1789 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fucilate Sartre https://www.carmillaonline.com/2020/11/04/contro-lopportunistica-accettazione-del-discorso-antirazzista-di-sinistra/ Wed, 04 Nov 2020 21:50:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63345 di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, anche il razzismo endemico del modo di produzione vigente e dell’immaginario che ne deriva sia presentato come un’eccezione, un errore di carattere prevalentemente culturale risolvibile con la forza della ragione. Quel crescere e formarsi dei militanti di cui parla Palmi si riferisce quindi esplicitamente alla necessità di superare una visione stereotipata del mondo e delle sue insufficienze, troppo spesso ispirata da una cattiva coscienza di origine borghese e falsamente democratica. Visione del mondo in cui il razzismo sembra solo più costituire una sorta di sogno o di incubo ritornante da un passato che la società moderna avrebbe già da tempo superato e accantonato.

Non a caso, proprio per chiarire la necessità di fare i conti con un passato che è invece ferocemente parte del nostro presente, il curatore inizia la sua recensione proprio con una citazione da Karl Marx (mica da individui insignificanti come Salvini o Giorgia Meloni oppure dai soliti dei malvagi di cui sono piene le pagine di libri di Storia scolastici) in cui il fondatore del comunismo moderno si lascia andare ad una serie di considerazioni tutt’altro che politically correct sui popoli delle colonie europee in Asia e Africa.

Lo fa, Palmi, non per sottoporre a critica severa l’autore originario di Treviri, ma piuttosto per storicizzarne le formulazioni e per dimostrare come alcuni assunti sulle condizioni di presunta “arretratezza”, non solo economica ma anche politica e culturale, dei popoli oppressi degli altri continenti abbiano finito per condizionare pesantemente la riflessione e la conseguente azione politica di coloro che pur si ritengono antirazzisti e di sinistra.

Le considerazioni del curatore, contenute nella bella introduzione, e quelle degli altri testi contenuti nel libro sono il risultato di un corso di formazione politica che si è svolto a Bologna, presso la Mediateca Gateway, nell’autunno/inverno 2019, con l’intento di fornire chiavi di lettura e categorie interpretative per decolonizzare il discorso e la pratica dell’antirazzismo italiano ed europeo. Cinque interventi ed un’intervista a Houria Buteldja1, che si focalizzano sulla compassionevole e falsificatrice rimozione della “razza” dal discorso storico e politico non solo ufficiale, ma anche di un certo antagonismo.

Qual è il presupposto da cui si dipanano le riflessioni contenute nel testo collettaneo? Sostanzialmente quello che il razzismo non sia una componente secondaria della società capitalistica e del suo prodotto sociale, ma piuttosto ne costituisca un fondamento essenziale. Forse il più importante insieme a quello della divisione in classi della società stessa. Ma mentre per la seconda si potrebbe affermare che in fin dei conti questa sia esistita in forme diverse fin dalla fine della comunità primordiale e dall’apparizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, del primo si può dire che esso nasca con l’occidente moderno. Ed è per questo che tra le sue pagine si legge più volte che per coloro che si oppongono al razzismo la data di riferimento non può essere il 1789 ma il 1492.

D’altra parte, e non soltanto per salvaguardane il buon nome, fu lo stesso Marx a sottolineare, fin dal 1846, come:

La schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l’America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l’America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l’anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l’America dalla carta delle nazioni2.

Schiavitù che nello “sviluppo” coloniale non assunse soltanto le caratteristiche dell’oppressione dell’uomo sull’uomo ma, anche e soprattutto, di una razza sulle altre. Far finta che questo abbia costituito soltanto un errore sul percorso del progresso significa rimuovere uno dei macigni che ancora tengono ancorata una parte consistente della classe operaia e del proletariato europeo, o più genericamente “bianco” come vediamo drammaticamente oggi negli Stati Uniti, agli interessi e all’immaginario del capitale. Anche quando di pensa progressista.

Non si tratta infatti di rimuovere una colpa attraverso la compassione o il soccorso umanitario (sia in loco che in mare), ma di prendere coscienza che la lotta antirazzista, esattamente come quella di genere, è un fattore dirimente all’interno del conflitto di classe e che, sostanzialmente, lo sopravanza. Come afferma infatti Palmi nell’introduzione:

questo libro vuole porsi in netta discontinuità con una lunga tradizione di studi sul razzismo che non ha mai fatto i conti con la sua matrice coloniale e ha scelto deliberatamente di non nominare la razza, rimuovendo dal discorso la materialità delle condizioni di subordinazione e sfruttamento dei soggetti razzializzati. Rovesciando questa impostazione, la volontà è quella di fornire alcuni strumenti fondamentali per leggere la realtà della composizione sociale razzializzata, senza ricrearne una rappresentazione edulcorata, eterodiretta e costruita introno a un’idea di vulnerabilità e dipendenza.
È su questo crocevia che si colloca la nostra critica della cattiva coscienza bianca. Lì dove la rimozione della storicità della razza significa occultamento della sua funzione strutturale e strutturante dell’ordine sociale.
Un antirazzismo che si dica ancorato alla materialità dei processi di razzializzazione non può prescindere da questo punto. Sacrifichiamo il moralismo pedagogico sull’altare di accademici e preti del conflitto. Non c’è nessuno a cui dobbiamo insegnare cos’è il razzismo, come non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva. La ricomposizione della frattura razziale non è un dato sovrastrutturale di cui basta prendere coscienza, ma u n obiettivo politico da perseguire secondo processualità diverse e autonome 3.

Nella narrazione tradizionale, stereotipata e tossica, poi « Il regime fascista e le leggi razziali vengono assunti come forme idealtipiche del razzismo proprio in virtù del loro carattere di eccezionalità, che relega così le gerarchie della razza al ruolo di fugace comparsa nel processo di costruzione dell’italianità. Una coscienza lava l’altra e il dibattito pubblico italiano ci parla di un passato senza macchie», facendo così che

l’antirazzismo ha, in tempi recenti, preso dapprima la piega dell’educazione universale ai diritti dell’uomo e poi del richiami umanitario, definito nella crescita ipertrofica del sistema dell’accoglienza ed esacerbato dall’esplosione della cosiddetta «crisi dei rifugiati» […]
Quella umanitaria è divenuta a tutti gli effetti un’industria, entro cui il dispositivo razziale lavora senza sosta nella sua opera di valorizzazione e gerarchizzazione delle differenze. La retorica di cui questi contenitori si ammantano è spesso e volentieri quella delle forze della sinistra antirazzista, comprese quelle della cosiddetta sinistra radicale e dei movimenti sociali. Alternando un registro tragico e vittimizzante a uno paternalista, la figura del soggetto migrante viene metabolizzata per rispondere positivamente ai criteri di gestione e governo delle migrazioni internazionali. Quella che si spaccia per integrazione non risulta altro che la precisa collocazione dei e delle migranti all’interno di una più complessa catena di sfruttamento ed estrazione del valore […] La riproduzione dei rapporti sociali razzializzati passa innanzitutto attraverso forme di assimilazione dalle tinte arcobaleno, che parlano di educazione all’intercultura e rispetto dei diritti umani. Tirocini, stage, lavori socialmente utili e infinite altre tipologie di mansioni non retribuite, formalmente indirizzate all’inserimento del migrante nella società bianca e spesso sovvenzionate direttamente dallo Stato o dall’Unione Europea, agiscono in maniera ben più profonda e capillare nell’incanalare i soggetti razzializzati verso la loro collocazione subordinata e marginale di qualunque squadraccia dalle simpatie neonaziste. Non è il mercato degli schiavi di Lisbona e nemmeno il porto di Ellis Island. È l’etica illuminata della sinistra bianca, che generosamente raccoglie naufraghi in balia del Mediterraneo, per poi condannarli a una vita d’inferno fra galera, marginalità sociale e caporalato 4.

