: la lotta come esperienza diretta, immediata che – assai più delle acquisizioni teoriche – determina la crescita politica, organizzativa, addirittura morale dei soggetti coinvolti; la profonda consapevolezza di come la lotta pratica non sia mai fine a sé stessa, ma sia fonte primaria di teoria, così come non si dà teoria che non si traduca immediatamente in pratica; l’enfasi su di una nuova figura di militante, che unisce in sé le capacità teoriche dell’intelligent e la determinazine pratica del proletario. Infine tutti questi elementi trovano la propria sintesi nell’organizzazione, pietra filosofale del leninismo e manifestazione sensibile di quell’universale istinto alla partiticità (partijnost’) che si configura come una vera e propria grazia laica.”1

Uno schema da tenere a mente, tanto più in quest’oggi che la guerra, con lo spettro della sua deflagrazione totale, torna a soffiare in Europa.
L’adagio leniniano del trasformare la guerra imperialista in guerra civile è ritornato di moda tra un certo antagonismo sempre a caccia di slogan, pure se non si sa bene chi, cosa e come dovrebbe operare questa mutazione bellica.
Guardare a Zimmerwald, cioè guardare a una politica che, innanzi alla sfida della guerra mondiale, della pace e del sentimento umanitario sostanzialmente se ne infischia e pone all’ordine del giorno ancora una volta il qui e ora della frattura rivoluzionaria, aiuta a smarcarsi da certe ingenuità pacifiste e dall’assorbimento in campo nemico (che è sempre quello che ci tiene direttamente il piede sul collo) e stabilisce, come sua consuetudine, che “non importa cosa soggettivamente pensi di stare facendo, ma negli interessi di chi stai oggettivamente operando; e guai se i due parametri non collimano”.2
Insieme al piccolo uomo dagli occhi di tataro siamo di nuovo di fronte al Moloch del capitale nella sua fase suprema, quella dell’imperialismo, pronta a scatenare tutta la sua furia (auto)distruttiva. Ma siamo orfani di una parte collettiva in grado di far sentire la sua voce, orfani di sodalizi davvero in grado in rompere questo frame, schegge sparse tra derive, resistenze e tentativi generosi.

Un compagno, parlando della situazione attuale, mostrava con rammarico il timore “di essere di nuovo in ritardo, e di non poter essere più in tempo ora che la Storia ha ricominciato a correre veloce”.
Non un timore infondato insomma, ma Lenin mostra come non esista un tempo giusto per il rivoluzionario, solo tempi diversi in cui agire diversamente, con l’occhio sempre all’obbiettivo.
Esistono momenti di ritirata, altri d’assedio, altri ancora di attacco. Ma il tempo giusto, in ultima istanza, sono volontà e intelligenza a determinarlo.
Non esiste fraseologia che tenga, è solo il metodo a contare davvero; l’uomo Lenin dorme in una teca di vetro, ed è giusto che sia lì a riposo, a noi servono gli strumenti del suo laboratorio, non le spoglie. Quegli echi che attraversano un secolo, non arrivano a noi per essere soggetti a condanna o celebrazione, ma perché siano ascoltati e reinterpretati, lingue nuove alimentate di grammatica antica. Il passato è per il rivoluzionario materia viva.
La condizione oggettiva non serve a niente senza una volontà soggettiva di rovesciamento. Né esiste un sentiero su cui camminare verso il Sol dell’Avvenire, abbiamo solo catene di istanti da far deflagrare, anello dopo anello, finché tutto il continuum non vada in frantumi.


  1. Carpi Guido, Lenin. Verso la rivoluzione d’ottobre (1905-1917), Stilo editore, Bari, 2021, p. 8 

  2. Ivi, p.10 

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1917 https://www.carmillaonline.com/2020/02/21/1917/ Thu, 20 Feb 2020 23:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57948 di Nico Maccentelli

Se pensavate che la parola 1917 volesse indicare una data epica, particolarmente amata in un luogo di marxisti inveterati come Carmilla, ebbene vi siete sbagliati. Il 1917 di cui tratto è l’omonimo film di Sam Mendes, che con la Rivoluzione d’Ottobre non c’entra nulla, se non il contesto, la Grande Guerra, nel quale milioni di soldati hanno vissuto lo scempio della guerra imperialista e non pochi hanno accarezzato l’idea di una rivoluzione sociale con due semplici parole “pace” e “pane”.

Ma attenzione, non si va a vedere 1917, come se [...]]]> di Nico Maccentelli

Se pensavate che la parola 1917 volesse indicare una data epica, particolarmente amata in un luogo di marxisti inveterati come Carmilla, ebbene vi siete sbagliati. Il 1917 di cui tratto è l’omonimo film di Sam Mendes, che con la Rivoluzione d’Ottobre non c’entra nulla, se non il contesto, la Grande Guerra, nel quale milioni di soldati hanno vissuto lo scempio della guerra imperialista e non pochi hanno accarezzato l’idea di una rivoluzione sociale con due semplici parole “pace” e “pane”.

Ma attenzione, non si va a vedere 1917, come se si andasse a vedere Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, che come Fury di David Ayer, mostra le atrocità della guerra ma sempre con una vena di retorica patriottica. E neppure il più realistico Dunkerque di Chistopher Nolan.  In 1917 di patria non ce ne è. E non c’è neppure alcuna mitologia dell’eroe, anche se l’eroe c’è, ma non per una bandiera bensì per evitare una carneficina e per un debito d’onore verso un amico.

Insomma, 1917, se ha vinto tra statuette nella notte degli Oscar: miglior sonoro, migliore fotografia e migliori effetti speciali una ragione c’è. E aveva ben dieci nomination, compreso quella come miglior film. È una pellicola cruda, reale, che non lascia nulla a un’estetica dell’orrore, ma è semplicemente orrore. Ma è anche e soprattutto la storia di un’amicizia difesa oltre l’impossibile.

La struttura narrativa lo colloca nel sottogenere del war road movie come Fury, una storia itinerante fatta di suspence, atrocità e momenti di poesia, senza nulla concedere agli espedienti enfatici anche quando gli incontri casuali potrebbero farli emergere con facilità. Per questo 1917 è un racconto della realtà per quella che è. E non è un caso che il film si basi su una storia realmente accaduta, appunto nell’aprile del 1917: quella dei racconti di guerra del nonno del regista Alfred Hubert Mendes, che aveva combattuto per due anni sul fronte francese nella 1st Rifle Brigade.

Qui la guerra è la Grande Guerra, dove i soldati cadevano come mosche nella folle corsa ordinata da ufficiali dementi agli ordini a loro volta da comandi ancora più dementi, falciati dalle mitragliatrici, fatti a pezzi dall’artiglieria avversa. A tratti emerge il crudele tritacarne visto ne Gli anni spezzati, di un altro grande regista, Peter Weir. 

