Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 13 Mar 2025 05:27:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Semiologia di una svolta “epocale” https://www.carmillaonline.com/2025/03/12/linee-di-tendenza-e-svolte-epocali/ Wed, 12 Mar 2025 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87245 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un marinettiano e, ormai, tutt’altro che futuristico «estremo promontorio dei secoli» del mondo che conosciamo, o che credevamo di conoscere, torna utile riandare, con il testo appena pubblicato da Neri Pozza nella collana Colibrì, ad un altro svolto storico importante del secolo passato: quello degli anni Ottanta.

Diego Gabutti, con la sua lingua tagliente e lo sguardo ironico come al solito, ci conduce a rivisitare un momento in cui le illusioni dei due decenni precedenti, o forse quattro considerando tutto il tempo intercorso tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni di cui si parla nel libro, sarebbero finite o, perlomeno, sarebbero state messe seriamente in crisi.

Sia chiaro, ad essere rimesse in discussione non furono soltanto le foscoliane illusioni del cuore, ma tutto l‘insieme di certezze di vario colore e senso politico, economico e culturale, su cui si era retto il mondo dei cosiddetti “Trenta ruggenti” ovvero gli anni intercorsi grosso modo tra il 1945 e il 1975, marcati da un’espansione economica che ebbe nell’Occidente, e in particolare nell’Europa del Mercato Comune, il suo baricentro consumistico e di benessere sociale.

Un ribaltamento delle prospettive che ha permesso in seguito di parlare di una sorta d nuova rivoluzione “conservatrice”, ammesso che una rivoluzione possa mai essere conservatrice, di cui Ronald Reagan, papa Wojtyla e Margaret Thatcher avrebbero costituito, ma soltanto col senno di poi, i deus ex-machina. Ma il cui primum movens fu forse quello di riportare nelle tasche dei “ricchi” ciò che per un illusorio momento era finito nelle tasche dei “poveri”.

Tutto questo secondo l’autore, e proprio in ciò risiede il maggior pregio del libro, non fu pianificato a tavolino, come troppo spesso le letture eccessivamente semplificate della storia e della politica vogliono suggerire, ma fu invece la conseguenza di una miriade di fatti di cui, pur non potendo elencarli tutti, l’autore ci racconta, più che spiegare, l’essenza in trentadue capitoli, più un Prologo ed un Epilogo, che vanno dal capodanno del 1980 con l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla caduta del Muro di Berlino. Insomma: Dieci anni che sconvolsero il mondo, come giustamente recita il titolo.

C’erano state, nel giro di soli trent’anni, due guerre devastanti, guerre al di là d’ogni indignazione, perché come ci sono vignette comiche senza parole ci sono anche tragedie mute, o meglio ammutolenti: nubi di gas tossico sulle trincee, città incenerite, pietà l’è morta, il genocidio pianificato degli ebrei e degli zingari e prima ancora degli armeni, campi di lavoro, filo spinato, bombe nucleari, il nazifascismo e il bolscevismo sciamanti in ogni continente come la cavalleria dell’Apocalisse. Sembrava, ed era, la fine del mondo. Nell’ombra delle due guerre mondiali, vinte dai buoni ma non del tutto perdute dai cattivi, prendevano forma la cosiddetta «guerra fredda», che impazzava da un capo all’altro del pianeta, e il suo doppio sociologico: la guerra civile in permanenza che attraversava (e ancora attraversa) le società aperte, e che è la vera eredità del Novecento.

[…] Eppure, inconfutabile, di un’evidenza abbagliante, ecco il miracolo del secondo dopoguerra: rock’n’roll, piena occupazione, anticoncezionali e automobili col sedile ribaltabile che cambiano per sempre la vita sessuale dell’umanità occidentale, televisione, radioline a transistor, lo sbarco sulla Luna, la Beat Generation, Hollywood, un ascensore sociale funzionante a pieno regime, Volare oh-oh, il nascente turismo di massa, Elvis Presley, My Way, i Beatles, Satisfaction, la decolonizzazione, mutui facili da estinguere, il boom edilizio, i cineclub, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville e Ma papà ti manda sola?, le vacanze al mare, sindacati potentissimi, generose (e precoci) pensioni per tutti, libertà di pensiero come nemmeno nei sogni più arditi degl’illuministi, libri economici diffusi in milioni di copie, il west di Sergio Leone, il movimento studentesco, la bestemmia non è più un reato, il femminismo, l’educazione permissiva, Il Padrino, la chirurgia dei trapianti e quella estetica, i vaccini, ogni sorta di miracoloso farmaco salvavita, l’età media che sale ad altezze vertiginose. Mai nella storia universale s’erano viste nazioni così opulente e generazioni così sazie, così istruite, così edoniste, e così politicamente impegnate, così militanti, e soprattutto così forever young, decise a rimanere giovani per sempre, come nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945-46 e i primi Settanta, quando l’Occidente conosce una crescita e una trasformazione senza precedenti. Isole incantate e mari blu fin dove arrivava l’occhio.

[…] il capitalismo, qualunque cosa se ne sdottoreggi in giro, non è regolato da leggi; e non è nemmeno autocosciente, a differenza delle malmostose e iettatorie IA o intelligenze artificiali dei film di fantascienza (e oggi anche degli editoriali chic-choc dei giornali). Come sia capitato il secondo dopoguerra, e perché sia capitato, o dove abbia affondato le sue radici, non lo sa dunque nessuno, tanto meno lo stesso «grande capitale» (così s’ostinano a chiamarlo, duri, i marxisti pomposi e irriducibili) che pure di questa speciale festa è stato il generoso anfitrione. Non lo sa «il sistema», altro nome del babau sociologico che tutti sovrasta, e non lo sanno i chiromanti né gli economisti. Figurarsi se lo sanno gli editorialisti dei giornali, che tanto meno sanno e capiscono tanto più montano in cattedra. Capitato e basta – prima non c’era niente di simile o anche solo di paragonabile ed ecco che d’un tratto l’abbondanza era lì e il mondo si vestiva a festa – questo portento non suscitò sorpresa, ma fu dato per scontato, o meglio per dovuto, come se ci fosse sempre stato e così dovesse restare, eterno e inviolabile come un contratto sottoscritto col sangue nello studio odoroso di zolfo d’un notaio da melò luciferino1.

Eppure, eppure…un giorno o un anno o un decennio,,, all’improvviso…

Non ci fu mai, intendiamoci, una brusca frenata, tanto meno la crisi spaventosa profetizzata da Marx e corifei, come quando la produzione di beni si schianta, le banche falliscono, la gente si tuffa giù dai tetti e le strade si riempiono di senzatetto (tipo Furore di Steinbeck) che dormono all’addiaccio, arrostendo patate e cipolle rubate nei campi al fuoco crepitante dei falò. Niente di tutto questo. Solo che a un certo momento si dovette ammettere che il party dell’abbondanza era finito. Uno schianto, dopotutto, c’era stato.
[…] Morale: a metà dei Settanta, i nodi del boom (anzi dei boom, al plurale) vennero rapidamente, o meglio fulmineamente, al pettine – e la festa abortì. Un attimo prima rock’n’roll, l’attimo dopo ogni band taceva.[…] Nessuno s’aspettava né aveva previsto il saltafosso degli anni Ottanta esattamente come nessuno – venti, trent’anni prima – s’era aspettato o aveva previsto l’incantato Paese dei Balocchi del secondo dopoguerra. Non di meno l’incanto ci fu, e poi svanì2.

