Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 Jan 2025 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Alcuni aspetti burocratici” https://www.carmillaonline.com/2025/01/03/alcuni-aspetti-burocratici/ Fri, 03 Jan 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85980 di Giorgio Bona

Dritëro Agolli, Ascesa e caduta del compagno Zylo, trad. dall’albanese di Julian Zhara, pp. 452, € 18, Bibliotheka, Roma 2024.

Albania, anni Settanta. Alla guida del paese c’è Enver Hoxha, una figura legata agli anni bui di quella piccola realtà nel sudest europeo che ha lasciato un segno profondo nel secondo Novecento.

Tra i maggiori scrittori albanesi del Novecento, Dritëro Agolli (1931-2017), si laureò in Lettere all’università di Leningrado per poi dedicarsi al giornalismo, lavorando per quindici anni per il quotidiano “Zëri i Popullit” (“La voce del popolo”) e successivamente con un incarico di presidente dell’Unione Scrittori albanesi [...]]]> di Giorgio Bona

Dritëro Agolli, Ascesa e caduta del compagno Zylo, trad. dall’albanese di Julian Zhara, pp. 452, € 18, Bibliotheka, Roma 2024.

Albania, anni Settanta. Alla guida del paese c’è Enver Hoxha, una figura legata agli anni bui di quella piccola realtà nel sudest europeo che ha lasciato un segno profondo nel secondo Novecento.

Tra i maggiori scrittori albanesi del Novecento, Dritëro Agolli (1931-2017), si laureò in Lettere all’università di Leningrado per poi dedicarsi al giornalismo, lavorando per quindici anni per il quotidiano “Zëri i Popullit” (“La voce del popolo”) e successivamente con un incarico di presidente dell’Unione Scrittori albanesi dal 1973 al 1992.

Demka è il protagonista della sua storia, un uomo che ha rinunciato a diventare scrittore per guadagnarsi da vivere scrivendo report e brillanti discorsi per dirigenti di spicco del partito.

Il personaggio del titolo si chiama Zylo ed è il capo di Demka. Zylo rappresenta l’archetipo del burocrate dentro un regime comunista, incompetente e presuntuoso, pieno di sé, con grandi ambizioni e nello stesso tempo con capacità limitate, silurato mentre girava voce di una sua nomina ad ambasciatore.

Come ricorda Agolli, questo romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1972 sulla rivista “Hosteni”, grazie all’incoraggiamento e all’insistenza di Niko Nikolla, appena nominato caporedattore. Nikolla, nuovo responsabile della redazione, volle introdurre qualcosa che rendesse la rivista più attraente per i lettori.

Ecco allora che questo lavoro divenne un romanzo a puntate mentre l’opera era ancora incompleta. Al termine di ogni puntata la frase “continua il prossimo numero” andò avanti per quasi un anno.

Mehmet Shehu, allora primo ministro, in un consiglio in cui era presente anche l’autore, contestò che, con il personaggio protagonista, aveva messo alla berlina l’amministrazione. In realtà Shehu pubblicamente non poteva comportarsi in modo diverso ma rimase tanto attratto da quella storia che in privato chiese alla rivista di fargli avere i numeri che non era riuscito a leggere.

In ogni caso Agolli non si fece trovare impreparato e rispose a tono alle critiche con grande fair play: “il romanzo critica alcuni aspetti burocratici proprio per contribuire a un miglioramento dell’amministrazione”.

E in fondo è la verità. In questo romanzo si nasconde una vena ironica maliziosa, dosata con cautela. L’ilarità garbata e sottile diventa così la facciata per raccontare le alte sfere della burocrazia e mascherare il grigiore del paese sotto la guida di Hoxha.

Il sistema burocratico albanese era sicuramente uno dei più rigidi dopo l’ascesa al potere di Hoxha, che iniziò poco a poco a isolare l’Albania dagli altri paesi del mondo mantenendo buoni rapporti soltanto con altri stati comunisti come l’Unione Sovietica, la Cina e la Yugoslavia. E in questo clima la soave ironia dell’autore nel raccontare le beghe carrieristiche di tutto un apparato permette di trasfigurare maliziosamente la vita dura del paese in quegli anni. In effetti Ascesa e caduta del compagno Zylo può essere letto anche come un documentato reportage del passato su un potere che ha fondato la propria lunga durata sulla paura. Poco si sapeva dell’esterno, meno ancora dei paesi oltre cortina. Un paese invisibile per l’occidente, recintato in un auto-apartheid collettivo. Semplicemente, in Albania non si entrava: né turisti, né uomini d’affari, e tanto meno giornalisti.

E, su quei quarant’anni che vengono definiti un buco nero, ecco questo libro di Agolli aprire uno spiraglio dal cuore del sistema, paradossalmente in un periodo in cui la censura colpiva inesorabilmente. Sarebbe troppo semplice scrivere una storia come questa ai giorni nostri, in riferimento a quel passato; mentre Agolli ci offre un ritratto dettagliato, acuto, sagace di un mondo di privilegio inaccessibile alla visione popolare, proprio dalle pieghe degli anni più duri del governo Hoxha, riuscendo a destare un sentimento di ilarità anche in coloro che avrebbero dovuto essere i suoi censori. Il romanzo non perde il ritmo, e il sorriso regge dalla prima all’ultima pagina grazie a una verve narrativa che non prevarica mai nei toni. Mentre un filo sottilissimo, amaro e dolente, lega l’autore alla sua terra, non traspare quella tristezza di un popolo tanto enfatizzata nei resoconti occidentali – anzi è evidente un’energia nascosta che aspetta soltanto il momento giusto per erompere.

Il giusto tributo alla vita.

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Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropiazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano statunitense fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partit centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolger il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000.[Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’artico pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto. esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

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Sport e dintorni – Gian Paolo Ormezzano. Un altro giornalismo sportivo è possibile https://www.carmillaonline.com/2025/01/01/sport-e-dintorni-gian-paolo-ormezzano-un-altro-giornalismo-sportivo-e-possibile/ Wed, 01 Jan 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86258 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Pochi giorni fa se ne è andato Gian Paolo Ormezzano, verrebbe da scrivere giornalista sportivo “vecchio stampo” se non fosse che rispetto a quel “vecchio stampo” il Nostro è stato più un’anomalia che non la normalità. Ormezzano ha fatto parte di una generazione di giornalisti sportivi che, spesso trincerandosi dietro la retorica della separatezza dello sport dal mondo in cui questo si esprime, ha inchiostrato le pagine di stereotipi non mancando di dispensare qualunquismo e di esprimere reverenza nei confronti dei potenti di turno – non solo dello sport – senza andare troppo per il [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Pochi giorni fa se ne è andato Gian Paolo Ormezzano, verrebbe da scrivere giornalista sportivo “vecchio stampo” se non fosse che rispetto a quel “vecchio stampo” il Nostro è stato più un’anomalia che non la normalità. Ormezzano ha fatto parte di una generazione di giornalisti sportivi che, spesso trincerandosi dietro la retorica della separatezza dello sport dal mondo in cui questo si esprime, ha inchiostrato le pagine di stereotipi non mancando di dispensare qualunquismo e di esprimere reverenza nei confronti dei potenti di turno – non solo dello sport – senza andare troppo per il sottile. Fortunatamente, in quel mare di qualunquismo e di sport spesso cantato ricorrendo alla peggior retorica nazionalistica e militaresca, qualche voce dissonante, capace di ritagliarsi spazi di intervento pubblico anziché limitarsi a parlare alla riserva, c’è stata. Gian Paolo Ormezzano è stata una di queste voci libere e pensanti.

Passando in rassegna gli articoli di sport comparsi sulla stampa italiana tra la fine degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo per la stesura del libro Storie di sport e di politica (2018) abbiamo contattato Ormezzano per discutere con lui della stampa sportiva dell’epoca, ma forse lo abbiamo voluto incontrare ancora di più per il desiderio di conoscerlo. Invitati a raggiungerlo nella sua abitazione torinese, abbiamo così avuto modo di passare una giornata con lui letteralmente rapiti dai suoi racconti di calcio e ciclismo narrati e vissuti con genuina passione, come spetta allo sport, ma anche come eventi non slegati dal mondo che li circonda, cosa, quest’ultima, che lo ha differenziato da tanti suoi colleghi.

Tra i tanti aneddoti su Coppi, a cui era tanto legato, e sulla sua genuina e indissolubile fede granata, nel corso di quel pomeriggio Gian Paolo ha a un certo punto estratto la sua invidiabile quanto logora rubrica telefonica cartacea e ci ha regalato una telefonata a Gianni Minà, suo fraterno amico, oltre alla promessa di stendere la prefazione al nostro volume, che poi ci ha inviato nel giro di qualche giorno, cosa di cui andiamo particolarmente fieri.

Ricordiamo Gian Paolo attraverso un breve stralcio derivato dal nostro libro (pp. 195-197) che racconta un episodio forse poco noto rispetto alle più conosciute vicende della Coppa Davis in Cile e dei mondiali di calcio nell’Argentina dei militari in cui era davvero impossibile guardare allo sport come se attorno ad esso non stesse succedendo nulla.

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Nel panorama della stampa sportiva, si distingue la posizione di «Tuttosport». Il quotidiano torinese diretto da Gian Paolo Ormezzano, con una scelta controcorrente rispetto alle testate specializzate, decide di non chiudere il giornale in una dimensione esclusivamente sportiva, cerca di promuovere un modo di fare giornalismo meno improntato all’evasione e più all’indagine della realtà sociale, a partire dal contesto sportivo, e invita i redattori a misurare il linguaggio, evitando toni enfatici e retorici.
La nuova impostazione del quotidiano viene assunta in prossimità degli eventi spagnoli; all’indomani dell’assassinio dei cinque antifranchisti, Ormezzano scrive un corsivo intitolato “Morire a Madrid”.

Morire a Madrid
Di recente “Amnesty International” ha denunciato che in centosette paesi del mondo, inclusa l’Italia, c’è gente in carcere per reati d’opinione, per colpe politiche, con processi troppo sommari o addirittura senza processi. Si va dalla repressione più spiccata al bavaglio ricamato. Nella geografia turpe c’è ogni continente, ogni punto cardinale, ogni regime. Si muore di garrota, si muore di manicomio, in fretta o lentamente. Si muore in piccole celle ed in immensi lager, di colpo alla nuca e di tortura. Eventi macroscopici, come quello di Madrid “favoriscono” l’accesso allo sdegno. Stare indietro, stare fuori, e poi magari predicare, nel nome dello sport, una migliore salute globale dell’uomo, è roba da sporchi farisei.
Gian Paolo Ormezzano [«Tuttosport», 27 settembre 1975]

L’articolo, e in generale la linea editoriale proposta da Ormezzano, suscita tra i lettori reazioni contrastanti: nella rubrica delle lettere alcuni dichiarano che non compreranno più il giornale, perché la stampa sportiva “non deve occuparsi di politica”, altri invece apprezzano le aperture del quotidiano che continua a seguire le vicende spagnole e le sue ripercussioni sul piano politico-sportivo.
Con un’altra scelta inusuale, «Tuttosport» pubblica un dibattito interno alla redazione sull’ipotesi che la Lazio non scenda in campo contro il Barcellona. Le posizioni spaziano da chi esprime una posizione favorevole per motivi politici, a chi ribadisce la tradizionale funzione unificatrice e conciliatrice dello sport, o propone altre soluzioni.