Non c’è ribellione verso il proprio destino, ma solo lotta per la sopravvivenza: uccidi per non morire. Sopravvivi per arrivare in tempo, tra atmosfere cupe e notturne illuminate da fuochi e bengala e giorni di sole in cui la natura, con le sue campagne fatte di campi e fiori, stride nel gioco macabro e crudele che gli uomini fanno sotto e sopra quei cieli.

Una nota registica: l’uso lineare di piani sequenza soprattutto nelle scene di trincea danno un ritmo veloce e creano la giusta suspence. Nell’uso appropriato di questa tecnica di ripresa, generalmente a steadycam, si comprende meglio come abbiano fatto scuola mostri sacri come Kubrick e Scorsese.

La produzione vede la partecipazione di un gran numero di comparse come ogni Kolossal che si rispetti e le scenografie sono ancora più sviluppate su più scenari: di trincea, città distrutte e una primavera francese, il tutto perfettamente ricostruito nel Regno Unito, tra la riserva naturale di Hankley Common e gli Shepperton Studios. Ottimo anche il cast, con due magistrali George MacKay (Peter Pan e Defiance) e Dean Charles Chapman. Senza farsi mancare una comparsata marginale di Colin Firth.

Insomma, un film drammatico la cui storia avvincente ti prende sin dai primi istanti, senza mai lasciar spazio a cadute di tono e a rallentamenti soporiferi, in un incalzare di sequenze ben costruito fino al finale. Sicuramente da vedere con tutti suoi effetti e scenari davanti a uno schermo adeguato.

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Proletkult: il comunismo viene dallo spazio https://www.carmillaonline.com/2018/11/02/proletkult-il-comunismo-viene-dallo-spazio/ Thu, 01 Nov 2018 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49462 di Luca Cangianti

Denni è una giovane dai capelli biondissimi, però sembra un ragazzo e dice di venire da un pianeta comunista. Anche lì hanno avuto re, feudatari e capitalisti. Ma sono cose di un passato remoto. Adesso non c’è più proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere della scienza e della tecnica ha ridotto il lavoro a un’attività residuale di tipo organizzativo che viene svolta senza che si sviluppino processi d’identificazione. Su Nacun vale ciò che Karl Marx scrisse nell’Ideologia tedesca: “nella società comunista, in cui ciascuno [...]]]> di Luca Cangianti

Denni è una giovane dai capelli biondissimi, però sembra un ragazzo e dice di venire da un pianeta comunista. Anche lì hanno avuto re, feudatari e capitalisti. Ma sono cose di un passato remoto. Adesso non c’è più proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere della scienza e della tecnica ha ridotto il lavoro a un’attività residuale di tipo organizzativo che viene svolta senza che si sviluppino processi d’identificazione. Su Nacun vale ciò che Karl Marx scrisse nell’Ideologia tedesca: “nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.” Tale somiglianza con le prefigurazioni marxiane, tuttavia, vale solo nella forma, perché su Nacun gli animali non sono trattati come cose, né utilizzati come nutrimento. Il comunismo nacuniano inoltre non è una società irenica, che “non esiste un mondo dove tutti sono gentili” e “l’unica società pacificata è quella morta”. Su quel pianeta ad esempio per risolvere il problema della scarsità di risorse alcuni vogliono invadere la terra che è in uno stadio di sviluppo sociale ancora primitivo ai loro occhi. Altri sono “interplanetaristi” e non sono d’accordo nel trattare gli umani come questi trattano i “loro” conigli.

Bogdanov (a destra) gioca a scacchi con Lenin sotto lo sguardo di Gorkij (col cappello di traverso) e Anatolij Lunačarskij (seduto a fianco di Lenin). Villa Monacone, Capri, 1908.

In Proletkult, il nuovo romanzo di Wu Ming, Denni, come i protagonisti delle Lettere persiane di Montesquieu, ci aiuta a vedere il mondo con lo sguardo candidamente critico dell’alieno. L’originalità dell’operazione sta tuttavia nell’ambientare il viaggio della comunista venuta dallo spazio nell’Unione sovietica del 1927. È l’anno in cui si festeggia il decennale della rivoluzione, Lenin è morto e il suo corpo è stato imbalsamato. Molti rivoluzionari sono passati dalle barricate ai faldoni dei ministeri e sorseggiano whisky di pregio; quelli più intransigenti sono stati messi in condizione di non nuocere e il potere è finito nelle mani di quel ceto impiegatizio perfettamente descritto nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Queste mezze maniche piccole piccole hanno ottenuto distinzione sociale e privilegi; adesso vogliono goderseli in pace. Stalin è il loro garante, mentre gli oppositori, “Trockij, Kamenev e Zinov’ev denunciano lo strapotere del partito sui soviet, ma sono stati loro a costruire il partito. Hanno ottenuto esattamente ciò per cui hanno lavorato: una gerarchia di militanti di professione, un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario e conservatore. Il fatto che oggi cadano vittime della loro creatura è l’ironia della Storia.” A parlare in questo modo è la trasposizione letteraria di un personaggio realmente esistito: Aleksandr Bogdanov, direttore del primo istituto russo specializzato nella trasfusione del sangue. Si tratta di un uomo solo che sente su di sé il peso del fallimento di un’epoca, ma anche la persona che in gioventù fu bolscevico della prima ora, rapinatore di convogli postali, medico di trincea, filosofo, critico di sinistra del leninismo, scrittore di fantascienza e fondatore dell’Organizzazione culturale-educativa proletaria (in breve: Proletkult). Questo movimento, con il suo mezzo milione di iscritti superava in numero quelli del partito comunista russo, incoraggiava i lavoratori a scrivere opere teatrali, romanzi e poesie, prefiggendosi di superare la mentalità borghese. Secondo Bogdanov, infatti, “se gli operai conquistano le fabbriche, ma non hanno una nuova cultura per organizzarle, finiranno per dipendere dagli ingegneri e dai tecnici che già lavoravano per i vecchi proprietari, oppure ne imiteranno l’opera, con risultati peggiori, e così la pretesa rivoluzione non produrrà un reale cambiamento, se non in peggio.”
In Proletkult Wu Ming usa frasi brevi e un linguaggio cinematografico molto diverso dal fanta-argot dell’Armata dei sonnambuli, ma l’orizzonte euristico è lo stesso: la rivoluzione e il suo opposto correlato, la reazione. “Ne è valsa la pena?” ci si interrogava con rabbia nell’opera del 2014; “il mondo poi l’abbiamo cambiato davvero e in meglio”? – ci si continua a chiedere malinconicamente nel romanzo appena dato alle stampe – “il sacrificio è valso la pena”?