Negli altri contributi Miguel Mellino definisce la «crisi dell’antirazzismo europeo»; Anna Curcio ripercorre il filo rosso che tiene assieme la storia nazionale dal primo processo di unificazione fino all’incontro-scontro, piuttosto recente, con i grandi flussi delle migrazioni postcoloniali e con le nuove forme di gerarchizzazione fra Nord e Sud Europa, mentre Jamila Mascat propone una riflessione che punta a identificare razza e genere come forme specifiche della modernità capitalistica e Alvise Sbraccia propone una trattazione della relazione fra razzismo, crimine e criminologia, dove si individua la stretta relazione tra le matrici disciplinari della criminologia e la gerarchizzazione razziale figlia dell’esperienza coloniale, che insiste su l’attitudine delinquenziale del colonizzato. Infine Dhanveer Singh Brar, nel penultimo contributo, affronta il tema del pensiero politico legato alla blackness a partire dall’esperienza della diaspora, attraverso il richiamo a tre differenti prospettive, quella afroamericana,quella caraibica e quella britannica. A conclusione del volume un dialogo fra Anna Curcio e Houria Bouteldja fa il punto sull’antirazzismo decoloniale proposto dalla prassi teorico-politica del Parti des Indigènes de la République di cui è la portavoce. La conversazione ripercorre il rapporto con la sinistra francese, il rimosso coloniale e la narrazione eurocentrica della modernità e propone una critica tagliente all’astratto universalismo del femminismo bianco.

Occorre poi dire che proprio la Bouteldja riesce a coronare degnamente la raccolta di testi con un intervento radicale e interessante. Riuscendo a dare in sintesi alcune indicazioni politiche di cui coloro che si definiscono oggi nemici del capitale e del suo Stato dovrebbero tenere profondamente conto.

Noi indigeni affermiamo di non riconoscere la differenza fra sinistra e destra. Lo diciamo dall’inizio della nostra storia politica. Questa frattura della politica bianca non è un nostro problema. Per noi la distinzione fra sinistra e destra non ha alcun significato pregnante. Noi situiamo il nostro discorso sulla questione razziale, per questo «non 1789, ma 1492». Ma non è perché non la riconosciamo che questa differenza sparirà. Noi abbiamo la necessità imprescindibile di essere pragmatici e quando i membri della sinistra bianca si mobilitano contro i crimini della polizia diventano nostri alleati.
Tuttavia, perché questa sinistra possa posizionarsi rispetto alla questione decoloniale, deve in primo luogo operare una sorta di rivoluzione culturale e finalmente prendere in considerazione la questione razziale per intero. Deve far sua la critica all’eurocentrismo che pervade gli ambienti di sinistra. Nel libro ho scritto «fucilate Sartre». Perché le figure come la sua sono quelle che hanno permesso di perpetuare il crimine coloniale. Sartre è stato a lungo considerato fra i migliori esponenti del pensiero anticoloniale bianco ed europeo e negli anni Sessanta, ha ricevuto vari attacchi dall’estrema destra. In un certo senso i primi a fucilare Sartre sono stati loro, per la sua posizione a favore dell’indipendenza algerina e solidale alla causa vietnamita. Tuttavia, Sartre non è mai riuscito a farsi veramente carico del suo ruolo di intellettuale anticoloniale, poiché non è stato in grado di abbandonare la causa di Israele e sostenere il popolo palestinese. Per questo è rimasto bianco a tutti gli effetti. «Fucilare Sartre» ha precisamente il significato di fucilare la sinistra bianca5.

Nel corso del dialogo, Anna Curcio, infine, afferma: « Si potrebbe dire, riassumendo, che per abolire la razza bisogna innanzitutto nominarla, mettere le gerarchie razziali al centro del discorso politico antirazzista…» dando così modo alla Boutreldja di concludere:

Esattamente. Mettere la razza al centro per abolirla. Mettere in evidenza che esiste un razzismo strutturale dentro la società per combatterlo […] C’è la necessità di arrivare a un momento in cui la classe operaia bianca capisca che ha più interessi ad allearsi con noi, piuttosto che con la borghesia bianca. Si possono prendere molti esempi di questa dinamica, soprattutto rispetto ai Gilet Gialli, in quanto specificità francese. Avevamo molta paura all’inizio che il movimento dei Gilet Gialli si indirizzasse verso l’estrema destra, ma al contrario si sono progressivamente radicalizzati verso sinistra e hanno avuto modo di provare sulla propria pelle, attraverso l’attività politica, cosa volesse dire diventare bersaglio delle sistematiche persecuzioni della polizia. In questo modo è stato possibile trovare un punto di convergenza, nella violenza dello Stato e della polizia […]
Se si va alla ricerca del popolo perfetto, sempre pronto ad alzare la voce in nome della questione sociale, come piace pensare alla sinistra, la rivoluzione difficilmente sarà mai realizzabile. Noi non abbiamo problemi con quello che è l’essere «reazionario » delle classi indigene, perché siamo perfettamente consapevoli di quello che è lo stato politico dell’indigenato […] Diciamo a chiare lettere di essere un’organizzazione anti-integrazionista. Per noi la condizione di partenza per un movimento decoloniale è quella di mettere in discussione le strutture fondanti dello Stato-nazione e dell’imperialismo. Il nostro progetto e la nostra ambizione non è quella di diventare francesi6.

Ancora una volta con tanti saluti alle anime candide e alle belle addormentate nel bosco (sugli allori delle sconfitte passate), che dovrebbero almeno sforzarsi di imparare qualcosa dalle parole della Canzone del maggio di Fabrizio De André:

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


  1. Della quale su Carmilla è stato recensito l’unico testo tradotto in Italiano, I bianchi, gli ebrei e noi (qui)  

  2. Karl Marx, Lettera a Pavel Valisevič Annenkov del 28 dicembre 1846 

  3. T. Palmi, Introduzione a Decolonizzare l’antirazzismo, p. 11  

  4. T. Palmi, cit., pp. 8-9  

  5. H. Bouteldja, Decolonizzare l’antirazzismo, conversazione con Anna Curcio in op. cit. pp. 111-112  

  6. H. Bouteldja, cit., pp. 114-117  

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ESCLUSIVO Il Pio Albergo Trivulzio querela Albert Camus per “La peste”. Lo scrittore in rivolta: «Sono uno straniero in stato d’assedio» https://www.carmillaonline.com/2020/05/09/esclusivo-il-pio-albergo-trivulzio-querela-albert-camus-per-la-peste-lo-scrittore-in-rivolta-sono-uno-straniero-in-stato-dassedio/ Sat, 09 May 2020 21:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59847 Intervista a cura di Luca Baiada

Sì, l’ho saputo. Prego, prenda una sigaretta. Questo conferma che il Novecento non è affatto un secolo morto. Semmai, il Ventunesimo secolo è un parassita che approfitta di un gigante. Ma visto che la vera passione del Novecento è stata la servitù, se lo rimpiangono significa che si è trovato qualcosa di ancora più assurdo, che essere servo. E La peste turba il sonno dei benpensanti.

