Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 06 Feb 2025 23:12:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La libertà, l’Italia e chissà qual destino disperato: Pasolini, Porzûs, l’imprudenza https://www.carmillaonline.com/2025/02/07/la-liberta-litalia-e-chissa-qual-destino-disperato-pasolini-porzus-limprudenza/ Thu, 06 Feb 2025 23:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86797 di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa [...]]]> di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.

Il secondogenito di Carlo Alberto l’ufficiale, Guido, con l’occupazione dell’Italia nel 1943, già a settembre cercherà di rubare armi ai tedeschi; entrerà nella Resistenza, diventerà comunista e poi azionista. Si arruolerà in una brigata Osoppo e combatterà con una tenacia sorprendente.

Febbraio 1945, ottant’anni fa. A Porzûs, in Friuli, Guido Pasolini e altri partigiani della Osoppo sono assassinati da partigiani comunisti, in una vicenda scottante. La sua morte è la più convulsa: ferito, fuggiasco, accolto e rifocillato, poi ritrovato e catturato, infine crivellato e sepolto nella tomba che è stato costretto a scavarsi.

Il primogenito di Carlo Alberto, invece, Pier Paolo, sarà arruolato ma poi riuscirà a sottrarsi alla Rsi. Restando disertore, non parteciperà alla Resistenza e si dedicherà soprattutto allo studio e alla scrittura. Nel 1945, saputo della morte del fratello, aderirà al Partito d’azione. In seguito si iscriverà al Pci, che lo allontanerà quando il suo orientamento sessuale diventerà di dominio pubblico. Continuerà a dirsi marxista e a mantenere un rapporto contraddittorio con la sinistra e con la religione.

1975, cinquant’anni fa, ma a novembre. Pier Paolo cade in una trappola: percosso, bastonato, infine sopraffatto, tramortito e schiacciato sotto la sua automobile sino a fargli scoppiare il cuore. Le letture più odiose vedranno una zuffa tra un pervertito e un prostituto, quelle più comode un incidente in una vita agitata. Le interpretazioni più avanzate riusciranno a capire qualcosa, più per metodo obliquo che per altro – il forte «io so» pasoliniano entrerà nel discorso politico e culturale. Acuto, Antonio Tabucchi, quando ricorda che quel sapere ha precedenti antichi, fra cui un frammento di Anassimandro, e nota: «Questo “sapere” di Pasolini non appartiene dunque alla logica di Wittgenstein, ma a una conoscenza congetturale e creativa»[1].

La necessità di eliminare un intellettuale in presa diretta sulla realtà, nel 1975, porterà a un delitto. Si vorrà far tacere una voce scomoda e dare un segnale al mondo della cultura, allora decisamente a sinistra. Quasi tutti ubbidiranno, e solo dopo si comincerà a cercare la verità, collegandola anche al romanzo che la vittima non ha fatto in tempo a pubblicare. L’uomo di cui Pasolini stava scrivendo in Petrolio, l’uomo che si stava impadronendo del paese, estendendosi senza alzarsi, è Eugenio Cefis, già partigiano conservatore durante la Resistenza, poi vissuto in Italia e all’estero.

Le morti dei due Pasolini sono agli estremi. Una è ai margini d’Italia, sul confine, aggrappata ai monti insieme alle malghe. L’altra è al centro di tutto, in un crocevia storico, umano, estetico, fra le pieghe disadorne di un luogo incantato: alla foce del Tevere, negli anni Settanta ridotta a confusa edilizia e polverose baracche. Quella foce è da sempre magnetica; «dove l’acqua di Tevero s’insala»: là, secondo Dante, si adunano le anime per raggiungere il Purgatorio traghettate da un angelo.

Poliedrico, il nesso tra fatti e cultura. Franco e pulito, quello di Guido, che parte per la Resistenza portando con sé un libro di Montale con una pistola dentro. In certi momenti, l’unica cosa seria da fare con un libro è ritagliarsi fra le pagine uno spazio per qualcos’altro.

Raffinato e pericoloso, quello di Pier Paolo, che dal mondo contadino e dialettale arriva al realismo narrativo e cinematografico, poi attinge a una creatività vulcanica, lisergica e materialista, denunciando la violenza consumistica, industriale, ma anche politica e stragista. Il cortocircuito pasoliniano passa attraverso lo sviluppo e l’estrattivismo, ma anche attraverso il sangue che scorre sotto il lavoro intellettuale, perché Cefis all’Eni assume il potere di Enrico Mattei, anche lui proveniente dalla Resistenza e assassinato nel 1962, e perché al film sulla morte, Il caso Mattei di Francesco Rosi, lavora per gli approfondimenti il giornalista Mauro De Mauro, ex fascista repubblichino, che durante la realizzazione cinematografica è a sua volta eliminato, nel 1970.

Si potrebbe continuare, in questo cortocircuito, perché fra le spiegazioni correnti del delitto Pasolini del 1975 – si vorrebbe farne la sola causa – c’è il furto delle pellicole di Salò, un film sul fascismo nell’Italia sotto occupazione tedesca; e la pagina storica della Rsi è una fogna di doppiogiochismi, sadismi, putredine mentale, falsa coscienza. E si potrebbe continuare ancora, perché non solo De Mauro è stato repubblichino nella Roma occupata, persino durante le Fosse Ardeatine, ma suo fratello Tullio è fra i massimi linguisti italiani. In questa storia inchiostro e sangue non vogliono né separarsi né fondersi, proseguono come correnti di fiumi, con colori diversi ma direzione comune, sino a un mare nebbioso dove navigare non è permesso; perciò è un dovere avventurarsi, in quelle acque, se si ama la libertà. Si spalanca proprio sul mare, la foce del Tevere, luogo da cui si salpa per sanare le piaghe o farne stigmate.

Solcare acque oscure serve a capire le sorgenti, perché nel fascismo, e poi nei doppiogiochismi fra il 1943 e il 1945, è l’origine di tanta parte della storia italiana. In quel magma hanno radici Cefis e Gelli, la partita futura sull’Eni e la P2, mentre Andreotti è in Vaticano e Mattei è con la Resistenza al Nord. Fili intrecciati, correnti profonde.

Poliedrico anche il rapporto fra coscienza e storia. Pasolini, in La resistenza e la sua luce, edita nel 1961, insieme alla morte di Guido scolpisce la lotta di Liberazione:

Venne il giorno della morte

e della libertà, il mondo martoriato

si riconobbe nuovo nella luce…

 

Quella luce era speranza di giustizia:

non sapevo quale: la Giustizia.

La luce è sempre uguale ad altra luce.

Poi variò: da luce diventò incerta alba,

un’alba che cresceva, si allargava

sopra i campi friulani, sulle rogge.

Illuminava i braccianti che lottavano.

Così l’alba nascente fu una luce

fuori dall’eternità dello stile…

Nella storia la giustizia fu coscienza

d’una umana divisione di ricchezza,

e la speranza ebbe nuova luce[2].

Sono versi che pubblica. Ma prima, a maggio 1945, già consapevole della morte di Guido, scrive per sé un testo in seconda persona rivolto al fratello:

Gloriosa morte perché voluta da te stesso, in nome di un’idea qualunque (bella, tuttavia: la libertà) e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo. […] Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età, con la tua, vedo che sono la stessa cosa[3].

Guido ha voluto morire, Pier Paolo ha la stessa imprudenza: l’emulazione è già cominciata.

Sempre in privato, in una lettera a Luciano Serra del 21 agosto 1945, Pasolini scrive che il secondogenito gli ha insegnato la strada. Così, la morte è diventata attingibile:

Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene, a cui credeva troppo. Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù[4].

L’inconcepibile ha preso qualcosa di vicino. Per questo, forse, Guido nel 1954 diventa visibile, quando il poeta si imbatte in un raduno del Msi, a Roma, e scrive Comizio:

Per la prima volta, dall’inverno

in cui la sua ventura fu appresa,

e mai creduta, mio fratello mi sorride,

mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,

oscuro partigiano, non ventenne

ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne

d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,

in quei poveri occhi, umiliante e solenne…

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,

tremendo sguardo, non per il suo destino,

ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?[5].

Ora che, nel 2025, a ottant’anni dalla Liberazione, c’è «un tempo morto che torna / inaspettato, odioso», ricordiamo cosa scrive Pasolini, nella stessa poesia, a proposito della fiamma tricolore del Msi sulle loro usurpate bandiere: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[6].

Però. Mentre scrive a Serra nel 1945, Pier Paolo ha ventitré anni e Guido è morto da pochi mesi. C’è da chiedersi se molti anni dopo – è stato scritto che Pasolini, come altri poeti, ha progettato la sua fine, l’ha costruita – la ricerca instancabile della verità, la più scomoda e indicibile, sull’Italia del dopoguerra e sui compromessi del centrosinistra, sui suoi enigmi, sui tessuti di potere, sulle trame affaristiche e neofasciste, con sottili connivenze, serva a Pier Paolo per prendere lo slancio verso quella dimensione inconcepibile. C’è da chiedersi se proprio lui metta in mano agli assassini ciò che gli permette di colmare la mancata partecipazione alla Resistenza, di riscattare l’essersi appartato mentre si sparava e si moriva, di essere pari a Guido nella fine eroica. La fine accettata allora da Guido, tornato a Porzûs benché avvertito del pericolo, perché, come scrive Pasolini nel 1945:

La libertà, l’Italia

e sa Dio qual destino disperato

ti volevano,

dopo tanto vivere e patire,

in questo silenzio[7].

Per rifletterci sarebbe utile Il Vangelo secondo Gesù di Saramago, romanzo eretico, percorso dal senso di colpa del figlio di Maria e Giuseppe, scampato alla strage degli innocenti. Erode, cioè la ragion di Stato abbarbicata al potere, non fabbrica solo cadaveri, ma anche superstiti carichi di scrupoli. Saramago: «Viene da lontano e promette di non aver fine la guerra tra padri e figli, l’eredità delle colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio dell’innocenza»[8]. Sono ombre che i poeti afferrano al volo, come si impugnano fiori spinosi, magari per metterli sulla propria tomba.

Se è così. La morte di Pasolini, come quella del fratello, è voluta «fin dal primo giorno», perché prima di quel novembre 1975, dall’adolescenza e dalla giovinezza, contro Pier Paolo è pronta una schiavitù fatta di conformismo, di cristianesimo prostituito nelle sacrestie, di marxismo reso miope dalle burocrazie, di Costituzione prigioniera del centrismo, di modernità immersa nello sviluppismo corrotto, nel consumismo, nella devastazione del linguaggio, nella dispersione delle culture popolari, nel massacro del paesaggio e del territorio.

Comunque. Questa storia è un sunto urticante del Novecento italiano. Nel 1926 un padre rispettabile contribuisce – involontariamente, voglio pensare, ma di fatto – al linciaggio di un ragazzino. Vent’anni dopo, partigiani comunisti uccidono il suo secondogenito, inizialmente comunista e poi convinto azionista. Carlo Alberto consumerà gli anni che gli restano, lasciando una vedova e un figlio dalla sessualità difficile da accettare. Nel 1975 anche il primogenito, che è stato prima azionista e poi comunista critico, sarà ucciso, e anche stavolta non saranno i fascisti, o almeno il mandante non sarà di quelli dichiarati. Poche cose esprimono così il suicidio di una certa Italia, in un arco di tempo che comincia nel 1926 con un assassinio nella disciplinata città dei glossatori, e che nel 1975, con un assassinio nell’agglomerato abusivo di Ostia, finisce.

Accostandomi a questo mi domando perché, malgrado la vicenda possa essere sia un buon boccone per il revisionismo fascista, sia un terreno per il lavoro culturale di sinistra, entrambi si tengano alla larga da un sunto, da uno sguardo ampio. Meglio congetture sul delitto del 1975, controversie su Porzûs, rare occhiate all’attentato Zamboni, senza saldare insieme la storia. Se ci si chiede perché, già si comincia a capire.

 

 

[1] Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone, Sellerio, Palermo 1998, pp. 31-32.

[2] Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo primo, pp. 472-473; in questa citazione e in seguito i puntini sono nell’originale.

[3] Andrea Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio, Venezia 2022, pp. 88-89.

[4] Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici (1941-1945). Con un’appendice di scritti giovanili, a cura di Luciano Serra, Ugo Guanda Editore, 1976, pp. 44-45.

[5] Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, pp. 30-31.

[6] Ivi, p. 27.

[7] Còrus in muart de Guido, XXV, in «Il Stroligut», agosto 1945, n. 1, pp. 3-4. Nell’originale: «La libertat, l’Italia / e qissà diu cual distin disperat / a ti volevin / dopu tant vivut e patit / ta qistu silensiu».

[8] José Saramago, Evangehlo segundo Jesus Cristo, trad. Il Vangelo secondo Gesù, Bompiani, Milano 1993, p. 58.

 

]]>
A proposito di internazionalismo https://www.carmillaonline.com/2025/02/05/a-proposito-di-internazionalismo/ Wed, 05 Feb 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86703 di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve [...]]]> di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.

Infatti, andando ad indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.

Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.

Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori ed affossatori.

Nel 1889, sei anni dopo la scomparsa di Marx, sarebbe sorta una Seconda Internazionale sulle basi delle idee e delle pratiche socialiste espresse a partire dalla socialdemocrazia tedesca, già fortemente criticate dallo stesso filosofo di Treviri nella sua “critica al programma di Gotha”, scritta nel 1875, ma resa pubblica soltanto nel 1891.

Una seconda internazionale che avrebbe rivolto sempre e soltanto uno sguardo paternalistico, talvolta prossimo al razzismo, alle vicende dei popoli colonizzati e ai loro moti di rivolta. Una posizione che facendo propria, in chiave falsamente classista, il concetto del white man’s burden espresso da Rudyard Kipling in una sua poesia del 1899, spostava sulle spalle del proletariato bianco e occidentale e dei suoi partiti politici il fardello rappresentato dalla necessità di educare i popoli “altri”, ritenuti ancora incapaci di esprimere una propria critica teorica e pratica che, in questo caso davvero, ancora li affardellava.