Si deve o no giocare Lazio-Barcellona?
Mario Bardi. Lazio-Barcellona s’ha da fare. […] Lo sport deve unire, non dividere, e deve essere d’esempio a un mondo che lo sport discredita ma che dallo sport avrebbe tanto da imparare. Piuttosto sia consentito un suggerimento. L’UEFA si renda promotrice di questa iniziativa: un minuto di silenzio su tutti i campi d’Europa, giochino o no le squadre spagnole. Sarebbe, a mio giudizio, la migliore risposta all’iniquo regime di Franco. […] Roberto Beccantini. A mio avviso Lazio-Barcellona deve essere giocata. Non credo nello sport avulso dalla politica, ma credo nella funzione conciliante, riparatrice dello sport. Personalmente ricorrerei piuttosto a proteste ufficiali durante la partita stessa […]. Al mondo ci sono già tante e troppe cose grandi che separano gli uomini. Lasciamo almeno che questa piccola cosa che è lo sport continui ad unirli. […] Giglio Panza. […] Poiché credo nella democrazia e nella validità delle civili proteste, ritengo che una grande manifestazione antifranchista della popolazione romana avrebbe in Spagna e su chi in Spagna deve tornare, più presa politica che non la ricusazione di una squadra di calcio che col regime non ha niente da spartire. Dimostrando quale buon uso sappiamo fare della libertà, aiuteremo chi disperatamente si batte – come noi abbiamo fatto con la Resistenza – perché anche in Spagna la libertà ritorni. […] Oliviero Beha. […] Sfido chiunque a dimostrare che esista anche una sola ragione perché la partita si disputi, che non sia lo stretto comodo morale di chi non vuole vedere messo in bilico un certo modo rassodato di pregiudizio e di interesse. Chi spiegherà ai due giocatori spagnoli in pericolo per avere portato il lutto in campo che «è meglio, più giusto» che l’incontro abbia luogo, per non contaminare la purezza dell’idea sportiva (trappola!) con la politica che qualche volta assassina? Fulvio Bianchi. Non si deve giocare. I lavoratori della pedata devono essere allineati, soprattutto oggi, con i lavoratori europei nel boicottaggio della Spagna fascista; i calciatori romani, soltanto non giocando, «giocheranno» al fianco del popolo spagnolo, oppresso da un regime dittatoriale e colpevole di cinque barbari omicidi. Giorgio Reineri. Quarant’anni fa l’Italia si macchiò di una colpa gravissima: insieme alle truppe naziste, contribuì a uccidere la repubblica di Azana, martirizzando la Spagna. Oggi il dovere di ogni paese civile è di isolare gli assassini franchisti. Questo la si fa anche attraverso lo sport, che è un fatto di vita e di cultura. No a Lazio Barcellona, dunque, anteponendo agli interessi economici i doveri che ogni autentico democratico deve sentire […].
[«Tuttosport», 12 ottobre 1975]


Sport e dintorni – Serie completa

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Cos’è il Segno del comando? https://www.carmillaonline.com/2024/12/31/cose-il-segno-del-comando/ Tue, 31 Dec 2024 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85974 di Franco Pezzini

Loredana Lipperini, Il Segno del Comando, pp. 304, € 16,90, RaiLibri, Roma 2024.

“I libri erano sempre stati la salvezza, per lui. Lo sarebbero stati anche questa volta. Doveva aver fiducia nei libri”.

Noi l’abbiamo, dunque cominciamo col considerare che esistono due approcci possibili – e anzi opportuni – a questo godibilissimo libro, che recupera liberamente la storia del più leggendario sceneggiato di mistero dell’emittente nazionale, Il segno del comando (cfr. qui): un’avventura, nell’Italia 1971, forte di una squadra meravigliosa d’interpreti e di un set fascinoso, la festa barocca di una Roma esoterica colta nel momento del [...]]]> di Franco Pezzini

Loredana Lipperini, Il Segno del Comando, pp. 304, € 16,90, RaiLibri, Roma 2024.

“I libri erano sempre stati la salvezza, per lui. Lo sarebbero stati anche questa volta. Doveva aver fiducia nei libri”.

Noi l’abbiamo, dunque cominciamo col considerare che esistono due approcci possibili – e anzi opportuni – a questo godibilissimo libro, che recupera liberamente la storia del più leggendario sceneggiato di mistero dell’emittente nazionale, Il segno del comando (cfr. qui): un’avventura, nell’Italia 1971, forte di una squadra meravigliosa d’interpreti e di un set fascinoso, la festa barocca di una Roma esoterica colta nel momento del botto del grande revival magico tra anni Sessanta e Settanta.

E dei due approcci, il primo e principale è senz’altro quello di un lettore che, appunto, svolge il proprio ruolo. Legge, si appassiona, si intriga, si diverte. Il libro è ovviamente – considerando la perizia narrativa dell’autrice – un’avventura avvincente, brillante, intelligente e scritta con tutte le buone pratiche di un romanzo di genere, arricchite da tocchi d’epoca (1971) godibilissimi e da ricchi cenni di occulture alla base originale: da cui si snodano, felicemente caotici, percorsi esoterici ma anche essotericissimi, di cultura pop, letteratura (tanto Byron & Co., ma non mancano richiami a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e a Proust) e storia sociale (femminismo compreso, a partire da Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi). Comprensivi, per noi lettori “datati”, di qualche zampata di malinconia: nel mondo di auto di piccola cilindrata e di telefoni fissi, nella concitazione scandita però da un cronometro d’epoca, negli scambi dove l’autrice riprende per ampia parte la sceneggiatura originale ma sovrascrivendovi con garbo notazioni ulteriori, più letteratura e più esoterismo, troviamo l’affresco di un tempo lontano, evocato quasi necromanticamente.

In alcuni aspetti Lipperini ritocca i profili dei personaggi dello sceneggiato: il protagonista ammodino Lancelot Edward Forster si trova a dover fare uso rituale di LSD, l’interlocutrice Barbara acquisisce una coscienza femminista, il vecchio e benevolo colonnello Tagliaferri diventa un tiranno che vessa la nipote, il losco principe Anchisi è un tenero vedovo, la signora Giannelli vive nell’ombra del ricordo dei genitori tragicamente perduti, il commissario Bonsanti è uno sbirro poco tranquillizzante… Vengono anche aggiunte o sviluppate alcune figure femminili in relazione a un diverso ruolo delle streghe; anzi – non sembri un dettaglio da fandom, ha un valore simbolico ben chiaro – ci si pone il problema dei cognomi delle figure femminili, nello sceneggiato liquidate coi nomi di battesimo come colf d’epoca. Così ecco Barbara Mariani, Olivia Cox… e la questione emerge anche sulla “misteriosa Lucia (Lucia come?)”. Quest’attenzione al femminismo – la civetta dello sceneggiato viene richiamata a Lilith – rileverà anche nel finale, che qui ovviamente non si spoilera.

Però c’è un secondo tipo di approccio al romanzo, non alternativo al primo e che movimenta forse un minor numero di lettori ma conduce su un terreno persino più interessante, affrontato dall’autrice con grazia sorniona. Com’è noto, la storia del Segno del comando – inteso quale sceneggiato originale – si configura come quest dai passi criptati sulle tracce di un talismano potente quanto sfuggente: un meccanismo narrativo classicissimo che, grazie alla professionalità di autori e attori, alla suggestione della Roma evocata e dello straniante incastro diacronico, all’euforia stesso per un occulto sdoganato nell’età ipermoderna dello sbarco sulla Luna, acquisiva una fascinazione magnetica. Il talismano di quell’Italietta in aria da golpe Borghese, in qualche modo, era anzitutto lo sceneggiato in sé.

Però c’è dell’altro. Composta nel 1969 da Dante Guardamagna e Flaminio Bollini, assieme a Lucio Mandarà e Giuseppe D’Agata (ma terminata, nei fatti, da quest’ultimo – qui presente in un cameo – dopo gli abbandoni dei colleghi), la sceneggiatura originale, di impianto razionalista, per esortazione di alcuni attori era stata corretta sul set dal regista Daniele D’Anza nel segno del sovrannaturale, con il risultato di felici cortocircuiti che lasciano a tutt’oggi perplesso lo spettatore. In effetti, vedendo lo sceneggiato, alcune questioni irrisolte funzionano meglio con l’ipotesi di una cospirazione ai danni del protagonista, mentre altre nel segno del sovrannaturale (o almeno di una sincronicità junghiana). La genialità del regista è stata di lasciarle convivere senza imprimere troppe “spieghe”, e capitalizzando sull’effetto allusivo. Rivisto oggi, l’insieme mantiene freschezza (anche grazie, va detto, ai magnifici attori e al sontuoso set romano).

Più tardi, nel 1987, la sceneggiatura verrà lievemente rielaborata in chiave di novelization del citato D’Agata; e poco dopo, nel 1992 (ma con riprese nel 1988), ne verrà approntato per Canale 5 anche un brutto remake – a dispetto di bravi interpreti – che assurdamente sposta il tutto a Parigi. Oggi arriva questa riscrittura colta, ricca di spunti d’epoca, a ridefinire un po’ storia e personaggi: anche perché ormai alcuni temi ormai richiedono, anche di fronte a un pubblico “ingenuo”, di essere sottolineati. Il che però torna a proporre la domanda sulla natura di un oggetto tanto cangiante. Cos’è il Segno del comando?

Potremmo rispondere “uno sceneggiato”, perché il suo successo popolare fa riferimento a quella base, ma gli sviluppi successivi (non semplici remake perché investono media diversi, e non solo in chiave di citazioni affettuose) impongono una risposta un po’ più complessa. Quella del retelling è una categoria – più o meno rassicurante o consolatoria – oggi molto praticata, ma le cui origini sono arcaicissime, ancorate alla fiaba e in fondo al mito. E proprio la magmaticità del mito, la sua ambiguità fondamentale, vede nelle variazioni più o meno marcate, fino a configurare versioni differenti, ricadute anche significative delle trasformazioni delle società di appartenenza e dei relativi impianti simbolici. Si potrebbe dunque dire che, ferma la struttura narrativa generica e molto classica di quest, quello del Segno del comando sia in fondo un mito (post)moderno, una rilettura laica – come Lipperini ben rimarca – del mito graalico. Insomma, come l’autrice sintetizza, “La storia che avete letto è simile e diversa, è fedele allo sceneggiato e insieme lo tradisce: è un romanzo gotico ed è un romanzo sugli anni Settanta, con ribelli e cospiratori, cultori dell’esoterismo vecchi e nuovi e veri e falsi, alchimisti e streghe (metaforiche e reali)”.