Denni si dice figlia di una nacuniana e di un terrestre che non ha mai conosciuto. È alla ricerca del padre perché lui sarebbe stato su Nacun e potrebbe dire a coloro che vogliono invadere la terra se gli abitanti di questo pianeta abbiano abbandonato l’arretratezza dei vecchi rapporti sociali, se insomma grazie alla rivoluzione abbiano intrapreso “la via giusta”. Forse così l’invasione e le sue orribili conseguenze potrebbero essere sventate, o forse è solo il frutto dell’immaginazione di una ragazza traumatizzata. L’incontro con Denni obbliga Bogdanov a fare i conti con la sua storia e con i fantasmi di una rivoluzione che ha generato una nuova forma d’oppressione. In questo viaggio avvincente, sulle tracce di un uomo che non si trova e di ricordi struggenti, il romanzo ripercorre le vicende teoriche e umane di coloro che osarono assaltare il cielo. Terminata la lettura alcuni alzeranno lo sguardo alle stelle con terrore, altri con speranza.

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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Dopo cinque generazioni https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/ Wed, 08 Nov 2017 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41429 di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla, io sulla bocca. (Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono. Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli. Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far [...]]]> di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla,
io sulla bocca
.
(Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono.
Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli.
Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far sì che quella prima rivoluzione proletaria e socialista non dimenticasse le differenze e le specificità legate alla loro condizione che ancora costituivano un ostacolo alla piena e reale liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione di classe e di genere.
Infine con la lotta serrata che molte di esse, dentro e soprattutto fuori dal partito bolscevico rapidamente salito al potere, condussero per opporsi alla degenerazione non solo progettuale di una rivoluzione che, nata in nome del trionfo dell’eguaglianza sociale ed economica, avrebbe portato ad uno dei regimi massimamente responsabili per il trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

Il volume intenso e serrato di Lorenzo Pezzica, che si era già occupato in parte dell’argomento nel precedente Anarchiche. Donne ribelli del Novecento,1 si occupa fondamentalmente dell’ultimo dei tre punti sopra elencati e lo fa con passione e indiscutibile efficacia. Anche se talvolta le fonti storiografiche utilizzate per la ricostruzione generale del periodo affrontato (1917-1921) appaiono un po’ limitate e segnate dalle interpretazioni liberali tipiche della meritoria, ma pur sempre “orientata”, storiografia anglo-sassone.2

Tenendo come filo conduttore per una parte del testo l’autobiografia dell’anarchica americana di origine russa Emma Goldman,3 che tra il gennaio del 1920 e la primavera del 1921 ebbe modo di compiere un lungo viaggio attraverso il paese dei soviet per osservare più da vicino quella rivoluzione che aveva acceso in lei, come in tanti altri anarchici, grandi speranza in un prossimo avvicinarsi della rivoluzione mondiale, l’autore traccia le sintetiche e più che drammatiche vicende che accompagnarono le vite di Fanya Baron, Marija Nikiforova (meglio conosciuta come Marusja), Fanya Kaplan (detta anche Dora), Marija Spiridonova, Irina Kakhovskaja, Ida Mett, Mollie Steimer (pseudonimo di Marthe Alperine), Senya Fleshin, Marija Veger, Marija Korshunova (nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja») e della poetessa Anna Barkòva.

Quasi tutte queste donne furono militanti anarchiche o socialiste rivoluzionarie. Tutte pagarono pesantemente con anni di carcere, deportazione, torture, violenze e quasi sempre con la morte la colpa di essere ribelli e rivoluzionarie. Molte avevano impugnato le armi e sparato contro i funzionari dello zar, i generali delle armate bianche o contro i rappresentanti di un bolscevismo ormai tramutatosi in strumento di oppressione. In un caso anche contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. Molte di loro erano di origine ebraica e diverse, dopo essere emigrate in giovane età in America da sole o con la famiglia per sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni che si abbattevano spesso sulle fasce più povere della popolazione di lingua yiddish, tornarono sul suolo russo proprio a seguito dello scoppio della rivoluzione.

Come afferma l’autore:

“Un aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne […] è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale. […] Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». […] La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917.
La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale.
Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai ad esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica.” 4

Accanto a loro compaiono anche altre donne, anch’esse rivoluzionarie, anch’esse prese negli ingranaggi spietati della rivoluzione in cui, nonostante tutto, cercano di difendere i diritti di genere e affermare una nuova morale sessuale e sociale. Sono bolsceviche come Aleksandra Kollontaj, Angelica Balabanoff, Inessa Armand o la stessa Nadeshda Krupskaja, compagna di Lenin. Anche nei confronti di queste ultime le figure dei leader rivoluzionari bolscevichi, anche i più importanti come Lenin e Trockij, impallidiscono dal punto di vista umano e politico, trascinati come sono in un fiume di cui non possono, non sanno e, forse, non vogliono dirigere la corrente se non canalizzandola in un flusso costante di repressione e negazione di ogni forma di autonomia di classe e di genere.

Scomparse nel Gulag, colpite nei loro affetti, uccise e seviziate nei corridoi più oscuri della Čeka, come Marija Spiridonova torturata e violentata prima dagli agenti della polizia zarista5 e in seguito condannata a lunghe detenzioni in manicomio e infine a morte dai tribunali di Stalin, o ancor prima da quelli messi in atto dai bolscevichi già prima della tragica repressione di Kronstadt, oppure salvatesi soltanto dopo essere state messe nell’impossibilità di esprimere le loro idee, queste rivoluzionarie ferme e coraggiose ci raggiungono ancora oggi con la loro voce e la loro esperienza a cinque generazioni di distanza.

Proprio come la poetessa Anna Barkòva, che passò quasi tutta la sua vita nel Gulag, aveva osato anticipare in una sua poesia:
Chissà, forse tra cinque generazioni
Dopo il terribile straripare del tempo,
il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti
e il mio nome fra gli altri
.

Davanti a tanto coraggio e a tanta lucida passione non ci resta altro da fare che chinare il capo in segno di rispetto e ringraziare l’autore che ha voluto così ricordarcele in occasione di questo contraddittorio centenario di una rivoluzione destinata a diventare, sostanzialmente, la prima delle grandi rivoluzioni nazionali asiatiche, ma non la realizzazione effettiva di una comunità umana più giusta ed eguale.


  1. Shake Edizioni 2013  

  2. Valga da esempio il testo di Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori 2016  

  3. Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra 1980 e Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta 1993 (che forse qualche editore, magari la stessa eléuthera che già nel 2016 ha dedicato alla rivoluzionaria e femminista americana il testo di Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, «la donna più pericolosa d’America», dovrebbe prendere la decisione di ripubblicare)  

  4. pp. 10-11  

  5. Marija Spiridonova era stata arrestata e condannata nel 1906 a 11 anni di lavori forzati in Siberia per l’attentato portato a termine contro l’ispettore generale di polizia Gavriil Luznovskij che aveva diretto la repressione dei contadini della regione di Tambov dopo la rivoluzione del 1905. Per un tragico paradosso della Storia quella stessa regione nel 1920 vide ancora i contadini protagonisti di una vasta rivolta contro la leva obbligatoria che, nel 1921, fu duramente repressa dall’armata rossa. La ribellione era stata organizzata militarmente da Aleksandr Stepanovič Antonov (ucciso in combattimento nel 1922 da agenti della Čeka) che, mentre era a capo della Milizia governativa del Soviet di Tambov, era riuscito anche a disarmare le legioni cecoslovacche, autentica spina nel fianco dell’armata rossa durante i primi anni della guerra civile.  