Tra tutte le storie che Gabutti ci narra nei capitoli successivi per illustrare, più che cercare di capire, le infinite cause che avrebbero portato al ribaltamento dei valori e delle tasche nel corso degli anni Ottanta, sembra particolarmente significativa la vicenda dell’incontro fatale, dostoevskiano si potrebbe quasi definire, tra una delle icone della cultura pop degli anni Sessanta e Settanta e un giovane sconosciuto e depresso della fine di quel periodo, che avrebbe in qualche modo contribuito a definire l’inizio del nuovo.

La data è fatale: 8 dicembre 1980, il primo anno del nuovo decennio sta per concludersi e, dal capodanno afgano all’elezione di Ronald Reagan, ha già visto succedere some weird things, alcune cose che, qualche tempo prima, sarebbero state considerate “strane” oppure impossibili. Ma lì, in quel momento e sulle scale che scendono dal Dakota Building, dove John Lennon vive con Yoko Ono, il sogno del punk più feroce di far fuori il rock e le rockstar precedenti, si avvera. Con spari, sangue, morto e tutto il resto. Altro che Sid Vicious nell’esilarante e feroce performance di My way messa in scena nel film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julian Temple (uscito anch’esso nel 1980).

Il giovane (tenete a mente questo aggettivo) Rodion Romanovič Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, quando nella realtà si presenta sulla scena per fare la posta al cantautore di Imagine, veste i panni e i malesseri esistenziali di Mark David Chapman, bambino difficilissimo di Fort Worth, Texas occidentale, che in tasca non ha soltanto una Charter Arms Undercover calibro.38, ma anche una copia di The Catcher in the Rye, da noi Il giovane Holden, il romanzo di J.D. Salinger apparso in prima edizione nel 1951, all’inizio di tutto. «Holden Caulfield, il protagonista del romanzo, è l’Ur-adolescente –l’adolescente originario dei Fifties e Sixties e Seventies a venire.» Con Holden era cominciata l’avventura dei giovani ribelli «che si conclude bruscamente ventinove anni più tardi, l’8 dicembre del 1980, quando Mark David Chapman spara a John Lennon. Parentesi aperta, parentesi chiusa.»3

[Lennon] È stato un giovane della classe operaia inglese che ascolta Mystery Train e Rock around the Clock alla radio e capisce la musica meglio di quanto capisca o presti attenzione a qualunque altra cosa. Incontra un’anima affine, Paul McCartney, un altro musicofilo di Liverpool stregato come lui dal rock’n’roll, col quale mette in piedi una band e porta le canzonette orecchiabili dove non sono mai state prima: «tra i modelli di comportamento», dove secondo il filosofo [Bob Dylan] sono state di guardia fino a quel giorno, cioè prima dei Beatles e di quel che ne è seguito, soltanto le opere d’arte.»4

Forse Chapman, oltre che di americanissimo cibo spazzatura, si è nutrito di quelle canzonette e di quei modelli comportamentali. Mentre John, dopo l’incontro con Yoko, per così dire, si è intellettualizzato. Una miscela potenzialmente esplosiva:

patatine fritte nell’olio saturo e affogate nella maionese, manuali controculturali che inneggiano al furto e alla guerriglia, poster di Che Guevara, hot dog stracarichi di senape e ketchup e bacon e salse senza nome, John Lennon che canta Power to the People e Woman is the Nigger of the World (insomma canzoni sempre più ruffiane tirandosela da militante di sinistra, proprio lui che, quando cantava Revolution con Paul e Ringo e George, metteva bene in chiaro a futura memoria che non gli piacevano tutti quei ritratti del presidente Mao in giro per le strade e che non era il caso di chiedere soldi per la rivoluzione a lui e agli altri ragazzi, che di quelle sciocchezze non ne volevano sapere). Proprio Lennon ricapitola da solo l’intera stagione dei boom5.

Il fatidico incontro tra il “creatore” e il suo prodotto culturale e sociale, proprio come in Blade Runner di Ridley Scott (1982) i replicanti umanoidi cercano il loro ideatore per risolvere i loro problemi oppure ucciderlo, non potrà essere che catastrofico, finendo col definire una delle infinite linee di tendenza che avrebbero contribuito a fare degli anni Ottanta ciò che, poi, sarebbero stati.

Gli altri trentuno capitoli procedono in ordine cronologico accompagnando il lettore a scoprire i sintomi del cambiamento all’epoca in atto e l’infinito disordine che regna in un mondo retto da nessun fato. Di cui soltanto il caso e il caos possono delinearne il divenire futuro, al di fuori di ogni oggettività data per scontata e di ogni impossibile e fasullo sogno di “geometrica potenza” rigeneratrice.


  1. D. Gabutti, Prologo o delle utopie realizzate in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 12-15.  

  2. Ivi, pp. 15-17.  

  3. D. Gabutti, Pop. John Lenno e le culture della società opulenta in D. Gabutti, op. cit., pp. 58-59.  

  4. Ivi, pp. 59-60.  

  5. Ibidem, p. 59.  

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Kafka il realista https://www.carmillaonline.com/2025/03/11/kafka-il-realista/ Tue, 11 Mar 2025 22:55:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87299 (Seconda parte dell’intervento su Kafka)

di Francisco Soriano

Come afferma Michael Löwy (Kafka, sognatore ribelle, edito da Elèuthera), la questione del realismo negli scritti di Franz Kafka non ha mai attratto l’attenzione degli studiosi di matrice marxista. In questa schiera di “disinteressati” vengono annoverati anche Theodor Adorno, Karel Korsk e André Breton. Un caso diverso, invece, riguarda György Lukács, che nel Significato attuale del realismo critico, scritto nel 1955, nega categoricamente in Kafka una seppur modesta propensione al realismo. Senza mezzi termini Michael Löwy taccia il critico ungherese di essere ormai «affetto» dall’ideologia autoritaria stalinista, in un momento che nulla ha [...]]]> (Seconda parte dell’intervento su Kafka)

di Francisco Soriano

Come afferma Michael Löwy (Kafka, sognatore ribelle, edito da Elèuthera), la questione del realismo negli scritti di Franz Kafka non ha mai attratto l’attenzione degli studiosi di matrice marxista. In questa schiera di “disinteressati” vengono annoverati anche Theodor Adorno, Karel Korsk e André Breton. Un caso diverso, invece, riguarda György Lukács, che nel Significato attuale del realismo critico, scritto nel 1955, nega categoricamente in Kafka una seppur modesta propensione al realismo. Senza mezzi termini Michael Löwy taccia il critico ungherese di essere ormai «affetto» dall’ideologia autoritaria stalinista, in un momento che nulla ha a che vedere con il brillante Lukács dei primordi, il filosofo rivoluzionario di Storia e coscienza di classe, testo scritto nel 1923 (1). Il giudizio “definitivo” di Lukács, utilizzando un confronto fra Mann e Kafka, è che quest’ultimo per la mancanza di realismo nelle sue opere non merita «nessun interesse per la cultura di sinistra» (2).