Al punto che definire questo romanzo come un semplice retelling finisce col risultare sminuente. Si tratta della narrazione di un mito, e narrare un mito è sempre un’operazione impegnativa, perché coinvolge chiavi importanti di una comunità nel tempo. Mi limito qui a citarne un paio.

La prima riguarda il filo nero che ricollega la vicenda alla realtà ambigua di tutta un’Italia dei misteri: un teatro dove sbatacchiano, a gambe tese come marionette di legno, le ombre di un passato oggi orgogliosamente riemerso. Il principe Anchisi – nelle varie interpretazioni, dallo sceneggiato a Lipperini – è idealmente un interlocutore dello spiacevole Junio Valerio Borghese ma anche di Evola: ha il periodare trombone, sussiegoso e allusivo di tanti corifei della TTTradizione. In questo senso il Segno del comando è il simbolo di un potere magico perduto e che forze reazionarie, di rivoluzione conservatrice, cercano di recuperare per poter riemergere dai bassifondi della storia, per sentirsi immortali e tornare dalla morte: la magia pompata di richiami allo spirito per la banale, materialissima occupazione di un potere e delle sue meschine utilità. Ovviamente gli sceneggiatori non sapevano del golpe che gli amici del principe Anchisi stavano preparando, ma il potere magico verrà recuperato in altro modo a suon di inverni del nostro scontento e di propaganda semplicistica: e ce lo troviamo davanti. Recuperato da gente meno colta del principe Anchisi, e che magari fa i balletti a qualche kermesse ove le tetre camicie scure sono state sostituite da rassicuranti maglioncini in cashmere color pastello, concedendo cittadinanze a chi non ne ha bisogno e sdegnandosi che qualcuno (come osa?) porti critiche in chiave di opposizione – ma tant’è.

Però c’è almeno un secondo elemento mitico che val la pena considerare, quello del Graal tutto laico di un rapporto col tempo legato alla nostra identità profonda. È dall’ottocento che in Occidente, sull’onda di esoterismi vari in funzione anticlericale e romantica, e in particolare del grande successo della teosofia, il tema della reincarnazione – in forme varie – trova spazio nella narrativa. Sulla fattispecie che interpella variamente religione e filosofia, e oggi sempre più diffusamente documentata sui social, non si può che rinviare a convinzioni personali, consultazioni privatissime dei registri akashici e magari ipnosi regressive: ma in chiave laica e senza funambolismi esoterici il concetto generale si presenta come un’affascinante macchina per pensare. Il fatto è che noi esseri umani siamo animali narrativi, nel senso che eventi interiori e a volte esteriori di qualche importanza riusciamo a capirli e spiegarli a volte solo in chiave di racconto: chi siamo, chi è importante per noi, chi ci sorprende ed entra nel profondo della nostra vita. Esista o meno un passato condiviso sul piano storico (chi potevamo essere?), c’è senz’altro sul piano interiore. Appartiene all’esperienza di ciascuno di noi il fatto che sedimentiamo storia e storie, amori e crisi, tra maschere e autofiction – e troviamo i nostri modelli identitari possibili non solo nel passato personale più o meno annoso, dimenticato, rimosso, ma in quello collettivo, in libri e film sui quali ci siamo formati, in fantasie, sogni, progetti condivisi. In un teatro interiore dove abbiamo già incontrato la bellissima Lucia che inseguiamo con Forster, o magari Didone o Hester Prynne a farci battere il cuore; dove abbiamo maturato convinzioni, sperimentato avventure, raggiunto consapevolezze che nella vita valesse la pena combattere non solo per noi stessi o per occupazioni miserabili di spazi. Reincarniamo situazioni, dialettiche, sentimenti, talvolta con un senso straniato di déjà-vu… La quest riguarda allora un rapporto vitale con il tempo, che indaghi e recuperi i fili di un passato per sovrascrivere un altro finale per la nostra storia, come riflette Silvia Bottani in un romanzo molto bello dell’anno passato; per salvarci la vita e riconoscerle valore, per condividere un po’ di ossigeno con altri. Allora la quest non sarà sterile e avremo forse scoperto, hai visto mai, di avere in tasca il Segno del comando.

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Elogio dell’eccesso / 6: Flannery O’Connor e la rivelazione della fede in una Chiesa senza Cristo https://www.carmillaonline.com/2024/12/30/elogio-delleccesso-6-flannery-oconnor-testimone-di-una-chiesa-senza-cristo/ Mon, 30 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86004 di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda qui ) ai romanzi e racconti di ambiente western della canadese Annie Proulx. E proprio quest’ultima ci deve far riflettere sul fatto che alcune delle migliori espressioni letterarie basate sulle storie del West sono state frutto della penna di donne e non di uomini, come ancora troppo spesso un certo femminismo di maniera spinge a credere e come invece dimostra, ad esempio, la raccolta di racconti di Dorothy M. Johnson (1905-1984) da cui sono stati tratti tre dei film di genere più famosi di tutti i tempi: L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962), Un uomo chiamato cavallo (Elliot Silverstein, 1970) e L’albero degli impiccati (Delmer Daves, 1959)1.

Ma la più importante e straordinaria esperienza letteraria femminile made in USA è stata sicuramente quella di Flannery O’Connor (1925-1964), la cui vita fu segnata da un lupus eritematoso sistemico, ereditato dal padre, che l’avrebbe condotta alla morte non ancora quarantenne.

All’età di sei anni, Flannery insegnò a un pollo a camminare all’indietro e fu la prima occasione di celebrità. Gli inviati di una rivista filmarono la piccola “Mary O’Connor” con il suo pollo e quelle immagini fecero il giro del paese. Flannery disse in seguito: «C’ero anch’io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stato solo una anticlimax».

Questa attenzione per i volatili da cortile l’avrebbe accompagnata sempre, anche quando nei primi anni Cinquanta le fu diagnosticato il lupus, motivo per cui fece ritorno alla fattoria di famiglia a Milledgeville, che avrebbe rinominato Andalusia e dove si sarebbe circondata di tutto quanto più le piaceva, sostanzialmente libri e animali da cortile. Così negli anni avrebbe allevato tacchini, quaglie, oche, fagiani, galline. Come avrebbe scritto in una lettera: «Dove viviamo io e mia madre c’è molto spazio e mi sono comperata alcuni pavoni e sto seduta per ore sui gradini del cortile a studiarli. Ho intenzione di diventare l’Autorità Mondiale sui Pavoni, e spero che una volta o l’altra mi offrano una cattedra alla Facoltà di Pollamologia.» Come avrebbe annotato Fernanda Rossini, in un suo saggio sulla vita e le opere di Flannery O’Connor:

Nonostante i frequenti rimbrotti della madre e le lamentele dello zio Louis, arriverà a possederne una trentina o più, decisa ad averne un numero sufficiente per inciampare in uno di loro ogni volta che esce di casa. Sono uccelli dal piumaggio e dal portamento maestoso che non ha scelto a caso di allevare, poiché, come lei stessa affermava: «Nella simbologia medievale rappresenta la Chiesa: gli occhi sono gli occhi della Chiesa […]. Il pavone rappresenta la Trasfigurazione, di cui è senz’altro uno dei simboli più belli». Nelle sue storie i pavoni, seppur animali comuni negli ambienti rurali, non sono mai presenze fortuite. Le piace osservarli, dipingerli e capita che raccolga e regali ad amici e visitatori le penne della ruota che l’animale cambia2.

Finì così col descriverli anche in un suo saggio intitolato The Kings of Birds.
Il lettore di queste righe deve perdonare il percorso apparentemente tortuoso e di scarso rilievo con cui ci si avvicina alla personalità di un’autrice le cui aspettative di vita erano di cinque anni al momento della scoperta della malattia, ma che sopravvisse per quasi altri quindici.

Un’autrice sprofondata, autenticamente, nella fede tipica e nella letteratura del Sud degli Stati Uniti, che già aveva dato autori del calibro di William Faulkner. Una letteratura intrisa spesso di comicità, tragedia e grottesco che in seguito, per molti versi sarebbe rientrata nella definizione di “American Gothic”, comprendente romanzi quali Santuario dello stesso Faulkner fino ai migliori racconti di autori come Joe Lansdale, ma che affondava le sue radici nella visionarietà di Edgar Allan Poe.

Tutti i suoi romanzi e racconti sono intrisi da una visione della vita cinica, violenta, spietata ma, allo stesso tempo, anche incommensurabilmente umana. Storie che vedono protagonista un’umanità povera, spesso diffidente, per la quale la religiosità, quasi sempre primitiva e al limite dell’eresia, rappresenta, apparentemente, l’unica possibile consolazione.

Infatti al centro delle sue opere spesso c’è l’incontro tra uomini e soprattutto donne e ragazze di campagna con personaggi travestiti da predicatori e uomini di Dio. Non che non lo siano nei fatti, ma certo poco onesti e disinteressati. Opere in cui la sensualità del Sud stride con la rigidita delle norme della fede o delle svariate congregazioni che animano quelle comunità e di cui l’autrice, pur essendo dichiaratamente cattolica, ci rende edotti.

Tra il gennaio 1946 e il settembre 1947, O’Connor tenne un diario che è sostanzialmente una raccolta di preghiere. In queste annotazioni raccontò la sua vita e, attraverso suppliche quasi sempre poco spirituali e molto materiali, cercò di intrattenere un dialogo con Dio. Come ebbe a scrivere ancora in A Prayer Journal, pubblicato soltanto nel 2013: «Per favore, Dio, aiutami a essere una brava scrittrice… Se devo faticare per il mio lavoro di scrittrice, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente.»

Come si è già detto, Flannery era una fervente cattolica che viveva nella Bible Belt, il profondo Sud, e da qui discendevano le contraddizioni che animavano le sue opere, anche se occasionalmente ebbe modo di tenere conferenze su argomenti religiosi, viaggiando anche parecchio nonostante la salute cagionevole.

Pur avendo scritto complessivamente 32 racconti e solo 2 romanzi, O’Connor divenne famosa soprattutto per i due romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood,1952)3 e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away,1960)4. Dal primo fu tratto, nel 1979, un film, diretto da John Houston, che venne girato a Macon nella contea di Baldwin in Georgia, proprio nei pressi di quella che era stata la residenza della O’Connor.

La trama del film e del romanzo vede al centro la figura di Hazel Motes che, traumatizzato da piccolo dal nonno predicatore, una volta terminato il servizio militare, incontra un predicatore di strada cieco, Asa, che lo convince a seguire il suo stesso cammino. Hazel si forma così un’idea tutta sua di Gesù Cristo e decide di predicarla. Non è come la maggioranza dei predicatori che cercano solo di tirar su un po’ di dollari con le loro parole, lui è convinto e predica un Gesù che non è morto in Croce per noi e perciò il peccato non esiste. Per fare ciò fonda una propria Chiesa, quella della “Verità senza Cristo”, finendo in un mondo completamente nuovo per lui, in cui si muovono truffatori, “lolite” e poveri di spirito in cerca d’affetto. Così ben presto si troverà a vivere situazioni difficili da affrontare, tra opportunisti e falsi predicatori, e a farne le spese sarà alla fine proprio lui.