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Tutto deve essere rimesso in questione: Victor Serge e la Russia post-rivoluzionaria https://www.carmillaonline.com/2017/02/07/deve-messo-questione-victor-serge-la-russia-post-rivoluzionaria/ Mon, 06 Feb 2017 23:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36247 di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia [...]]]> di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia del Novecento.

Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del movimento operaio che per quella del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione, ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo un’analisi attenta e complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.

Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.

Victor_Serge L’autore (il cui vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič) era nato a Bruxelles nel 1890 da un esule rifugiato in Belgio. Dopo aver militato nell’anarchismo più combattivo avrebbe raggiunto la Russia dopo lo scoppio della Rivoluzione, dove avrebbe partecipato attivamente alla vita politica della neonata Unione Sovietica e ricoperto incarichi di prestigio sia lì che all’estero. Dopo la morte di Lenin, nel 1924, si sarebbe avvicinato a Trockij e all’opposizione di sinistra e per questo motivo, nel 1933, venne arrestato ed esiliato in Siberia.

Per sua fortuna una mobilitazione internazionale a suo favore gli permise di tornare in libertà nel 1936, proprio prima dell’inizio dei grandi processi di Mosca, e di riparare a Parigi. Da cui dovette emigrare successivamente in Messico nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista del suolo francese. Dopo la rottura con Trockij, la cui teoria dello stato operaio degenerato sembrava a Serge ancora troppo riduttiva per descrivere il regime ormai instauratosi nell’URSS, continuò la sua attività politica e culturale di pubblicista e scrittore fino alla sua morte. Avvenuta, mentre si trovava in condizioni di estrema povertà, a Città del Messico nel 1947.

Il testo riproposto da Bollati Boringhieri ripercorre le principali tappe sociali e politiche dei venti anni che intercorrono tra il 1917 e il 1937, dalle iniziative dal basso di soldati e operai che diedero avvio alla rivoluzione fino alle scelte politiche, ideologiche e repressive che la trasformarono in uno dei più mostruosi strumenti della controrivoluzione.

Al di là della passione messa in campo dal “vecchio” militante rivoluzionario nel narrare e ricostruire gli eventi, non vi può essere dubbio che una riflessione su quegli stessi e sulle condizioni e le scelte che li determinarono sia ancora oggi indispensabile per misurare con piena coscienza di causa ciò che ancora sta avvenendo a livello politico, economico e sociale. Sia a livello nazionale che internazionale.

Quale fu l’abilità principale di Lenin nel 1917? Quella di avere un partito ben organizzato ed un’organizzazione, anche militare, ben disciplinata? Oppure quella di saper cogliere ciò che le masse stavano esprimendo, con le azioni più che con le parole? Serge opta decisamente per quest’ultima spiegazione e ci presenta un Lenin quasi isolato, se non per l’appoggio fornitogli da Trockij, dall’opportunismo e dai timori che sembravano ancora dominare all’interno dello stesso partito bolscevico.

Una logica inesorabile spingeva migliaia di uomini all’azione, ma questi uomini avevano bisogno di una chiara concezione dei metodi e dei fini. Ci sarebbero riusciti ad ottenerla? Questo era il punto. Al momento decisivo le masse non sempre trovano uomini capaci di esprimere senza ripensamenti i loro interessi, le loro aspirazioni e la loro vocazione al potere”.1 Oppure, potremmo aggiungere oggi, li trovano ma soltanto fittiziamente schierati al loro fianco e in realtà ben determinati ad ottenere risultati contrari all’interesse dei più. Dalle varie forme di fascismo e populismo fino a Trump, passando, e lo vedremo tra poco, dallo stesso Stalin e i suoi mefitici derivati.

All’inizio la rivoluzione russa fu grandiosa per le sue necessità interiori e nello stesso tempo misera per la sua incapacità di soddisfarle. Il giorno stesso in cui gli operai tessili di Pietrogrado lanciarono lo sciopero che meno di un mese dopo avrebbe portato alla caduta dell’assolutismo, il Comitato bolscevico di un quartiere della capitale si pronunciò contro lo sciopero. Mentre le truppe stavano per ammutinarsi – e fu proprio questo ammutinamento che provocò la caduta dell’Impero – quegli stessi rivoluzionari consideravano, timorosi, se non si dovesse consigliare il ritorno al lavoro. I rivoluzionari di ogni partito, che avevano passato tutta la vita a prepararsi per la rivoluzione, non si resero conto che essa era a portata di mano e che la via verso la vittoria era già aperta”.2

Viltà, opportunismo, volontà di salvaguardia del Partito avanti tutto? Forse tutte e tre le cose insieme che, unite ad una eccessiva rigidità ideologica, avrebbero poi ancora accompagnato alla tomba l’esperienza rivoluzionaria e migliaia di rivoluzionari nell’era successiva alla morte di Lenin. Il quale, come afferma l’autore nel suo libro, ebbe il merito di “essere un rivoluzionario in un periodo di rivoluzione”.3

Egli vedeva chiaramente i limiti del possibile, ma intendeva superarli. In Russia non proclamò il socialismo,4 bensì l’espropriazione delle grandi aziende a beneficio dei contadini; il controllo operaio sulla produzione; una dittatura democratica dei lavoratori con l’egemonia della classe operaia . Era appena sceso dal treno quando chiese ai suoi compagni di partito: «Perché non avete preso il potere?» […] Tutto il suo genio consisteva nella sua capacità di dire ciò che il popolo voleva dire e che non sapeva dire, con la sua capacità di dire ciò che nessun uomo politico e nessun rivoluzionario era ancora riuscito a dire”.5

Così la rivoluzione russa ebbe carattere spontaneo: all’inizio sembrava che non avesse nessuno capace di aiutarla a svilupparsi; si può ricavare una grande lezione da questa constatazione: avvenimenti del genere non possono né essere anticipati né fatti precipitare. E’ cieco chi immagina di poter essere a favore o contrario alle necessità storiche, ma se coloro che sono capaci di distinguere le caratteristiche di queste necessità si mettono al loro servizio, allora da questo atto possono raccogliere grandi frutti e più sono capaci di integrarsi nel corso inesorabile degli avvenimenti e ricavarne le leggi che sono in essi contenute, più riescono ad aumentarne i frutti. Solo uomini del genere possono essere dei rivoluzionari”.6

Valeva la pena di soffermarsi sui fatti e le lezioni che caratterizzarono la Rivoluzione del ’17 e gli anni immediatamente successivi fino alla morte di Lenin, cui vengono dedicate complessivamente le prime sessanta pagine del testo. Prima di entrare in quello che potremmo tranquillamente definire come un autentico abisso politico, sociale, economico, ideologico e morale. Un girone infernale di sviluppo forzato e gulag che nel giro di quindici anni riuscì a divorare e ad ingoiare tutte le conquiste e le speranze messe in moto in quei primi gloriosi anni.