Michael Löwy accusa, a ragione, György Lukács di aver diviso semplicisticamente il mondo degli intellettuali in due spazi ben distinti: da una parte quelli che aderirono al Movimento per la pace patrocinato in quei tempi dall’Urss e, dall’altra, gli intellettuali borghesi che non aderendo al movimento denotavano una propensione al fatalismo, con una caratteristica specifica su tutte, quella di appartenere a un «avanguardismo decadente»; non a caso la scelta fra Mann e Kafka equivaleva a quella fra «la salute e la malattia sociale» (3). Questo orientamento era condiviso integralmente dall’apparato burocratico comunista ceco, che impediva la pubblicazione dei libri di Kafka, i quali rappresentavano una visione della società assolutamente decadente. In ultima analisi Lukács vede in Kafka uno scrittore soggettivista, individualista, che rappresenta la realtà in un’ottica astratta, lontana dall’oggettività e, dunque, determinata dal «nulla» in termini di contenuti: in Kafka «il mondo viene concepito come l’allegoria di un mondo trascendente» (4). La questione invece che pone Löwy, argomentando la critica impietosa di Lukács, si concentra proprio sulla «trascendenza» e sull’«irraggiungibile aldilà». Dire che i testi di Kafka conducono al “nulla” in termini di contenuti è il frutto di un vero e proprio «abbaglio» (5). In verità il cosiddetto antirealismo di Kafka è la plastica rappresentazione di una profonda conoscenza critica del potere, e senza ombra di dubbio, infatti, esso oggi definisce la realtà e la pratica del potere nella maggioranza dei Paesi del mondo moderno.

Il potere è essenza laddove costruisce un apparato burocratico che si avvita volontariamente, si contorce, aliena e reifica. Tuttavia Löwy racconta riguardo a Lukács un aneddoto molto interessante. Infatti nel 1956, dopo l’invasione dei sovietici in Ungheria e la fine della repubblica dei consigli operai, furono arrestati Imre Nagy, che presiedeva questi ultimi, e lo stesso Lukács, quale ex ministro della Cultura. I due furono condotti in un castello fortilizio in Romania, in attesa di un giudizio da parte dei giudici. In quell’occasione i malcapitati non ebbero accesso agli atti processuali, né furono avvertiti dei capi di imputazione, così rimanendo nell’impossibilità di difendersi. C’era qualcosa di più «kafkiano» di questo?

Continuando il racconto, Löwy si pone le domande che Lukács e Nagy sicuramente fecero a se stessi: di quale natura sarebbe stato il tribunale che li avrebbe giudicati? Civile, penale? I magistrati sarebbero stati ungheresi o di altra nazionalità? Quale sarebbe stata la direzione del partito che si sarebbe occupata del caso, forse una nuova? Forse se ne sarebbe interessato il Politburo sovietico?
O magari una commissione mista della polizia politica ungherese insieme a quella sovietica? Nagy venne giustiziato. Lukács fu scarcerato con il «beneficio del dubbio». Ma il fatto più interessante di questa tragedia, nella narrazione di Löwy, si verificò quando in una delle tante giornate estenuanti di attesa e speranza in prigione, Lukács ricevette la visita della moglie e le sussurrò queste parole:

«Kafka war doch ein Realist (Kafka era un realista)» (6). In un saggio del 1965 lo stesso Lukács, pur non sviluppando un’analisi articolata che smentisse quanto affermato dieci anni prima, fu costretto ad ammettere che: «Kafka […] mette in scena un’intera epoca di disumanità […]. Per questo il suo universo […] acquista una caratteristica toccante e profonda, in contraddizione con gli scrittori che, in quello sfondo storico, scorgono direttamente la generalità nuda e astratta […] dell’esistenza umana e finiscono infallibilmente in un vuoto assoluto, nel nulla» (7).

Löwy ci ricorda la famosa conferenza su Kafka patrocinata, nel 1963, da Eduard Goldstücker a Liblice, in Cecoslovacchia. In questo incontro fra intellettuali di alto profilo parteciparono Ernst Fischer, Anna Seghers, Klaus Hermsdorf, Roger Garaudy e altri studiosi cechi, sovietici, polacchi, ungheresi, jugoslavi e tedesco-orientali (8). Le idee su Kafka di Lukács non erano condivise da tutti, tanto che il filosofo e storico austriaco Ernst Fisher, contrapponendosi alle interpretazioni dello studioso ungherese, sottolineò che «la poesia è spesso in anticipo sulla prosa» ed esaltò in Kafka proprio la forza poetica, che non conteneva nulla di irrealistico. Il ribaltamento del concetto di realtà da parte di Fisher aiutò a capire quanto invece Kafka fosse realista, addirittura profetico, mettendo a nudo le idee di coloro che avevano ridotto a semplice esteriorità ciò che intendevano manifestare come reale. La domanda era: «[La realtà] non comprende anche quello che sogna, sospetta o avverte come ancora non esistente, o esistente solo in modo invisibile?» (9). Nello stesso momento venne contestato il negativismo di Kafka. Agli scrittori, dice Fischer, «non viene chiesto di produrre soluzioni, i punti di domanda contengono contenuti, molto meglio di tanti “punti esclamativi” di altri autori». Nella conferenza di Liblice si verificò, infatti, una polarizzazione su due posizioni distinte: una in cui confluivano coloro che criticavano Kafka in quanto soggettivista, e l’altra in cui vi era una interpretazione dello scrittore ceco avulsa da questioni prettamente ideologiche e partitiche. La questione non era semplicemente di tipo letterario. I cosiddetti comunisti riformatori, consapevoli comunque di agire in un perimetro marxista, intravedevano in Kafka una concreta
critica alla negatività del mondo capitalista e una ancor più radicale critica ai crimini dello stalinismo, quest’ultimo rappresentato nella sua realtà come un potere immanente e deviante dalle vere necessità degli uomini, una forza che traeva dalla sua autorità sferzante disumanizzazione e persecuzione. Non solo Fischer dunque, ma anche Jiří Hájek metteva il dito nella piaga affermando che:

«L’opera di Kafka condanna tutto ciò che è in contraddizione con la missione storica umanista del socialismo, tutto ciò che la deformazione staliniana ha prodotto nel nostro sistema con tutte le conseguenze che sopravvivono ancora tra noi» (10).

Per opinione generale, la conferenza di Liblice del 1963 rappresenta un punto di partenza del cambiamento del clima culturale in quegli anni, che giungerà alla Primavera di Praga del 1968.

Nel cosiddetto onirismo kafkiano, inoltre, non vi è nulla di inconsistente e di neppure lontanamente surrealista: il sogno in Kafka non ha come obiettivo la riproduzione di una realtà, ma ne rappresenta una critica serrata e radicale, talvolta feroce e ironica. L’opera di Kafka è, secondo l’ennesima intuizione di Benjamin, «uno degli esempi più impressionanti della “forza di illuminazione profana” della letteratura» (11). Per Breton, infine, lo scrittore era «capace di sondare l’invisibile e intendere l’inaudito» (12). La storia dell’ostracismo subito grazie alla critica riservatagli dagli intellettuali dei
suoi tempi ci insegna molto. La necessità di ricercare negli scrittori e negli artisti, in generale, una «militanza», una affezione e una soluzione delle «contraddizioni» sociali soprattutto in ottica marxista, ha generato fraintendimenti e distorsioni sulla funzione della letteratura e delle arti nel quotidiano delle società. Il realismo in opposizione al soggettivismo come lotta alla borghesia e alle sue «distorsioni» ha dimostrato miopia nel corso degli anni, a prezzo di gravissime persecuzioni, violenze, ingiustizie. La forza illuminante e profetica di Kafka ha subito per tanto tempo un ostracismo vergognoso, un tentativo di accantonamento senza precedenti frutto di un errore determinato da ideologismo e disonestà intellettuale. Il «caso Kafka» è purtroppo molto comune e ci ha tramandato storie di ordinaria ingiustizia, patita da intellettuali, scrittori e artisti che hanno pagato anche con la vita la correttezza e la perseveranza nel perseguire il proprio afflato contro ogni potere manipolatore. La tragica morte di Osip Emil´evič Mandel´štam rappresenta soltanto uno degli esempi, lampanti e coerenti, dell’ingiustizia subita da un intellettuale di quegli anni dello stalinismo sovietico.