Una posizione “educazionista” che più che in Marx, sempre attento alla novità rappresentate dalle lotte e dalle esigenze dei popoli posti fuori dai confini tradizionali dell’Europa e spesso schiavizzati per poter sostenere l’ineguale sviluppo economico su cui si era fondata la rivoluzione industriale e la nascita del moderno capitalismo1, aveva tratto spunto dalle considerazioni talvolta liquidatorie con cui il suo sodale Friedrich Engels aveva guardato ai popoli slavi e a tutti quelli che egli riteneva “popoli senza storia”2.

Una posizione che è possibile riscontrare ancora oggi in molte delle posizioni espresse a proposito della lotta del popolo palestinese e che, ammantandosi di classismo di maniera e ultra-sinistrismo, nei fatti nega ciò che invece costituì uno dei punti basilari della politica della Terza Internazionale o Internazionale Comunista: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il tentativo di integrare nella lotta del proletariato internazionale le lotte venutesi a determinare sulla base del primo, senza stravolgerne forme e contenuti specifici (Congresso di Baku – settembre 1920).

Benedict Anderson (1936-2015) è stato uno storico che ha saputo coniugare perfettamente la disciplina che ha insegnato lungamente alla Cornell University, International Studies e Storia dell’Asia orientale, con l’antropologia e ibridare la storia politica con la storia delle idee, cosa che lo ha spinto a studiare come si formi l’immaginario nazionalista e a perlustrarne le complesse vicende. Così, come afferma Stefano Boni nella sua prefazione all’edizione italiana di Anarchismo e immaginario anticoloniale:

Anderson tendeva a osservare i fenomeni non partendo dalle prospettive dominanti, spesso quelle emerse nel Nord Atlantico, ma perlustrando appieno le conseguenze della critica anticoloniale: il posizionamento prospettico a fianco dei colonizzati gli permetteva non solo di denunciare la violenza dell’occupazione europea ma anche di individuare i presupposti epistemologici del colonialismo, per scardinarli. […] La sua sensibilita e le sue conoscenze gli permettevano – e questo è forse il lascito piu importante di Anderson – di mettere in discussione assiomi eurocentrici, come l’origine propulsiva del nazionalismo nel vecchio continente, per dare spazio invece a voci neglette e soppresse3.

L’opera più conosciuta di Anderson è sicuramente Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, pubblicato per la prima volta nel 1983 e ripubblicato in una versione più ampia nel 1991. Comunità immaginate è uscito in italiano nel 1996 ed è un testo che insiste sulla comunità e il suo immaginario come premessa della nascita stessa della nazione e del nazionalismo. Comunità è un termine che, come viene spiegato dall’autore, può anche tradursi nel corso del tempo in nazione, ma, se e quando accade, è per effetto di una serie di passaggi successivi, poiché nella “comunità immaginata” è implicita l’idea che il passaggio da una comunità immaginata a una comunità “istituzionalizzata”, cioè alla nazione, si venga costruendo, nel corso del tempo, con una serie di processi legati all’accelerarsi della comunicazione tra i soggetti appartenenti alla comunità (viaggi, stampa, mercati).

Per l’autore tale processo avvenne prima fuori dall’Europa e non all’interno della stessa come tanta storiografia continua a sostenere. La prima idea di “nazione” fu quella che si formò tra i pionieri creoli delle colonie europee del continente americano: che furono i primi sostenitori di una patria nazionale in conflitto con la madrepatria, con la quale, paradossalmente, condividevano sia la lingua che la religione.

È solo dopo questa prima esperienza che nascono, nei primi decenni dell’Ottocento, i nazionalismi europei, che avrebbero avuto come base le lingue nazionali e che si costruirono con la formazione di una burocrazia di funzionari. Dando vita a una comunità, non più fondata su fattori dinastici, ma sulla borghesia in quanto classe che aveva bisogno per le sue attività produttive di una “nazione”, con territorio e lingua comuni e ben delimitati ai fini dello sviluppo di leggi condivise e mercati “protetti”.

Un modello che tornerà, poi ancora, ad essere riportato nelle colonie attraverso gli stati coloniali, soprattutto in Asia e Africa, per il tramite della formazione e del mantenimento di rigide burocrazie e di una istruzione in grado di dare ai colonizzati una medesima lingua, spesso straniera, che avrebbe poi spinto questi a ritrovare le proprie radici originarie, linguistiche e culturali.

Benedict Anderson era contrario ad una visione eurocentrica della storia e a una tradizione che ignorava l’aspetto emozionale del nazionalismo. Il termine che fa la differenza nella sua opera è, come si è già detto, immaginate, un termine che secondo Anderson evoca emozione, appartenenza e che può far comprendere la mobilitazione per la “patria” cui si aspira. Una scelta spiazzante, che rovescia lo sguardo storico (e geografico!) tradizionale e fa dell’autore un maestro e un anticipatore di tante problematiche odierne.

Nello specifico del testo ora pubblicato da elèuthera occorre ricordare non solo che l’autore focalizza il suo interesse su quanto avvenne in Indonesia e nelle Filippine a cavallo tra XIX e XX secolo, ma anche sulla funzione che gli ideali anarchici ebbero nello spingere avanti le rivendicazioni politiche anticoloniali, oltre i limiti di un marxismo, di cui si è già detto, incapace di comprendere sia l’aspetto emozionale di tale genere di lotte che il risvolto necessariamente antimperialistico e non eurocentrico delle stesse.

Anarchismo e immaginario anticoloniale riprende una visione decentrata della storia, focalizzata sulla prospettiva dei colonizzati, aggiungendo un nuovo cruciale elemento: gli scambi tra i vari movimenti anticoloniali e tra questi e gli ambienti politici radicali europei. Si tratta di relazioni intellettuali, di sostegno economico e militare, di consigli strategici su come sottrarsi al giogo imperiale per inaugurare una nazione sovrana. Idee e persone circolano; si attivano coordinamenti e circuiti internazionali di mutuo aiuto che collegano lotte distanti in un sodalizio cosmopolita[…] La narrazione conseguentemente si snoda tra Madrid, Parigi e Londra, ma anche tra Cuba e Rio de Janeiro a ovest, e tra Giappone, Hong Kong, Singapore e Manila a est. I filippini guardavano con particolare interesse alle vicende cubane: nel 1895, l’inizio dell’ultima guerra di indipendenza latinoamericana per liberarsi del morente impero spagnolo annuncia infatti la prima insurrezione armata nazionalista in Asia, quella filippina del 18964.

Sulla copertina della prima edizione inglese (2005) del testo erano affiancate tre bandiere: quella delle lotte di indipendenza cubana (bandiera che diventerà quella nazionale), quella del Katipunan (l’organizzazione segreta anticoloniale filippina del 1894) e il vessillo anarchico e, non a caso, il titolo recitava Under Three Flags, Anarchists and the Anticolonial Imagination.

L’attrazione tra nazionalismo e anarchismo, orientamenti accomunati da una tensione per la
libertà sebbene per molti versi antitetici, in particolare per ciò che concerne la riduzione della comunità politica allo Stato, raggiunse il suo apice nel periodo delle lotte anticoloniali. Nonostante Anderson abbia simpatie marxiste, riconosce appieno l’apporto del movimento anarchico che «alla fine del diciannovesimo secolo divenne il principale veicolo per diffondere su scala globale la lotta al capitalismo industriale, all’autocrazia, al latifondismo e all’imperialismo»5.

Mentre le organizzazioni socialiste focalizzavano la loro attenzione sul proletariato industriale delle metropoli, la rete delle organizzazioni anarchiche agì con maggiore eclettismo interagendo con contadini, manovali agricoli, commercianti, artisti e artigiani. Con una flessibilità che rappresentò un indubbio vantaggio inclusivo, soprattutto in aree a bassa industrializzazione, come nelle colonie. Così un «anarchismo ormai globalizzato, grazie anche alle importanti ondate migratorie che fuoriuscivano dal vecchio continente, contribuì a offrire strumenti pratici e teorici alle lotte anticoloniali.»6 Come afferma l’autore nell’introduzione al testo:

Questo libro è un esperimento che prende le mosse in quell’ambito che Melville avrebbe definito «astronomia politica», poiché prova a tracciare una mappa della forza gravitazionale esercitata dall’anarchismo sui movimenti nazionalisti militanti sviluppatisi ai poli opposti del globo.[…] sebbene l’anarchismo avesse spesso attinto al torreggiante edificio del pensiero marxista, in un’epoca in cui l’emersione di un proletariato industriale, inteso in senso stretto, si limitava essenzialmente ai paesi dell’Europa del Nord, il movimento anarchico mirava a coinvolgere anche contadini e lavoratori agricoli. […] Per di piu, ostile quanto il marxismo all’imperialismo, l’anarchismo non nutriva pregiudizi teoretici nei confronti dei «piccoli» e «astorici» nazionalismi, inclusi quelli provenienti dal mondo coloniale. Gli anarchici furono, infine, piu rapidi a cogliere le potenzialità insite negli importanti flussi migratori transoceanici dell’epoca: Malatesta trascorse quattro anni a Buenos Aires, qualcosa di inconcepibile per Marx o Engels che non lasciarono mai l’Europa occidentale, e il Primo Maggio celebra la memoria dei migranti anarchici, e non marxisti, che furono giustiziati negli Stati Uniti nel 18877.

Per certi versi soltanto Lenin avrebbe saputo accogliere nella sua interpretazione del marxismo molti di questi elementi, ma per farlo avrebbe dovuto rompere radicalmente con la tradizione della Seconda internazionale, così come si è già detto all’inizio. Aprendo però una strada che sarebbe stata più significativa per la liberazione dell’Asia dal giogo coloniale che non per la classe operaia occidentale da quello del capitale.

Un libro quello di Anderson da leggere e meditare, ripercorrendo anche con un senso di stupore le vicende collettive e quelle personali di movimenti e personaggi che troppo spesso la tradizione eurocentrica della sinistra ha cancellato, insieme a quelle dei rivoluzionari asiatici che animano le pagine di un altro bel testo sulle rivoluzioni “altre”, Asia ribelle di Tim Harper (qui). Due testi, comunque, indispensabili per orientarsi ancora oggi tra le nebbie e le distorsioni di troppo facili interpretazioni del divenire storico e del ruolo dei rivoluzionari.


  1. Oltre che agli scritti più conosciuti dello stesso Marx sul colonialismo inglese in India e in Cina, si fa qui riferimento a: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014; K. Marx, Quaderni antropologici. Appunti da L.H. Morgan e H.S. Maine, Edizioni Unicopli, Milano 2009: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Edizioni Jaca Book, Milano 1977 e P.P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, «quaderni di Movimento operaio e socialista» n.1, Genova, luglio 1974.  

  2. Si veda: R. Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia». La questione nazionale nella rivoluzione del 1848-49 secondo la visione della «Neue reinische zeitung», graphos edizioni, Genova 2005.  

  3. S. Boni, Prefazione a B. Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 7-8.  

  4. S. Boni, cit. in B. Anderson, op.cit., p. 11.  

  5. Ibidem, p. 12.  

  6. ivi, p. 13.  

  7. B. Anderson, op.cit., pp. 20-21.  

]]>
Nuovi mostri: s’avanza il liberal-nazismo? https://www.carmillaonline.com/2025/02/04/nuovi-mostri-savanza-il-liberal-nazismo/ Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86764 di Gennaro Scala

È necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.

Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti [...]]]> di Gennaro Scala

È necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.

Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti con l’amministrazione Biden, fin quando non ha deciso di cambiare cavallo, puntando su quello vincente. È evidente un uso puramente strumentale delle ideologie, da parte di questi personaggi, che non credono in nulla, al fine di raggiungere determinati scopi. Chiediamoci invece quali obiettivi politici persegue Musk nell’ambito dell’amministrazione Trump. Analizziamo il “saluto romano” che in quanto gesto simbolico condensa diversi significati. Musk ha voluto richiamarsi al saluto alla bandiera americana, il “saluto di Bellamy”, introdotto nel 1892, e poi abbandonato durante la seconda guerra mondiale perché troppo simile a quello nazista, e sostituito con il gesto della mano sul cuore. Il gesto di Musk, come si vede nei filmati, unisce le due forme di saluto. Ma, siccome il “saluto romano” non era in uso  il riferimento inequivocabile è proprio al “saluto romano” (che tra i romani invece non era in uso in ambito politico come ci informano gli storici). La vicenda ha assunto dei connotati che diremmo comico-grotteschi, se non si trattasse di personaggi con un enorme potere, stile la gag  “Hitler Tony” di Lillo e Greg, quando Musk ha postato su X  le foto di Obama, della Clinton, della Harris immortalati nel “saluto fascista”, mentre, in realtà, stavano salutando la folla. Invece, Musk ha proprio inteso fare il “saluto romano”, ma poi nega l’evidenza … è Hitler Tony (per chi non ha visto la gag è facile da ritrovare in internet).

Musk fa una sorta di sintesi tra le due “tradizioni” (quella americana e quella fascista-nazista). Mettiamo quindi in relazione il gesto con i rapporti stabiliti recentemente da Musk con le destre “populiste” europee, con Farage, con Meloni e in particolare focalizzerei sull’intervista con Alice Weidel, leader di AfD, durante la quale la politica tedesca l’ha sparata grossa, sostenendo che “Hitler era comunista”. L’idiozia dell’affermazione è dovuta allo sforzo di mantenersi nel campo liberale. Ma è uno sforzo che può essere una reazione al non detto dell’intervista, che, come credo si possa ben ipotizzare, è il proposito muskiano di utilizzare le destre europee, compreso il nostalgismo fascista e nazista, presente sia in Fratelli d’Italia che in AfD, in funzione anti-russa. In particolare, al fine armare e indirizzare la Germania contro la Russia. Il che potrebbe causare l’utilizzo delle armi atomiche tattiche della Russia contro la Germania. Attualmente, l’AfD sarebbe per dei buoni rapporti con la Russia, ma lo era anche FdI della Meloni, prima di andare al governo.