E’ interessante notare che Asa, come Omero, è cieco. Un visionario senza la possibiliztà di vedere, finendo col rappresentare l’assurda cecità di chi si affida alla religione stessa. Un dubbio che pervade il romanzo, il film, la stessa Flannery; sempre in bilico tra fede e disperato tentativo di in/validarne i contenuti per il tramite di un metodo “popperiano” di falsificazione dei dogmi e delle verità date “una volta per tutte”.

Anche se è in racconti come A Good Man is Hard to Find (1955)5, cui si sarebbe direttamente ispirato Joe Lansdale per il suo Da mani bizzarre (By Bizarre Hands , 1989)6, che l’autrice raggiunge i vertici della sua scrittura e di una visione personalissima di un mondo contadino, ignorante ed egoista, in cui apparentemente il volere di Dio si sposa con le convenienze famigliari, fino ad esserne trasformato secondo le circostanze. Racconti che da soli basterebbero a fracassare tutte le narrazioni salvifiche, politiche, perbenistiche e religiose delle infinite chiese evangeliche o pentecostali su cui si fonda, ancora ai nostri giorni, tanto conservatorismo e razzismo statunitense.

Madri che consegnano, letteralmente, le proprie figlie, ad individui evidentemente poco raccomandabili, pur di liberarsi di un peso in famiglia, in un contesto in cui è evidente l’assoluta assenza di qualsiasi Grazia divina e un misticismo, quello dell’autrice, che si sforza di trovare “altro” nella pratica religiosa, anche se cattolica. Tutti racconti, che in mezzo a situazioni grottesche e personaggi memorabili sottolineano la presenza di un fattore imponderabile nell’esistenza dell’essere umano grazie all’introduzione nella trama di circostanze imprevedibili e a una profonda indagine sui comportamenti umani. Cercando di rintracciare anche nel suo sé quella certezza in Cristo che, come dimostrano le frasi messe in epigrafe, potrebbe consolarla o premiarla ma che, in realtà, sa già in partenza di non poter trovare.

Non a caso, quindi, i suoi saggi e le sue lettere sulla scrittura sono contenuti in due raccolte intitolate, rispettivamente, Nel territorio del diavolo7 e Sola a presidiare la fortezza8.

I miei pensieri sono così lontani da Dio. Potrebbe anche non avermi creata. E la sensazione che ricavo dallo scrivere queste pagine dura circa una mezz’ora e sembra una farsa. Non desidero alcuna sensazione superficiale e artificiale suscitata dal coro [della chiesa]. Oggi ho dato prova di essere insaziabile – di biscotti ai cereali e di pensieri erotici. Non c’è nient’altro da dire su di me. (Flannery O’Connor, 26 settembre 1947)


  1. D. Johnson, L’uomo che uccise Liberty Valance, Mattioli 1885, 2024 (racconti scritti in lingua originale tra il 1949 e il 1957)  

  2. Si veda: F. Rossini, Flannery O’Connor. Vita, opere, incontri, Edizioni Ares, Milano 2021, pp. 120-121.  

  3. Traduzione italiana di Marcella Bonsanti, con una nota di Fernanda Pivano, Garzanti, Milano, 1985; Prefazione di Fernanda Pivano e Postfazione di Luca Doninelli, Garzanti, Milano 2002-2010. 

  4. Traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1965; Longanesi, Milano, 1969; Introduzione e biobibliografia di Marisa Caramella, Collana Einaudi Tascabili. Torino, 1994; Collana Letture, Einaudi, Torino, 2008. In seguito nella traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli con Prefazione di Marco Missiroli, minimum fax, Roma, 2020.  

  5. Un brav’uomo è difficile da trovare, in F. O’Connor, La vita che salvi può essere la tua, traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1968 oppure in Un brav’uomo è difficile da trovare, traduzione Gaja Cenciarelli, con una postfazione di Joyce Carol Oates, minimum fax, Roma, 2021 e, ancora, in Tutti i racconti (The Complete Stories, 1971), a cura e con un’introduzione di Marisa Caramella, traduzione di Ida Omboni e Marisa Caramella, 2 voll., Bompiani, Milano, 1990.  

  6. Ora in J. R. Lansdale, In un tempo freddo e oscuro e altri racconti, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006.  

  7. F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, ed. italiana a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Theoria, Roma, 1993, oppure con prefazione di Christian Raimo, Roma, minimum fax, 2003.  

  8. F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza. Lettere (The Habit of Being: Letters Of Flannery O’Connor, 1988) a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Torino, 2001; ed. aumentata (con le lettere dal 1948 al 1964), Minimum Fax, Roma, 2012. Entrambi i testi sono ora raccolti in Un ragionevole uso dell’irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Prefazioni di Christian Raimo (2002) e Ottavio Fatica (2012), Roma, minimum fax, 2019,  

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Una breve stagione che non finisce https://www.carmillaonline.com/2024/12/30/una-breve-stagione-che-non-finisce/ Sun, 29 Dec 2024 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86122 di Luca Cangianti

Serge Quadruppani, La breve stagione, trad. Maruzza Loria, postfazione di Wu Ming 1, Alegre, 2024, pp. 224, € 16,00 stampa, € 8,99 ebook.

Una rapina finita male «decapita» la gioventù di quattro amici dell’ultragauche francese. È il 1975 e il sottoproletario del gruppo, Simon, finisce in prigione. Gli altri, Bruno, Marie e Michel, dotati di maggior capitale culturale ed economico, lo abbandonano al suo destino. Passano diciassette anni, Simon esce. Quali sono le sue intenzioni nei confronti dei vecchi compagni con i quali sognava di cambiare il mondo?

È questo l’innesco della Breve stagione, un romanzo raggelante e al [...]]]> di Luca Cangianti

Serge Quadruppani, La breve stagione, trad. Maruzza Loria, postfazione di Wu Ming 1, Alegre, 2024, pp. 224, € 16,00 stampa, € 8,99 ebook.

Una rapina finita male «decapita» la gioventù di quattro amici dell’ultragauche francese. È il 1975 e il sottoproletario del gruppo, Simon, finisce in prigione. Gli altri, Bruno, Marie e Michel, dotati di maggior capitale culturale ed economico, lo abbandonano al suo destino. Passano diciassette anni, Simon esce. Quali sono le sue intenzioni nei confronti dei vecchi compagni con i quali sognava di cambiare il mondo?

È questo l’innesco della Breve stagione, un romanzo raggelante e al tempo stesso caldo come solo l’abbraccio della rivoluzione sa essere. Firma quest’opera Serge Quadruppani: celebre autore di noir, traduttore in lingua francese di scrittori italiani (Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti, Wu Ming e molti altri), saggista, giornalista, militante degli anni settanta che ancora oggi, con un velo d’ironia, si definisce «un ultragauche anarcho-autonome».

Il libro, pubblicato nel 2000 e tradotto in italiano tre anni dopo, come ricorda Wu Ming 1 nella postfazione, torna in libreria per merito delle Edizioni Alegre. Il tema del tradimento («c’è stata talmente tanta gente che se l’è svignata, tutti denunciavano tutti») e dell’eclissarsi dello slancio rivoluzionario, è affrontato con una strumentazione stilistica estremamente originale. Il punto di vista onnisciente galleggia nell’aria come un drone, s’infila nella testa di tutti i personaggi al tempo stesso, ne rivela le meschinerie e i sentimenti più delicati, si rivolge al lettore, s’intrufola negli interni, striscia meticolosamente tra i mobili, indugia sulle fotografie di una rivolta sbiadita e rimossa. Poi schizza all’esterno tra querce e pini marittimi, e ci sommerge con la ricchezza inesauribile della fauna volatile: allodole, capinere, monachelle, regoli, zigoli, aironi, fenicotteri rosa, cigni reali, gallinelle d’acqua, voltolini eurasiatici e persino piro-piro boscherecci e sgarze ciuffetto. Insomma, Quadruppani è un ribelle anche nei confronti della manualistica narratologica, ma lettori e lettrici gli sono grati perché il risultato è sorprendente: gli occhi non si staccano dalla pagina, la suspense non allenta la morsa sulle viscere e nel frattempo noi siamo lì, sul litorale del sudest francese, cementificato e corroso da racket innominabili, con «i piedi che tastano il suolo di terra battuta» oppure nell’interno di un’auto che «sa di sigaretta e di cane bagnato.» Siamo una diciassettenne, Nausicaa, che si schiude alla vita e un uomo che ha passato quasi vent’anni in galera. I loro dialoghi, nell’apparente immediatezza fatta di desiderio, vendetta, amore e rabbia, scavano a fondo. Sono una resa dei conti, ma anche una breccia sulle possibilità di rivolta che sono sempre presenti per chi abbia cuore e intelligenza sufficienti a farsi sorprendere.

In Une histoire personnelle de l’Ultra-gauche, un’autobiografia che meriterebbe d’essere tradotta in italiano, Quadruppani scrive: «Le vecchie storie hanno una loro importanza, vivono ancora in maniera sotterranea, ricche di potenzialità. Si tratta di qualcosa di difficilmente visibile e ancora non realizzato, ma comunque presente.» In un altro passaggio dello stesso libro aggiunge che, a differenza del lungo ’68 italiano finito nella militarizzazione del conflitto sociale, negli arresti di massa, nelle torture e nella repressione, «il Maggio francese non è stato vinto… c’è stata la ripresa del giugno dello stesso anno e una sensazione, che si ripresenterà spesso negli anni seguenti, che i francesi sono sempre pronti a fare la rivoluzione, almeno fino alle prossime vacanze estive.»
Si tratta di concetti che ricordano la poetica di Valerio Evangelisti e il valore delle passate battaglie perse che alimentano l’immaginario di quelle future. La breve stagione, pur non concedendo nulla al buonismo e all’ottimismo, si iscrive in questo orizzonte. Il Maggio francese sarà stato pure breve, ma non è finito.

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Apparire e sparire per permettere di crescere https://www.carmillaonline.com/2024/12/28/apparire-e-sparire-per-permettere-di-crescere/ Sat, 28 Dec 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85970 di Franco Pezzini

Beatrice Salvioni, La Malacarne, pp. 480, € 19,50, Einaudi Stile Libero, Torino 2024.

Nella vulgata, forte – va detto – di una certa serie di prove provate, il sequel vive una propria esistenza un tantino miserella o losca: quasi come un mero tributo alla dimensione commerciale del libro o del film (“Vende? Facciamo un sequel”). Tanto più considerando il vecchio detto editoriale che il primo romanzo si perdona a tutti, mentre i problemi si scatenano sul secondo.