Da quando Kafka è divenuto un aggettivo, si comprende l’impatto realistico della sua opera, della sua critica sociale e della sua pervasiva visione profetica del potere. Il romanzo dello scrittore ceco Il processo è l’esempio pratico, il riferimento principe, la versione più realistica della violenza insensata del potere sull’individuo sociale, il cittadino, e l’uomo. L’accusa insensata di un innocente, di tutti gli innocenti, colpevoli soltanto di asimmetricità con il potere, è il modello più realistico delle moderne società in cui la teocrazia, la dittatura tecnocratica, lo stato di polizia si riconoscono, si manifestano e si definiscono senza alcun dubbio. Che cosa possa significare nella realtà più spietata di questi regimi il termine «kafkiano» è facile immaginarlo, con elementi chiari e incontestabili. L’esempio iraniano del «moharebeh», un reato perpetrato contro dio riconducibile a una qualsiasi pratica umana non coerente con il volere del potere, è la plastica e reale manifestazione di una pratica kafkiana nell’applicazione di una legge assolutamente incomprensibile e insensata. In moltissimi Paesi del mondo l’autorità e il potere attuano incondizionatamente persecuzioni, sequestri, incarcerazioni, torture, sparizioni, individuabili per insensatezza proprio nei racconti, perciò realistici, di Kafka. Nessuna critica diretta se non ammissione che soluzioni non esistono, finché ci sarà un solo potere sulla faccia della terra a determinare la vita delle persone. L’esperienza assurda e grottesca degli uomini in regimi che brandiscono il grimaldello della burocrazia si svolge alla luce di una deriva sociale e umana senza precedenti.
Leggere Kafka, il libertario realista, diventa, a questo punto, il più plateale smascheramento di una realtà che non lascia appelli: che non esistono poteri buoni.

 

§ § § § § § §

NOTE:

1 Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022, p. 181.
2 Ivi, p. 181.
3 Ivi, p. 182.
4 Ivi, p. 183.
5 Ibid.
6 Ivi, p. 184.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Ivi, p. 185.
10 Ivi, p. 186.
11 Ivi, p. 187.
12 Ibid.

 

 

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Stefano e Rosa https://www.carmillaonline.com/2025/03/10/stefano-e-rosa/ Mon, 10 Mar 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87047 di Sandro Moiso

Chiara Sasso, In Rosa, prima edizione 1986, Edit. Tipolito Melli, Susa; seconda edizione 2024, pp. 124, 12 euro

Un anno fa Stefanino o “Steu” Milanesi ha abbandonato questo pianeta alla ricerca di un luogo migliore in cui continuare a vivere, lasciandoci tutti più soli. Accompagnati, però, dal ricordo e dall’esempio di un militante coraggioso e lottatore instancabile, dalle esperienze degli anni Settanta fino alle vicende della lotta contro il TAV in Valsusa.

Ma chi ha conosciuto Stefano ha sicuramente conosciuto anche la madre Rosa, instancabile come il figlio nel supportarlo anche nei momenti più difficili [...]]]> di Sandro Moiso

Chiara Sasso, In Rosa, prima edizione 1986, Edit. Tipolito Melli, Susa; seconda edizione 2024, pp. 124, 12 euro

Un anno fa Stefanino o “Steu” Milanesi ha abbandonato questo pianeta alla ricerca di un luogo migliore in cui continuare a vivere, lasciandoci tutti più soli. Accompagnati, però, dal ricordo e dall’esempio di un militante coraggioso e lottatore instancabile, dalle esperienze degli anni Settanta fino alle vicende della lotta contro il TAV in Valsusa.

Ma chi ha conosciuto Stefano ha sicuramente conosciuto anche la madre Rosa, instancabile come il figlio nel supportarlo anche nei momenti più difficili della lotta e della carcerazione. Donna di carattere in cui l’amore materno non si è mai abbandonato all’accettazione passiva e addolorata o alla semplice rassegnazione sia nei confronti di tutto quanto colpiva Stefano per opera della repressione statuale, sia nel confronto con le idee e della scelte che avevano portato il figlio a trascorrere diversi anni in prigione e, successivamente, ad essere in prima linea nel circuito dei centri sociali, in particolare Askatasuna, e nel movimento No Tav.

Il libro di Chiara Sasso, edito per la prima volta nel 1986, allora con una meditata prefazione di Giorgio Bocca, riportata anche in quello successivamente ristampato lo scorso anno in occasione della morte di Stefano1, ci dona uno sguardo in profondità su un rapporto madre-figlio fatto non solo di sentimenti ed emozioni, ma anche di confronto, spesso epistolare, anche se Rosa, per anni, accettò di intraprendere lunghe e scomode trasferte in giro per l’Italia per incontrare il figlio detenuto e sostenerlo moralmente.

Una storia narrata in prima persona da Rosa stessa2 e filtrata soltanto dalla scrittura di Chiara che diventa in qualche modo quella non solo di Stefano e Rosa, ma quella di un’intera generazione imprigionata e dei famigliari della stessa. In un contesto in cui, non dimentichiamolo mai, ad aver voce sono quasi sempre solo quelli delle “vittime” della stagione della lotta armata, di Pl e Br.

Nella Introduzione alla attuale edizione l’autrice ci ricorda che:

La ristampa di questa testimonianza, In Rosa, la devo a Mariagrazia e a Luigi che si sono messi in testa di “ripescare” il libro per ricordare Stefano che ci aveva lasciato il mattino di un lunedì di marzo. Era sempre un lunedì mattina, a Bussoleno, giorno di mercato, quando nel 1977 la vicina di casa aveva bussato alla porta di Rosa per chiederle di non uscire quella mattina. La spesa l’avrebbe fatta lei per tutte e due. Rosa non capiva. Stefano era a Napoli in vacanza. Si ripete di lunedì (11 marzo 2024), lo scampanellio alla porta. Per uno di quei casi strani della vita, sul pianerottolo c’è proprio un’amica conosciuta in quei periodi a Napoli. “Io non ero pronta”.
“Ho aperto la porta, non avevo neppure messo le calze, non capivo. Non ero pronta. L’avevo sentito la sera prima, come sempre”. Le stavano dicendo che Stefano non c’era più.
[…] Era maggio (1985) quando Stefano ha lasciato il carcere, per tre giorni non ha dormito. Aveva trascorso quasi otto anni in un carcere duro, negli anni importanti della sua giovinezza, ma non è stato piegato alle brutture, alla violenza di quella reclusione. Rosa aveva fatto di tutto per legarlo al fuori, alla bellezza. Fiori appiccicati su fogli di carta, indumenti colorati. “Quando vieni portami più lavanda che puoi non dovrebbero fare storie”. (Il suo profumo mi salva, diceva). Oggi come allora aggrappato alla Madre Terra, alla natura, ad ogni filo d’erba. Alla ricerca di giustizia. È stato normale impegnarsi anima e corpo nel movimento No Tav. La resistenza contro la speculazione, la distruzione della valle. Sempre presente, sorridente disponibile (Con un piano separato, intimo, nascosto ai più)3.