D’altronde sarebbe una politica ben in continuità con l’utilizzo dei movimenti neo-nazisti e banderisti in Ucraina. Quindi la frattura con l’amministrazione Biden è più apparente che reale, si tratta piuttosto di  una mutazione della pelle del serpente.

Nell’ “infosfera” mediatica (ormai prevelantemente internettiana) è diventata dominante un’atmosfera generale di abolizione del confine tra finzione e realtà (una delle caratteristiche del totalitarismo, secondo Hannah Arendt), Trump proclama di voler annettere Canada, Groenlandia, e Canale di Panama, mentre, come annunciano i media ufficiali, Google, in ottemperanza al “nuovo corso” trumpiano, modificherà per gli utenti statunitensi il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America”, Musk si produce nel “saluto romano”, ma non vengono presi sul serio. Invece, intendo fare il contrario, per cui abbandonerò il campo del presente senza storia del mondo dei “social” per un’analisi storica e strutturale molto a “volo d’uccello” (magari come abbozzo di una successiva analisi più dettagliata), partendo piuttosto da lontano. Nonostante il mito di Roma nella propaganda fascista e nazista, esiste una notevole diversità tra la civiltà greco-romana , in quanto il fascismo ad es. sulla questione razziale è addirittura antitetico alla cultura romana che è stata tra le civiltà meno razziste della storia, come ha mostrato in varie occasioni lo storico Andrea Giardina. L’ideologia nazista è pagano-nordica più che romana, anzi avversa a quella parte del romanesimo quale sede del cattolicesimo. Era immersa in quell’avversione per la romanitas che va da Hegel a Heidegger, espressione di un germanesimo che produsse la gigantesca statua di Arminio eretta in Germania durante l’800. Si tratta di una frattura culturale tra Europa del Nord ed Europa latina che Dostojevskjj definì l’“eterno protestantesimo” dei tedeschi che faceva risalire ad Arminio, eroe dei Germani nella battaglia di Teutoburgo contro i Romani. È nota, nell’ambito degli studi sull’ideologia razziale, la distinzione tra un razzismo gerarchico, su base universalistica, di matrice cattolica che contempla l’inclusione dell’Altro su base inegualitaria, e il razzismo differenzialista di matrice protestante che contempla la separazione e la segregazione, e in ultima istanza, lo sterminio dell’Altro. Vedi in merito la diversa sorte delle popolazioni indigene dell’America del Nord rispetto a quelle del Sud. L’ideologia razziale biologistica del nazismo fu erede maggiormente del secondo tipo di razzismo.

Sui rapporti tra gli Usa e la Germania nazista esiste una vasta letteratura. Non solo riguardo al reclutamento dei ex-nazisti in funzione anti-comunista da parte della Cia nel dopoguerra, che ha, tra gli altri, dato i suoi frutti in Ucraina. In ambito sociologico, vi è stata la “critica della cultura di massa”, (vedi in merito il mio libro su Bruno Bettelheim, consultabile su www.gennaroscala.it) che aveva analizzato continuità e affinità tra nazismo e “società di massa” statunitense nel dopoguerra (non solo Scuola di Francoforte, vedi es. Charles Wright Mills che riprendeva il saggio di Kracauer sugli impiegati applicandolo alla società statunitense). Il motivo per cui ci si concentrava sui media era dovuto al fatto che l’invenzione della radio, del cinema e poi della televisione introduceva un cambiamento complessivo nell’assetto delle nazioni moderne. Se lo stato-nazione moderno si caratterizza per la concentrazione del potere coercitivo e del potere economico, la “cultura di massa” introduceva la concentrazione del potere ideologico. Cambiando la prospettiva si potrebbe dire che non gli Usa hanno ripreso alcuni aspetti del “totalitarismo nazista”, piuttosto che nazismo e comunismo sovietico, secondo il principio della rivalità mimetica tra gli stati, abbiano ripreso, in forma rozza e imperfetta, alcuni aspetti della “società di massa” statunitense, dove essa si presenta nella forma compiuta, senza abbandonare la forma esteriore democratica, pur essendo una ferrea oligarchia con un controllo capillare sulla società. Questo perché la “società di massa” consentiva una forma di mobilitazione della società in una forma qualitativamente diversa rispetto al passato, con i suoi risvolti sul piano della capacità militare, da cui il tentativo di imitare gli Usa delle potenze che gli si opponevano. Non a caso Hitler diceva che la propaganda politica deve assomigliare alla réclame di una saponetta.

La “critica della società di massa” fu tuttavia estremizzata. Gli autori cinematografici, ad es., hanno dovuto fare i conti con la necessità di rappresentare il sentire popolare, pena l’insuccesso, per cui non si può liquidare tutta la produzione dell’“industria culturale” come pura e semplice propaganda mirante al condizionamento culturale, per cui va corretto il punto di vista “apocalittico” di un Adorno, quale ultimo esponente di una cultura europea che veniva a dissolversi di fronte all’avvento della “cultura di massa” (anche Pasolini ebbe un atteggiamento simile). Ma non bisogna dimenticare che la propaganda c’è soprattutto dove non si vede, nel cinema, nella musica, e che vi è sì qualcosa di buono ma in mezzo ad un mare di prodotti scadenti e anche dannosi.

Dopo radio, cinema e televisione è arrivato internet, il quale, con l’avvento dei social media e dell’AI (la cosiddetta intelligenza artificiale), consente un controllo ancora più capillare, che vede un salto qualitativo nell’ambito del sistema mediatico (una trasformazione che è ancora tutta da capire sul piano analitico). Musk è espressione del mondo di internet, e tutto il GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple, i nuovi “padroni del vapore”) si sta riallineando dietro di lui. Il suo scatto nel saluto nazista non può non fare pensare ad una delle scene iconiche del cinema del dopoguerra, Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, nel titolo originale) che ha inconsapevolmente imitato, a dimostrazione della forza dei simboli prodotti dalla cultura cinematografica. Quando, sul palco dell’inaugurazione della presidenza Trump, gli parte il braccio, sembra proprio la materializzazione del personaggio cinematografico. Tra l’altro, Musk come Stranamore è uno che si propone come apportatore di soluzioni “tecniche” geniali.

Se il secolo scorso vide l’irrompere, nell’ambito della competizione imperialistica, il mostro dello Stato razziale (Behemot, secondo il titolo di un libro di Franz Neumann), negli Usa vediamo il capitale finanziario che si fa stato. Continuiamo ad utilizzare il termine liberismo, ma, come scrive Alessandro Volpi (I Padroni del mondo) è difficile anche parlare di capitalismo nel regime di monopolio stabilito dal dominio dei grandi fondi azionari. La “genialità” di Musk, in questo contesto, non è la più convincente spiegazione del suo successo. “Tesla, infatti, vende circa un milione di auto e vale, appunto, mille miliardi in Borsa, mentre Volkswagen, che di auto ne produce quasi 10 milioni, vale un decimo. Qualcosa non torna. L’enigma si chiarisce tenendo presente che l’andamento del titolo Tesla è stato sapientemente pilotato dai grandi fondi, come Vanguard, che è il secondo azionista della società di Musk”.

L’auto-caricatura inconsapevole messa in scena da Musk è segno di una tragedia che ancora una volta si ripresenta in farsa? Il gesto di Musk è “solo” un pezzo della madman strategy? Gli Usa non sono più quelli dei primi decenni del dopoguerra, ma non esistono neanche quelle forze della cultura popolare che si erano espresse ad es. nel film di Kubrick, capaci di correggere gli eccessi del regime. In determinati frangenti, tra potenze atomiche, la farsa può essere altrettanto pericolosa, e tramutarsi di nuovo in tragedia, per cui non è da sottovalutare, ma da valutare con attenzione il significato del gesto di Musk.

Nel tentativo di trascinare le nazioni europee in una guerra diretta contro la Russia gli Usa si giocano molto. Se il progetto non riesce con la Germania, vedremo un’accelerazione del loro declino. Un conto è il prezzo, già alquanto salato, del conflitto “per procura”, tutt’altro sarebbe un conflitto diretto. Nel caso il progetto si realizzasse dovremo fare i conti con un nuovo mostro.

]]>
La cultura di massa al capolinea https://www.carmillaonline.com/2025/02/03/la-cultura-di-massa-al-capolinea/ Mon, 03 Feb 2025 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86544 di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni l’happy end come strategia di soddisfazione immediata volta ad allontanare dall’impegno politico orientato alla giustizia sociale.

Per quanto a proposito della cultura di massa anche in Italia, nel corso degli anni Sessanta, si guardi alle teorie francofortesi, è soprattutto Pier Paolo Pasolini a sviluppare nei suoi confronti una critica radicale accusandola di operare, insieme all’industrializzazione ed al nascente consumismo, un’omologazione distruttrice dell’universo arcaico contadino cancellandone gli stili di vita e la cultura popolare tradizionale.

Mentre il francese Edgar Morin, sin dai primi anni Sessanta, guarda in maniera dialettica alla cultura di massa nella sua complessità, mettendo in relazione il sistema di produzione culturale con i bisogni espressi dagli individui, lo statunitense Dwight Macdonald denuncia il farsi strada di una cultura di livello medio che, pur differenziandosi da quella di basso livello, dietro a forme derivate dalla “cultura alta” diffonde contenuti di scarsa qualità.

A guardare invece alla cultura di massa con inedito interesse sono studiosi come Marshall McLuhan, Roland Barthes ed Umberto Eco. In particole, quest’ultimo osserva come nella cultura di massa il fruitore tenda a ricavare godimento dalle variazioni di una struttura sostanzialmente conservativa e, soprattutto, nel confrontarsi con i tre livelli culturali (alto, medio e basso) proposti da Macdonald, Eco sottolinea come in realtà questi non corrispondano automaticamente a tre differenti livelli qualitativi e nemmeno ad altrettante classi sociali nettamente distinte: ad essere differenti sono piuttosto le modalità di fruizione degli individui, lo sguardo con cui si guarda ai prodotti culturali al di là del loro livello qualitativo e contenutistico.

Codeluppi ricorda dunque come sia in particolare il sociologo tedesco Niklas Luhmann a cogliere, nel corso degli anni Settanta, la progressiva frammentazione della società occidentale, avviata verso una stratificazione fondata su numerose subculture, anche a causa della radio e della televisione e di un generale superamento del modello fordista in direzione di una struttura produttiva reticolare sparsa sul territorio: qua si pongono le basi per quello che sarebbe poi stato chiamato “capitalismo digitale”. In Italia è Alberto Abruzzese a riprendere la Scuola di Birmingham ed i cutural studies che hanno colto come il futuro capitalismo digitale si sarebbe fondato sul nuovo ruolo assegnato ai consumatori, orientati a divenire “prosumer”, cioè sia producer che consumer.

Altro momento chiave su cui si sofferma Codeluppi è la comparsa del concetto di posmoderno introdotto da Jean-François Lyotard sul finire degli anni Settanta, a cui si farà ampio ricorso nel decennio successivo per designare, tra le altre cose, il processo di frammentazione culturale e di disgregazione dei confini tra cultura alta e bassa, che, secondo Fredric Jameson, ha comportato nelle società capitalistiche occidentali un vero e proprio appiattimento da cui è derivata una “estetica della superficie”, prontamente fatta propria dal neoliberismo, fondata più sulla “sensazione” che non sul significato e sull’interpretazione.

Come ha avuto modo di argomentare in Ipermondo (2012), piuttosto che di postmodernità, Codeluppi preferisce parlare di ipermodernità, in quanto individua in quest’ultima un’esasperazione della modernità piuttosto che un suo superamento. L’autore spiega poi come la tendenza messa in luce da Walter Benjamin dei media ottocenteschi, come il telefono, di suscitare nell’essere umano un atteggiamento di soggezione, sia del tutto applicabile anche al grande schermo cinematografico che troneggia su una sala in cui il pubblico è mantenuto al buio ed al televisore che, come evidenziato da Jean Baudrillard, tende ad essere posto su un piedistallo. Come ha notato Byung-Chul Han, le cose sembrano cambiare con gli strumenti digitali e mediatici, visto che questi non creano forme di soggezione in quanto sono stati “naturalizzati”, si potrebbe dire con McLuhan incorporati come protesi, sancendo così l’avvenuta ibridazione dell’essere umano con i dispositivi tecnologici.

I media contemporanei si caratterizzano, oltre che per una inedita accelerazione dei tempi di fruizione, per il ricorso a modalità di “comunicazione di flusso” che non mancano di “fluidificare” gli stessi spettatori: se i media ottocenteschi e della prima parte del Novecento ambivano a “catturare l’attenzione” di una massa, gli strumenti digitali tendono invece a cerare “sciami digitali”, come li definisce Byung-Chul Han, cioè aggregati di individui che condividono una condizione comune sebbene d’isolamento. Al posto di ambire ad identificarsi in un gruppo di grandi dimensioni, gli individui contemporanei ricercano modalità con cui sentirsi differenti dagli altri.

Codeluppi segnala come l’universo televisivo da qualche tempo sembri essersi avviato verso una polarizzazione che vede da un lato i canali generalisti seguiti soprattutto da un pubblico di età avanzata e di basso livello di scolarizzazione e dall’altro le grandi piattaforme a pagamento che vantano un pubblico più giovane e maggiormente scolarizzato. Se tali piattaforme, interne ai processi di digitalizzazione e globalizzazione, da un lato tendono ad omogeneizzare la somministrazione di prodotti audiovisivi agli spettatori delle diverse aree del Pianeta e dei più diversi orientamenti culturali, dall’altro, ricorda lo studioso, non mancano di produrre opere imperniate attorno a specificità locali e culturali rendendole disponibili ovunque e a tutti.

A risultare sempre più evidente nella società contemporanea è soprattutto il ridimensionamento del ruolo svolto dalla middle class che in passato rappresentava il principale target di mercato per i prodotti culturali di livello medio. Soprattutto negli Stati Uniti è evidente come ad essersi indebolito sia quello che a lungo è stato il punto di forza del sistema cinematografico: la capacità di realizzare opere popolari di successo commerciale ed al tempo stesso di discreto livello qualitativo. Per indicare tale processo, Codeluppi parla di “marvelizzazione” della cultura, intendendo evidenziare come a tutto ciò abbia contribuito la Marvel con il suo cinema di supereroi.