Non è affatto questo il caso – va detto con forza – del romanzo in esame, seguito del brillantissimo esordio di Franco Pezzini

Beatrice Salvioni, La Malacarne, pp. 480, € 19,50, Einaudi Stile Libero, Torino 2024.

Nella vulgata, forte – va detto – di una certa serie di prove provate, il sequel vive una propria esistenza un tantino miserella o losca: quasi come un mero tributo alla dimensione commerciale del libro o del film (“Vende? Facciamo un sequel”). Tanto più considerando il vecchio detto editoriale che il primo romanzo si perdona a tutti, mentre i problemi si scatenano sul secondo.

Non è affatto questo il caso – va detto con forza – del romanzo in esame, seguito del brillantissimo esordio La Malnata (Einaudi Stile Libero, 2023): La Malacarne mostra non solo un controllo e una crescita stilistica ulteriore – che si coglie nella grana della scrittura, nei mille passaggi efficaci e nelle soluzioni eleganti che lo costellano –, ma anche una tensione appassionata tra personaggi davvero di carne, che regge ottimamente la trama. Fino a un finale che non si spoilera ma lascia sanamente commossi.

Stavolta in scena sono gli anni 1940-1945. La protagonista narrante Francesca è cresciuta, ma la separazione forzata dall’amica del cuore Maddalena, “la Malnata”, non le permette di dimenticarla. Da tale chiusura in manicomio – pregna di orrori sottaciuti, di cui Francesca apprenderà solo tardi qualche episodio – Maddalena uscirà piccola come mai sviluppata, a differenza dell’amica che nel frattempo ha trovato modo di autonomizzarsi fino a farsi etichettare Malacarne; ma a colpi di scelte sempre sopra le righe a calamitarle addosso tipi diversi di disprezzo, Maddalena tornerà ancora ad apparire e sparire per i successivi anni, riemergendo a salvare Francesca, a veicolare i suoi snodi di crescita (in qualche modo la protagonista può riuscirci perché l’amica si smarca), a ricordarle di non aver paura. Queste latenze dalla scena, lungi dallo sfilacciare la storia delle due ragazze, la rafforzano costringendo il lettore a considerare soluzioni inattese, scelte spiazzanti, e le connotazioni di un rapporto struggente, intensissimo e allusivo tra due ragazze. Un rapporto che per essere capito senza banalizzazioni anacronistiche va collocato nel linguaggio, nelle indicibilità e negli schemi di un’epoca.

Francesca non è più la ragazzina di buona famiglia colpita e “traviata” dall’amica Malnata: è un soggetto attivissimo capace di scelte pragmatiche fino a sfiorare il cinismo – ma mai davvero cinica – e a non condannare mai in modo acritico. Vede esplodere la sua famiglia, ma il disprezzo verso le scelte della madre non diventa mai condanna personale, emblematica l’ultima delle scene dove appaiono assieme; d’altra parte non diventa neppure stucchevole buonismo, e Francesca continua a vedere la realtà con dura lucidità grazie alla lezione impareggiabile dell’amica. Un dosaggio ammirevole connota la scrittura di Salvioni, attento alle emozioni ma mai esaurito in esse: di un’autrice giovane (nata 1995) si ama una maturità di riflessione mai ridotta a ragionevolezza d’accatto, tepidezza, equilibrio peloso. In queste pagine si respira forza, ribellione, ma anche percezione della complessità, intelligenza scintillante, capacità di mediare ove necessario e invece capovolgere il tavolo ove ciò serva.

Un felice tessuto di personaggi a più livelli d’importanza – a partire dal tenerissimo Noè, sposato da Francesca per liberarsi dai genitori – innerva una storia ricchissima di documentazione, e dove una parte importante l’ha anche una microstoria di abiti, cibi, oggetti. L’autrice offre una ricostruzione puntuale, dettagliatissima, della Monza degli anni della guerra, delle violenze atroci consumate dai fascisti, delle ambiguità che il mondo liberato trascinerà con sé. Ai danni delle donne, in primo luogo, e poi di chiunque superi i limiti consentiti da stereotipi diffusi in un piccolo mondo italico che pare aver appreso poco dalla lezione di quegli anni.

È un gran bene che libri come La Malacarne vengano proposti da un grosso editore, per contribuire a sbugiardare certi teatrini (“Il tratto distintivo più profondo del fascismo era uno spirito di libertà straordinario”, si è dovuto sentir dire anche questo, in dichiarazioni pubbliche) e ricordare cosa sia quel fascismo che alte cariche dello stato rivendicano orgogliosamente come parte del proprio passato: certo, i documenti e fior di studi storici esistono, ma un’epoca senza memoria e senza pudore non li avvicina. La voce della forma romanzo, non certo a tesi ma semplicemente portatrice di memoria e istanze critiche complesse contro ogni scorciatoia becera, permette di sollevare qualche salutare dubbio sullo storytelling di un potere. Che certamente non riproporrà più orbace e olio di ricino, ma a colpi di parole d’ordine, voci cortigiane e riletture banalizzanti della realtà storica, con quel passato putrido flirta pericolosamente.

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Vita passionale di un’anarchica https://www.carmillaonline.com/2024/12/27/vita-passionale-di-unanarchica/ Fri, 27 Dec 2024 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86235 di Paolo Lago

Francisco Soriano, Claudia Valsania, Virgilia D’Andrea. Una poetica sovversiva, introduzione di Giorgio Sacchetti, Nova Delphi, Roma, 2024, pp. 272, euro 15,00.

È scritta con passione questa monografia su Virgilia D’Andrea di Francisco Soriano e Claudia Valsania, e riesce meravigliosamente a trasferire sulla pagina la passione poetica e politica di una grande scrittrice e poetessa che meriterebbe un ben più ampio spazio nella storia letteraria italiana del Novecento. Non si tratta di una semplice biografia ma di un’attenta disamina critica dell’opera e della militanza di Virgilia D’Andrea, la quale è stata non solo una letterata ma anche un’importante attivista [...]]]> di Paolo Lago

Francisco Soriano, Claudia Valsania, Virgilia D’Andrea. Una poetica sovversiva, introduzione di Giorgio Sacchetti, Nova Delphi, Roma, 2024, pp. 272, euro 15,00.

È scritta con passione questa monografia su Virgilia D’Andrea di Francisco Soriano e Claudia Valsania, e riesce meravigliosamente a trasferire sulla pagina la passione poetica e politica di una grande scrittrice e poetessa che meriterebbe un ben più ampio spazio nella storia letteraria italiana del Novecento. Non si tratta di una semplice biografia ma di un’attenta disamina critica dell’opera e della militanza di Virgilia D’Andrea, la quale è stata non solo una letterata ma anche un’importante attivista anarchica che ha segnato la storia dell’anarchismo di inizio Novecento. In ogni parola di Soriano e Valsania vibra una forte tensione militante e la stessa scrittura del saggio sembra attingere alla forza poetica di D’Andrea: la sua è infatti una poesia che prende spunto direttamente dalle ingiustizie dei potenti nei confronti dei più deboli. Nata a Sulmona, in provincia dell’Aquila, nel 1888, orfana dei genitori, si trovava in un convento quando nel 1900 Gaetano Bresci uccise il re Umberto I, colpevole di aver decorato il generale Bava Beccaris che aveva ordinato di sparare sul popolo inerme e affamato che chiedeva il pane compiendo una strage. Bresci è stato solo un folle e un criminale oppure è stato spinto da una qualche superiore motivazione? – si chiese Virgilia. E da qui iniziò probabilmente la sua personale presa di coscienza delle numerose violenze inflitte ai poveri e ai diseredati da parte del potere. Nel suo romanzo Torce nella notte, D’Andrea, infatti, non manca di sottolineare l’assoluta insensibilità dei governanti nei confronti delle vittime del terremoto che nel 1915 colpì l’Abruzzo e rase al suolo Avezzano: poverissime frange di popolazione abbandonate a sé stesse nel momento del bisogno ma non certo dimenticate quando si trattava di richiamarle per la leva obbligatoria allo scoppio della prima guerra mondiale per difendere la “patria” (parola che per la scrittrice è la conseguenza di un egoismo collettivo e nasconde “ambizioni di dominio e di sfruttamento”). Virgilia D’Andrea, successivamente, entrò a far parte dell’Unione sindacale e si dedicò all’attività di sindacalista, insieme al suo compagno, Armando Borghi, uno dei leader del movimento anarchico, collaborando a “Umanità Nova”. Venne perseguitata e arrestata e, dopo l’avvento del fascismo, dovette riparare in Germania, in Olanda, a Parigi e, infine, negli Stati Uniti dove morì nel 1933.

Il saggio si compone di diversi capitoli che costituiscono varie finestre sulle opere e sull’attività letteraria e militante di Virgilia: molti di essi sono dedicati a personaggi che hanno rivestito un’importanza fondamentale nel suo percorso politico, come Pietro Gori, Ottorino Manni, Sante Pollastro, Michele Schirru. Un capitolo del libro è dedicato a una interessante disamina della rivista “Veglia”, fondata da Virgilia D’Andrea nel 1926 e da lei diretta: si può notare che un periodico fondato e diretto da una donna è sicuramente qualcosa di non comune per l’epoca. Soriano e Valsania analizzano in modo filologico e preciso gli interessanti articoli presenti negli otto numeri di “Veglia”, firmati anche da importanti attivisti e letterati. Il primo numero della rivista è caratterizzato da un editoriale firmato dalla stessa Virgilia, dal titolo Braciere ardente, che poi andrà a costituire un capitolo del romanzo Torce nella notte: “Il testo racconta del momento in cui l’anarchica vede nascere intorno a lei, nei suoi compagni di esilio, l’idea di una rivista mensile che fosse «la eco di tutte le nostre voci» e insieme lo spazio strappato al buio per essere restituito all’«Ideale», segnando così il primo passo per la nascita di «Veglia»”. Sempre nel primo numero è presente anche un articolo del pittore e architetto futurista Vinicio Paladini, dal titolo L’influenza dell’anarchia nell’arte, firmato con lo pseudonimo Vasco dei Vasari. La grande arte, per l’autore dell’articolo, è data dall’indipendenza degli artisti da qualsiasi forma di potere, in aperta opposizione agli accademismi di ogni tipo sottoposti alle logiche di controllo che lo stesso potere esercita: ecco allora – tra gli altri – grandi artisti come Corot, Millet, Cézanne, Degas, Courbet, Manet, Van Gogh che non hanno piegato la testa di fronte alle imposizioni del potere. Il secondo numero di “Veglia” è invece dedicato “ai tragici eventi che riguardarono Sacco e Vanzetti” mentre risulta interessante, fra i molti analizzati da Soriano e Valsania, un altro testo scritto da Virgilia D’Andrea presente nel n. 6 di “Veglia”, intitolato Adolescenza luminosa e dedicato a Anteo Zamboni, il quindicenne che nel 1926, a Bologna, attentò alla vita di Mussolini e venne catturato da Carlo Alberto Pasolini, ufficiale dell’esercito padre di Pier Paolo Pasolini. Sempre nel n. 6 risulta interessante la presenza di una poesia firmata da “uno sconosciuto consigliere comunale di Ravenna” dal titolo Imprecazione poetica contro i ricchi nei giorni di loro maggiore esultanza: si tratta della prima stesura di un componimento di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini), poeta scapigliato e realista, che molto ricorda le taglienti rime del più famoso Canto dell’odio. A Sacco e Vanzetti è poi dedicato anche l’ultimo numero, il n. 8, che reca in copertina un’inquietante illustrazione (riprodotta insieme ad altre in appendice al volume) in cui vediamo la Statua della Libertà che, invece della fiaccola, tiene una sedia elettrica nel suo braccio levato al cielo (ancora più inquietante dell’immaginario kafkiano che, in Amerika, rappresentava il braccio alzato recante una spada).