Conviene lasciare alla lettura diretta del testo la ricostruzione dei drammi e delle violenze che videro coinvolti ed eliminati i più oscuri militanti operai e i più celebri rappresentanti del Partito bolscevico e della rivoluzione. Quello che vale la pena qui sottolineare è come, da un lato, Serge riesca a ricollegare la crescita della potenza sovietica alla miseria e all’autentica espropriazione politica di milioni di operai e contadini russi e allo stesso tempo, dall’altro, cercare di spiegare come e perchè i migliori esponenti del comunismo sovietico abbiano finito col piegarsi e, talvolta, allearsi con Stalin e il suo progetto. Pur finendo sempre con l’essere eliminati fisicamente, oltre che politicamente.

Sono pagine più che drammatiche in cui l’autore mette al servizio della verità storica e politica le sue memorie, i documenti raccolti e la sua abilissima penna di scrittore.
Tutto deve essere rimesso in questione e le verità di regime devono essere severamente smontate e ricondotte alla realtà dei fatti. Molto distanti dalla narrazione fattane dai servitori, sempre fedeli e spesso destinati anch’essi all’eliminazione fisica, di Josef Vissarionovic Džugašvili, georgiano nato a Tiflis nel 1879, in arte Stalin.

Già nel novembre del 1929, “lo scarso livello nutritivo degli operai fece diminuire la produttività del lavoro. […] L’operaio abbandonava la fabbrica o vi restava solamente formalmente e si guadagnava la vita mediante piccoli furti. Rivendendo un paio di calze guadagnava di più che con tre giorni di lavoro. Egli doveva essere costretto a lavorare con una legislazione draconiana. Per legarlo ai centri industriali, venivano istituiti passaporti interni, che privavano la popolazione del diritto di muoversi liberamente per il paese e che rendevano possibile la deportazione di chiunque senza alcuna formalità. […] Furono anni di incubo. La carestia arrivò in Ucraina, nelle terre nere, in Siberia e in tutti i granai della Russia”.7

Ma, tenendo anche conto della gravissima crisi che nel ’29 iniziò a colpire tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, se ci spostiamo qualche anno più avanti, quando il regime iniziò a celebrare i suoi trionfi, le cose non cambiano di molto. Anzi. “Kharkov si è ingrandita sensibilmente. Ci sono molte fabbriche e cooperative nuove. Tuttavia migliaia di persone passano la sera senza luce e quasi senza riscaldamento; a interi settori della città manca l’elettricità.. I cinema sono chiusi, le abitazioni sono nell’oscurità e tutto ciò va avanti per intere settimane. Niente olio, niente candele, completa oscurità. Solo i burocrati, i maledetti fortunati, posseggono brutte lampade a petrolio […] la gente vive instupidita, in uno stato di bestiale disperazione. Il contrasto tra produzione e consumo è incredibile”.8

E più avanti ancora: “I pidocchi, a cui una volta Lenin aveva dichiarato guerra, sono tornati a frotte, Folle sporche e cenciose riempiono le stazioni, uomini, donne e bambini aspettano a gruppi Dio sa che treni. Vengono cacciati via, ma ritornano senza denaro e senza biglietti. Si arrampicano su tutti i treni su cui possono salire e ci rimangono finché non vengono cacciati via. Sono silenziosi e passivi. Dove vanno? Vanno in cerca di pane, di patate o di lavoro nelle fabbriche dove gli operai sono nutriti un po’ meno peggio…Il pane è il grande stimolo di questa folla. E che dire dei furti? La gente ruba dappertutto, dappertutto”.9

L’industria pesante era stata favorita come base per lo sviluppo della potenza sovietica e con essa in particolare quella degli armamenti. Fame in casa e immagine muscolare verso l’esterno mentre Stalin scenderà a compromessi vergognosi con la Francia, l’Inghilterra e, dal ’39, anche con la Germania nazista. In contemporanea andranno avanti le epurazioni: nel Partito, nel Politburo e tra la popolazione: “L’epurazione della popolazione di Leningrado10 mediante la la prigione e la deportazione arrivò a comprendere da ottantamila a centomila vittime. E tutto ciò accadeva nel 1935“.11

Ma il dramma ancora maggiore fu proprio quello costituito dal fatto che i più importanti artefici della Rivoluzione accettassero prima di firmare le infamanti accuse costruite su di loro dalla GPU e dagli apparati di informazione e poi di subire, spesso quasi passivamente, i processi e poi le esecuzioni. Senza contare le decine o forse centinaia di migliaia di membri e funzionari di partito scomparsi senza lasciar traccia nelle prigioni e nei campi di lavoro siberiani.

victor-serge 1 Nel testo Serge dedica a questo argomento pagine terribili e sconvolgenti che vale la pena di leggere, mentre le riflessioni profonde che ne derivarono avrebbero accompagnato le sue opere letterarie migliori12 fino alla fine dei suoi giorni.

Bene ha fatto dunque la casa editrice a riproporre il testo qui esaminato, seppur nella stessa traduzione del 1973 di Sirio Di Giuliomaria che in qualche punto avrebbe potuto essere rivista, non soltanto al fine di una riflessione sull’esperienza sovietica condotta non da un conservatore o da qualcuno che abbia fatto, già all’epoca, il salto della barricata, ma anche per la riscoperta di un autore e militante rivoluzionaria che David Bidussa, in una breve ma significativa e netta Prefazione, contribuisce ad inquadrare e a differenziare da altri autori più celebri, come Koestler o Silone, individuando i motivi della sua rimozione dalla memoria “democratica” proprio nella radicalità del suo operato e della sua testimonianza.