Capisco, Lei vorrebbe concentrare la nostra conversazione sui diritti umani, la libertà di espressione eccetera. Le dico subito [...]]]> Intervista a cura di Luca Baiada

Sì, l’ho saputo. Prego, prenda una sigaretta.
Questo conferma che il Novecento non è affatto un secolo morto. Semmai, il Ventunesimo secolo è un parassita che approfitta di un gigante. Ma visto che la vera passione del Novecento è stata la servitù, se lo rimpiangono significa che si è trovato qualcosa di ancora più assurdo, che essere servo. E La peste turba il sonno dei benpensanti.

Capisco, Lei vorrebbe concentrare la nostra conversazione sui diritti umani, la libertà di espressione eccetera. Le dico subito che così non si va da nessuna parte. Non si tratta di lasciar dire allo scrittore quello che vuole. Non è un problema di cultura, ci sono già troppi diversivi. E non mettiamola sulla questione dell’intellettuale impegnato, che è un altro modo per cambiare discorso.
La mia formazione, certo. Sono nato in Algeria, francese come mio padre; anche mia madre, originaria delle Baleari. Lui morì nella Grande guerra, avevo un anno; a me rimasero qualche fotografia e i racconti che faceva lei. La tubercolosi l’ho presa quando ero ragazzo. Ho cospirato nella Resistenza, ho denunciato l’imperialismo, lo stalinismo, l’integralismo, sono entrato e uscito dal partito comunista, mi hanno sorvegliato i servizi segreti degli Usa e dell’Urss. Sono stato accusato di essere anarcoide, astratto, moralista, borghese. Mi ascolti bene. Credere che la marginalità basti a produrre cultura, politica, libertà, non sarebbe sbagliato. Sarebbe ridicolo. Non è un caso, se il potere costruisce sempre più confini: sa bene che a produrre l’uomo in rivolta non sono i muri. Un momento, scusi, mi accendo la sigaretta.

Gli interrogativi sul cattolicesimo, posti male, sono solo falsa coscienza. Voi italiani, lo ammetta: leggete i vostri scrittori per tenerli fuori della porta o per metterli in vetrina. È il vostro modo di chiuderli in prigione, e anche da morti, come se non li trattaste abbastanza male da vivi. Anzi, certe volte vorreste resuscitarli con l’unico scopo di convertirli e ucciderli, per farli morire pentiti. Il peso della mancata riforma protestante in Italia? È uno slogan inascoltabile: era il linguaggio di Mussolini. Per questo la querela di un istituto per anziani, a Milano, è la conferma di una decadenza della letteratura, non certo di una persecuzione politica.

Vede, ci sono doveri precisi, perché bisogna vivere con il tempo e con lui morire. Le indagini di Mani pulite, che segnarono la fine della Prima repubblica, in Italia, cominciarono dal vertice del Pio Albergo Trivulzio, nel 1992. Le rivelazioni aprirono la strada a processi clamorosi e fu messo a nudo un intero sistema. Politica e destino degli uomini sono nelle mani di persone senza ideali né grandezza. Ma guardiamo cosa succede adesso: abbiamo la prova che tutto ciò che esalta la vita ne accresce allo stesso tempo l’assurdità. Dopo tanti anni, il colpevole torna sul luogo del delitto come se nulla fosse: dunque è vero, che il futuro è la sola proprietà che i padroni concedono volentieri agli schiavi. Ma certo, lo metta nel suo articolo.

Adesso, proprio il Pio Albergo Trivulzio crede di vedere in La peste una denuncia delle mancanze, delle reticenze istituzionali, dell’inefficienza della sanità lombarda e italiana. Persino una denuncia dell’ipocrisia. Evidentemente c’è chi pensa di essere al centro del mondo. C’è chi, mentre la foresta brucia, rivendica di stare sull’albero più alto.
La morte di tanti anziani, in Italia come in Europa, non è la prova di una gestione inadeguata. Così si fanno solo pseudocritiche, richiami all’ubbidienza, piccoli rancori, cose che invecchiano subito sulla stampa d’opinione. Con queste morti siamo di fronte a un sacrificio umano, e nei riti di sangue si delega a qualcuno il ruolo di officiante, altri sono costretti alla parte della vittima, ad altri ancora spetta l’esecrazione. Naturalmente c’è anche chi applaude, per non parlare dei giornalisti. Per favore, mi passi il portacenere, quello piccolo.

E non mi si chieda cosa c’entrano il colonialismo e il fascismo. Voi italiani dovreste ricordare che i primi bombardamenti sui civili li avete fatti voi, in Libia nel 1911: trent’anni dopo Milano andava in macerie, ricevendo il trattamento che avevate fatto a Barcellona nel 1938, e che i vostri alleati nazisti facevano a Londra dopo aver occupato Parigi. Sia chiaro: qualunque cosa dica Jean-Paul Sartre, respingo ogni accusa di cedimento borghese o di generico umanesimo. Insisto: riconosciamo la nostra patria quando siamo sul punto di perderla, in qualsiasi modo. Sto parlando di quando i francesi, in lutto per la Linea Maginot, costruirono un’altra linea, atroce e inafferrabile, per dividere la Francia pura, figuriamoci, da quella estranea, indesiderata: e fu il rastrellamento del Velodromo d’inverno, e fu lo zelo antisemita di Vichy. Mi spiego, perché qui sta il punto.

Adesso, gli anziani poveri sono i vostri neri, i vostri ebrei, i vostri senza niente. Cioè, invecchiando diventate stranieri, neri fra i bianchi e viceversa, più invisibili dei motociclisti che vi portano a casa piatti freddi, conditi da mani che ignorate e che non vorreste mai stringere. Vi colonizzate fra voi, giocate allo scambio di ruoli. Siete pubblico e maschere insieme, come in un teatro sperimentale, ma è tutto vero. Vi destinate alla persecuzione, all’indifferenza, al disconoscimento dell’umanità, alla negazione. Così funziona il terrorismo di Stato: gli intermediari politici che in ogni società sono garanzia di libertà, scompaiono lasciando il posto a una bassa mistica, al Führerprinzip, che il Mediterraneo tinge di sensualità come di disfacimento. Le ragazze a cui chiedete il prezzo di un’ora senza alzarvi dai sedili delle automobili, sono le stesse che vi faranno compagnia tutto il giorno, quando loro saranno cadenti e voi non vi alzerete dalle sedie a rotelle. In fondo, via: sarà sempre prendersi cura dei vostri corpi. L’uomo è preda delle sue verità e quando le riconosce non riesce a staccarsene.

Voi italiani volevate vivere dentro la televisione, con Berlusconi e i suoi lustrini? Preparatevi a un letto disadorno col televisore acceso. Al padrone della pubblicità invidiavate le modelle? Avrete ciascuno un’estranea attempata, in casa, assorta nel cellulare, e se non potrete permettervela ve ne contenderete due o tre, in ospizi cavernosi, ricavati riadattando le colonie estive, quelle che non riuscite a riempire coi vostri figli e non volete aprire a quelli degli altri. Le mascherine che state comprando per forza sono un assaggio del pannolone. I due strumenti saranno intercambiabili, come sono importanti i due estremi della digestione. Le pare strano? Ah sì? Sono anni che in Italia si parla di ricette di cucina, e Le pare strano? Un attimo, mi accendo la sigaretta.