Nati negli anni Trenta del Novecento, i supereroi hanno visto scemare il ruolo di grande rilievo che avevano assunto nell’immaginario collettivo alla fine della seconda guerra mondiale venendo per certi versi sostituiti dalla fantascienza, probabilmente più adatta a rapportarsi con le inquietudini del momento. Negli anni Sessanta la Marvel ha drasticamente modificato i suoi supereroi facendoli per certi versi “scendere dall’Olimpo”, umanizzandoli, un po’ come era avvenuto per le divinità della statuaria greca tardo classica, in un memento di crisi delle poleis. Pian piano è stato creato un unico grande contesto – Marvel Cinematic Universe – in cui i diversi personaggi della scuderia possono incontrarsi ampliando a dismisura gli intrecci narrativi e dando al tempo stesso unitarietà all’universo Marvel. Riprendendo la tendenza seriale televisiva, inoltre, i film dei supereroi tendono ad adottare finali aperti che preannunciano futuri sviluppi in nuovi “episodi”.

Il successo del sistema Marvel, sostiene Codeluppi, «ha contribuito in maniera significativa a fare andare profondamente in crisi ambiti in precedenza importanti all’interno del mercato cinematografico, come le commedie sentimentali, i film drammatici e i film indipendenti»; insomma, «il dominio dei film Marvel probabilmente ha accelerato la quasi totale scomparsa dal mercato di quelli che erano in passato i film di fascia media» (p. 69) e che ora non sarebbero sufficientemente redditizi, soprattutto se paragonati agli incassi delle opere con i supereroi, che, tra l’altro, si dilatano facilmente in redditizi franchise e merchandising.

Codeluppi si sofferma brevemente anche sull’universo musicale notando come, a partire dagli anni Ottanta, quando hanno preso piede i videoclip musicali, si è assistito ad un progressiva importanza assegnata all’immagine dei/delle cantanti, vero e proprio prodotto commerciale principale, rispetto alla creatività e alle sperimentazioni musicali e testuali delle canzoni. Si tenga inoltre presente, sottolinea lo studioso, che le stesse modalità di consumo dei prodotti digitali tendono ad abbassare la qualità estetica: i prodotti musicali ed audiovisivi vengono spesso fruiti in condizioni ambientali “disturbate”, esterne, di movimento, di scarsa concentrazione, superficiali, dunque come mero intrattenimento di fondo senza prestarvi particolare attenzione.

Si può pertanto parlare di una vera e propria crisi che riguarda le modalità espressive impiegate per comunicare. Se ciò avviene, è probabilmente perché si pensa che un’attenzione per la qualità estetica possa determinare un rallentamento dell’attività svolta dai flussi in azione nel sistema mediatico. Dunque si ritiene che sia necessario concedere spazio soprattutto a forme elementari e poco distintive, che possono circolare facilmente e senza ostacolare il movimento dei flussi, ma che, proprio per questo, determinano in impoverimento dell’offerta culturale (p. 78).

In un’epoca in cui il modello comunicativo è imperniato principalmente sull’efficacia di funzionamento, e sulla redditività, con conseguente abbassamento della cura formale dei messaggi, a proliferare, afferma Codeluppi, è il “culto del banale”. Basti pensare al successo dei reality show che, in alcuni casi, riescono a far coincidere il flusso della vita quotidiana del pubblico con quello televisivo. Il processo di “vertinizzazione” di cui lo studioso si è a lungo occupato (La vetrinizzazione sociale, 2007; Tutti divi, 2009; Mi metto in vetrina, 2015; Vetrinizzazione, 2021), particolarmente evidente nei social e in piattaforme come OnlyFans, assume le forme del “bordello senza muri”, di cui parlava McLuhan, privo di cura estetica dei contenuti.

Lo schermo non mostra eventi rilevanti, ma le persone rimangono ugualmente davanti a esso. Evidentemente, non siamo più di fronte a un processo di trasmissione di messaggi dotati di un contenuto, ma a una pura forma di circolazione, a una connessione costante basata su un flusso ininterrotto di contenuti poco rilevanti e finalizzati soltanto a ottenere di essere visti. Forse, è possibile anche sostenere che non siamo più di fronte a un vero processo di comunicazione, ma soltanto a semplici pratiche di condivisione di forme espressive (p. 84).

La stessa tendenza alla gamificazione, al ricorso delle logiche ludiche a scopi motivazionali-prestazionali-profiettevoli, enormemente aumentata con la digitalizzazione, può essere vista come evoluzione di quella proposta televisiva indirizzata, come argomentava a metà degli anni Ottanta Neil Postman, a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, progettati esclusivamente per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito.

Rispetto ai simulacri (copie di copie che si rinviano senza fine senza che esista più un originale) a cui faceva riferimento Jean Baudrillard, nelle attuali società fortemente mediatizzate, secondo Codeluppi, si è di fronte a “simulacri integrali”, che si costruiscono autonomamente un loro originale, dunque non si avrebbe più a che fare «con un rapporto tra la realtà e un suo modello di rappresentazione, ma con un rapporto diretto tra modello e modello». Si giungerebbe così al tramonto della realtà; non perché questa cessi davvero di esserci, ma perché tende ad essere «sostituita da un altra specie di realtà: quella mediale e digitale. Perché i media tendono a costruire un mondo privo di problemi e decisamente più piacevole rispetto a quello fisico» (p. 96)

Gli strumenti digitali amplificano a dismisura quanto già introdotto dalla televisione: la richiesta ai fruitori di lasciarsi andare ad una comunicazione di flusso tendente ad annullare ogni contenuto profondo. «Il modello che s’impone è quello di un social media come TikTok: video brevi o anche brevissimi e assenza di qualsiasi forma di approfondimento» (p. 99). Altro che società dell’informazione, l’attuale era digitale si sta rivelando in realtà dispensatrice di disinformazione, disorientamento ed ignoranza. È in un tale contesto che, da qualche tempo, ha fatto irruzione l’intelligenza artificiale generativa prospettando per i cantori del mondo sin qua descritto magnifiche sorti e progressive e, per chi guarda a tutto ciò con occhio critico, un panorama decisamente inquietante, ma che può e deve essere cambiato.

]]>
György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana https://www.carmillaonline.com/2025/02/02/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-4-il-partito-e-la-dialettica-marxiana/ Sun, 02 Feb 2025 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85799 di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività. Da una parte la scienza marxiana dall’altra lo scientismo positivista. Per Bernstein la funzione del partito, in piena coerenza con il suo evoluzionismo determinista e positivista, non può che limitarsi al ruolo dell’accompagnatore. In un percorso storicamente già tracciato, il compito del partito non può che essere quello del gestore di quanto già esplicito dentro la realtà. Il partito, quindi, non deve esercitare alcun surplus politico, farlo vorrebbe dire avere la pretesa di forzare il cammino storico e anteporre il treno della soggettività all’oggettività della storia. Da questo, e in fondo con piena coerenza, l’accusa a Lenin di blanquismo e giacobinismo1.

Accuse che, pur se apparentemente con segno diverso, ritroveremo nella critica luxemburghiana e, in maniera ancora più marcata, da parte di tutto quel filone comunemente noto come consiliare o comunista di sinistra2. Certo, tanto Luxemburg quanto i comunisti di sinistra non negano la necessità della rivoluzione e fanno interamente loro l’assioma marxiano: La violenza è l’ostetrica della storia, ma, proprio in virtù di ciò, considerano il partito di Lenin inutile e persino dannoso. Centrale in tutto ciò è la classe la quale, nella sua evoluzione/trasformazione spontanea, governa autonomamente il processo storico–rivoluzionario. Se per i riformisti l’evoluzione storica conduce oggettivamente, e potremmo aggiungere spontaneamente, al socialismo per Luxemburg e comunisti di sinistra la classe, attraverso una sua maturazione, arriva spontaneamente e unitariamente, il che non è poi così concettualmente distante dall’evoluzionismo riformista, alla rivoluzione e, a quel punto, la funzione del partito diventa inutile, almeno sotto il profilo della direzione politica poiché la classe si dirigerà da sola. Non solo. Questo processo sarà talmente diffuso e di massa, ovvero i livelli di coscienza di classe saranno così generalizzati e sostanzialmente uniformi, che l’esercizio della forza, ovvero la dittatura rivoluzionaria e il terrore rosso organizzati intorno al partito, saranno un fatto obiettivamente controrivoluzionario e qui non vi sono divergenze politiche ma presupposti filosofici diversi. Il problema e le differenze stanno a monte poiché diversi, distanti e incommensurabili sono i presupposti che stanno alla base della teoria leniniana e quelli che fanno da sfondo a tutti i suoi critici. In tutto ciò la diversa articolazione di una linea politica non è frutto di alcuna contingenza temporanea che, in qualunque momento, potrebbe portare a ritrovate unità, bensì la diversità incommensurabile propria di punti di vista non conciliabili. Il modo in cui, tanto da destra quanto da sinistra, i critici si posizioneranno nei confronti dell’ottobre e del coevo terrore rosso3. mostreranno come non la forza delle idee ma la materialità delle cose siano all’origine della suddivisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia.

La linea di demarcazione è quanto mai rigida: da una parte il meccanicismo e l’oggettivismo di riformisti e comunisti di sinistra, dall’altro la dialettica storica marxiana. Da questa, in fondo, occorre sempre partire. La solitudine in cui Lenin il più delle volte si ritrova sarà, come vedremo a proposito della guerra imperialista, pressoché assoluta e racconta qualcosa di non secondario: la sua è la solitudine del punto di vista proletario dentro un mondo egemonizzato da tutti i punti di vista delle diverse sfaccettature del mondo borghese: è la solitudine della filosofia della prassi in lotta mortale con tutta la filosofia.

Se l’importanza di Lenin, come i suoi adulatori e critici hanno continuamente provato a evidenziare, si limitasse alla sfera politica, a distanza di anni non saremmo ancora qui a ragionare su di lui ma ciò che vale per Marx, vale per Lenin. Se Marx fosse stato un semplice economista, uno storico di valore o un politico particolarmente arguto ma non avesse segnato il mondo con una filosofia in grado di indicare per intero e per sempre il tempo storico, nessuno, se non per fini puramente dottrinali ed eruditi, prenderebbe in continuazione le sue opere tra le mani. Se ciò accade è perché questo pensiero, che non è mai un pensiero individuale ma sempre storico, ha offerto strumenti o meglio ancora, un metodo la cui attualità non decade. Paradossalmente, ma forse solo per chi lo approccia in maniera superficiale e non ne coglie così il portato complessivo, la battaglia di Lenin per il partito è quanto di meno organizzativo e pratico e quanto di più teorico e filosofico, vi sia.

La polemica di Lenin con tutto il movimento socialdemocratico e operaio dell’epoca non fa altro che reiterare le radicali divergenze di Marx ed Engels con i socialisti a loro coevi e la loro polemica verso questi fu, in apparenza, non solo puntigliosa ma persino ossessiva così come, e questo ancor più indicativo, la polemica con tutto quel mondo progressista fuoriuscito dal movimento hegeliano occupò non poco del loro tempo4. Ma quello che, a uno sguardo distratto, poteva apparire un gusto al limite del maniacale per la schermaglia intellettuale, celava una battaglia di ben altro tenore e spessore. In gioco vi era la messa a punto di uno strumento teorico–filosofico che doveva supportare tutto un moto storico il cui senso si cominciava appena a cogliere. In quel contesto dovevano essere messe a punto quelle armi della critica senza le quali la critica con le armi è destinata a soccombere. Se osservata sotto questa luce, allora, tutta la battaglia di Lenin per il partito assume una veste che si emancipa velocemente dagli orizzonti puramente organizzativi poiché, attraverso il partito, si tratta di mettere in relazione le armi della critica con la critica con le armi e pertanto porre l’accento sulle armi della critica diventa persino ovvio. Questa la distanza incommensurabile tra Lenin e tutti gli altri. La partita è tra la dialettica marxiana e la sua negazione, non su quanta importanza debba avere il Comitato Centrale. Chiuso questo prolungato ma doveroso inciso, torniamo a osservare il dibattito intorno al partito.

Per gli anti leniniani si potrebbe dire che il partito serve nella fase prerivoluzionaria come fattore illuminante, ma che decade nel momento in cui la classe approda alla rivoluzione. A caratterizzare entrambe queste due ipotesi è l’evoluzione oggettiva e spontanea in cui il passaggio storico viene a darsi. Insieme a ciò, e questo molto di più tra i cultori della spontaneità rivoluzionaria che tra gli esegeti del gradualismo riformista, vi è un’idea monolitica e sostanzialmente idealista della classe, questa, infatti, in seguito a una condizione storica determinata, approda a una coscienza di classe rivoluzionaria in blocco e, in virtù di ciò, sarebbe in grado di portare a termine il processo rivoluzionario autonomamente senza dover ricorrere a una qualche forma di direzione che non sia la direzione della classe stessa. In questo modo, palesemente, viene fatto rientrare dalla finestra quanto era stato cacciato dalla porta. A diventare essenziale, in pieno stile menscevico, diventa il livello medio della coscienza di classe poiché, accettando tale ottica, solo questa condizione mediana è in grado di unire la classe. A non essere compreso è quanto, all’interno delle dinamiche del conflitto di classe, a essere determinanti siano comunque e sempre i settori avanzati della classe e non la sua media statistica.