  1. pag. 4  

  2. pag. 6  

  3. pag.15  

  4. Come poi avrebbe fatto Stalin con la teoria, nazionalista e negatrice della rivoluzione internazionale, del socialismo in un solo paese – Nota del recensore  

  5. pp. 13-14  

  6. pag. 9  

  7. pag. 94  

  8. pag. 106  

  9. pag. 107  

  10. Città mai particolarmente cara a Stalin, tanto che nei libri di storia è più celebre l’assedio di Stalingrado che quello di Leningrado che pur durò 900 giorni e vide lo stesso una severa sconfitta delle truppe dell’Asse – Nota del recensore  

  11. pag. 129  

  12. E’ mezzanotte del secolo, Il caso Tulaev e Anni Spietati. I primi due ristampati in Italia in anni recenti  

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Laboratorio Rojava https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/ Wed, 16 Nov 2016 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34508 di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia [...]]]> di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia Todeschini, pp.246, 2016 todessil@gmail.com € 10,00

Immagino lo storcimento di naso che alcuni avranno fatto di fronte alla notizia, comunicata nei primi giorni di novembre dalle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza arabo-curda che agisce sul territorio siriano, l’offensiva congiunta su Raqqa la “capitale” siriana dell’Isis. Soprattutto, considerato che tale coalizione ha ricevuto l’appoggio dall’aviazione statunitense.

Certo nella vicenda c’è dell’ambiguità. Da parte degli Stati Uniti che, mentre da un lato hanno tra gli alleati i maggiori finanziatori dell’Isis (Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia) dall’altro, cercano di sfruttare la legittima aspirazione all’autonomia dei curdi in funzione del proprio progetto di disarticolazione dello stato siriano e del regime di Assad. Oltre che, al momento attuale e dopo le capovolte di Erdogan, per fare indispettire il dittatore turco. Senza magari domani rinunciare ad abbandonare alla sua vendetta i curdi del Rojava in nome di una recuperata “sicura” alleanza. Cosa già messa in atto, tra l’altro dalle forze russe, dopo il riavvicinamento tra Putin ed Erdogan.

D’altra parte, a partita già iniziata e non da ora, come dovrebbero muoversi i curdi del Rojava per continuare a difendere i territori già liberati e per scacciare definitivamente i mercenari dell’Isis dai propri territori?
Certo qualcuno avrebbe trovato da ridire anche in occasione del trasferimento su un treno militare tedesco, da Zurigo a San Pietroburgo, di Lenin nel 1917 o chissà in quante altre occasioni, compresa la guerra civile spagnola, in cui chi la Rivoluzione la stava facendo, o almeno stava provando a realizzarla, è stato colpito dall’ostracismo ideologico di fazioni avverse ”più radicali” o “ortodosse”.

i-dont-fight-3 Non andrebbe però dimenticato che proprio la guerra siriana ha causato malumori tra gli stessi militari americani impiegati che, utilizzando i social network, hanno manifestato la loro contrarietà a combattere una guerra a vantaggio di Al Qaeda e contro le popolazioni civili, pubblicando foto in cui si coprivano il volto con scritte del tipo “I will not fight for Al Qaeda in Syria” oppure “Obama, I will not fight for your Al Qaeda rebels in Syria. Wake Up People!”. Contribuendo così, anche indirettamente, al successivo trionfo elettorale di Donald “Duck” Trump e alla sua, probabile, rottura con la tradizionale politica filo-jihadista della Segreteria di Stato americana, impostata a suo tempo dalla Clinton e dalla lobby petrolifera.

Certo, la semplificazione con cui i media, soprattutto nostrani, dipingono l’alleanza in atto nel Rojava come un’alleanza tra curdi e arabi potrebbe far pensare ad un indesiderabile accordo tra le forze delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg – Yekîneyên parastina gel) e le forze arabo-saudite. In realtà sul territorio del Rojava le unità militari curde operano con le formazioni militari locali create dalle comunità arabe e turcomanne che risiedono nello stesso territorio e che hanno accettato i presupposti di autogestione e confederalismo democratico e territoriale proposto dalle e dagli esponenti delle forze rivoluzionarie curde.

riv-rojava Proprio per comprendere meglio un esperimento complesso ed innovativo come quello in atto nel Rojava, la Red Star Press ha edito, nel giro di pochi mesi, due utili testi. Il primo, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA, è stato scritto da una giornalista nata a Istambul nel 1974, che vive e lavora in Turchia ed è nota per suoi reportage dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente.

Il secondo, LABORATORIO ROJAVA, è opera di uno storico che da sempre studia la questione curda e le pratiche alternative al capitalismo nell’età moderna (Michael Knapp), di un’etnologa che ha trascorso due anni nella resistenza femminile curda (Anja Flach) e di un ingegnere ambientale che vive nel Kurdistan del Nord ed è impegnato in particolare nelle lotte per la salvaguardia delle acque (Ercan Ayboga).

Già il lungo elenco di sigle di formazioni politiche e militari operanti sul territorio del Kurdistan, compreso nelle prime pagine del testo di Arzu Demir, dovrebbe da solo bastare a far comprendere la complessità di una situazione, sia politica che militare e territoriale, che non può essere liquidata semplicemente come “questione curda”. Da qui discende la necessità di rimarcare le differenze intercorrenti tra alcune delle principali organizzazioni: PDK (Partito Democrtaico del Kurdistan – iracheno), PKK (Partîya karkerén Kurdistan – Partito dei lavoratori del Kurdistan – turco) e PYD (Partiya yekîtiya demokrat – Partito dell’unione democratica – siriano).

lab-rojava Il primo è il partito che governa il Kurdistan meridionale (Bajûr, Nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG) dopo la cacciata di Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003. E’ un partito nazionalista e decisamente schierato a fianco della politica americana nella regione e, di fatto, rappresenta gli interessi politico-petroliferi del clan Barzani. Il termine peshmerga, che storicamente definisce genericamente ogni “guerrigliero” o “soldato” curdo, ha finito col rappresentare i combattenti del PDK e del PUK (Yekêtiy nistîmaniy Kurdistan – Unità patriottica del Kurdistan – iracheno) di Talabani; mentre i partigiani del PKK e del PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni oppure come gerîlla o partîzan. Ma è proprio sulla genericità e ambiguità del termine peshmerga che si è potuta costruire gran parte della confusione imperante nei media occidentali.

Il PKK opera da circa trent’anni nel Kurdistan settentrionale (Bakûr, sud-est della Turchia) per sostenere l’autodeterminazione e la sopravvivenza del popolo curdo contro l’aggressione e occupazione militare dello Stato turco. Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dai paesi occidentali (USA ed Europa), sta provando a superare l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una critica radicale degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito e l’abbandono dell’obiettivo di uno stato curdo indipendente, attraverso la proposta di un confederalismo democratico rivolto a tutte le differenti comunità presenti sul territorio in cui opera.

Il PYD, le cui formazioni militari sono YPG e YPJ (Yekîneyên parastina jinê – Unità di difesa delle donne), è il partito maggioritario del Kurdistan occidentale (Rojava, Siria del nord). Condivide con il PKK la prospettiva della costruzione di una federazione di comunità indipendenti e autogovernate al di là dei confini nazionali, etnici e religiosi, le cui basi sono costituite dalla partecipazione dal basso, la parità di genere e la difesa dell’ambiente. Prospettiva che, a detta dell’autrice di La rivoluzione del Rojava, sta cercando di realizzare a partire dall’insurrezione di Kobane nel luglio del 2012.