In tutto questo al Pio Albergo Trivulzio, in fondo, devo la mia solidarietà di intellettuale, perché non è altro che la dimostrazione plastica, suo malgrado, che il non umano non è confinabile. Nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. L’altrove è un’illusione, o al massimo una dilazione, cioè una scissione di coscienza. Ma la più grave, perché essere schiavi del presentismo significa essere morti già da vivi.
Sì, ho saputo che a fare domande su quell’istituto c’è anche un ex magistrato, uno di Mani pulite di allora. No, guardi, considerarlo il segno di un ciclo storico è sbrigativo, riduttivo. Ma andiamo! Con tutto il rispetto per i giudici, affidare alla giustizia un ruolo sovraesposto è solo una prosecuzione del sacrificio umano con altri mezzi. È come chiedere a Pilato di risporcarsi le mani credendo che così cambi il verdetto, come invitare Gesù a cenare col sinedrio brindando all’imperatore, come salvare Socrate con l’antidoto per fargli fare la pubblicità di un medicinale. Non capisce? Se nel 1789 si fosse fatta una class action contro il comandante della Bastiglia, il re di Francia sarebbe ancora sul trono. E per favore, non scriva che sto incitando alla sommossa, ci sono già abbastanza cattivi cronisti. Scriva invece che le frontiere e i mari che vi circondano, adesso, sono confini che corrono dentro le città. I droni che vi sorvegliano li avete comprati contro gli esclusi e vi sono sfuggiti dalle mani. No, per piacere, mi dia l’altro portacenere, quello grande.

Ah sì? Vuole davvero un’osservazione cinica, di quelle per un po’ di colore nelle interviste a caldo? Preferisco essere solidale, piuttosto che solitario: né vittime né carnefici. Ma le rispondo subito. Allora. Se si andasse a svelare il voto alle elezioni, di quegli anziani e dei loro parenti, in Lombardia e in Italia, si scoprirebbe il consenso dato agli amministratori che hanno promesso benessere domestico in cambio di durezza politica. Il consenso a quelli, insomma, che da anni condannano il buonismo. L’ordine stesso, è tanto più efficace quanto più è mediocre. Questo, un intellettuale o lo dice, o non è. Altrimenti, tanto vale trovarsi un qualsiasi Caligola e adeguarsi alla caduta, senza riscatto.
E guardi, ci tengo: lasci stare il realismo, l’esistenzialismo, l’avanguardia. La nostra sola giustificazione è parlare in nome di chi non può farlo. Se per avere buon cinema e buona letteratura si deve camminare all’indietro, vuol dire che lo scandalo non fa scandalo, ma fa la sua tomba.

Gli scrittori? La grandezza dell’uomo è essere più forte della sua stessa condizione. È tutto qui: non essere amati è sfortuna, la vera disgrazia è non amare. Allora, meglio farsi storico di ciò che non ha storia, nutrirsi dello stesso pane d’esilio. L’ultima fatica di Sisifo è riconoscersi anche nelle ombre, amarsi e combattere anche nelle debolezze, nelle contraddizioni, nei nostri tic nervosi. Per cortesia, il portacenere piccolo, quello, lo rimetta dov’era.

No e poi no. Su Maria Casarès non voglio dire niente. La guardi nei film di Jean Cocteau e non osi confrontarla – unica, una vertigine! – con le maggiorate discinte della commedia all’italiana. La Casarès, interprete eccezionale, a Parigi, del teatro classico e contemporaneo, di casa alla Comédie-Française, decorata con la Legion d’Onore, è una galiziana, nata cittadina spagnola, immigrata in Francia da ragazzina sfuggendo al fascismo franchista1. Proprio non mi segue? È come se a leggere e spiegare la Commedia di Dante Alighieri, a Firenze, fosse una bambina cinese cresciuta in Senegal e arrivata in Toscana di nascosto. Insomma la sua domanda sulla Casarès, mi scusi, per gli aspetti personali è impertinente e per quelli sociali si risponde da sola. Esigo che su questo non ci sia alcun malinteso.
Beh? la sigaretta non la accende? Ah, scusi: ecco i cerini.


  1. Maria Casarès, 1922-1996. Figlia del primo ministro del governo democratico, nella Spagna repubblicana, al momento del colpo di mano fascista di Francisco Franco. In Francia dal 1936. Attrice di teatro e di cinema, indimenticabile in capolavori fra cui Les Enfants du paradis. La sua storia d’amore con Albert Camus iniziò a Parigi sotto l’occupazione tedesca  

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Tre secoli di guerra civile https://www.carmillaonline.com/2019/03/07/tre-secoli-di-guerra-civile/ Wed, 06 Mar 2019 23:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51175 di Sandro Moiso

Pierre Miquel, Le guerre di religione, Res Gestae, Milano, 2019, pp. 636, € 24,00.

L’autore di questo libro uscito in Francia nel 1980, al tempo docente presso la Sorbona, e per la prima volta in Italia nel 1981, certamente non si sarebbe trovato d’accordo con il titolo di questa recensione. Avrebbe, cioè, tenuto fermo il punto sullo scontro di carattere religioso avvenuto in Francia tra il 1523 e il 1771, il periodo di cui appunto l’ampia ricerca si occupa. Eppure, eppure…

Oggi, ancor più di ieri, è evidente agli occhi di chi scrive che spesso è più il [...]]]> di Sandro Moiso

Pierre Miquel, Le guerre di religione, Res Gestae, Milano, 2019, pp. 636, € 24,00.

L’autore di questo libro uscito in Francia nel 1980, al tempo docente presso la Sorbona, e per la prima volta in Italia nel 1981, certamente non si sarebbe trovato d’accordo con il titolo di questa recensione. Avrebbe, cioè, tenuto fermo il punto sullo scontro di carattere religioso avvenuto in Francia tra il 1523 e il 1771, il periodo di cui appunto l’ampia ricerca si occupa. Eppure, eppure…

Oggi, ancor più di ieri, è evidente agli occhi di chi scrive che spesso è più il presente o ancor meglio il futuro a determinare le coordinate della ricerca storica, più che il passato in sé. Si potrebbe forse addirittura affermare che il passato in sé non esiste, essendo rideterminato da ogni stagione di nuove riletture dello stesso, messe in opera sulla base delle esperienze e delle esigenze del presente oppure sulle ipotesi derivate da nuove prospettive future.
In questo senso, sia come ricercatori che come antagonisti del presente, occupandoci di Storia e di studi sociali, così come di qualsiasi altra scienza, possiamo essere tanto agenti del quanto agiti dal futuro.

Il semplice ricordo o la memoria del passato in sé spesso invece finiscono col coincidere con la nostalgia o la difesa conservatrice delle tradizioni e delle nozioni acquisite, mentre sono soltanto i cambiamenti in atto nel presente a costringere la ricerca storica a sfidare i suoi limiti, spesso semplicemente costituiti da verità ed affermazioni che si ritengono, soprattutto in ambito accademico, valide una volta per tutte. Ma i cambiamenti, presenti e futuri, di carattere sociale, culturale e politico, in ogni epoca, costringono ad una rilettura del passato poiché a nuovi immaginari, sempre derivanti dalla materialità del mondo circostante, servono nuovi elementi di conoscenza e nuove articolazioni interpretative per sviluppare le proprie iniziali intuizioni. Rendendo così possibile, infine, che spesso sia il futuro ad agire sul passato (e sul presente), più di quanto faccia il secondo sul primo.