Subito dopo Gioacchino Criaco può aggiungere:

Per otto anni Rosa ha vissuto un giorno al mese, sentendosi viva solo la mezzora o l’ora in cui poteva abbracciare Stefano, il tempo in mezzo è stato solo un intervallo fra un abbraccio e l’altro, spesso solo tra uno sguardo e l’altro, perché la galera italiana […] è stata merda, una deiezione puzzolente di circuiti carcerari speciali, di terrore che prima di diventare 41bis era art. 90. I detenuti politici hanno assaggiato tutto il sadismo di cui è capace il potere.
Il giro di Rosa attraverso i penitenziari italiani, a sud, al centro, al nord, è la drammatica cronaca di un circuito dell’orrore che della Costituzione più bella del mondo non ha mai annusato l’odore, non ne ha mai sentito nemmeno la puzza. E da colpevoli sono stati trattati i colpevoli veri e quelli presunti, e da colpevoli sono stati trattati coloro che per amore vero non li hanno abbandonati, facendosi unico trattamento costituzionale vero. Essere trattati da colpevoli non è stato essere sottoposti al percorso trattamentale previsto dalla Legge, solo rimanere in balia alle emergenze di un potere convinto che la propria sopravvivenza passasse dall’annientamento4.

E’ una narrazione “fresca” e diretta quella di Rosa cui fanno da contrappunto le lettere di Stefano dal carcere e estratti dalle denunce per i maltrattamenti, per dirla con un eufemismo, subiti dai detenuti. Un dialogo a distanza in cui amore materno e figliale si mescolano alle diverse interpretazioni su tutto ciò che stava accadendo, soprattutto nel circuito delle carceri speciali, ed era accaduto precedentemente. In cui il reciproco rispetto si accompagna a considerazioni spesso di carattere famigliare, ma ancor di più politico e/o morale. Ma per comprendere meglio il clima politico, carcerario e famigliare che circondava sia Stefano che Rosa, vale la pena di iniziare da due lettre del 1978:

Napoli, 28/2/78
Cara mamma, ti scrivo questa lettera un po’ per completare la risposta alla tua, un po’ per parlarti dei miei problemi. Forse ho bisogno di sfogarmi, anzi, senz’altro… […] Io non voglio, non voglio, conoscere solo l’odio, non voglio diventare una macchina, non voglio essere distrutto nelle mie cose, non voglio impazzire.
Cerca di capire il senso di queste parole, sono in galera, posso cavarmela, ma posso anche passare gli anni più belli in galera, le probabilità sono pari, per il momento io di qua voglio uscire integro, di questo ne sono certo; se vuoi è la mia forza di lotta qua dentro, quella di non lasciarmi distruggere, quella di uscire immune.
Non è facile per niente, non è facile ambientarsi in una stanza 10 x 4 da dividere con otto persone, con queste mura e sbarre opprimenti, e guardare in alto per vedere un pezzetto di cielo o leggere il giornale e guardare la tele per sentire che “ fuori” la vita continua, che esiste ancora un mondo. E questo giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non sei un uomo, sei una bestia.
Ed allora ti estranei da questa realtà, pensi al fuori, a tutto quello che hai lasciato, a quello che troverai a quello che farai. È l’unica cosa che ti può far sentire vivo, che ti aiuta a sopportare tutto, l’unica cosa che per il momento rimane impenetrabile, il pensare a tutti i momenti belli che ho avuto…

Con la successiva, però, inizia quel dialogo sulle differenti visioni del mondo e del modo di stare nel mondo che caratterizzerà poi il confronto madre-figlio.

Napoli, 14/3/78
Cara mamma, ho ricevuto la tua lettera in risposta alla mia e ti ringrazio di essermi vicina e di cercare di capire i miei problemi. L’unica cosa di cui non ti vuoi ancora convincere è che non sono più un bambino o se preferisci, un ragazzo immaturo.
Forse la risposta è che a te piace pensarmi ancora così, rifiutando in questo modo quella parte che non condividi di me, che però è la più vera. Non te ne voglio fare però una critica, voglio solo che possiamo chiarirci e capirci nella massima serenità.
Secondo me non ti vuoi arrendere alla realtà e non dirmi che non è vero. Queste cose si capiscono subito, io ho “tradito” quello che tu volevi diventassi, tu oggi mi vorresti vedere diplomato, con un buon lavoro, un po’ se vuoi come Paola, e invece no, sono in galera, accusato di essere un terrorista, che, a quanto pare, è la peggior cosa del mondo, e con un futuro incerto.
Quello che però dovresti chiederti è se a me sarebbe piaciuto fare un certo tipo di vita. Certo adesso potrei essere più o meno sistemato, con un po’ di fortuna, magari con qualche calcetto, avere così una vita cosiddetta tranquilla.
Ma non hai pensato che forse quella sarebbe stata la peggiore delle galere. Essere schiavi del lavoro, del padrone, dei soldi, della preoccupazione di dover vivere…ma non era quella la mia vita.

Rosa allora si interroga sulle eventuali responsabilità famigliari per la scelta fatta da Stefano che, comunque, non poteva condividere, anche se le successive vicende carcerarie, fatte di pestaggi e torture la avvicineranno ancora di più a quel figlio ribelle.

Fossombrone, 8/3/80
Carissimi, come vedete ho cambiato di nuovo residenza, il pellegrinaggio nelle patrie galere continua, anche se nel circuito degli speciali.
Cara mamma, le cose che mi dici e mi riferisco alla tua lettera, non sono “prediche” né io le prendo come tali, sono soltanto due concezioni di vita differenti, diametralmente opposte se vuoi, comunque ti assicuro che in ciò che credo c’è molta poca ideologia.
Mi parli di alberi, di gemme, fiori, di vita, mi chiedo se questo è valido anche per Seveso, e non per sottolineare certi recenti fatti, ma soltanto per farti capire che “vita” rischia di essere una parola vuota, un concetto astratto, quando c’è chi cerca di distruggerla costantemente perseverando nel più efferato dei crimini, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Io non dico che quello che facciamo noi sia bello, sono convinto che in tutto questo c’è qualcosa di tragico e triste, dico soltanto che è giusto, necessario, è l’unico percorso – quello della guerra – che vale la pena di essere vissuto a meno di non essere complici, anche se involontari, di questa società e dei suoi meccanismi perversi.
Sicuramente è meglio essere qua “bollati” con tutti i titoli che ogni giorno TV e giornali ci dedicano, che non ad esempio, in uno dei tanti posti dove si producono prodotti chimici o altro, quando la gente è disposta a prendersi il cancro o malattie simili per poter campare, ti rendi conto che questa società è marcia.

Un’attenzione per l’ambiente e la sua devastazione che Stefano si porterà sempre dietro, come la sua militanza nel movimento NO Tav dimostrerà in seguito. Ma il “giro” delle carceri cui accenna Stefano rivelerà ben presto il suo truce volto persecutorio che spingerà Rosa a scrivere una lettera al quotidiano «La Stampa».