Nel capitolo intitolato “Richiamo all’anarchia”, Soriano e Valsania si concentrano sull’importante attività di conferenziera di Virgilia D’Andrea: in Chi siamo e che cosa vogliamo, conferenza tenuta a New York il 20 marzo del 1932, “Virgilia ben argomenta la sua idea di anarchia laddove sfida chi afferma che senza un governo, una legislazione, una repressione non può esistere l’ordine”. Interessante è ricordare come la poetessa e attivista ritrovi nella storia della letteratura un pensiero anarchico ante litteram, addirittura a partire dall’Iliade, laddove il personaggio di Tersite, emarginato e deforme, si scaglia contro gli dei e contro qualsiasi forma di potere. Fino a Shakespeare, Cervantes, Victor Hugo, Zola, per giungere poi agli autori prediletti Carducci, Pascoli, Rapisardi, Ada Negri e Pietro Gori, incontriamo personaggi spinti da una sorta di spirito anarchico, ribelli e indomabili, personaggi che D’Andrea sente vicini e affini alla sua ispirazione. Un’altra conferenza, tenuta a New York il 6 gennaio 1929, è invece dedicata a Pietro Gori: “Con questo intervento-parafrasi sulla poesia di Pietro Gori, l’anarchica mostra tutta la sua magnificenza umana, etica, artistica e letteraria. Scorge nei versi di questo mirabile poeta risvolti di dolcezza ed eleganza difficili da riscontrare in altri scrittori”.

I due studiosi si concentrano poi sull’attività poetica di D’Andrea analizzando alcune significative poesie appartenenti alla raccolta Tormento la cui prima edizione uscì nel 1922 con una prefazione di Errico Malatesta: “I testi poetici di Tormento rappresentano un chiaro esempio di poesia civile, non riconducibile tuttavia a uno specifico canone, partorito in una cornice storica dominata da autoritarismi e sistemi di governo che non esitavano a utilizzare metodi violenti per reprimere le libertà di pensiero e di parola”. Successivamente, incontriamo l’analisi di alcuni saggi politici e letterari dell’autrice: in I “bravi” sulla fossa di Manzoni, D’Andrea afferma che Manzoni, con il personaggio di Renzo, ha dato vita alla voce del popolo perennemente oppresso; in Perché cercate il vivente tra i morti?, dedicato a Giacomo Matteotti, “Virgilia apre la sua narrazione immaginando di ripercorrere quanto accaduto a Matteotti nel momento dell’omicidio e il dialogo con i suoi assassini”.

Il capitolo finale è dedicato al sodalizio culturale, affettivo e umano fra Virgilia D’Andrea e Armando Borghi fino alla scomparsa di lei, avvenuta a New York nel 1933 a causa di una grave malattia: unendosi a lui, Virgilia si immedesimò nelle battaglie che egli portava avanti in seno al movimento sindacale e trovò un sincero compagno di ideali e di lotta. Nelle parole dello stesso Borghi, la scomparsa di Virgilia D’Andrea lasciò un vuoto incolmabile nel movimento anarchico e nella cultura letteraria e poetica. Virgilia D’Andrea non va dimenticata, anche e soprattutto oggi, in questi tempi di buio e d’incertezza. Il bel volume di Soriano e Valsania, con passione e vera militanza culturale, ci aiuta a tenerla viva: lei, la sua lotta e la sua opera.

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente https://www.carmillaonline.com/2024/12/26/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-3-dal-popolo-al-popolo-il-proletariato-come-classe-dirigente/ Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85443 di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.

Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Una esemplificazione forse eccessiva che, però, aveva alle spalle qualcosa di più di una semplice suggestione. Indubbiamente l’autocrazia ben poteva vantare il suo ruolo reazionario, mostrando in tal modo di essere la miglior garante internazionale di fronte all’idra della rivoluzione così come il movimento populista si mostrava una forza sovversiva tanto determinata quanto indomita. Autocrazia e popolo, in apparenza, sembravano essere realtà astoriche non soggette a quella permanente e radicale trasformazione economica e sociale alla quale, invece, era pervenuta l’Europa capitalista. Ma il capitalismo penetra, proprio per mano dell’autocrazia, anche in Russia.

Quella formazione economica e sociale considerata inamovibile inizia a assumere caratteristiche che, più o meno velocemente, iniziano a mandare in frantumi il mondo di ieri. Lentamente, ma in maniera costante, la questione operaia inizia a farsi strada anche dentro l’impero zarista. Gli stessi populisti, o almeno la parte teoricamente e politicamente più attenta, iniziano a modificare la loro linea di condotta, per questi gli operai e le città cominciano ad assumere un interesse impensabile solo qualche tempo prima, interesse che, però, è ben lungi da comprenderne il portato. Per i populisti gli operai diventano una componente del popolo il quale, nella sua astrattezza, rimane il soggetto storico del movimento rivoluzionario. Allo stesso tempo l’idea che il popolo possa dar vita a un modello economico e sociale in grado di saltare il capitalismo, rimane un dogma pressoché immutato per i populisti. Esattamente speculare a questa posizione conservativa ha preso forma quella progressiva della borghesia, la quale mira a realizzare una rivoluzione di tipo occidentale in grado di liberare il capitalismo dai vincoli in cui il modello autocratico, a causa delle alleanze di classe alle quali è soggetto, lo imprigiona. Lenin si inserisce come un vero e proprio cuneo all’interno di queste ipotesi che non sembrano avere alternative.

Qui il testo di Lukács si fa estremamente interessante e lo è perché, avendo a mente la stragrande maggioranza della pubblicistica sull’operato di Lenin in relazione allo sviluppo del capitalismo in Russia, elimina dall’orizzonte di questo qualunque oggettivismo e determinismo di sorta2. Ciò che Lukács evidenzia è come a interessare Lenin non sia tanto e semplicemente constatare come lo sviluppo del capitalismo in Russia sia ormai diventato un semplice dato di fatto, bensì gli effetti che tutto ciò comporta per la composizione di classe. A partire da un processo oggettivo, lo sviluppo del capitalismo dentro l’intero impero zarista con conseguente sradicamento dei tradizionali rapporti sociali anche nelle le campagne, Lenin giunge a ridefinire il soggetto della rivoluzione, infatti, lui non abiura l’idea di popolo ma la riformula avendo a mente, da un lato la configurazione concreta del popolo dentro la trasformazione capitalista, dall’altro la figura centrale, il proletariato, che nella sua esistenza cristallizza la massima tensione del conflitto.

Lenin separa il proletariato dal popolo per rimettervelo successivamente dentro come forza motrice dell’insurrezione. Su ciò Lukács si sofferma non poco. Perché? In questo modo Lukács mira a combattere due battaglie: da un lato ribadire come Lenin, e con lui la dialettica marxiana, siano del tutto estranee all’oggettivismo e al determinismo in seconda battuta, ed è ciò che gli fa comprendere Lenin sino in fondo, e come per questo a essere sempre predominante sia l’attualità della rivoluzione. Ciò che Lukács coglie, sin dagli anni venti del ‘900 è la distorsione determinista e oggettivista che anche dentro il movimento comunista albeggia prepotentemente. Una distorsione che, soprattutto in occidente, tenderà velocemente a farsi egemone sia nelle tendenze più prossime alla socialdemocrazia, sia in alcune tendenze di estrema sinistra. Per questo soffermarsi su questo passaggio è particolarmente utile. Ciò che, a differenza di quanto fa Lukács, viene solitamente posto in evidenza in relazione al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è la precisa e netta posizione di Lenin contro i populisti, ossia verso la possibilità di saltare la fase capitalista, il riconoscere il carattere progressivo che in ogni caso il capitalismo porta in seno, il necessario appoggio a questo sviluppo e, in contemporanea, l‘organizzazione dei futuri affossatori del capitalismo. In realtà le cose non sono proprio così. Questo è il classico modo proteso a salvare capra e cavoli attraverso il quale l’evoluzionismo socialdemocratico si approprierà di Lenin. Si riconosce il tratto rivoluzionario di Lenin mentre lo si imprigiona nella logica dello sviluppo delle forze produttive. Per altro verso si liquida in poche battute il complesso rapporto di Lenin con il populismo arrivando a ignorare che, se alla sua prima opera di spessore teorico ha dato il titolo Che fare? un qualche motivo ci sarà pur stato3.

Il rapporto di Lenin con il populismo è tutto tranne che semplice e lineare e non solo per le pur non irrilevanti questioni personali che lo legano alle vicende del populismo. Per un verso il suo giudizio è sicuramente spietato. I populisti si pongono fuori dalla storia idealizzando un mondo che non c’è più e su questo Lenin non si fa remora di affondare i colpi verso il loro corpo teorico, però sarebbe intellettualmente poco onesto limitare a ciò il suo punto di vista. C’è tutto un filone del populismo che, rompendo con la tradizione apolitica del proprio passato, inizia a considerare la dimensione politica come ambito dell’attività rivoluzionaria. Sono gli stessi che iniziano a volgere lo sguardo verso gli operai e le città e che, aspetto che catturò non poco l’interesse di Lenin, avevano dato vita a strutture organizzative ferree, centralizzate e, per i tempi, improntate a un certo grado di professionalità. Strutture che avevano fatto il loro punto di forza nell’attività cospirativa e che, a differenza di tutto il filone del populismo educazionista, ponevano il combattimento politico e militare al centro della loro iniziativa. Lenin coglie con lucidità questa spaccatura dentro il populismo e tanto si distanzia dagli educazionisti, che per molti versi possono considerarsi gli antesignani del menscevismo, quanto apprezza il tratto giacobino degli altri. Nel Che fare? l’eredità di questo populismo troverà uno spazio non secondario e Lenin, quindi, non rinnega la soggettività di questa idea, semmai la plasma all’interno di uno scenario storico che aveva spazzato via quegli orizzonti. Puntualizzare questo aspetto non serve solo e semplicemente a ristabilire una verità storica ma significa ricollocare Lenin dentro quella attualità della rivoluzione che l’ortodossia comunista ha teso a cancellare.