Ecco allora che bene ha fatto Res Gestae, casa editrice da sempre impegnata nel recupero e nella ristampa di testi di storia da tempo scomparsi dal mercato editoriale italiano, a ripubblicare questo testo, denso di informazioni e allo stesso tempo di lettura piuttosto scorrevole, dedicato ai quasi tre secoli che precedettero sostanzialmente l’affermazione delle idee illuministiche e la rivoluzione francese. L’autore infatti ci teneva a sottolineare proprio questo: quei duecentocinquanta anni di violenze, rivolte, roghi, massacri e scontri militari erano serviti comunque a creare le basi per una nuova libertà di coscienza e della successiva Grande Rivoluzione.

Eventi che di fatto significarono l’uscita da un’epoca in cui il pensiero religioso era ancora onnicomprensivo, utile a spiegare tanto i fatti spirituali e morali ricollegabili all’aldilà quanto le esigenze concrete e politiche espresse dalla vita materiale nel mondo secolare. Già nel Principe, d’altra parte, Niccolò Machiavelli aveva sottolineato l’importanza della religione come strumento politico di governo, rivelando così, già agli inizi del XVI secolo, come la religione assuma particolare importanza nella lotta politica là dove non esistono ancora altri strumenti interpretativi della realtà di carattere politico o sociologico.

Proprio ciò che successe tanto al tempo delle eresie medievali che, forse, una più attenta analisi storica rivelerebbe trattarsi di una diffusa resistenza all’affermazione delle nuove regole di una società mercantile in via di progressivo assestamento, quanto abbiamo ancora visto succedere in età a noi più vicine con movimenti sociali come quello di Davide Lazzaretti, il Cristo dell’Amiata, oppure i primi moti della rivoluzione russa del 1905 con la presenza del pope Gapon oppure, ancora, con gli attuali sussulti del radicalismo islamico in tutte le sue componenti.

Movimenti che si ammantano di religiosità proprio in assenza di una teoria laica e politica che serva a spiegare determinate contraddizioni sociali fornendo agli oppressi e ai rivoltosi una prospettiva di cambiamento e di vittoria oppure, e in questo caso soprattutto per quanto riguarda il radicalismo islamico odierno, a causa del fallimento delle teorie politiche messe in atto per raggiungere determinati risultati. Ad esempio il fallimento del nazionalismo arabo di stampo nasseriano e del socialismo di stampo baatista.

Non c’è dubbio che nei tre secoli di storia francese magistralmente analizzati, sul piano dello scontro religioso, sociale, politico e militare, dal testo di Miquel le contraddizioni fossero tante e distribuite su più livelli. Cattolici contro protestanti; signori locali contro la monarchia in difesa delle loro autonomie; borghesi contro vescovi e signori feudali, talvolta al riparo degli editti del re, ma talvolta contro lo stesso; interessi imperiali contro interessi papali; interessi dei contadini liberi contro gli interessi feudali; servi della gleba contro i signori, ma anche investiti in quanto contadini dalle mire espansive della borghesia cittadina sulle terre comuni; la presenza esigua ma significativa di una prima “classe operaia” istruita, ad esempio quella degli stampatori di Lione, che però riveste ancora le vesti di un apprendistato destinato domani a farsi imprenditore1 che si esprimeva con una rimessa in discussione dei principi della Chiesa di Roma a partire dalle critiche che le erano state mosse da Lutero e da tutti gli altri Riformatori.

L’elenco potrebbe ancora essere lungo e il gioco combinatorio delle rivalità e delle contraddizioni allungarsi all’infinito, ma ciò che conta a questo punto è sottolineare che, nel corso dei due secoli e mezzo presi in esame, lo scontro e il gioco delle alleanze tra le varie componenti sociali contribuì soprattutto a ridefinire le forme del nascente Stato moderno, con la sua volontà accentratrice che in seguito la Rivoluzione del 1789 avrebbe contribuito a completare soltanto cambiando il segno della classe al comando.

Ecco allora perché è giusto parlare di guerra civile: proprio perché l’obiettivo ultimo di quello scontro che vide al suo centro per lungo tempo quello con gli Ugonotti, ma anche la straordinaria ultima ribellione dei camisards della Linguadoca e le violente dragonnades messe in atto dal potere reale per reprimerla insieme a tutte le altre rivolte precedenti oppure la nascita della bandiera rossa sulle mura della ugonotta e indipendente città marinara di La Rochelle, fu quello di ridefinire i rapporti di forza politici e sociali che avrebbero dovuto sostanziare la nuova forma statale che ne derivò e che, ripeto, si completò soltanto con l’affermazione della borghesia durante la Grande Rivoluzione.

Rivoluzione che, in quanto dialettica e materiale sintesi delle lotte che l’avevano determinata nel corso dei secoli precedenti, rappresentò non tanto la vittoria di uno dei due attori principali (cattolici e protestanti, tanto per semplificare) ma, piuttosto, la negazione di entrambi attraverso la laicità e la centralizzazione politica giunte a piena maturazione con l’affermazione di classe della borghesia (che aveva in precedenza giocato le proprie carte, non sempre in maniera del tutto calcolata, su entrambi i fronti). Determinando così quella separazione tra Stato e Chiesa che, in Europa, soltanto in Italia sarebbero tornati a riunirsi sotto il Fascismo con i Patti Lateranensi del 1929.

Ma questa riflessione può essere oggi indotta, e questo giustifica completamente la riedizione e una rilettura attenta del testo in questione, dall’osservazione che ormai da più di un secolo, almeno centocinquant’anni se partiamo dalla Comune di Parigi, un’altra violenta e tutt’altro che sotterranea guerra civile si è aperta tra sfruttati e sfruttatori, sia della specie umana che dell’ambiente, che si risolverà soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di produzione. Le forme non sono ancora del tutto date, ma ciò potrebbe essere dovuto al corso degli eventi oppure definirsi completamente soltanto al loro termine, ma certo è che dobbiamo, con intelligenza e lucidità di pensiero, renderci conto che la Comune, la rivoluzione russa, due guerre mondiali, le grandi dittature del ‘900, le lotte antimperialiste e operaie, il ’68, gli anni Settanta e le attuali lotte come quelle della Zad, dei NoTav o in difesa dell’ambiente e contro l’estrattivismo diffuso su scala planetaria oppure, ancora, la nascita di nuovi movimenti autonomi come quello dei gilets jaunes fanno tutti parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile destinata a ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre l’ispirazione e le giuste motivazioni.

Lasciando agli attuali manutentori dell’ordine costituito il ruolo che toccò alle peggiori forze conservatrici, laiche o ecclesiastiche che fossero, dell’epoca studiata da Miquel. Ovvero quello di negare, con ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente attuale e del passato.
Carcere, forca, tortura, costrizione all’abiura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato, ma sempre più lo sono del presente. In ogni angolo d’Europa e del mondo e anche questo occorre chiamare col nome appropriato: guerra civile, aperta o strisciante che sia.