Da sempre, in ogni situazione di conflitto, è solo e unicamente una minoranza significativa a prendere l’iniziativa e a trascinare le masse medie. Le rivoluzioni sono sempre opera di una minoranza di massa ma una minoranza in grado di cogliere l’occasione che un determinato contesto offre5. Di più: l’azione di questa ha sempre i tratti di un cominciamento e non quelli di un millimetrico progetto studiato a tavolino. “Si comincia… poi si vede!” Appunto, ma ciò che in questa concezione viene soprattutto elusa è la funzione cosciente del partito la quale, è tale, proprio perché poggia sulla triade marxiana prassi/teoria/prassi. Questo, a conti fatti, sembra essere il vero nocciolo della questione e non si tratta certo di cosa da poco. Solo comprendendo ciò, e assumendolo completamente come mostra Lukács, diventa possibile andare al fondo della teoria leniniana del partito. Lenin sicuramente, come si è visto, non nega che la strategia sia sempre appannaggio della classe mentre ciò che spetta al partito è la dimensione propria della tattica. Volendo si potrebbe risolvere la triade prassi/teoria/prassi in strategia/tattica/strategia e, con ciò, forse le cose diventano più chiare. Dalla prassi che è ciò che le masse esprimono in potenza, attraverso alcune pratiche, ed è quindi riconducibile alla messa in atto di una prospettiva strategica, la teoria, ovvero il partito in quanto elemento cosciente, ricava una tattica la quale viene rimessa nella prassi quindi dentro la strategia della classe che a sua volta rimette in campo una prassi. Ciò che gli spontaneisti non colgono è come questo passaggio dalla prassi alla prassi non può darsi in maniera lineare ed evoluzionista ma necessita di un intermezzo in grado di rendere esplicito e organizzato ciò che la strategia ha posto, ma solo in potenza, all’ordine del giorno. Il partito è l’anello di congiunzione permanente che consente alla prassi di compiere un salto qualitativo.

Quando il partito rimette nella prassi ciò che ha appreso dalle masse lo fa avendo trasformato quella potenzialità politica in tattica insurrezionale ed è questo passaggio politico che restituisce alla classe. In questo modo, e solo in questo, il partito assolve la sua funzione direttiva; ma non solo: centrale, nel ruolo e nella funzione che il partito deve assolvere, è la capacità di leggere, dentro i fatti prodotti dalla classe, la tendenza. Esattamente qui si pone la netta e rigida contrapposizione tra la teoria leniniana del partito e il codismo6 che, pur se in maniera diversa, ne accomuna i critici. Proprio perché la classe non è un tutto omogeneo e i suoi comportamenti assolutamente non lineari e fautori di un unico livello di scontro, occorre saper comprendere, interpretare e visualizzare entro quale tendenza questi si pongono. Si tratta di applicare la dialettica marxiana dentro il conflitto di classe e farlo tenendo sempre a mente che, come ricorda Marx: “É dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia”. Ciò significa che, in relazione al conflitto di classe, la tendenza va colta a partire dal punto più alto della conflittualità. Quello e solo quello indica dove si colloca la strategia della classe.


  1. Queste accuse furono rivolte a Lenin da gran parte della socialdemocrazia del tempo. Lo stesso testo Che fare? non risultò immune da tali critiche.  

  2. Le migliori esposizioni teoriche di questa opposizione teorica all’impostazione leniniana rimangono, K. Korsch, Marxismo e filosofia, Edizioni Pgreco, Milano 2012, A. Pannekoek, Lenin filosofo, Edizioni Pgreco, Milano 2016. Per una buona e documentata ricostruzione storica di questa tendenza si veda, E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente. Per una storia del Kapd, Edizioni Dedalo, Bari 1974.  

  3. Sull’esercizio del Terrore rosso come risposta ai suoi critici di destra e di sinistra rimane insuperabile, L. Trockij, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964.  

  4. K., Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Al proposito il modo in cui prese forma la Rivoluzione francese è quanto mai esemplificativo. L’attacco alla Bastiglia, l’evento che diede il la a una delle più grandi rotture storiche, fu opera di circa un migliaio di persone. Cfr., A. Mathiez, G. Lefebrve, La rivoluzione francese, Vol. I, Einaudi, Torino 1997.  

  6. Sul codismo si vedano le argomentazioni di G. Lukács in, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, cit.  

]]>
Visum et repertum 1 https://www.carmillaonline.com/2025/02/01/visum-et-repertum-1/ Sat, 01 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86624 di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN You cannot love.

ORLOK I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi [...]]]> di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN
You cannot love.

ORLOK
I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi per esempio attacca a muzzo il capolavoro di Herzog) esse pure in genere fotografano aspetti interessanti e meritevoli almeno di riflessione.

Il problema maggiore può emergere a fronte del continuo ritorno – in sé sensato e anzi inevitabile – della comparazione con i precedenti omonimi di Murnau e di Herzog e con il Dracula di Coppola (ma vorrei citare anche Shadow of the Vampire di E. Elias Merhige, 2000, film trattato spesso malissimo dalla critica). Sensato e inevitabile, perché si tratta di riferimenti lucidamente considerati da Eggers. Il problema sta però nel comparare senza distinguo un eccellente prodotto di genere (di un elegante specialista dell’horror) come questo, con opere d’arte – due nate con l’occhio al mainstream, la terza come scampagnata d’occasione (per molti critici il Dracula non fa parte della produzione “seria” di Coppola) – di registi che nel resto della produzione si sono occupati di tutt’altro. E i cui nomi tanto eminenti hanno attratto sulle loro letture vampiresche monumenta di riflessioni critiche sofisticate, una lunghissima storia interpretativa e una pluridecennale mitopoiesi nell’ambito dell’immaginario collettivo. Chiaro che il paragone resti inevitabilmente sbilanciato, e la sensazione di tedio lamentata da alcuni spettatori anche eccellenti al film di Eggers fa i conti con la scommessa, rischiosa in partenza ma legata a istanze personalissime (e dunque da difendersi), di riprendere una trama più o meno arcinota.

Il tentativo di parlare del film consisterà a questo punto nel cercare di evitare per quanto possibile il già detto, e provare (sulla base delle letture a monte ricche e varie di Eggers) a individuare altri percorsi: non alternativi, beninteso, ma di arricchimento del quadro d’analisi.

L’anno della storia è il 1838: un anno liminare, prescelto già da Murnau ed Herzog, che guarda insieme al primo ottocento delle visioni tedesche di Hoffmann (1776-1822) e di Caspar David Friedrich (1774-1840) ma già idealmente all’età vittoriana (è quello di incoronazione della regina Vittoria). Fin dall’inizio ci rendiamo conto che la povera Ellen (Lily-Rose Depp) è un elemento di alterità e disturbo nella Wisburg (Wisborg in Murnau) città degli affari: i suoi incubi, gli tsunami sciamanici della sua interiorità, il suo bisogno di cura – forse più che di cure –, emergeranno come potenziale ostacolo alla carriera del giovane marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult) e come elemento perturbante a casa degli amici Harding. Ellen è troppo sensibile e spezzata per la borsa d’interessi di una città commerciale che punta alla roba, alla reificazione economicistica e all’efficacia sociale (persino più che il profilo del faustiano Knock di Simon McBurney, emblematico è qui quello di Friedrich Harding, amico di Thomas interpretato da Aaron Taylor-Johnson): una città che sembra richiamare la Corinto descritta da John Keats in Lamia (1819, pubbl. 1820), altro dramma vampiresco di inquietudini femminili e violenze interpretative. Impacchettare Ellen con tutte le brutalità di certe cure ottocentesche all’isteria è insomma una risposta che va oltre le soluzioni della medicina d’epoca, guarda all’urgenza di contenere la scomodità dell’outsider e insomma di “risolvere” pragmaticamente un problema. Al punto che la morte di Ellen verrà accolta sì con strazio ma insieme con rassegnazione persino dall’innamorato giovane marito: non è lui ad aver “ceduto” la compagna al Conte, come lei a un tratto gli rinfaccia – la firma di Thomas sull’atto in una lingua che non comprende è frutto di un inganno del vampiro – ma il giovane appare travolto dagli incubi di Ellen, che nessuno riesce a supportare/sopportare.

I nomi dicono qualcosa: se in Herzog l’eroina verrà chiamata Lucy (la vittima del romanzo, per l’inversione già nota a teatro con la versione teatrale Balderston e poi nel Dracula 1931 e seguiti, che vede in pratica invertire i ruoli di Mina e Lucy) la conservazione del nome Ellen di Murnau – tranne che nella versione della pellicola che le cambia nome in Nina – richiama il nome dell’eroina mitica che pone in pericolo l’intera città commerciale Wisburg/Troia per amore. Del resto in Eggers la venuta del mostro è causata non tanto da Thomas con il tema del fatale ritratto di lei, ma dalla stessa Ellen in grazia di un antico patto con un’entità umbratile del proprio profondo.

 

Come to me. Come to me: A guardian angel, a spirit of comfort – spirit of any celestial sphere – anything – hear my call.

 

In questa versione, persino più che nelle altre, il patto/contratto mostra tutta la sua diffusiva fatalità. Ciò in fondo spinge tutti i personaggi ad accettare con un relativo sollievo il sacrificio di Hellen: non solo Hutter e il medico Wilhelm Sievers (un bravissimo Ralph Ineson) ma persino il paracelsiano professor Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe, già non-morto in Shadow of the Vampire) che pure ripudia i trattamenti coercitivi della medicina della città e con la ragazza solidarizza – non foss’altro per il fatto di essere un altro outsider. Come commenta, ascoltando le intenzioni di lei,

 

In heathen times you might have been a great priestess of Isis. Yet, in this
strange and modern world your purpose is of greater worth.

 

In un’epoca antica sarebbe stata una magnifica sacerdotessa di Iside, la dea che rimette insieme i pezzi dell’assassinato Osiride. A sua volta Ellen dovrà fare i conti con i pezzi di un altro frequentatore d’oltretomba dal corpo devastato, il putrescente Orlok…

Nei commenti web si è enfatizzata la dimensione erotica e sessuale nel film, molto più esplicita che in Murnau ed Herzog, come se il sesso fosse una chiave banalizzante o un tributo modaiolo: ma il tema va correttamente impostato. Per Ellen, Orlok non è soltanto un erogatore di sesso vivace, una risposta fallica freudiana: fin dall’inizio la ragazza troppo sola ha evocato qualcuno (come Laura in Le Fanu fa con Carmilla) che rispondesse al suo bisogno d’amore e di identità sessuale, al suo desiderio molto più intenso, selvaggio ed estatico di quanto il perbenino Hutter, privo di ombre ma forse anche di passione, riesca da solo a garantire. Non a caso, in un momento in cui presenta stigmi di possessione, Ellen gli rinfaccia “Non potresti mai soddisfarmi come ha fatto lui”.

È questo che Orlok ha fiutato, una specie di grido interiore di chi non vuole reprimere o nascondere i propri desideri sessuali di definizione identitaria e legati a bisogni profondi, nonostante le istanze di vergogna e di punizione di un certo contesto sociale: Eggers ha bene in mente la critica letteraria anni Ottanta sulle eroine create da autori maschi vittoriani che vengono punite e uccise per questo, ma insieme – possiamo oggi aggiungere – arrivano nella loro oscurità a comprendere profondità sconosciute. Perché quel che Ellen cerca non è banalmente sesso, ma amore realizzante, esistenzialmente ricco e pieno fino a scuotere il corpo: peccato che a fronte di Thomas che offre solo tenerezza – e lei dovrà estorcergli una performance di maggiore vivacità, per essere anche solo vagamente competitivo con quelle dell’incursore sovrannaturale – il vampiro, che si definisce “un appetito. Nulla di più” mostrerà voracità sessuale e pretese manipolatorie da incel nei confronti di Ellen (“incantatrice […] Tu sei la mia afflizione”) ma ovviamente non l’amore di cui ha bisogno lei. Che deciderà in proprio del suo corpo, fuori dal controllo di marito e medico curante (e con la solidarietà dell’illuminato Von Franz): si lascerà violare da Orlok e ne morirà, con qualche soddisfazione fisica e riuscendo a salvare la città – sia pure senza aver ottenuto ciò che nel profondo cercava, cioè semplicemente amore. Insomma una storia d’eros frustrato, senza neppure la tragedia romantica di Mina che nel film di Coppola è almeno vedova cosciente di un amore speciale da un’altra vita. A Ellen neanche ciò è concesso, e qui sta forse la sua vera tragedia – e il fallimento di una società virile di affari & predazione.

D’altronde quello che Eggers presenta non è il vampiro della letteratura romantica a cui Coppola guarda, ma è molto più simile ai suoi fratelli folklorici (che per inciso, come qui, mordono il petto e mirano al respiro-vita): una figura sfuggente, che apre da un lato all’incubus violentatore, dall’altro al demone possessore. Per dire, come le isteriche di Charcot e della Salpêtrière, ma anche come le possedute di secoli d’esorcismi, eccola inarcare il corpo, roteare gli occhi all’indietro, contorcersi e assumere pose impossibili… e non perché infettata da un fantomatico morbo vampiresco, ma per la reazione esplosiva tra un bisogno personale profondo e uno stalking feroce che tenta, preme e ossessiona. Il regista racconta di essersi voluto smarcare dai tropi filmici sul tema, cercando nelle fonti e meravigliandosi di trovare vampiri che “Non stanno nemmeno bevendo sangue, stanno solo strangolando le persone, o soffocando le persone, o fottendole a morte” (Antonia Blyth, Nosferatu: Writer-Director Robert Eggers, Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult & Cast Reveal Their Vampire Dream, “Deadline”, 2 dicembre 2024).

 

I do not believe. I know. I have seen things in this world that would have made Isaac Newton crawl back into his mother’s womb. We have not become so much enlightened as we have been blinded by the gaseous light of science. I have wrestled with the Devil as Jacob wrestled the angel in Peniel and I tell you, if we are to tame darkness,we must first face that it exists. Meine Herren, we are here encountering the un-dead plague carrier… the Vampyr… Nosferatu!

 

Non siamo qui nelle dotte speculazioni del professor Van Helsing di Stoker, che coordina, riordina e armonizza intere biblioteche di creature vampiresche di ogni tempo e luogo in un canone sul vampiro poi ulteriormente irrigidito dalle produzioni pop: e il dotto Von Franz, più simile in questo al ben più inefficace Bulwer di Murnau, deve ammettere di sapere ben poco sulla creatura piombata in città. Una creatura che flirta con le oscurità dell’inconscio, dove i confini valgono quel che valgono: ed Ellen ha lanciato una chiamata in quell’abisso senza sapere cosa ne sarebbe emerso.