Egregio Direttore,
sono una mamma così disperata, perché non avendo trovato una risposta da altre fonti, spero di trovarla attraverso il suo giornale e con la sua comprensione, anche perché questo è un problema molto spinoso.
Da due anni e nove mesi mio figlio si trova in carcere perché definito terrorista (militava nella sinistra extraparlamentare, aveva appena compiuto venti anni) con l’accusa di banda armata e la pena di cinque anni e sei mesi ancora appellabili. Ora succede questo: in questo periodo di detenzione, il ragazzo ha già fatto il giro di ben otto carceri tra normali e maggiormente speciali, con l’ultimo approdo a Pianosa.
Ora le chiedo; con quale criterio il ministro di Grazia e Giustizia fa questi spostamenti visto che nessuno è riuscito a spiegarmelo e che non dipende dal carcere o dal comportamento del ragazzo? Può immaginare per noi genitori (non li abbiamo certo voluti così) che abbiamo già questo grande dispiacere, quando succedono questi spostamenti cosa voglia dire, dobbiamo riprendere da capo tutta la trafila con conseguenze di ogni genere, sia morali che materiali, con il dilemma: abbandonarli o aiutarli? Poi prevale sempre il cuore di genitore e si pensa che cambino, ma così quale recupero si può avere quando fanno questa scuola?
Ecco, per questo mi sono rivolta a lei per un aiuto e per un invito a tutti i genitori che si trovano nelle mie stesse condizioni a unirsi perché queste cose non succedano.
Nella speranza di trovare un piccolo spazio nel suo giornale e perché non siano calpestati i diritti umani la saluto caramente.
Rosa Milanesi e le altre mamme dei detenuti della Valle di Susa

I continui trasferimenti avrebbero ben presto rivelato di costituire soltanto l’antipasto dell’autentico inferno che si sarebbe abbattuto sui detenuti politici. Come rivelano alcuni estratti dalle denunce presentate in quei giorni al Ministero di “Grazia e Giustizia”. Soprattutto dopo l’autentico massacro avvenuto all’interno del carcere di Pianosa nella primavera del 1981.

Dalla denuncia al Ministero di Grazia e Giustizia del 22/04/ 81:
“…L’operazione descritta appariva preordinata; alcuni agenti, durante il pestaggio, ripetevano le seguenti frasi: l’Asinara l’avete chiusa voi, Pianosa la chiudiamo noi. Alcuni agenti, a suon di botte, pretendevano che i detenuti gridassero: Viva il corpo agenti di custodia! Altri sembravano in possesso di indicazioni relative a detenuti nominalmente indicati, da picchiare con intensità particolare. Ciò è tanto vero che, alcuni detenuti (due o tre) che versavano in condizioni di salute precaria, sono stati risparmiati. Erano presenti anche carabinieri e agenti di polizia, i quali assistevano al pestaggio ed intervenivano quando a loro parere poteva essere letale…”
“…In seguito ad una cosiddetta perquisizione, gli effetti personali degli internati (radio, occhiali, libri, abbigliamento, foto ecc.) sono stati frantumati, strappati, danneggiati o distrutti.
Per i tredici, quattordici giorni successivi, i detenuti rinchiusi nelle celle di isolamento, ciascuna delle quali capace di ospitare una sola persona, in un primo tempo in sette per cella, poi in tre per cella, sono stati costretti a dormire sul pavimento, privi persino di un materasso e dotati soltanto di una coperta a persona …”.
“…il 10/04/81 alle ore 12 circa è avvenuto il secondo pestaggio, non si sa bene da quale occasione determinato; anche in questo caso la solita squadretta di agenti incappucciati ha estratto dalle celle un certo numero di detenuti e li ha trascinati in cortile picchiandoli nel modo che si è detto.
In seguito ad una serie di provvedimenti non si sa bene da chi ordinati e che trascendono qualsiasi logica, anche primitive, oggi, i detenuti della sezione speciale Agrippa versano in condizioni subumane; ad un trattamento umiliante, protervo ed arbitrario, vengono sottoposti, ovviamente con le dovute differenze, anche i familiari, che hanno ricevuto il consenso, dopo diverso tempo, di visitare i propri cari…’’

Fatti che, dopo un colloquio con Stefano, spingono Rosa a ricordare: «Stefano era riuscito a farmi capire con pochissime parole tutto quello che era accaduto e, del resto, bastava che lo guardassi per rendermene conto; continuava a ripetermi, come pure gli altri compagni e gli altri parenti, di far sapere fuori che cosa era successo; avevano un’ansia spaventosa di essere ricacciati in quella tomba e coperti di silenzio per settimane, qualunque cosa fosse successa. Di quei pochi effetti personali che aveva non possedeva più niente,»

Anche se pochi mesi dopo Stefano avrebbe scritto:

Pianosa 14/6/81
…ho letto la tua intervista a Luna Nuova e non è che mi sia piaciuta molto, soprattutto nelle conclusioni che traggono. È già una faticaccia tenere salda la propria identità e non è proprio il caso che la sua messa in discussione venga anche da persone che dicono di esserci vicine. I ‘duri’, è proprio ora di finirla con queste puttanate, con queste semplificazioni delle nostre vite e storie, c’è già lo Stato che ci pensa, come sai bene anche tu.

Per poi giungere però, dopo qualche anno, alle seguenti conclusioni:

Rebibbia 10/4/84
…guarda che ormai è da un pezzo che ho smesso di guardare a mia madre con la ‘velina’, insomma il nostro rapporto, madre-figlio, è quello che ho sempre messo in discussione.
Amo molto Rosa, per me è la mia migliore amica.
Non pensare che rivendichi qualcosa per questa sua crescita, in fondo ha fatto tutto da sola.
Ti dirò di più, una volta fuori da qui, è una delle persone che voglio frequentare di più e non certo perché glielo devo, ma proprio per la sua compagnia mi stimola un casino.
Insomma, con lei ci sto bene… Stefano

Dialettica conclusione di un rapporto che era andato crescendo e rafforzandosi negli anni e di cui Stefano avrebbe mantenuto memoria e impegno. Ma vale la pena di concludere questa riflessione con le parole della stessa Rosa, dettate alla prima uscita del libro, ma sicuramente ancora valide oggi, dopo la scomparsa di Steu.

Quasi otto anni nelle supercarceri sono un tempo infinito, un’esperienza bestiale, tanto più fatta a vent’anni. Se ci sono state delle aperture comunque i problemi grandi rimangono. Non mi sono mai nascosta dietro alle loro scelte, alle loro responsabilità, ma non posso neppure evitare di pensare che si è trattato di un percorso che ha travolto un’intera generazione. Mi sveglio la notte e mi alzo per pensare a tutte queste cose. […] Mi alzo non riesco più a dormire. Accendo la stufa in questi giorni piove sento il freddo. Ma sai quante volte ci penso a queste cose?

Come acquistare il libro:

È possibile inviare una donazione – contributo proposto 12 euro (spedizione inclusa) – con causale In Rosa con un bonifico sul c/c bancario dell’associazione Persone comuni (Iban IT17A0501803200000011641644);

Appena inviata la donazione scrivete a info@comune-info.net indicando Nome, Cognome e Indirizzo per ricevere il libro.


  1. Stefano Milanesi residente a Bussoleno, dove è deceduto l’11 marzo 2024. Arrestato a Napoli il 16 dicembre 1977, è stato condannato per partecipazione a Prima Linea e
    scarcerato per decorrenza termine il 2 maggio 1985. In seguito poi ancora inseguito da denunce e condanne agli arresti domiciliari per la sua appartenenza al movimento No Tav.  

  2. Rosa Peruch Milanesi vive e abita a Bussoleno dal 1958 Nata in Friuli il 5 maggio 1932. E’ stata presidente dell’associazione parenti detenuti nel 1980 a Torino.  