  1. L’attualità odierna di questo tema si può riscontrare dalla lettura di Silvio Lorusso, Entreprecariat, Krisis Publishing, Brescia 2018 (qui)  

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Doccia fredda https://www.carmillaonline.com/2018/08/21/doccia-fredda-per-il-perbenismo-democratico-e-di-sinistra/ Tue, 21 Aug 2018 20:30:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47822 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine francese Aimé Césaire può servire, fin da subito, a dare la cifra esatta del ragionamento condotto da Houria Bouteldja sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati, tra bianchi e popoli “colorati”, tra civiltà europea e culture altre. Una autentica doccia fredda, soprattutto per il perbenismo democratico e preteso di “sinistra”, nella soffocante calura di agosto. Ma non soltanto.

Houria Bouteldja è nata in Algeria nel gennaio del 1973, figlia di immigrati algerini in Francia. Figlia di proletari, è la portavoce del Partito degli Indigeni della Repubblica (PIR) ed è una militante anticolonialista che si batte sia per la ridefinizione dei rapporti politici, storici e culturali tra l’Occidente e i paesi e i popoli colonizzati che per quella della condizione delle donne e soprattutto di quelle “indigene” nelle metropoli occidentali. Il suo lavoro di ricerca e la sua verve polemica, in particolare contro l’islamofobia, hanno suscitato numerose controversie che hanno spinto i suoi avversari, spesso provenienti dalle fila della “sinistra” come il quotidiano francese «Liberation», ad accusarla di antisemitismo, omofobia, sessismo, razzismo e comunitarismo.

L’opera, tradotta in italiano da Maria Rita Prette e accompagnata nell’attuale edizione da una preziosa Prefazione della traduttrice e da una Postfazione di Marilina Rachel Veca, è stata pubblicata per la prima volta in Francia nel 2016 dalle edizioni La fabrique (le stesse che hanno pubblicato le opere del Comitato invisibile) e successivamente tradotta in varie altre lingue. Era stata preceduta, nel 2012, da un testo, scritto insieme a Sadri Khiari, intitolato Nous sommes les indigenes de la République, citato più volte nelle pagine del libro.

In realtà il testo attuale costituisce una folgorante, lucida e potentissima intuizione sul cammino della Rivoluzione a venire: una Rivoluzione in cui non si tratterà soltanto di rovesciare un ordine socio-economico e un modo di produzione. Si tratterà, piuttosto, di scardinare l’intero sistema di valori, l’immaginario e la cultura che ne costituiscono i fondamenti ultimi. Non soltanto per le classi dirigenti, ma anche e subdolamente per il proletariato bianco e per gli immigrati e i popoli oppressi.

Un modello culturale che ha fatto della modernità e dei suoi vizi pericolosi l’unico modello di sviluppo sociale. Un sistema di valori religiosi, etici e politici che ha fatto dell’Uomo bianco il centro di un universo cartesiano in cui il motto «Penso dunque sono» nasconde in realtà «Penso come un individuo bianco e quindi sono», contribuendo così a de-umanizzare tutte quelle forme di socializzazione, di conoscenza, di religione e di solidarismo comunitario che caratterizzavano e caratterizzano le culture altre.

Un sistema in cui, come già affermava Jean Genet, occorre uccidere il Bianco che è in Noi. Sia come Bianchi/e che come appartenenti ad altre etnie attirate nel girone dell’Inferno capitalistico occidentale. Sia come semplici appartenenti alla specie umana che come proletari, donne, omosessuali. Ed ebrei, perché, nonostante le stimmate imposte dallo Stato sionista agli appartenenti all’ebraismo, essi hanno già provato più volte nel corso della Storia, e soprattutto nel corso del Novecento, cosa significhi davvero la persecuzione e, allo stesso tempo, il fallimento di ogni integrazione formale, basata sui principi della “grande” rivoluzione francese.
Integrazione che comunque, guarda caso, chiede sempre per prima cosa agli “integrabili” di rinunciare alla propria identità politica e culturale per abbracciare totalmente gli ideali e la cultura dell’Uomo bianco, cristiano, illuminato e moderno.

Un libro che guida il lettore attraverso i labirinti di una presunta modernità, basata principalmente sullo sfruttamento occidentale di altri popoli e di altri continenti; in cui una data, il 1492, può essere ben più significativa, come inizio dello sterminio e dello sfruttamento dei popoli indigeni, di quell’altra, il 1789, con i suoi ideali di eguaglianza, fraternità e libertà presunti universali, ma in realtà riservati ai bianchi, occidentali, europei e nordamericani, anche se più per alcuni che per altri.

Un proletariato bianco, ad esempio, che ha dovuto conquistarsi duramente alcuni diritti che ha creduto essere definitivi, ma che, nella crisi economica e politica dell’Occidente attuale, li ha visti sbiadire nuovamente, se non addirittura scomparire del tutto dal suo orizzonte di vita. E che, proprio per questo motivo, una volta privato, in cambio di quei diritti, di una propria autonomia di classe politica e culturale, si ritrova a rivendicarli sulla pelle degli altri, i non bianchi presenti nella società.

“La dissoluzione della nostra identità ne testimonia. Fino a un po’ di tempo fa sapevamo definire un africano, un algerino, un mussulmano. Il nostro sapere era deciso. Oggi, tutto si confonde […] Che vuol dire «algerino» dopo una guerra civile che ha fatto più di duecentomila morti? Che vuol dire «mussulmano» quando la Mecca è sotto la tutela dei sauditi e l’Islam è minacciato di macdonaldizzazione? Che vuol dire francese quando il popolo è spossessato della sua sovranità a profitto del potere finanziario? Che vuol dire europeo quando i popoli d’Europa non hanno mosso un dito per salvare la Grecia?”1

Una perdita di identità che coinvolge ormai la stragrande maggioranza degli abitanti degli stati occidentali, ma che non può essere certo risolta da un ritorno al nazionalismo e alla sua difesa intransigente. Non saranno i modelli imitativi, come quelli abbracciati dai giovani che si arruolano nelle file di Daesh, in nome di una civiltà scomparsa di cui non sono nemmeno gli eredi, a far superare agli oppressi di ogni genere e colore della pelle l’attuale situazione di malessere economico, psichico e sociale.

No, Houria ci invita a liberarci del peso della bianchità, della sua concezione falsamente razionale del mondo e della convinzione di essere individualmente superiori agli altri e all’ambiente che ci circonda. Ci chiede di tornare alla Natura, di sapere amare come Malcom X chi ci ama e allo stesso tempo a non odiare per partito preso.
Un appello buonista? Tutt’altro, un appello al superamento del presente, che non può essere eterno come i suoi difensori vorrebbero, per costruire identità collettive e sociali nuove, oltre le divisioni di classe, genere, colore, religiose e culturali che ci sono state imposte come modello “unico”. Un invito a combattere con ogni energia fisica ed intellettuale per l’affermazione di ciò che l’autrice definisce un autentico “amore rivoluzionario” che non venga dal cuore, ma dalla comune unità di intenti.