Certo, il volto di Orlok non è quello da Urlo di Munch delle prima versione (1893 – l’anno in cui potrebbe ambientarsi il Dracula di Stoker), e richiama piuttosto Vlad III l’Impalatore; mentre accantonata la polverosa redingote stile Biedermeier impostagli da Murnau, il vampiro appare qui vestito dalla costumista Linda Muir con richiami all’abbigliamento dell’esercito transilvano 1560-1650. Interessante è poi la dimensione linguistica del film, dove il conte parla una forma ricostruita della lingua dacia, in mezzo a conterranei che si esprimono (in modo corretto, e senza sbavature americane) in rumeno e romanì. Ma la definizione della creatura resta a lungo sfuggente, e solo nel raggelante finale il corpo cereo prende definizione.

Il vampiro si collega comunque qui alla tradizione dei Solomonari, gli stregoni cavalcadraghi della Solomonărie o Şolomanţă, la “scuola di Salomone” in Transilvania germanizzata da Stoker in Scolomanza (Scholomance): come viene sintetizzato dalle monache che soccorrono Thomas fuggito dal castello,

 

A black enchanter he [Orlok] was in life. Şolomanari. The Devil preserved his soul that his corpse may walk again in blaspheme.

 

E anche il suo castello conosce le sbavature e le incertezze dei sogni.

Qualcosa merita di dire sul professore svizzero Albin Eberhart Von Franz, metafisico e studioso dell’occulto: dove il primo nome richiama Albin Grau (1884-1971), produttore, scenografo e progettista di produzione del film di Murnau, nonché occultista e membro della Fraternitas Saturni, mentre il cognome richiama quello della brillante psicoterapeuta Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Jung studiosa di strutture archetipiche del mito, della fiaba e di testi alchemici. In merito trovo su FB un commento interessante di una spettatrice intelligente, Apollonie Sabatier, che pur avendo amato molto questo film ravvisa un limite. Con il suo permesso, riproduco uno stralcio della sua riflessione (scritta ovviamente con il linguaggio dei social, non era un saggio – si può condividere o meno nello specifico, ma resta una provocazione acuta su cui meditare).

 

A distanza di due settimane ho identificato con soggettiva certezza ciò che non mi è piaciuto del Nosferatu di Eggers. La cosa che ho sempre adorato del genere horror e del racconto gotico è la presenza di simboli capaci di parlare di cose scomode per la mente umana. […] Non a caso il personaggio di Von Franz (cognome di una delle più grandi allieve e collaboratrici di Jung), a mio parere, è palesemente Jung. Lo psicoanalista che svela i significati. Il film riprende letteralmente sue citazioni, come: “Io non credo, io so”. Il ruolo del personaggio è quello di spiegare agli spaventati borghesi cosa sia il male e la passione, come interpretarli e sconfiggerli. Da fan di Jung avrei potuto esserne felice. Invece il personaggio mi ha convinto poco. Mi è sembrato che il suo ruolo fosse quello di rendere noto un simbolo il cui potere catartico richiede proprio che sia lo spettatore a scoprire la dinamica dentro il suo inconscio. Questa è per me materia da saggista, non da narratore. Mi sento sempre idiota quando uno sceneggiatore mi spiega le cose, e a me non piace essere trattata da idiota. Tra una figata e l’altra in questo film mi sono spesso ritrovata a pensare: “ma perché me lo dici?”.

Eggers, lascia che il perbenista borghese dentro di noi venga divorato dal vampiro della Transilvania, non toglierci da quella ambiguità che dovremmo risolverci da soli.

 

Qualcosa che beninteso non inficia la valutazione su un’alta qualità della prova – del resto sottolineata da Sabatier nel prosieguo della riflessione – e sulla forza anche visiva e l’estrema godibilità del film. Con buona pace di critici troppo severi, un’opera di questo tipo evidenzia tutta la ricchezza e le fertili potenzialità del retelling – un narrare vampiro che ci accompagna in fondo fin dai racconti nelle grotte della preistoria.

]]>
Quell’anarchico di Kafka https://www.carmillaonline.com/2025/01/31/quellanarchico-di-kafka/ Fri, 31 Jan 2025 22:50:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86739 di Francisco Soriano

(Le catene dell’Umanità sono di carta protocollo)

Kafka sognatore ribelle[1] è un libro di Michael Löwy, scrittore ebreo di origini viennesi e studioso della cultura ebraica laica. Figlio di genitori sfuggiti al genocidio nazista, è stato professore presso le università di Tel Aviv e Manchester, oltre che direttore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociale di Parigi. La grande idea di fondo del suo saggio consiste nell’aver individuato nel concetto di potere e autorità il filo rosso che unisce indissolubilmente quasi tutti gli scritti di Franz Kafka. Löwy ha il grande merito di [...]]]> di Francisco Soriano

(Le catene dell’Umanità sono di carta protocollo)

Kafka sognatore ribelle[1] è un libro di Michael Löwy, scrittore ebreo di origini viennesi e studioso della cultura ebraica laica. Figlio di genitori sfuggiti al genocidio nazista, è stato professore presso le università di Tel Aviv e Manchester, oltre che direttore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociale di Parigi. La grande idea di fondo del suo saggio consiste nell’aver individuato nel concetto di potere e autorità il filo rosso che unisce indissolubilmente quasi tutti gli scritti di Franz Kafka. Löwy ha il grande merito di non cadere mai in banali ideologismi, sottolineando invece quanto Kafka sia stato un attento antagonista di ogni forma di potere inquadrato nella sua deteriore carica coercitiva e oppressiva. Come segnalato da Elias Canetti, che a suo tempo aveva già rivelato un aspetto determinante e ineludibile nell’opera di questo insigne scrittore, «Franz Kafka è il maggior esperto del potere»[2].

Giorgio Fontana nella sua introduzione al volume di Löwy ci avverte di quanto sia necessario sfuggire a una quantità di preconcetti quando si leggono le opere di Kafka: fra di essi, in particolare, «l’idea che si possa estrarre dai suoi romanzi e racconti un messaggio di ordine religioso, morale o politico»[3]. Dunque la questione più interessante, da un certo punto di vista, è la sottile ricerca di Franz Kafka sul tema del potere, dell’autorità e della sua endemica (e talvolta insensata) violenza. Löwy ci avverte nell’introduzione al saggio che è «arrivato il momento di osservare la sua opera con uno sguardo diverso» e, finalmente, segnalare la sua «affascinante forza ribelle»[4]. L’autore viennese cita come suo predecessore, nel farlo, Walter Benjamin, che nel suo celebre saggio su Kafka avvertiva infatti i lettori che «all’interno dei suoi scritti si deve avanzare a tastoni, con prudenza, con circospezione, con diffidenza»[5]. Lo stesso autore segnalava che ci sono due modi per fraintendere Kafka e incorrere facilmente nell’errore: l’approccio psicoanalitico e quello teologico. La dimensione che più ossessionava Kafka era, infatti, quella letteraria, ed era «la sua risposta a un mondo decaduto»[6].

Löwy si occupa molto più dei suoi predecessori dell’aspetto socio-politico dei testi di Kafka: dall’insofferenza contro il padre alla religione della libertà tratta dai testi di ispirazione ebraico-eterodossa, fino alla protesta «libertaria» contro il potere e le strutture della burocrazia che lo inficiano e lo rendono soffocante in qualsivoglia sistema politico. Per Löwy, Kafka è, in questa ottica, soprattutto uno scrittore antiautoritario. Sempre nella prefazione di Giovanni Fontana viene esplicitato chiaramente quanto il regime punitivo rappresentato da Kafka nei suoi scritti appaia spietato e arbitrario. La violenza che si determina spesso non ci consente di verificare i veri motivi che giustificano l’intolleranza verso ogni forma di antagonismo e insofferenza, inoltre la manifestazione del potere avviene in modalità labirintiche nonostante venga apparentemente espletato in norme giuridiche «scritte». Fontana non solo si occupa delle «profondità» della scrittura kafkiana, ma è stato anche un attento esegeta dell’opera del grande scrittore persiano Sàdeq Hedàyat, non a caso ricordato con l’appellativo del «Kafka d’Oriente». Lo scrittore persiano viene citato nel testo e ricordato per aver definito in modo originale l’immagine e il ruolo della legge: «La legge è come un gatto in agguato, a caccia delle vite che passano inosservate, e all’improvviso attacca, e non si capiscono mai le sue mosse»[7]. Va sottolineato che un altro dei falsi preconcetti della critica è stato sempre quello di ricercare nella biografia di Kafka una coincidenza stretta fra opera e vita: in generale un’opera d’arte rimane una entità complessa e indipendente. Lo stesso Löwy, con prudenza, evidenzia le documentate simpatie per il socialismo libertario di Kafka, che tuttavia «nel suo caso si declinò in termini essenzialmente emotivi ed etici: un orientamento più che una posizione politica ben definita»[8]. Non a caso uno dei punti focali dell’opera di Kafka è stabilire una volta per tutte l’idea che la letteratura non viene ridotta meccanicamente a ideologia e che, invece, l’afflato per la libertà e la giustizia sociale trovano uno spazio anche e soprattutto nella stessa opera letteraria. Si può pertanto cogliere in Kafka la sua natura sovversiva e libertaria solo se alla base vi è una seria esegesi dei suoi testi. Ancora una citazione di Benjamin, da un articolo sul Surrealismo del 1929, ci fa meglio comprendere l’importanza dell’opera di Kafka letta in chiave antiautoritaria: «Dai tempi di Bakunin, l’Europa manca di un’idea radicale di libertà. I surrealisti ce l’hanno»[9].

È possibile parlare di un Kafka «politico»? Sia per la complessità epistemologica dei suoi testi, sia perché lo scrittore fu sempre distante da partiti o gruppi politici ben definiti, sia per la non documentata partecipazione a elezioni e per la mancanza di dichiarazioni ufficiali nei confronti di determinate opzioni ideologiche, sarebbe riduttivo crederlo. Löwy ben individua l’area entro cui muoversi, quella della critica, citando proprio una delle metafore più eloquenti dello scrittore per esprimere la sua idea di potere: «Le catene dell’umanità torturata sono di carta protocollo»[10]. Nello stesso tempo non sorprenderà l’accusa mossa nei confronti di Kafka da quanti, come Gyorgy Lukacs, Gunter Anders e tutti coloro i quali pensavano a una «letteratura militante», vedevano in lui un pessimista talmente radicale da infondere rassegnazione e una certa idea di fatalismo. Nulla di più errato, anche in questo caso, se si legge una lettera diretta all’amico Oscar Pollak del 27 gennaio 1904, dove Kafka segnala a chiare lettere la sua idea di letteratura: «un libro non presenta alcun interesse, – scriveva, – se non è un pugno in faccia che ci risveglia […], una scure che spezza il mare di ghiaccio dentro di noi»[11].

Che Kafka non abbia sviluppato un’impalcatura ideologica o politica è cosa ben chiara: infatti, come afferma lucidamente Löwy in riferimento a questa ipotesi, «il mondo simbolico della letteratura non è riducibile a quello discorsivo delle ideologie»[12]. Inoltre l’opera letteraria non è un sistema concettuale astratto, ma creazione di un «universo immaginario concreto», fatto di personaggi e di cose[13]. Esistono testimonianze come quella di Hugo Bergman, amico d’infanzia di Kafka, il quale racconta che l’amico scrittore portava un nastrino rosso all’occhiello della giacca. Per Bergman, addirittura, il socialismo di Franz era troppo spinto per il suo altrettanto estremo sionismo. Neanche con il partito comunista Kafka ebbe però rapporti diretti, anche se è documentato che nel 1920 su una rivista letteraria ceca di estrazione comunista fu pubblicato per mano del fondatore di quel partito, Stanislav K. Neumann, il racconto Il Fuochista[14]. In una lettera a Milena, lo scrittore praghese aveva manifestato interesse per la rivoluzione russa, che aveva prodotto una forte «impressione» nel suo corpo, nei suoi nervi, nel suo sangue. Ma questi riferimenti testuali non possono assolutamente ricondurre a un’idea di Kafka attivamente politico in una qualsivoglia formazione partitica comunista o libertaria. Tuttavia la sua visione ideologica e politica non può essere derubricata a dettaglio della sua opera letteraria e, al contrario, più di quanto sostiene lo stesso Löwy, ha determinato dalle fondamenta contenuti ed elementi ideologici interessanti per gli esegeti di oggi. In altre missive rivolte a Milena sull’argomento in merito a un testo di Bertrand Russell sul bolscevismo, Kafka intravedeva lucidamente nel comunismo una sorta di «religione». La rivoluzione aveva infatti un suo carattere internazionalista che avrebbe suscitato all’esterno un pericolo per molti: Kafka profetizzava una reazione che avrebbe provocato un blocco economico contro la Russia, determinando inevitabilmente grandi e terribili guerre di religione che avrebbero flagellato il mondo. Testimonianze di contemporanei dello scrittore parlano delle sue simpatie per i socialisti libertari cechi e anche di sue partecipazioni alle loro iniziative politiche: tra questi Michael Kácha, uno dei fondatori del movimento anarchico ceco, sostiene la presenza di Kafka ai suoi eventi e alle riunioni presso il Klub Mladych, una organizzazione antimilitarista, anticlericale e libertaria[15]. Lo stesso leader degli anarchici cechi lo trovava simpatico pur definendolo «klidas», cioè «taciturno». Un’altra testimonianza appartiene allo scrittore anarchico Michael Mareš, che segnala la partecipazione di Kafka a diverse manifestazioni fra cui quella contro l’esecuzione dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer avvenuta nell’ottobre del 1909, a certe conferenze sull’amore libero, sulla Comune di Parigi, a favore della pace e contro l’esecuzione del militante parigino Liabeuf. Anche Mareš sottolinea il caratteristico silenzio dietro cui si trincerava Kafka e aggiunge nella sua testimonianza che quest’ultimo pur non facendo parte di alcuna formazione anarchica non nascondeva le sue simpatie per il movimento[16]. Secondo Mareš, Kafka avrebbe prediletto tra le sue letture Parole di un ribelle di Kropotkin, nonché i testi del geografo francese Reclus, di Bakunin e Jean Grave[17]. Lo scrittore praghese avrebbe inoltre espresso collera contro i giovani americani per alcune manifestazioni contro l’anarchica Emma Goldman: ciò documenta anche l’attenzione di Kafka per quanto accadeva negli States proprio quando si accingeva a scrivere il suo primo romanzo, America. In un altro documento che riguarda il carteggio fra lo scrittore e Gustav Janouch, pubblicato in una prima edizione nel 1905, si riferisce di uno scambio, avvenuto nel corso degli ultimi anni di vita dello scrittore (dall’inizio del 1920), dove Kafka definisce gli anarchici cechi «persone molto gentili e molto divertenti […] così gentili e amabili che non si può non credere a tutto quello che dicono»[18].