  3. C. Sasso, In Rosa, p. 3.  

  4. G. Criaco, Una donna a motore in C. Sasso, op. cit., pp. 5-6.  

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“Ribelle innalzandosi va, fino alle stelle”: la poesia operaia di abiti-lavoro (1980-1993) https://www.carmillaonline.com/2025/03/10/ribelle-innalzandosi-va-fino-alle-stelle-la-poesia-operaia-di-abiti-lavoro-1980-1993/ Mon, 10 Mar 2025 06:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87039 di Monica Dati

La poesia dei lavoratori che confluiva nella rivista abiti – lavoro era una scrittura in presa diretta, il poeta e lo scrittore si esprimevano direttamente, senza intermediari del settore letterario o giornalistico. Si era passati dagli intellettuali che parlavano del lavoro (es. Ottiero Ottieri…) agli intellettuali che raccoglievano i pensieri dei lavoratori (es. Nanni Balestrini…) infine, agli operai che scrivevano loro stessi la propria storia (es. Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio…). Il percorso è abbastanza definito, abiti- lavoro era un polo dell’ultimo scenario di narrazione ed esplorazione del mondo del lavoro: quello della autorappresentazione (Giovanni Trimeri).

Con la [...]]]> di Monica Dati

La poesia dei lavoratori che confluiva nella rivista abiti – lavoro era una scrittura in presa diretta, il poeta e lo scrittore si esprimevano direttamente, senza intermediari del settore letterario o giornalistico. Si era passati dagli intellettuali che parlavano del lavoro (es. Ottiero Ottieri…) agli intellettuali che raccoglievano i pensieri dei lavoratori (es. Nanni Balestrini…) infine, agli operai che scrivevano loro stessi la propria storia (es. Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio…). Il percorso è abbastanza definito, abiti- lavoro era un polo dell’ultimo scenario di narrazione ed esplorazione del mondo del lavoro: quello della autorappresentazione (Giovanni Trimeri).

Con la fondazione di abiti-lavoro nel 1980, prende vita quello che può definirsi «il primo tentativo di dare forma organizzata alla letteratura operaia» tramite un progetto culturale strutturato. In passato, infatti, la poesia era legata soprattutto a occasioni estemporanee: una forma espressiva spontanea e accessibile, che permetteva a contadini, mezzadri, operai di fabbriche e miniere, spesso privi di istruzione formale di raccontare in modo creativo emozioni, storie e lotte, attraverso la parola parlata, la musica, il canto o altre forme artistiche:

O bei giorni infantili, intreccio santo
di baci, di profumi e d’esultanza
Io vi ricordo, mentre ne la stanza
mi giunge degli oppressi il novo canto.
Si tenta soffocarlo; ma ribelle
innalzandosi va, fino alle stelle […]
(Pietro Mandrè, Poesie di un proletario, 1892)

Osserva ironicamente Alessandro Portelli a proposito della passione che caratterizzava la cultura popolare che “sfogliando vecchie copie de Il Messagero per cercare altre cose, mi capita un numero del 1907, ottobre, Rissa a coltellate a Cori per il canto a poeta. Cioè a Cori nel 1907 c’era un morto per una gara di poesia in osteria”.

Nella seconda metà del Novecento, il panorama cambia radicalmente, in particolare con l’onda lunga del “biennio caldo” 1968-69, che vede un protagonismo operaio senza precedenti. Le lotte per il diritto allo studio, l’uso del ciclostile, la diffusione dei giornali di fabbrica e la nascita di organi di rappresentanza dei lavoratori creano il terreno per una letteratura—e un’arte—sui subalterni fatta dai subalterni stessi. Questi non rivendicano più soltanto aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, ma reclamano anche l’accesso a opportunità culturali e ricreative, tempo libero, vita, comunicazione e arte: non solo il pane, ma anche le rose.

I versi alla rosa non sono borghesi
E non sono borghesi le rose

Anche la Rivoluzione le coltiverà
Si tratta certo di ridistribuire le rose e la poesia.
(Ernesto Cardenal, Oràculo sobre Managua, 1973)

La rivista, che prende il nome da una voce della busta paga, l’indennità vestiario, nasce ad Arcore, notoriamente riconosciuta come la sede della prestigiosa moto Gilera e della rinomata residenza di Silvio Berlusconi. Il suo “quartier generale” è la libreria Novantadue e la guida editoriale è affidata a Giovanni Garancini con la collaborazione, tra i tanti, di Sandro Sardella, Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Giovanni Trimeri, Michele Licheri, Oscar Locatelli, Luigi di Ruscio, Loretta Povellato, Alida Airaghi, Gisa Legatti, Anna Lombardo e due figure centrali venute a mancare troppo presto: Claudio Galuzzi e Franco Cardinale. Non un cenacolo accartocciato su sé stesso ma spazio autentico e aperto a tutti che riesce addirittura ad arrivare in luoghi di deprivazione umana e culturale come le carceri e a beneficiare della collaborazione di molti artisti nonché della stima di intellettuali come Giancarlo Majorino e Roberto Roversi (interlocutori e non più padrini).

Dal 1980 al 1993 sono usciti diciassette numeri che rappresentano un importante progetto nel quale sono confluiti poesie e prose operaie, interviste e dibattiti letterari, canti di popoli in lotta per la liberazione, musiche, vignette, recensioni, versi in dialetto, pitture alternative e mail art, rubriche internazionali, omaggi e ricordi. Con uno sguardo rivolto alla cultura underground, la rivista ha proposto una prospettiva innovativa: gli operai non devono essere letti solo attraverso la lente del lavoro, ma come individui capaci di abbracciare l’intera vita, perché «tutta una cultura, tutto un sapere deve essere messo in discussione» (Giovanni Garancini). Anche le copertine sono simbolo di questa tensione innovativa, spaziando dalla rappresentazione neorealista di I mangiatori di fave di Vincenzo Guerrazzi alle ballerine rosse e leggere di Mario Schifano, che fluttuano leggere in aria, testimoniando la volontà di superare lo stereotipo «dell’operaio che si piange addosso», riconoscendo invece la sua capacità di «abbracciare e cavalcare il mondo» (Sandro Sardella).

I materiali e la documentazione che compaiono su abiti-lavoro costituiscono dunque fonti originali e preziose, difficilmente reperibili altrove, perché rappresentano voci sommerse, ignorate dall’indifferenza ufficiale e legate a occasioni di comunicazione rare e frammentarie.

[…] Penso che a molti sia capitato di trovarsi sempre più da soli a gestire il proprio stupore di fronti a fatti del mondo e tutto ciò ci paralizza, lega la lingua e le mani. Io credo, che lo scrivere quello che sentiamo, quello che accadde e cade intorno a noi, con i nostri molteplici linguaggi, senza cattedre o microfoni, possa aiutarci a ripopolare, e ritrovare una nostra personale dimensione. […]  I diversi linguaggi di espressione che in abiti-lavoro convivono perfettamente, dandole una impronta di cammino sì collettivo ma che rispetta e fa da cassa di risonanza al percorso individuale, indicano a mio giudizio, appunto, la voglia di reagire all’appiattimento socio culturale dei giorni nostri (Anna Lombardo, abiti-lavoro, n. 16, 1993).