“Ciò che mi piace di Genet è che […] non vi è alcuna traccia di filantropia in lui. Né in favore degle ebrei, né delle Pantere Nere o dei palestinesi. Ma una collera sorda contro l’ingiustizia che è stata loro fatta dalla sua propria razza […] La posizione di Genet cade come una mannaia sulla testa dell’uomo bianco […] Ciò che mi piace anche di Genet è che egli non prova alcun sentimento ossequioso nei nostri confronti. […] Egli sa che tutti gli indigeni che si ergono contro l’uomo bianco gli offrono, simultaneamente, l’occasione di salvarsi. Egli intuisce che dietro la resistenza radicale di Malcom X c’è la sua propria salvezza”.2

Un NOI che non definisce più una comunità etnica, nazionale o partitica, ma un’umanità dolente ed oppressa che deve sapersi liberare a partire dai demoni che abitano il suo immaginario, per ignoranza o per sopruso. Un nuovo internazionalismo che non ha bisogno di appartenenze partitiche per esprimersi, ma dello slancio immediato verso il rifiuto dell’esistente e dei suoi fantasmi. Psichici, politici e culturali.

“Io parlo a due categorie tra voi; prima di tutto ai proletari, i disoccupati, i contadini, i declassati che progressivamente rinunciano alla politica o scivolano inesorabilmente dal comunismo verso l’estrema destra, le minoranze regionali schiacciate per qualche secolo dal centralismo forsennato e l’insieme degli emarginati, che ci amiate o no. In una parola, i sacrificati dall’Europa dei mercati e dello Stato, sempre meno provvidenziale e sempre più cinica.
Poi, ai rivoluzionari che hanno coscienza della barbarie in arrivo”.3

Un testo fondamentale con cui, coraggiosamente e senza pregiudizi, occorrerà saper fare i conti. Che si pone molto al di là e al di sopra delle attuali querelle da filantropi, preti e catto-comunisti sulle migrazioni, il razzismo e le loro conseguenze nel presente e per il futuro. Oltre il femminismo liberale delle donne in carriera e libere di essere sessualmente sfruttate attraverso un’immagine deviata del corpo femminile e del suo utilizzo nell’immaginario collettivo. Al di là di un universalismo dei diritti che confonde coscientemente il sionismo con l’ebraismo e l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, dimenticando e cancellando la lezione del Bund.

E che ancora ci ricorda costantemente la lezione del Black Panther Party e dei nativi americani, la loro testimonianza e le loro innegabili certezze. Così come quella di tutti gli altri movimenti di resistenza contro l’imperialismo e il colonialismo. Di cui oggi occorre, allo stesso tempo, far tesoro e superarne gli elementi di bianchità in essi ancora contenuti.


  1. Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, pp. 109-110  

  2. H. Bouteldja, op.cit., pp19-20  

  3. H. Bouteldja, op.cit., pag. 37  

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1789 Arte e Rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2015/04/29/1789-arte-e-rivoluzione/ Tue, 28 Apr 2015 22:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22115 di Gioacchino Toni

bozza riccomini cover 1789:Layout 1Eugenio Riccomini, 1789 e dintorni. L’arte negli anni della rivoluzione francese, Pendragon, 2015, pp. 118, € 13,90.

Da poche settimane è stato dato alle stampe, dall’editore Pendragon, il testo di Riccomini relativo al rapporto tra arte e Rivoluzione francese. Si tratta della trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore in Piazza Santo Stefano, a Bologna, il 14 luglio del 1990, in occasione del bicentenario della presa della Bastiglia. Essendo, in origine, un intervento rivolto ad un pubblico eterogeneo in quanto a competenze storiche ed artistiche, ne deriva un testo di carattere divulgativo che non ha, né pretende [...]]]> di Gioacchino Toni

bozza riccomini cover 1789:Layout 1Eugenio Riccomini, 1789 e dintorni. L’arte negli anni della rivoluzione francese, Pendragon, 2015, pp. 118, € 13,90.

Da poche settimane è stato dato alle stampe, dall’editore Pendragon, il testo di Riccomini relativo al rapporto tra arte e Rivoluzione francese. Si tratta della trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore in Piazza Santo Stefano, a Bologna, il 14 luglio del 1990, in occasione del bicentenario della presa della Bastiglia. Essendo, in origine, un intervento rivolto ad un pubblico eterogeneo in quanto a competenze storiche ed artistiche, ne deriva un testo di carattere divulgativo che non ha, né pretende di avere, l’approfondimento e la struttura di un vero e proprio saggio, tanto che la stessa trattazione procede in maniera discorsiva, sciolta, un po’ “a braccio”, come sottolinea lo stesso autore. L’intento dell’opera non è quello di rintracciare un’arte prodotta dalla Rivoluzione, quanto, piuttosto, di passare in rassegna la produzione artistica francese, ma non solo, dell’età della Rivoluzione, quell’arte che l’ha preceduta ed attraversata. Per certi versi si potrebbe dire che ad essere indagato è l’immaginario rivoluzionario presente in opere prima, durante e, persino, dopo l’evento storico. Opere dal “sapore rivoluzionario” erano infatti già nell’aria prima che la Rivoluzione esplodesse con tutto il suo fragore, prima che il sangue fosse versato, o meglio, prima che fosse versato, pubblicamente, sangue aristocratico, perché di sangue popolano ne era già stato versato parecchio e da tempo, soltanto che questo era sempre stato considerato nella natura delle cose, necessario spargimento quotidiano volto al mantenimento dello status quo.

Per certi versi il percorso proposto da Riccomini, che si snoda lungo un centinaio di opere, può essere ben riassunto da tre dipinti collocati strategicamente nel testo: 1) Il Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David che, occupando il centro della trattazione, merita la copertina; 2) Mademoiselle O’Murphy (1752 ca.), conosciuta anche come Ragazza nuda sul sofà, di François Boucher, che è la prima immagine che si incontra nella lettura; 3) La fucilazione del 3 maggio (1814) di Francisco Goya, a cui tocca la chiusura del percorso.

boucherBoucher può, in effetti, essere visto come l’immagine della vecchia Francia pre-rivoluzionaria, che, come il resto d’Europa, attorno alla prima metà del Settecento è attraversa dalla corrente di gusto rococò, per certi versi l’ultima fase dell’epopea barocca, una sorta di leziosa e svigorita replica dei modi secenteschi, un artificioso “rifugio ultimo” in cui l’aristocrazia del periodo, nell’inconscio presagio del proprio tracollo, pare rifugiarsi. All’imminente resa dei conti con la storia il ceto nobiliare francese, ed europeo, si concede un ultimo capriccioso sussulto, dal sapore di spensierata indolenza; l’eleganza rococò diventa l’emblema di un’intera, per quanto breve, “epopea del disimpegno”. Boucher può essere indicato come il protagonista assoluto nel dipingere la dolce vita decadente dell’aristocrazia francese. Si tratta di una pittura spesso caratterizzata da una sensualità, non di rado velata di erotismo, attuata attraverso il pretesto mitologico e derivata, in parte, dal genere delle fêtes galantes, che ha avuto, ad inizio secolo, il suo massimo esponente in Jean-Antoine Watteau. Su tale linea, Jean-Honoré Fragonard è, forse, l’ultimo pittore di una certa importanza ad attardarsi caparbiamente, come la sua committenza, al gusto rococò quando oramai si è giunti all’alba dell’affermazione di nuovi orientamenti neoclassici.