Il testo di Arzu Demir si basa, principalmente su un lavoro di intervista condotto sul campo a donne e uomini delle comunità coinvolte nella guerra siriana e contro l’avanzata dell’Isis. Ma è una guerra condotta anche in casa, dove i residui del passato patriarcale, ancora sin troppo presente, dovranno essere seppelliti non dopo la lotta contro i regimi autoritari e il capitalismo che li ha prodotti, ma durante e insieme a loro.

L’essenza delle politiche del regime siriano verso il Rojava è stata quella di abbandonare la regione alla povertà e alla miseria politica, sociale, culturale ed economica per renderla dipendente dallo stato centrale. In altre parole lasciarla senza identità e senza riconoscimento. Da questo punto di vista ci sono delle somiglianze con le politiche coloniali dello stato turco nel Kurdistan settentrionale. L’unica differenza è che i curdi in Siria, almeno fino alla rivolta di Qamishlo nel 2004, non si sono mai ribellati in maniera aperta e diretta contro il regime e per questo il numero di massacri è molto minore […] La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana.” (pag. 31)

Parte da queste considerazioni una lunga ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo della resistenza curda e dell’attività forzatamente clandestina condotta dai partiti curdi in Siria almeno dal 1960 e dei motivi che hanno condotto il PYD a non schierarsi né con il governo di Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una terza via che è consistita nel liberare e difendere il proprio territorio per amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società non solo curda, in una specie di “democrazia cantonale dal basso”.

donne-curde-1 In questa azione, che è stata politica e militare nel suo insieme, le donne hanno svolto un ruolo nuovo ed importante e la costituzione delle loro unità di difesa (YPJ) ha finito con l’essere uno dei punti di forza nella difesa del Rojava sia dai lealisti di Assad che dai “ribelli siriani” e dall’ISIS e jihadisti vari. Donne di ogni estrazione sociale, e spesso provenienti da altre nazioni, che ormai da anni versano il loro sangue e prestano le loro energie intellettuali e fisiche alla causa della rivoluzione. Come ben dimostrano le numerose interviste condotte dall’autrice a donne poi cadute in combattimento.

Una delle cose che la rivoluzione ha fatto per le donne del Rojava – in queste terre in cui il fatto che un uomo possa sposarsi con quante donne voglia o con una ragazzina è riconosciuto come un diritto culturale e legale – è stata quella di proibire il matrimonio in giovane età, la poligamia o i matrimoni combinati.[…] All’inizio del 2015 è stata emanata la cosiddetta «Legge delle donne», che tutela i diritti di queste ultime. Il primo articolo della legge in questione recita così: «la lotta alla mentalità patriarcale è responsabilità che poggia sulle spalle di tutti gli individui del Rojava autonomo e democratico». Con la Legge delle donne è stata riconosciuta parità di diritti in materia di eredità, divorzio e testimonianza in sede legale. La legge ha posto fine a pratiche, come lo herdel1 o la compravendita della sposa, che mercificavano la donna” (pp. 70-71)

Il testo però non dedica soltanto spazio alla situazione femminile nel Rojava e all’apporto che le donne hanno dato e danno all’esperimento sociale in corso, ma illustra anche con dovizia di fatti e di interviste un po’ tutti gli aspetti dello stesso: dalla gestione amministrativa comunalistica alle nuove forme di organizzazione economica e di autodifesa. Contribuendo così non soltanto all’informazione su ciò che sta succedendo nella Siria del nord, ma anche alla discussione su quali possano essere le forme organizzative, sociali, amministrative e culturali là dove sia già possibile una società in divenire.

Il taglio storico ed ambientalistico contraddistingue il secondo testo pubblicato dalla Red Star Press, che fin dalle prime pagine sembra aprirsi a scenari complessi.
I curdi sono il terzo gruppo etnico del Medio Oriente dopo arabi e turchi. Le stime sul numero dei curdi variano in modo notevole, ma le più realistiche si aggirano fra i 35 e i 40 milioni di persone.
L’area di insediamento curda, sebbene relativamente compatta, si trova oggi a cavallo tra gli Stati di Turchia, Iraq, Iran e Siria. La regione è d’importanza strategica anche per la facilità d’accesso all’acqua: i fiumi che bagnano la Siria e l’Iraq scorrono entrambi nella parte turca del Kurdstan (Bakûr). I linguisti collegano di comune accordo la lingua curda al ramo iraniano della famiglia indoeuropea, nonostante il curdo possa differire in modo significativo dal farsi. Non esiste una lingua comune curda, né un alfabeto standard o scritto, in parte a causa della divisione del Kurdistan e della proibizione della lingua curda in molti stati. I curdi parlano cinque dialetti principali o gruppi dialettali […] Questi dialetti sono talmente differenti che non sempre gli interlocutori riescono a intendersi
”. (pag. 23)

Primo problema: spesso a proposito del Medio Oriente, si parla di petrolio, ma troppo spesso ci si dimentica come per il futuro, e già oggi per il vicino Oriente, la questione della disponibilità d’acqua e del suo controllo sia vitale. Prova ne sia il conflitto aperto da Israele con la Siria per il controllo del Golan. Quindi un Kurdistan ricco di acque potrebbe essere in prospettiva più appetibile e più importante del Kurdistan ricco di petrolio.

Secondo problema: una lingua dispersa che potrebbe ritrovarsi a ragionare in maniera prossima all’iraniano potrebbe costituire un ulteriore motivo di contenzioso per l’attuale espansionismo iraniano che, come ho già spiegato in altra sede,2 è uno dei fattori degli attuali conflitti mediorientali.
Così un testo come Laboratorio Rojava può essere utile non solo per ciò che espone direttamente, ma anche per i problemi che può far sorgere indirettamente a seguito di una sua più attenta lettura.

donne-curde-2 Il testo si differenzia dal precedente soprattutto per il fatto che mentre Arzu Demir fa ancora uso di una lettura e, talvolta, di una retorica ispirate dal marxismo-leninismo,3 gli autori di Laboratorio Rojava si rifanno decisamente al nuovo corso ispirato dalle riflessioni del leader storico del PKK: Abdullah Öcalan.