Franz Kafka, opera di Emiliano Alonso

Franz Kafka aveva una visione chiara del capitalismo, una creatura con mille tentacoli e storture: un sistema fortemente gerarchizzato con un solo fine, il dominio, così lontano dalla fede anarchica che combatte da sempre lo spirito autoritario e il verticismo. Löwy cita ancora Janouch nel ricordo di una discussione di quest’ultimo con Kafka su una caricatura di George Groz, quella di uomo grasso seduto su un cumulo di soldi. Per Kafka quella immagine «è insieme sbagliata e giusta. Giusta solo in un senso […]. Il grassone con il cappello a cilindro vive sulle spalle dei poveri che opprime, è giusto. Ma è completamente sbagliato che quel ciccione sia il capitalismo. Egli domina i poveri nel contesto di un dato sistema, ma non è lui il sistema. […] Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell’anima»[19]. Sempre Janouch afferma che, in una conversazione, Kafka avrebbe manifestato le sue perplessità anche nei confronti dei partiti politici e delle istituzioni di tutela degli operai e degli oppressi che si vedono sfilare in manifestazioni di piazza: «ci sono già i segretari, i burocrati, i politici di professione, tutti i sultani moderni ai quali essi stanno preparando la strada… La rivoluzione evapora e resta soltanto il vaso di una nuova burocrazia. Le catene dell’umanità torturata sono di carta di ufficio»[20]. In una seconda versione delle Conversazioni, Janouch cita uno scambio di battute con Kafka, asserendo che lo scrittore praghese avrebbe affermato di aver studiato la vita di Ravachol e di aver approfondito la lettura delle idee dei vari Godwin, Proudhon, Stirner, Bakunin, Kropotkin, Tucker e Tolstoj. Aggiunge poi che egli, oltre ad aver frequentato diversi circoli e raduni, nel 1910 avrebbe partecipato alle sedute degli anarchici cechi a Karolinental, nella trattoria Ai due cannoni, dove appunto si riuniva il già citato gruppo anarchico Club dei Giovani[21]. Tutte le testimonianze, avverte Löwy, è possibile che abbiano subito sovrapposizioni o addirittura siano state oggetto di opinioni personali, ma è necessario ammettere che in definitiva un quadro abbastanza coerente sulla «visione politica» di Kafka risulti ben delineato.

Nonostante la critica di Kafka ai sistemi appaia senza un fine ultimo e definitivo, essa porta nei suoi scritti una rivolta apparentemente semplice ma profondissima e complessa, tanto da suggerire ancor oggi mille rivoli di interpretazione. L’attesa è solo apparente, e nei Diari infatti afferma: «Se sono condannato, sono non solo condannato a morire ma anche condannato a difendermi fino alla morte». Sempre Benjamin aveva capito il perché lo scrittore fosse così popolare: «Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse»[22]. Quella dello scrittore praghese è una scrittura definita della «frantumazione», che tende ad analizzare la tragedia che ci colpisce inesorabilmente e dalla quale dobbiamo difenderci con una «sottilissima architettura della diserzione». La scrittura è totalmente attiva e diviene non solo strumento di ricerca ma contenuto e diaspora dello stesso; è una miriade di atti che non fa altro che logorare l’idea e la fonte delle autorità che costellano la vita degli uomini: quella del padre, dei giudici, dei governanti, dei potenti in generale, assetati di dominio sul prossimo. Nel 1934 è ancora Benjamin a chiarire questa opera di demolizione kafkiana: «Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove»[23]. La verità non esiste: questa amara constatazione apre tuttavia la ricerca dell’indecifrabile, è la consacrazione della scrittura a elemento umano del quale non possiamo fare a meno. Benjamin ben fa capire la ragione dei gesti, degli intrighi, delle connessioni, delle tragedie, dei sussulti, degli accadimenti imponderabili e impossibili da interpretare nella loro pienezza. La scrittura di Kafka ci conduce al pensiero, al ragionamento, al vortice eludendo i canoni consolidati: «Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine»[24].

Secondo l’amico di sempre, Max Brod, Kafka amava il libro Passato e presente di Aleksander Herzen, citato spesso anche nei suoi Diari, nel quale l’autore si chiedeva infatti se «la coscienza razionale e l’indipendenza morale sono compatibili con la vita di uno Stato»[25]. Una domanda chiara in virtù della sfiducia verso il potere che Kafka incarna con tutte le sue risorse di scrittore, seppure dal 1913 il suo interesse sarà rivolto sempre più verso l’ebraismo e, di conseguenza, verso il sionismo. Non abbandonando le sue idee politiche, Kafka si concentrerà sulle esperienze sociali delle collettività rurali fondate in Palestina da pochi pionieri ebrei, i kibbutzim. Janouch afferma a proposito che Kafka avrebbe detto di sognare «di partire per la Palestina come bracciante agricolo o come artigiano»[26]. Affermazione quest’ultima non priva di fondamento, considerando che dall’inizio del Novecento idee umaniste e anarco-comuniste, soprattutto diffuse dalle opere di Kropotkin, affascinavano non poco schiere di giovani, ispirando i pionieri ebrei che addirittura le misero in pratica: fu il sistema dell’autogestione a provarlo e il modello delle comuni ebraiche sorse pian piano in Palestina. Queste ultime furono tipiche per il loro assoluto collettivismo, concretatosi in un ascetico concetto fra i giovani dei kibbutz: «pane, acqua, datteri». Inoltre tanto lavoro sotto il sole cocente fra le sabbie salate di quei luoghi determinò la forza etica delle prime comunità ebraiche. Sorse così la gestione dei kibbutz con lo strumento del «consiglio dei lavoratori» e, soprattutto, con l’assenza totale di qualsiasi proprietà privata. Kafka ammirava i kibbutzim, che si ispiravano anche alle idee di Gustav Landauer e del grande filosofo Martin Buber. Alcune testimonianze riportano l’incontro di Kafka con A.D. Gordon, il dirigente sionista propugnatore della redenzione degli ebrei attraverso il lavoro manuale, nel Congresso del movimento sionista socialista Hapoel Hatzair, a Praga, nel 1920, dove fra i partecipanti figurava proprio Martin Buber. Anche André Breton fu affascinato dal concetto di «comunità operaia non possidente». Prova di questa attenzione risultò nel discorso tenuto nel 1948 al Rassemblement démocratique révolutionnaire, quando Kafka affermò che il progetto era «un esempio da seguire nel campo delle attività intellettuali»[27]. Dunque sono tantissimi i riferimenti che fanno di questo immenso scrittore un antiautoritario per eccellenza, perché il suo ethos libertario si definisce con chiarezza nella radicale critica al volto della non-libertà. La libertà alla quale aspira Kafka è assoluta, estrema, umana, ma esiste nelle sue opere soltanto in negativo, come critica di un mondo che ne è privo. La libertà, scrive Löwy, non è mai in Kafka una dottrina politica, quanto uno stato d’animo, «una sensibilità critica, le cui armi principali sono l’ironia, lo humour, quello humour nero che secondo André Breton è “una rivolta superiore dello spirito”»[28]. Che le interpretazioni metafisiche dei romanzi di Kafka stridono con la realtà, d’altronde, lo aveva sostenuto tra gli altri Theodor Adorno, dicendo polemicamente che «il tono della sua opera è quello dell’estrema sinistra», e che «riducendolo all’eterno umano lo si tradisce subito nel modo più conformista»[29]. Come afferma Löwy, sottolineando che Adorno non parla qui di un messaggio o di una dottrina o di una tesi, ma invece di un «tono», questa dichiarazione ha varie implicazioni: «In primo luogo, ciò significa che la problematica dell’opera [di Kafka] non è metafisica, ma storica: la società (borghese) moderna; poi, che questa società […] è presentata da Kafka in modo radicalmente critico, come “infernale”; infine, che tale critica radicale si colloca nella prospettiva dell’abolizione dell’ordine sociale esistente e della sua sostituzione con un’umanità libera (“redenzione”)»[30].

In definitiva l’opera di Franza Kafka è fortemente intrisa di antagonismo, addirittura di sovversivismo, laddove si percepisce una risposta radicale alla deriva umana e sociale provocata dal potere. Lo scrittore è stato infatti un profondo conoscitore delle logiche e delle trame di questo fantasma, che concretizza la sua perversa natura in dinamiche talvolta incomprensibili, assurde, inconciliabili con la natura dell’uomo. Dall’autorità paterna a quella individuale e sociale, egli ha attraversato i meandri di una logica aberrante e violenta che ha dominato gli uomini portandoli fino alla devastazione delle guerre e dei genocidi di massa. Come sosteneva Gesualdo Bufalino, non è necessario individuare nei testi poetici e narrativi un’esplicita lotta degli uomini al potere perché li si possa definire «civili», non è solo la letteratura che si dice «impegnata» o «militante» a esserlo davvero. La scrittura letteraria ha in seno una forza deflagrante: è già di per sé, per la sua stessa natura, asimmetria alle logiche malsane dell’autorità e quindi, forse, rimedio alla forza autodistruttiva del potere. Nell’antimilitarismo di Kafka, conseguente alla logica più bieca del potere, lo si vede apparire quindi in tutta la sua disumanità: l’inestricabile, l’inspiegabile, il brutale senso pseudo-religioso, l’arcaico istinto di morte e la negazione dell’altro e del suo volto, la disumanizzazione, la tecnologia più moderna e sofisticata di morte. È questa la sua intuizione, la sua profezia, la sua inquietante previsione di uno sviluppo delle strategie di morte connotanti il nostro attuale, assurdo secolo di guerra e distruzione.

 

Note:

[1] Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022.

[2] Elias Canetti, Processi. Su Franz Kafka, Adelphi, Milano 2024, p. 265.

[3] M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 7.

[4] Id., Introduzione, ivi, p. 19.

[5] Walter Benjamin, Franz Kafka, in Poésie et Révolution, Denoël-Maurice, Paris 1971, citato ibid.

[6] Ivi, p. 21.

[7] Sàdeq Hedàyat, Il messaggio di Kafka, a cura di F. Favelli e M. Pistoso, Hestia, Milano 2001, citato da G. Fontana, Prefazione cit., p. 8.

[8] Ivi, p. 10

[9] Citato in M. Löwy, Introduzione cit., p. 22.

[10] Ivi, p. 24.

[11] Ivi, p. 25.

[12] Ivi, p. 31.

[13] Lucien Goldmann, Matérialisme dialectique et histoire de la littérature, in Recherches dialectiques, Gallimard, Paris 1959, citata ibid.

[14] Ivi, p. 32.

[15] Ivi, p. 35.

[16] Ivi, p. 36.

[17] Ibid.

[18] Ivi, p. 38.

[19] Ibid.

[20] Gustav Janouch, Kafka m’a dit, Calmann-Lévy, Paris 1952, citato ivi, pp. 38-39.

[21] Ibid.

[22] Citazione di Walter Benjamin tratta da Kafka, la scrittura della destituzione?, in «K. Revue trans-européenne de philosophie et arts», I (2018), n. 1, p. 8

[23] Walter Benjamin, Franz Kafka. Nel decennale della morte, in Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p. 136.

[24] Ivi, p. 137.

[25] Aleksandr Herzen, My Past and Thoughts. The Memoirs of Alexander Herzen, A. Knopf, New York 1973, citato in M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 51.

[26] Cfr. Felix Weltsch, The Rise and Fall of the Jewish-German Symbiosis: The case of Franz Kafka, in «Leo Baeck Institute Yearbook», I (gennaio 1956), n. 1, p. 275, e Gustav Janouch, Conversations avec Kafka, Maurice Nadeau, Paris 1978, citato ivi, p. 53.

[27] Franz Kafka, Préparatifs de noce à la campagne, Gallimard, Paris 1957, citato in M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 55.

[28] Ivi, p. 56.

[29] Theodor W. Adorno, Prismes, Payout, Paris 1975, citato ivi, p. 57.

[30] Ibid.

]]>
Quale spazio oggi per il fascismo? https://www.carmillaonline.com/2025/01/31/quale-spazio-oggi-per-il-fascismo/ Thu, 30 Jan 2025 23:10:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86699 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen; Fasciocapitalismo; Edizioni Malamente; Urbino 2024; 119 pp. 12€

Se il fascismo esista ancora oppure no è un leitmotiv dei dibattiti accademici e mediatici più ricorrenti. Una discussione annosa che ha finito per non aver capo né coda, preda degli sciacallaggi di commentatori bipartisan. Eppure rimane un tema di importanza cruciale per almeno due motivi: da un lato c’è la crescita esponenziale di formazioni che più o meno apertamente si richiamano al discorso fascista, ormai non di rado giunte in posizione di governo; dall’altro abbiamo l’emersione, potente e periodica, di sentimenti antifascisti che si [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen; Fasciocapitalismo; Edizioni Malamente; Urbino 2024; 119 pp. 12€

Se il fascismo esista ancora oppure no è un leitmotiv dei dibattiti accademici e mediatici più ricorrenti. Una discussione annosa che ha finito per non aver capo né coda, preda degli sciacallaggi di commentatori bipartisan.
Eppure rimane un tema di importanza cruciale per almeno due motivi: da un lato c’è la crescita esponenziale di formazioni che più o meno apertamente si richiamano al discorso fascista, ormai non di rado giunte in posizione di governo; dall’altro abbiamo l’emersione, potente e periodica, di sentimenti antifascisti che si riattivano alle provocazioni più reazionarie.