Il personaggio-chiave, come detto, resta, inevitabilmente, David. Ciò è dovuto certamente al suo aver preso parte attivamente alla Rivoluzione ed al fatto che alcune sue opere hanno anticipato o cantato gli eventi storici e politici del tempo ma, non di meno, anche perché è innegabile che egli meriti di essere annoverato tra coloro che danno il via alla resa dei conti con la tradizione artistica. Vale la pena non limitarsi a leggere in David la riscoperta dell’antichità tipica delle poetiche neoclassiche, decisamente più interessante è, piuttosto, individuare nella sua produzione elementi di rifiuto di quell’epopea pittorica moderna giunta, nell’ultimo scorcio del XVIII secolo, ormai alla sua fase avanzata, epopea inaugurata dal Rinascimento toscano, temporaneamente contraddetta dal fenomeno manierista per poi essere sostanzialmente rilanciata dalle esperienze barocche. Rifiutando il gusto tardo-barocco, rococò, David inizia infatti un suo personale percorso a ritroso che lo porta, nel corso dei soggiorni romani, a recuperare dapprima il classicismo secentesco di Nicolas Poussin, poi quello rinascimentale di Raffaello Sanzio, per arrivare, infine, all’antichità greco-romana. È così che si distanzia da quello stile rococò, vera e propria immagine della decadente aristocrazia, al fine di recuperare una sobrietà estetica volta a dare immagine ad un’etica rigenerata.

david_oraziL’opera chiave della produzione davidiana è sicuramente Il giuramento degli Orazi realizzato tra il 1784-1785, dunque in anticipo rispetto allo scoppio della Rivoluzione francese. La rivoluzione di David è, però, prima di tutto stilistica: se si vuole abbattere un mondo, occorre abbatterne anche l’immagine e l’immaginario. L’opera in questione è caratterizzata da un estremo rigore geometrico, il colonnato dorico con archi a tutto sesto diviene una sorta di limite invalicabile per lo sguardo dell’osservatore, dando luogo ad una tripartizione ove prendono posto rispettivamente i tre giovani, il padre ed il gruppo di figure femminili. L’allineamento dei tre Orazi annulla la scansione in profondità dei corpi ridotti a figure bidimensionali realizzate attraverso tratti rettilinei e netti, a sottolineare le certezze da cui sono mossi, il senso di abnegazione e di virilità. Contenutisticamente è chiaro che il dipinto può essere considerato un’anticipazione della Rivoluzione, una sorta di insegnamento circa la necessità, al bisogno, di prendere decisioni risolute e collettive ma, allo stesso modo, l’opera inaugura stilisticamente la fase più rivoluzionaria, “antimoderna” del pittore: pur ricorrendo al classicismo, egli semplifica e geometrizza la propria figurazione, estraendone, ed astraendone, un distillato ideale incurante del naturalismo.

david_brutoCon il dipinto davidiano Bruto e i littori del fatidico 1789, si può dire che ormai la Rivoluzione ha preso il via. Se nel Giuramento degli Orazi si intuisce il momento decisionale, nel Bruto e i littori si constata il seguito dei fatti: ciò che prima era impegno futuro, qui è azione svolta. Bruto incarna l’eroe rivoluzionario disposto a dare la morte ai figli pur di tener fede agli ideali. Non resta, a questo punto, che mettere in scena il sacrificio ultimo, il martirio.

Per fare ciò non occorre prendere a pretesto l’antichità o il mito, sono, tragicamente, gli eventi a fornire l’occasione: nel 1793 il pittore dedica all’amico Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento, il celebre Marat assassinato. Nuovamente troviamo l’essenzialità stilistica già vista in altre sue opere. Qua uno scuro fondale-sfondo blocca la profondità spaziale negando fughe prospettiche, nella parte inferiore della scena viene ribadita una struttura orizzontale attraverso la vasca entro cui è collocato il corpo e la tela che la ricopre. david_maratLa sobrietà del dipinto è confermata anche dalla semplice cassa di legno utilizzata come scrittoio dall’eroe-martire rivoluzionario su cui l’artista riporta la dedica “à Marat, David”. Tutto ciò che compare sulla tela partecipa al tono severo che si conviene ad un’opera intenzionata ad immortalare l’eroe colpito a tradimento. È sicuramente un’opera che parla dell’attualità, per certi versi cronachistica, ma la composizione austera, scarna e solenne adotta una simbologia religiosa; il braccio esanime pendente dalla vasca riprende palesemente il braccio del cadavere di Cristo effigiato in passato da Caravaggio e Raffaello, contribuendo così ad eternare l’estremo sacrificio, per certi versi destoricizzandolo. Si tratta certamente del compianto amico Marat ma, al tempo stesso, ricorrendo ad un’iconografia consolidata, il dipinto si trasforma anche in celebrazione del sacrificio estremo, il martirio, valevole “per tutte le stagioni”.
La rivoluzione in David, come in Francia, non tarda a giungere al capolinea ed alla presa del potere di Napoleone l’artista finisce col cantarne le lodi e gestirne la propaganda. Nel celebre Napoleone che valica le Alpi (1800) possono ancora essere ravvisati alcuni elementi stilistici propri del periodo eroico di David ma, ormai, il fiato inizia a farsi corto.

È sul finire del testo, quando lo spazio a disposizione inizia ad essere poco, che Riccomini presenta una carrellata di immagini che offrono suggestioni interessanti e che davvero meriterebbero di essere approfondite e sviluppate. Nella parte terminale della trattazione, infatti, si “allarga la visuale” oltre i confini francesi, introducendo alcuni autori che risultano fondamentali per comprendere la rivoluzione artistica in atto nel periodo della Rivoluzione.
L’ultima parte del Settecento è ancora caratterizzata da una pittura votata alla profondità prospettica ed al naturalismo mimetico. Sebbene occorra attendere la fine del secolo successivo affinché tale impostazione venga messa irrimediabilmente in crisi, è proprio a cavallo tra Sette e Ottocento che alcuni artisti, in questo sicuramente rivoluzionari, iniziano coraggiosamente a prendere le distanze dai dogmi della tradizione moderna di matrice rinascimentale. Si tratta di artisti come William Blake, Johann Heinrich Füssli, Francisco Goya. Nel contesto delle inquietudini esistenziali che caratterizzano l’epoca segnata dalla Rivoluzione francese, si sviluppa la ricerca, per certi versi altrettanto rivoluzionaria, di artisti come questi [a tal proposito, su Carmilla: “Visioni alterate 1/2” e “Visioni alterate 2/2”]. Attraverso la rinuncia alla disciplina prospettica, il ricorso a rapporti proporzionali fuori scala, a semplificazioni formali, a caratterizzazioni innaturali delle figure ed a soluzioni bidimensionali di impaginazione, essi radicalizzano l’abbattimento della modernità artistica iniziato/proposto da David.

goya_fucilazioneA conclusione della trattazione, come detto, compare La fucilazione del 3 maggio (1814) ad opera dello spagnolo Goya. Per certi versi tale prova segna la chiusura dell’epopea rivoluzionaria, una sorta di amara riflessione circa la deriva che ha finito col tradirne gli ideali. Nel suo metter in scena la rappresaglia francese nei confronti del popolo madrileno insorto contro l’invasore, si palesa la deriva di una Francia un tempo rivoltatasi in nome di principi illuministi e presto giunta all’aberrazione delle guerre di conquista napoleoniche. La denuncia di Goya è supportata da precise scelte iconografiche: la freddezza razionale degli invasori che, schierati nell’anonimato di un plotone d’esecuzione, secondo rigide posture geometriche, richiama palesemente gli Orazi di David. Qua la lanterna ai piedi dei francesi, anziché rischiarare le tenebre, finisce col mostrare a quali risultati nefasti si sia giunti.

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