Lenin non ragiona come Struve e neppure come Pleckanov che, per molti versi, è del tutto complementare al primo, ciò che gli interessa è cogliere, dentro il processo storico in atto in Russia, il soggetto della rivoluzione e quel soggetto, il soggetto operaio, deve essere organizzato fin da subito sul terreno dell’insurrezione. In Lenin non ci sono, differenziandosi immediatamente sia da Struve che da Pleckanov, due tempi. Non c’è l’ascesa della borghesia, l’instaurazione del suo dominio e poi, a ciclo concluso, il graduale passaggio verso il socialismo: in lui vi è qui e ora, il partito dell’insurrezione. Perché questo partito possa esistere occorre individuare il soggetto della rivoluzione e questo soggetto è la classe operaia, ma fare questo non è sufficiente, perché limitarsi a ciò significherebbe isolarla e condannarla alla sconfitta. Lenin non è il teorico e l’artefice della purezza operaia, ma piuttosto il filosofo del ruolo direttivo ed egemone di questa classe all’interno del processo rivoluzionario4, della quale lui cristallizza il ruolo egemone e la sua funzione dirigente dentro la rivoluzione al fine di farne avanguardia di questa, ponendola alla testa di tutti i subalterni. In questo modo egli lega la classe operaia al popolo ma non al popolo astratto e astorico dei populisti bensì al popolo concreto che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Tradotto in soldoni, nel contesto, significa principalmente legare la classe operaia alla questione contadina la quale, nel frattempo, ha perso del tutto i tratti idilliaci entro i quali aveva continuato a immaginarla il populismo. Lenin frantuma l’idea astratta di popolo e ne estrae la figura operaia non per isolarla politicamente ma per farla emergere come soggetto della rivoluzione. Fatto ciò, costruita l’autonomia politica e teorica della classe operaia, la riconduce dentro il popolo. La rivoluzione è sempre opera di masse subalterne le quali per forza di cose non sono, e neppure possono essere, solo classe operaia. Ciò è fin troppo chiaro a Lenin il quale non ha mai vagheggiato di una rivoluzione operaia pura, infatti, ciò che gli interessa è costruirne l’autonomia politica in modo da consentirle di svolgere sino in fondo il ruolo direttivo della rivoluzione. Le rivoluzioni, da sempre, mettono in moto milioni di individui ben distanti dall’incarnare classi sociali pure e sono sempre opera di quella moltitudine spuria che è il popolo. Lenin, però, rompe con l’idea di popolo per tornarvi subito dopo ma il suo popolo non avrà più nulla di quello immaginato e caro ai populisti, perché esso è l’insieme di quelle forze concrete e reali che daranno, come il 1905 sarà lì a dimostrare, l’assalto tanto all’autocrazia quanto alla grande borghesia e ai proprietari terrieri che hanno importato nella campagna gli elementi propri dell’agricoltura e dell’allevamento capitalisti. Questo il popolo reale, questa la composizione delle classi che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Mentre menscevichi e borghesia si limitano a stare dentro a questo processo Lenin non si rinchiude in ciò. Vi sta dentro, perché è impossibile ignorare quanto la realtà storica ha sedimentato, ma in contemporanea vi è contro. Dentro questa obiettiva trasformazione storicamente determinante, scaglia il treno della soggettività di classe; allo scientismo e al determinismo e all’immancabile immobilismo di classe che si porta appresso, quello dei menscevichi e dei borghesi che arrivano persino a patteggiare con l’autocrazia pur di dar corso allo sviluppo delle forze produttive, contrappone la variabile soggettiva della lotta di classe. La storia è storia di lotte di classe, solo il risultato di questo conflitto determinerà uno scenario storico–politico piuttosto che un altro5. Si sta sicuramente dentro, ma per essere altrettanto sicuramente contro. La dialettica storica è la dialettica del conflitto, la guerra di classe la sua cristallizzazione.

Proviamo a tradurre il paragrafo sul presente. Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera sicuramente non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato per l’impero zarista. La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia è possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia più recente. Ciò che appare per prima cosa evidente è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come stato/nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del ‘900 l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro tornano a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo. Nessuno può esimersi da una presa di posizione in merito. Alla luce di ciò, una rilettura del Lenin di Lukács si mostra più che attuale.

Di fronte a quanto accade, pur con tutte i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il, non meno fantasioso, divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma–stato all’interno della quale erano ascritti e tra l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, stato contro mercato e così via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge.

Esattamente dentro questo passaggio, invece, è possibile cogliere l’attualità del nostro testo. Qui, sulla scia di Lukács, è possibile recuperare per intero il metodo di lettura storico proprio di Lenin rompendo in tal modo l’apparente orizzonte obbligato del presente. Ma ciò cosa comporta? Da dove cominciare? Dobbiamo e soprattutto è possibile essere contro la globalizzazione? Dobbiamo cullarci nel presunto idilliaco mondo di ieri, fantasticandone il restauro o bisogna pensare l’insurrezione nel presente? Ma, ancor prima, sarebbe il caso di chiederci cosa hanno comportato le trasformazioni in atto nei confronti della classe e della sua composizione. In altre parole: chi è il potenziale seppellitore dell’ordinamento capitalistico contemporaneo? Ecco che, di fronte a queste domande, il quadro della realtà storica assume tratti meno obbligati di quanto l’aut aut solitamente presentato ci mostra. L’espandersi globale del mercato sta, di fatto, uniformando sul piano internazionale una condizione proletaria e subalterna impensabile solo poco tempo prima. L’era globale ha fatto saltare la tradizionale suddivisione tra primo e terzo mondo. Oggi questi due ambiti non sono stati azzerati ma, si potrebbe dire, universalizzati. Le condizioni proprie di quest’ultimo sono state importate e poste a regime nel vecchio primo mondo mentre, forme di questo, sono ampiamente presenti nell’ex terzo mondo. La globalizzazione, come è stato ormai ampiamente argomentato (e a ciò necessariamente rimandiamo) ha dato origine a società postcoloniali dove la forma colonia è diventata parte costitutiva e costituente delle stesse vecchie metropoli del primo mondo6. Ciò ha dato vita alla formazione di masse subalterne e proletarie transnazionali omogeneizzate da condizioni di vita e di lavoro sempre più identiche.

Questo proletariato internazionale, queste masse subalterne, sono il popolo concreto con il quale abbiamo a che fare, questo, e non altri, sono i potenziali affossatori del capitalismo dell’era globale. Questo proletariato e questo popolo non ha alcun motivo per guardare con una qualche nostalgia l’epopea passata. Queste masse senza volto non hanno, nel presente, nulla da difendere ma solo da spezzare le catene che le imprigionano. Esattamente a partire da questo dato di fatto il partito può prendere le forme dell’insurrezione del presente, qui e solo qui va posto il Lenin del e nel presente. Dentro questo passaggio si misura l’attualità del metodo leniniano, quindi del partito dell’insurrezione.

(3continua)


  1. Per una buona discussione di ciò si vedano: P. P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, in Quaderni di Movimento operaio e socialista, n. 1, Edizioni Centro Ligure di Storia Sociale, Genova 1974; A. Walicki, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973.  

  2. Bisogna, infatti, non limitarsi, come hanno fatto i deterministi, a considerare il testo analitico Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ma guardare all’insieme della produzione teorico–politica leniniana in merito allo sviluppo del capitalismo. Lì Lenin mostra chiaramente come il determinismo sia qualcosa di assolutamente distante da lui poiché, ciò che realmente interessa a Lenin, è organizzare gli affossatori del capitalismo non cantare le lodi di questo. È la soggettività della classe dentro lo sviluppo capitalista che interessa Lenin e la possibilità che, dentro questo processo storico–oggettivo, si aprono per l’emancipazione dei subalterni. Il Che fare? di ciò ne condensa, a ben vedere, la sintesi ma altri testi, come Le caratteristiche del romanticismo economico; Quale eredità respingiamo, in V. I. Lenin, Opere, vol. 2, Edizioni Rinascita, Roma 1954 sono altrettanto utili al fine di sottrarre Lenin a una lettura oggettivista e determinista.  

  3. Come risaputo Lenin riprese per il suo testo il titolo del romanzo populista di N. D. Černyševskij, Che fare?, Garzanti, Milano 1986. Con ciò Lenin volle dare una palese testimonianza di come, mentre si rigettava tutta una tradizione populista del tutto obsoleta, dall’altra se ne riprendevano le migliori qualità rivoluzionarie. Quella di un Lenin del tutto estraneo al mondo e alla tradizione populista è una leggenda storica dovuta solo all’imporsi dell’oggettivismo e del determinismo dentro il marxismo. Su questo aspetto l’interessante Introduzione di Vittorio Strada al Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  4. Esattamente qua si configura la frattura insanabile con il menscevismo di sinistra di Trockij e la sua Rivoluzione permanente, Torino, Einaudi 1967. Trockij è il vero assertore della rivoluzione operaia pura e ciò non gli farà mai comprendere la relazione complessa e contraddittoria che necessariamente si instaura tra classe operaia e masse subalterne. Le avvisaglie di ciò si erano già mostrate nella sua critica al giacobinismo del Che fare?, Red Star Press, Roma 2022, quando rimprovera a Lenin il legame con l’esperienza giacobina non comprendendo che, proprio dentro quell’esperienza, era compresa in potenza la moderna rivoluzione delle masse subalterne. Come i populisti si inventavano il mondo di ieri, Trockij finisce con l’inventarsi il mondo di oggi e, con ciò, finisce con il perdere la concretezza storica entro la quale si giocano i conflitti delle classi.  

  5. La linea di condotta tenuta da Lenin nel corso degli eventi del 1905 è, al proposito, quanto mai esemplificativa. Il modo e le motivazioni con le quali affronta e argomenta la possibile partecipazione dei bolscevichi a un governo rivoluzionario ne rappresentano un’eccellente cristallizzazione.  

  6. Cfr.: S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2013.  

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New horror. Il Male nella/della Rete https://www.carmillaonline.com/2024/12/25/new-horror-la-paura-nellepoca-del-web-il-male-nella-della-rete/ Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85602 di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che caratterizzano il genere nel nuovo millennio guardando in particolare agli horror incentrati sul web, ai film realizzati da donne, ai meccanismi sequel, prequel e requel che contraddistinguono le produzioni più recenti, alle produzioni italiane tra snuff movies, contagi, mostri e vampiri, alla modalità seriale ed al Covid horror.

«Ogni tragedia epocale si porta dietro la sua elaborazione cine-narrativa. Ogni grande paura produce un nuovo cinema dell’orrore» (p. 157). Il Novecento è stato attraversato dalle paure generate dai due conflitti mondiali e dalla Guerra Fredda, dall’incubo dell’atomica sganciata in Giappone e di un suo possibile nuovo utilizzo, dal timore, soprattutto dopo l’Undici Settembre 2001, di attacchi terroristici portati nel cuore dell’Occidente, dai disastri ecologici e climatici, dallo spettro dell’Aids o di nuove e sconosciute malattie, fino al Covid. Se di tutte queste paure si sono occupate la letteratura ed il cinema, di certo non poteva mancare una loro elaborazione e messa in scena da parte del genere che più di ogni altro si occupa di paura: l’horror.