Il fascismo è, in sostanza, qualcosa che al tramonto del liberalismo riesce a smuovere le acque stagnanti delle (post?)democrazie occidentali. Un moto perpetuo che però agita la superficie senza davvero andare a fondo, a incidere sul flusso degli eventi. È il segno più evidente di un ginepraio di guerre culturali che si sono fatte senso della politica in un frangente in cui la Politica (con la “P” maiuscola) è andata a farsi fottere.

Non è un caso se tra formazioni e personaggi che a primo acchito finiscono sotto l’etichetta di fascisti possiamo trovare delle costanti (xenofobia, misoginia, conservatorismo retrivo e retorica paranoide tra tutti) ma non riusciamo mai darne una definizione coerente e lineare. Anzi, stessi segmenti di discorso li troviamo non di rado in contrapposizione (che in realtà è competizione per il consenso elettorale) e allora emerge l’intramontabile e ormai altrettanto fumoso termine di rossobruno.
Ancor di più è un campo troppo vago quello dell’antifascismo come categoria politica in grado di produrre saldature sociali: è un tema in grado smuovere l’opinione pubblica e di far convergere istanze radicali e giochi di potere liberali, ma con il ricorrente risultato di dare repressione alle prime e ossigeno per restare a galla un giorno in più ai secondi.

Questo perché nel gioco della democrazia liberale l’antifascismo da pratica si è fatto valore morale rientrando negli strumenti discorsivi di una metà della classe dirigente e, in quanto tale, è diventato bersaglio delle crociate culturali della nuova destra impegnata nello smantellamento feroce di ogni tabù che le si ponga come argine. Nel paradossale discorso destrorso l’antifascismo non è una difesa delle libertà e di una parvenza d’egualitarismo, ma un’ipoteca sul diritto d’espressione, il diritto di dire qualsiasi bestialità, di renderla apprezzabile e farne programma politico.
E d’altro canto è proprio una certa spocchia elitaria dei liberali ad aver alimentato una disaffezione non solo dall’antifascismo, ma da un immaginario progressista tout court. Abbandonando ogni velleità di cambiamento per farsi araldi dello status quo, hanno inseguito elettoralmente i competitor di destra sul piano delle politiche con l’illusione di poter mantenere una qualche forma di egemonia culturale slegata da qualsiasi legame sociale. Questa conversione della sinistra in sacerdotessa del liberalismo, incapace di imporre alcuna direzione alternativa, è la prima responsabile della piega involutiva d’Occidente.

Rasmussen ha ragione nel dire che non è possibile interpretare il fascismo se non nella sua osmosi alla democrazia del tardocapitalismo, che l’idea di fascismo come sinonimo di ignoranza è demenziale oltre che classista, che è difficile negare i fili neri della storia quando si parla serenamente in TV di deportazioni e si rendono off-limits pezzi di città a determinate categorie sociali. Né si può negare la continuità tra una dimensione sotterranea dell’estrema destra più militante come laboratorio di pensiero e le agende della destra di governo, sempre più difficile da definire moderata.

Sbaglia però nel pensare che ad esso si possa o debba contrapporre un efficace antifascismo, replicando così lo schema delle guerre culturali da cui vorrebbe smarcarsi.
Se giustamente il fascismo non è una variabile ma un frammento congenito della forma politica del presente allora è l’equazione che bisogna invertire: è questa democrazia formale e vuota di senso, scudo dei peggiori squali, ad essere il problema reale.
L’unica dimensione realmente democratica che l’Occidente abbia mai avuto è stata quella del conflitto tra classi avverse rispettivamente organizzate per farsi valere sulla scena.
L’equilibrio di compromesso che fugava lo spettro delle guerre civili e che abbiamo chiamato stato sociale, fondato sulla costante dialettica del rapporto di forza (e a volerla dir tutta sull’ombra sovietica), poteva essere definito Democrazia; la classe media ipertrofica con il suo accesso al consumo ne è stato il risultato, il segno distintivo e infine l’illusione tradita.

Aime Cesaire, in un brevissimo passaggio del suo “Discorso sul colonialismo”, offre un’intuizione illuminante: l’Occidente non ha condannato il fascismo per il suo orrore intrinseco (anzi, a ben vedere ai suoi esordi esso riscuoteva un discreto successo nelle cancellerie europee) ma per il suo aver portato tra la Civiltà dei bianchi ciò che era riservato alle colonie.
Il mondo del capitale, iniziato con l’esproprio e l’assoggettamento delle popolazioni europee ha fatto il suo salto di qualità andando a violentare e conquistare il resto del globo, a aprire le meraviglie del mercato grazie a corpi neri incatenati, corpi gialli piagati, corpi bianchi indesiderati spediti a forza a migliaia di chilometri da casa per dissodare terreni e crepare nella preparazione di nuovi territori. Per finire ha riportato nel suo ventre le lezioni apprese in giro per il mondo, come strumenti di contenimento e ristrutturazione.
E lì son rimaste anche dopo la loro fine storica e formale, come tutti gli altri elementi di cui il capitalismo si è nutrito e che ha integrato nella sua marcia trionfale.

Tutto il razzismo e la violenza del fascismo storico si sono abbeverati a un secolare fiume di sangue, passando per la truce esperienza della Guerra delle trincee. Quello tra le due guerre è stato un tentativo politico fondato sul primato della Nazione e sulla mobilitazione di identità durissime quali quelle del reducismo. La restaurazione di un ordine mitico fu il contraltare della costruzione di nuove forme di statualità in competizione con l’assalto al cielo del socialismo bolscevico.
Tutto questo manca oggi al cosiddetto fasciocapitalismo, la cui unica promessa è la resurrezione posticcia dell’illusione borghese di un tranquillo e ordinato mondo capitalistico-patriarcale.
Non c’è alcuna mitologia, alcuna patria, non c’è nemmeno una massa da mobilitare: abbiamo leader politici che berciano come televenditori, che vendono paure invece che tappeti e si rivolgono a pubblici di follower il cui livore si consuma nella sezione commenti di una diretta e solo occasionalmente investe le piazze.

La stessa osmosi tra le formazioni estreme e quelle di governo si consuma sul piano di una guerra culturale: l’ideologia del decoro, il razzismo di stato, l’attacco all’aborto e alle politiche d’inclusione non sono che tentativi di pasticciare il volto della realtà a propria immagine, nascondendo l’incapacità politica, nonchè l’impossibilità strategica, di mettere in piedi un autentico progetto forte di Stato nazionalista.
Semplicemente, il sogno tardofascista non è possibile, perché (con forse la sola eccezione degli USA di Trump) non c’è uno Stato che sia in grado di esercitare una reale sovranità fuori da vincoli economici sovranazionali e macroattori privati, né c’è una massa disposta al sacrificio della disciplina patriottica; la classe media vuole consumare in santa pace e fanculo il resto.
Lo stesso contrasto dell’immigrazione, oggi alimentato da scene ignobili di deportazione e catene non fa che rivelarsi una squallida truffa: rendere sadicamente impossibile la vita agli ultimi della scala sociale rende indispensabile poi prepararsi a dover mandare i propri stessi elettori a lavorare i campi per paghe da fame.

Il programma del fascismo tardocapitalista si riduce in sostanza alla gestione, fortemente ideologizzata, di una sacca ridotta del potere statuale.
Ma non vi è traccia in esso della capacità (o della volontà) di determinare un diverso corso delle cose. Non vi è dubbio che sulla scena operino ormai apertamente forze di matrice fascista, e non vi è dubbio che ad esse debba essere contrapposta una pratica di difesa; ma non possiamo assolutizzarne la parabola e interpretare il presente come una forma aggiornata di qualcosa visto già all’opera in altre temperie.
L’integrazione di meccanismi generati dai laboratori fascisti all’interno del funzionamento del Capitalismo (che non è novità dell’ultimo minuto ma percorso pluridecennale) non fa di esso Fascismo. Piuttosto è maggiore la visibilità di questi suoi tratti data l’attuale fase di competizione furiosa per le risorse e il mantenimento dell’egemonia, nell’insorgere di inedite forme di potere legittimate dalla capacità tecnologico-finanziaria piuttosto che dalla volontà popolare, che ci presentano ora il volto nuovo di una realtà nuova e ci impongono la necessità di nomi e parole adatte.
Si, c’è del fascismo tra i dispositivi del tardocapitalismo, ma non sarà l’antifascismo a salvarci. E forse, non è nemmeno questa democrazia che merita di essere salvata.

]]>
La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

]]>
We are not robots – “L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata” https://www.carmillaonline.com/2025/01/28/we-are-not-robots-lunica-tecnologia-che-amiamo-e-quella-dirottata-e-riappropriata/ Tue, 28 Jan 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86465 di Gioacchino Toni

Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00

Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un [...]]]> di Gioacchino Toni

Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00

Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un forte approccio comunitario ed emancipante nei confronti della tecnologia».

È a partire dalla sperimentazione e condivisione mutualistica di competenze e attitudini maturate in tali ambienti che Fant e Milani, e con loro il Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (CIRCE), hanno iniziato a discutere di “pedagogia hacker”.

L’illusione con cui in tanti avevano accolto gli strumenti digitali come liberatori dell’umanità (categoria assai vasta) senza dirsi esplicitamente da quali vincoli (da chi/cosa) ha in molti lasciato il posto al disincanto: «la solitudine dilaga, ci si sente in continua competizione, impotenti, agiti» tanto sul lavoro quanto nei contesti che si vorrebbero extra-lavorativi (distinzione che è sempre più difficile fare nell’epoca del capitalismo digitale che ha saputo estendere a dismisura la produttività quotidiana pagandone una minima parte), mentre nel frattempo si muovono rimproveri trasudanti ipocrisia nei confronti dei più giovani, incapaci di staccarsi dall’universo digitale dello smartphone.

Davide Fant e Carlo Milani, come raccontano in Pedagogia hacker (elèuthera, 2024), a partire dalle esperienze laboratoriali attivate negli ultimi anni, hanno inteso «rispondere all’urgenza di un’educazione sui temi del digitale che ponga al centro le relazioni fra persone e tecnologie» al fine di «sviluppare un metodo che produca spazi liberati, dalla produttività forzata, dall’efficienza necessaria, in cui si incontrano la tecnologia e l’organico, i corpi umani e gli apparecchi elettronici, la politica e il codice sorgente, la poesia e la fantascienza speculativa; in cui si possano assumere le nostre vulnerabilità e alimentare la capacità di immaginare». Si tratta pertanto di una pedagogia volta a individuare e proporre «tecnologie appropriate non solo perché adeguate, ma perché proprie, riappropriate da noi».

L’attitudine hacker – rivolta, oltre ai computer, a «qualsiasi sistema tecnico di interazione, a qualunque apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altro modo» – viene riassunta dagli autori come: approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia; desacralizzazione della tecnica; apprendimento come piacere; apprendimento come frutto della ricerca e della esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali; dimensione sociale del sapere e conoscenza come bene collettivo.

Se, come mostrano le esperienze laboratoriali, per i bambini è più immediato attivare e costruire attitudine hacker, per gli adulti si tratta di riattivare l’arte del fai da te, dell’arrangiarsi, del riciclare e re-inventare attività comuni soffocate dai meccanismi abitudinari dettati dal consumismo e dal produttivismo economico. Si tratta di riscoprire il lato puramente ludico del rapporto con le tecnologie sfuggendo alla sua “messa a profitto” (gamificazione): «ci si fa hacker e si gioca per liberare il gioco, per recuperarne la dimensione visionaria e rivoluzionaria, per riscoprire la sua caratteristica imprescindibile di atto libero, aperto, creatore, caratteristica propria dell’umano come lo definiva già lo storico e filosofo Johan Huizinga alla fine degli anni Trenta».

Gli autori si dicono convinti della possibilità di costruire, insieme, «macchine conviviali, create per alleviare le fatiche e per il piacere di vivere bene insieme, nella meraviglia della continua scoperta del poter fare tecnico; macchine molto diverse dalle macchine industriali, create per l’estensione del dominio, per lo sfruttamento del mondo tramite il dominio sulla materia».

Scrivono Fant e Milani che, alla base di ogni pedagogia emancipante, «sta il porsi domande, chiedersi: Perché? Come funziona? Deve essere per forza così? Un atteggiamento tipico dei bambini (e dei visionari)», oltre che degli hacker.

La ricerca di uno spazio alternativo per le tecnologie, sostengono gli autori, deve ripartire dal corpo. È necessario «arginare la spinta delle troppe macchine al servizio dell’ansia di dominio, impazienti di renderci automi automatizzati e prevedibili». Facendo riferimento anche, ma non solo,  all’intelligenza artificiale, se ci si preoccupa del fatto che le macchine si stanno facendo “troppo umane”, non di meno occorrerebbe guardarsi anche dal fatto che queste contribuiscono a diffondere modelli di interazione e comportamento che appiattiscono gli esseri umani.

Da tutto ciò deriva la necessità di sviluppare un’attitudine hacker capace di spingere «ad assumere una posizione attiva per inventare qualcosa di nuovo fuori dagli schemi, a sperimentare, a rischiare la carta della creatività personale e collettiva». Tutto ciò, sottolineano Fant e Milani, occorre sperimentarlo collettivamente impegnandosi a costruire nuovi ambienti relazionali. Il volume racconta come e cosa è stato sperimentato in questi anni nei laboratori del gruppo CIRCE senza ambire a farsi modello da replicare, nella piena consapevolezza che si possono sperimentare altre modalità anch’esse mosse dalle medesime finalità di liberazione individuale/collettiva.


We are not robots – serie completa

]]>