Nel suo tratteggiare le tradizioni comunaliste della società primitiva, Öcalan si volge verso quella che lui stesso definisce società organica o naturale, esistita a suo parere alcune decine di migliaia di anni fa, organizzata in modo comunalista ed egualitario. Era una società matriarcale e si distingueva per l’uguaglianza di genere: «Nel Neolitico fu creato, attorno alla donna, un ordine sociale genuinamente comunalista, il cosiddetto ‘socialismo primitivo’, un ordine sociale che ‘non conosceva le pratiche coercitive dello Stato’» […] dal punto di vista del materialismo storico marxista, il «comunismo primitivo» doveva necessariamente essere superato per arrivare alla società statalista attraverso le varie fasi dello sviluppo economico, dalla società schiavista al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo, in una successione di passaggi teleologica, deterministica.4 Nella visione di Öcalan, l’emergere della gerarchia, del dominio di classe e dello statalismo non era inevitabile: «La gerarchia e il conseguente sorgere dello Stato fu agevolato dall’ampio ricorso alla violenza e all’inganno. D’altra parte, le forze essenziali della società naturale hanno resistito senza tregua e devono essere continuamente respinte (dallo Stato stesso). Contro il principio marxista del passaggio necessario attraverso fasi di sviluppo, Öcalan ha elaborato la costruzione della democrazia radicale qui e ora” (pp.51-52)

Per questo motivo il modello organizzativo proposto per il Kurdistan è sostanzialmente quello della democrazia consiliare che ebbe inizio dalla Comune di Parigi. In questa formazione di una società civile senza Stato alcuni principi sono comuni a tutti gli aspetti della riorganizzazione sociale, sia per il movimento delle donne che per il sistema sanitario, la difesa, l’amministrazione della giustizia e altro ancora. “Le persone si organizzano in Comuni, formano commissioni e lavorano insieme alle organizzazioni democraticamente legittimate” (pag. 125)

Il testo dedica molto spazio alle forme organizzative e legislative che si sviluppano in questi ambiti e per questo vale veramente la pena di condurne una lettura attenta e meditata in quanto, ancora più che per il precedente, ogni pagina non è volta soltanto a ricostruire le vicende del Rojava rivoluzionario, ma anche a suggerire prospettive per il futuro. Compreso il nostro.

donne-curde-3 Il terzo testo, quello di Silvia Todeschini, che si può richiedere direttamente all’autrice tramite l’indirizzo e-mail sopra segnalato, si occupa specificamente dell’azione femminile nel Rojava e si basa ancora una volta sull’esperienza di soggiorno e sulle interviste raccolta dall’autrice tra le donne del Rojava. Come dice la stessa Todeschini in apertura: “Questo non è un libro sul Rojava; questo non è un libro sulle donne. Questo è un libro sulla rivoluzione, dal punto di vista delle donne” (pag.6)

Da questa impostazione sorgono ancora numerose riflessioni di cui varrebbe la pena di parlare, ma che richiederebbero una trattazione a sé stante e molto ampia (così come, tra l’altro, la richiederebbero anche molte parti del testo precedente), ma almeno due considerazioni vanno qui prese in esame. La prima riguarda il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato nel trattare un genere ancora poco favorito dalla nostra lingua.

Afferma Silvia nella sua Piccola nota sul “maschile neutro” che non viene usato in questo libro: “In italiano, al contrario di molte altre lingue, non esiste il genere neutro. In italiano, per descrivere un gruppo di persone in cui sono presenti sia maschi che femmine, si usa il maschile. Se per esempio c’è un gruppo di 15 giardinieri, di cui 13 donne e 2 uomini che ha fatto n buon lavoro, secondo la grammatica italiana si dice «i giardinieri sono stati bravi». Equiparare il neutro al maschile è chiaramente sessista, perchè la presenza delle donne viene ignorata, vengono assimilate ai maschi. Che fare quindi? Secondo me è da modificare la lingua italiana, inserendo un plurale effettivamente neutro (come del resto esiste in curdo e in altre lingue). In attesa che si modifichi la lingua, come esprimersi in un modo che non sia sessista ma che resti comprensibile? […] altra possibilità è quella di coniugare il plurale neutro al femminile, «le giardiniere sono state brave»: questa possibilità è discriminante nei confronti dei maschi; però perlomeno è facile da leggere. E comunque potrebbe essere un buon mezzo per far comprendere quanto maschilista sia il maschile neutro. In attesa che la lingua venga modificata, e possa esistere un plurale non escludente, verrà quindi per questo libro assunto il femminile come plurale neutro: ciò significa che quando leggerete espressioni come per esempio «le compagne», è possibile che nel gruppo siano presenti anche compagni maschi” (pag.2)

La seconda, invece, tocca il tema della «bellezza», tema che troppo poco spesso o quasi mai i rivoluzionari hanno seriamente preso in considerazione.
Per lottare, infine, è necessaria la bellezza. E’ necessaria l’estetica. Non solo quella esteriore, ma anche o soprattutto quella dei comportamenti. Perché dire che stai dicendo cose giuste, ma il modo in cui le dice è sbagliato, equivale a dire che è sbagliato tutto, perché il modo in cui si fanno le cose è parte integrante di ciò che si fa. Perché il fine non giustifica i mezzi: i mezzi al contrario devono contenere in se stessi il fine, devono rispecchiarlo, i mezzi stessi sono parte del fine. Perché la strada deve essere innanzitutto essere bella, per poter essere percorsa..Perché non c’è una via verso la libertà che non ne contenga i semi al proprio interno; non è sufficiente avere un buon obiettivo, è necessario conseguirlo in maniera giusta, in maniera corretta. Un caro compagno un giorno mi ha detto che puoi riconoscere se una lotta è giusta in base a quanto bene stai nel farla. La bellezza della lotta non è secondaria, perché la lotta è bellezza. E la gioia che provoca, il sorriso sui nostri volti,è già di per se un coltello nel fianco del nemico. In Rojava si dice che l’estetica è come una rosa, a cui sono necessarie spine per difendersi; queste spine sono l’etica, i valori, ma sono anche la lotta, perché la bellezza senza lotta diventa vuota” (pag. 196)

E queste considerazioni finali mi portano a comprendere ancora di più la straordinaria vicinanza tra lotta dei curdi del Rojava e l’esperienza del Movimento No Tav in Val di Susa. Per cui mi permetto di segnalare, in chiusura, tre agili e sintetici, ma tutt’altro che superficiali, libretti prodotti da una casa editrice vicina al movimento No Tav sulla questione fin qui esplorata:

Dai monti del Kurdistan. Intervista a più voci in un villaggio del Kurdistan turco, Alpi libere, Cuneo maggio 2012, pp. 32, € 2,00

pepino-kurdistan Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, TABOR edizioni, Valle di Susa, dicembre 2014, € 2,00

Janeth Bielh, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, TABOR “materiali”, Valle di Susa , giugno 2015, € 2,00


  1. Pratica matrimoniale che consiste nello scambio di spose tra famiglie. E’ spesso utilizzata per mettere fine a sanguinose faide inter-famigliari  

  2. https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/  

  3. Riferibili, o almeno così sembrerebbe dopo una prima lettura, in alcuni casi alle posizioni del Mlkp (Marksist-Leninist komünist partisi – Partito comunista marxista-leninista)  

  4. Questa ricostruzione, di per sé corretta, risente tuttavia delle forzature interpretative del pensiero di Marx fatte dagli stessi marxisti. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

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