Con il proposito di tornare successivamente su alcune delle tendenze trattate dall’autore, in questo scritto ci si soffermerà sulle paure legate all’universo internet messe in scena dal cinema horror del nuovo millennio. Di Nicola indica Ringu (1998) di Hideo Nakata come il film che, con la sua “videocassetta assassina”, suggella la fine dell’epopea analogica a cui, in apertura di nuovo millennio, non mancano di riferirsi diversi film che prospettano lo sprigionarsi della paura da qualche vecchio nastro rintracciato dopo tanto tempo: una sorta di presenza inquietante contenuta in una tecnologia divenuta talmente rapidamente obsoleta da farsi, nel giro di qualche decennio, archeologia da cui, da un momento all’altro, può manifestarsi in tutta la sua potenza il maligno che la abita.

Alla serie di film focalizzati sulle vecchie videocassette analogiche introdotta da Ringu e dalla versione statunitense The Ring (2002) di Gore Verbinski succedono gli screenlife (o screenview) movies incentrati sull’universo del web, che prendono il via con Collingswood Story (2002) di Michael Costanza, in cui si prospetta la presenza di forze maligne nella rete; un universo abitato non solo da “criminali tradizionali” che sfruttano questo nuovo spazio ma anche da vere e proprie «entità ultraterrene, che vivono nei meandri della rete e risultano più inquietanti proprio perché invisibili, non individuabili, non tangibili, fluttuanti nelle schermate tra un sito e l’altro. Queste forze configurano una sorta di “rete maledetta”, uno spazio intangibile che si dimostra oscuro e ostile, pronto a colpire i protagonisti» (p. 90).

Se film come Paura.com (Fear Dot Com, 2002) di William Malone, Feed (2005) di Brett Leonard o lo stesso Smiley (2012) di Michael J. Gallagher, per quanto quest’ultimo sia un’opera a cavallo tra thriller ed horror, sono incentrati sul maniaco o serial killer che sfrutta il web per adescare le sue vittime, diverse opere danno spazio al fenomeno della condivisione via social di qualche efferatezza non mancando di sottolineare come il sadismo di qualche folle assassino trovi terreno fertile nel voyeurismo diffuso dei nostri giorni amplificato – e indotto – a dismisura dal web. Non a caso, ricorda Di Nicola, i social network hanno un ruolo importante nella serie Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet post Wes Craven, ed in Thanksgiving (2023) di Eli Roth.

Diverse sono le opere incentrate sull’universo più perverso e atroce che si immagina nascondersi nel cosiddetto dark web tra snuff movies e red rooms; tra queste Di Nicola ricorda Unfriended (2014) di Levan Gabriadze e, soprattutto, Unfriended: Dark Web (2018) di Stephen Susco che, oltre riprendere l’idea delle camere delle torture che abiterebbero il web più oscuro, introduce il topos dello spietato sistema di voto in grado di stabilire la vita o la morte delle vittime che si ritrova in diversi film e serie televisive.

Alcune produzioni horror degli ultimi decenni hanno ripreso attualizzandoli e spesso tecnologizzandoli il found footge e il mockumentary, il ricorso ad immagini che si vogliono di repertorio ed il formato del falso documentario; si pensi a The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez e, venendo agli internet horror, a Rec. La paura in diretta (Rec, 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza. «Insomma, l’orrore nella rete, che sia screenlife o meno, riesce a trarre una proposta tutto sommato originale e al passo coi tempi riconoscendo e metabolizzando esperienze del passato, variando sulle forme del genere e presentandole in veste inedita per fare paura parlando degli orrori di oggi» (p. 93).

L’autore sottolinea come con il tempo l’horror che scaturisce dal web divenga più complesso e stratificato, come dimostrano The Den (2013) di Zacharie Donohue, Friend Request (2016) di Simon Verhoeven, Followed (2018) di Antoine Le, Host. Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage – in cui lo screenlife si intreccia con il lockdown della pandemia di Covid – e Deadstream (2022) di Joseph e Vanessa Winter.

Alle stanze di tortura si rifà Les Chambres Rouges (Red Rooms, 2023) di Pascal Plante che, per quanto sia un thriller drammatico più che un horror, contribuisce a diffondere una paura su cui insisteranno diversi film di questo genere. Il film francese, scrive Di Nicola, «attraverso la sua sinistra leggenda lancia un tema che riguarda noi tutti e fa davvero paura: la smania di guardare, la tendenza a vedere il più possibile nel nostro mondo iper-connesso, che ormai non si ferma più davanti a nulla, neanche ad una bambina che viene fatta a pezzi per appagare i nostri occhi» (p. 95).

Se red rooms e snuff movies tendono a rifarsi più a leggende metropolitane che non a fatti reali e comprovati, le sfide tra adolescenti portate ad esiti estremi ripresi da diversi film horror recenti richiamano invece direttamente la realtà. La sfida Blue Whale Challenge tra ragazzini, comportante la prova finale del suicidio, che in Russia ha coinvolto un alto numero di giovani e giovanissimi, è stata ripresa da #Blue_Whale (2021) di Anna Zaytseva, «film privo di elementi soprannaturali ma ugualmente terrificante, forse proprio perché ancorato alla verità delle cose e in grado di scoperchiare un’altra china fatale, particolarmente spietata perché prospera sulla debolezza psicologica degli adolescenti in fase di sviluppo» (p. 95).

Cam (2018) di Daniel Goldhaber è un horror incentrato sulle vicissitudini di una camgilr che richiama l’esperienza vissuta in prima persona dalla sceneggiatrice Isa Mazzei nell’universo del sesso online raccontata nel memoir Camgirl (Rare Bird Books, 2019). Il film, tecnicamente non proprio uno screenlife movie, si concentra sull’inquietante e conturbate generarsi in rete di un doppio della protagonista da cui questa non riesce più a liberarsi/differenziarsi. Anche in questo caso, al di là della vicenda riguardante il mondo delle camgirl, il film tocca una problematica importante e reale della vita quotidiana nell’epoca in cui questa si è espansa sulla rete attraverso «una variazione spiazzante sul tema del doppio che si appropria della nostra vita come un predatore fino a portarci alla rovina» (p. 100).

Di Nicola sottolinea un altro aspetto importante posto dal film di Goldhaber: l’idea, presente in filigrana anche in diversi altri film del genere, sin dal pionieristico The Collingswood Story di Costanza in apertura del nuovo millennio, che nella rete abiti qualcosa di diabolico che sfugge alle possibilità razionali di comprensione e risoluzione: «c’è qualcosa di male nella rete, una forza che può replicare la tua essenza, trascinarti nel gorgo e condurti alla perdizione» (p. 101).

Che si pensi al paranormale o ad «un algoritmo impazzito magari gestito da un oscuro burattinaio», scrive Di Nicola, la «percezione della paura si sposta solo dall’esistenza della “cosa”, nascosta non tra i ghiacci ma nelle maglie invisibili del web, verso l’orrore dell’algoritmo, anticipando il timore e la paura che l’intelligenza artificiale è in grado di incutere» (p. 101). Che si tratti di paranormale o di deriva tecnologica, il risultato conduce ad una nuova ed inquietante forma di orrore incentrata sul web in cui si vive una parte sempre più importante della quotidianità e che concorre alla costruzione dell’identità.

Trattando delle paure che hanno contraddistinto il periodo più recente, il nuovo cinema horror non poteva esimersi dall’affrontare il Covid. Se il sottogenere orrorifico pandemico ha lunga tradizione, ad anticipare il Covid degli anni Duemila è stato Contagion (2011) di Steven Soderbergh, dunque un film non appartenente al genere horror. Lo stesso regista introduce invece direttamente il Covid nel suo Kimi – Qualcuno in ascolto (Kimi, 2022), film, anche in questo caso non di genere horror, in cui la scoperta di una cospirazione da parte di una giovane informatica è ambientata durante il lockdown imposto dalle autorità a seguito della pandemia.

Ad introdurre il Covid nel genere horror è invece il mediometraggio indipendente britannico Host – Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage che, in formato screenlife, sullo sfondo di uno schermo a mosaico, racconta di una seduta spiritica in streaming di un gruppo di giovani alle prese con uno spirito maligno che abita l’universo del web. Anche The Harbinger (2022) di Andy Mitton collega l’horror al Covid.

Qui, di nuovo in presa diretta e con un’impostazione di finzione tradizionale, senza desktop né computer, il virus diviene letteralmente un fantasma, un incubo da cui non ci si può svegliare, un novello Freddy Krueger dei tempi moderni. Ed è il primo horror che rende il Covid un elemento di genere, lo ri-forma nel senso che ne cambia forma – peraltro eterea – e lo rende un mostro visibile e verificabile, almeno nella psiche dei personaggi. Insomma qui il Covid è un umore, una sensazione dell’orrore (pp. 162-163)

Lo stesso Savage trona sul Covid con Dashcam (2021) intrecciando in questo caso la figura dell’influencer con il lockdown pandemico ed il classico inseguimento tra la nebbia della campagna inglese. Da Taiwan vine invece The Sadness (2022), opera d’esordio di Rob Jabbaz, in cui il desiderio di ritorno alla normalità, dopo un anno di pandemia, rivela un’evoluzione del virus che conduce alla follia dei cittadini «seminando tristezza e pulsione di uccidere» (p. 163).

Altri film horror in cui compare la pandemia citati da Di Nicola sono: Songbird (2020) di Adam Mason, Lethal Virus (2021) di Daniel H. Torrado, Virus 32 (2022) di Gustavo Hernández e Sick (2022) di John Hyams, che, secondo l’autore, può essere considerato, almeno al momento, l’horror definitivo sul Covid. Il questo ultimo caso, il regista «non si limita a usare la pandemia come sfondo, a raccontare una storia nel tempo del virus, ma tematizza il virus stesso, lo ingloba dentro il flusso, ossia prende le stimmate del Covid e le rende elementi compiuti di genere» (p. 165).

Sick può essere letto «come metafora del Covid: ci sono tre persone chiuse in casa, un pericolo esterno prova ad entrare, loro tentano di resistere attraversano spray e tamponi, ma quando una particella infettiva sembra sconfitta ne arriva subito un’altra, perché il male può sempre colpire» (p. 165). Più di altri il film di Hyams può, secondo Di Nicola, inaugurare un nuovo tipo di horror incentrato sulla questione pandemica.

Cogliendo alcune delle paure contemporanee più diffuse, il legame che diversi film hanno istituito tra le mostruosità online e i pericoli offline, contagio compreso, potrebbe rivelarsi una delle strade su cui insisterà maggiormente l’horror del futuro.

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