Non mi sento più solo quando arriva la voglia di scrivere, quando mi chiedo se è giusto che scriva anche per gli altri. […]. Ho letto alcune copie, anche i primi, numeri e ho capito di trovare qualcosa di diverso dalle solite talvolta banali raccolte di poesie: un insieme di esercitazioni, di accorte analisi, di testi che tendono ad esplorare le radici della necessità operaia di scrivere, di comunicare, di occupare uno spazio culturale insolito, se paragonato agli imperi dell’industria della comunicazione di massa.  Ribelli le strofe, accorati gli appelli, provocatori le rime e i simboli: qui le parole scavano la realtà per il gusto di far riflettere sull’importanza di non adagiarsi nemmeno per un istante al conformismo, di privilegiare lo “scatto” dell’arte improvvisata, fresca, mai viziata dall’opportunismo.
(Orlando Casellini, abiti- lavoro, n. 16,  1993)

La rivista non solo ha offerto uno spazio di espressione originale senza conformismi, ma ci dimostra anche come la poesia e, più in generale, l’arte possano essere molto più di semplici forme di svago o intrattenimento: rappresentano infatti esperienze di scoperta capaci di suscitare emozioni e riflessioni, aprendo la strada a una comprensione più profonda di sé e del mondo. Un esempio emblematico e attuale è rappresentato dai lavoratori della ex GKN di Campi Bisenzio e il loro festival di letteratura working class che con lo slogan  “Non siamo qua per intrattenervi”, mutuato dallo studioso Mark Fisher, vogliono richiamare la natura politica e culturale dell’evento. Come sottolinea infatti Antonio Catalfamo in un numero speciale de Il calendiario del Popolo (n. 730, anno 64, 2008), la poesia è uno strumento di presa di coscienza individuale e, nel contempo, di lotta, di sensibilizzazione dei compagni e compagne di lavoro e della società. La dimensione personale non scompare ma l’individualità viene messa al servizio della collettività: questa la grande novità della poesia fatta dagli operai rispetto alla letteratura operaia prodotta dagli intellettuali. Essa diviene riacquisizione del proprio io negato dalla società capitalista che funzionalizza tutto nell’interesse produttivo dell’impresa:

[…] per poter lottare contro i padroni è necessario
il sapere il parlare… la cultura come strumento non per essere
come loro ma per ribaltargliela  contro…
non solo contrattare economicamente… ma per un
“altro” vivere… la tutela della  salute da non contrattare…
la qualità del cibo… e del bere… del tempo “liberato”…
scrivere per capire capirsi far capire… la scoperta della ricchezza del
vivere… non il consumare… il viaggiare non il turismo… la
frugalità non l’accontentarsi…
le arti… le tante capacità e possibilità umane oltre l’economico…
(Sandro Sardella)

 

 

Questo contributo offre una sintetica introduzione alla poesia operaia di “abiti-lavoro” (1980-1993). È un primo spunto sul tema e intende stimolare ulteriori approfondimenti dedicati agli autori, ai testi e ai contesti di questa esperienza, nonché al ruolo della poesia come voce e strumento di resistenza culturale.

 

 

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Hyde, le censure e il sentire (Victoriana 57) https://www.carmillaonline.com/2025/03/08/hyde-le-censure-e-il-sentire-victoriana-57/ Sat, 08 Mar 2025 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87198 di Franco Pezzini

Hyde in Time, a cura di Mario Gazzola, ricerche iconografiche e grafica a cura di Roberta Guardascione, pp. 251, € 20, EdiKiT, Brescia 2023.

Tra i miti dell’età vittoriana passati transmedialmente nell’orizzonte postmoderno, uno notissimo riguarda il personaggio duplice ed eponimo della novella gotica Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde di Robert Louis Stevenson (1886). Può interessare poco in questa sede la plausibile ispirazione al caso di Eugène Marie Chantrelle (1834-1878), conosciuto personalmente da Stevenson, assassino della moglie ed ex-pupilla Elizabeth Dyer e impiccato a Edimburgo, la cui vicenda piuttosto squallida tuttavia è ben lungi dall’esaurire [...]]]> di Franco Pezzini

Hyde in Time, a cura di Mario Gazzola, ricerche iconografiche e grafica a cura di Roberta Guardascione, pp. 251, € 20, EdiKiT, Brescia 2023.

Tra i miti dell’età vittoriana passati transmedialmente nell’orizzonte postmoderno, uno notissimo riguarda il personaggio duplice ed eponimo della novella gotica Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde di Robert Louis Stevenson (1886). Può interessare poco in questa sede la plausibile ispirazione al caso di Eugène Marie Chantrelle (1834-1878), conosciuto personalmente da Stevenson, assassino della moglie ed ex-pupilla Elizabeth Dyer e impiccato a Edimburgo, la cui vicenda piuttosto squallida tuttavia è ben lungi dall’esaurire la ricchezza di spunti dello Strange Case stevensoniano. Sull’onda dei quali, ma con inevitabili impoverimenti, questo troverà infiniti trasposizioni e derivati – teatrali, su schermo eccetera –, assurgendo a mito pop di straordinaria fortuna. Il cinema ne miscelerà la saga con quelle di altre storie nere vittoriane (soprattutto Jack the Ripper, 1888, e Sherlock Holmes, ma si arriverà alle fantasie pseudostokeriane su The Mummy) o precedenti (le “iene di Edimburgo” Burke & Hare, 1828): e tutto ciò in un crescendo al pastiche che traghetterà il dottore e il suo scimmiesco alterego (Darwin scànsete) all’interno di summae geniali come Anno Dracula di Kim Newman (a partire dal 1992) e The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore (a partire dal 1999). Dove però il discorso si sposta semmai sulle ragioni e potenzialità dello strumento pastiche, in riferimento alla specifica scelta dello sfondo vittoriano.

Tale vortice di imprestiti e adattamenti per cui Hyde diventa di volta in volta la versione (non più bruta, ma) più disinvolta e faustianamente giovane del vecchio dottore, o quella femminile, o altro (parodie comprese), è evocato con ironia, consapevolezza e una buona mappatura di citazioni da questo Hyde in Time, a cura – o piuttosto a firma – di Mario Gazzola, che tra gioco semiotico e fantasia pop impazza sul tema dei manoscritti ritrovati: ben tre, già a suggerire una tensione a mappare le più diverse variabili. Hyde e l’altro si presenta come apocrifo di Stevenson, presunta prima versione “estrema” della novella; Il lupo di Whitechapel attribuito a Samuel Lloyd Osbourne, figlioccio di Stevenson, vede la rivincita di Hyde nei panni di Jack the Ripper; Hyde in Time di Samuel Osbourne II, ultimo della famiglia, presenta nerissime ricadute della storia nel XXI secolo, tra arte e psicoterapia. Strepitose le tavole di Roberta Guardascione, che gioca liberamente con stili dell’Otto (Walter Sickert compreso) e del Novecento. Il gioco è colto e divertente, il libro intelligente e godibile: emerge evocato tra l’altro un ricco tessuto di scoperte e novità tecniche d’epoca, a denunciare una buona ricerca alla base.

Poi ovvio, sul tema la fantasia di un narratore popolare insegue oggi, quasi inevitabilmente, le tinte dell’estremo: violenza e componenti sessuali esplicite sono fatti reagire in termini sornioni con le agenzie immaginali delle diverse società susseguitesi, dai paradigmi dell’età vittoriana profonda al crepuscolo di quel mondo e fino alle odierne categorie psicopatologiche. E tutto questo può avere un senso nell’ambito di una narrativa popolare, di cui accoglie un fitto tessuto di citazioni sottese. Quindi successo dell’operazione.

Resta un dato da ricordare, non solo per pignoleria critica ma proprio per ragionare su eventuali nuove provocazioni narrative: Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde come Stevenson ce lo affida è una straordinaria e sottile opera letteraria, che non si esaurisce nella brillantezza di una trama e neppure nell’oggettivo interesse di un contesto (le scienze umane in età vittoriana, eccetera). E di fronte all’insistenza di riletture odierne – comprensibile, sensata – sulle dimensioni estreme richiama a una chiave letteraria molto più censurata, con tutto ciò che il gioco di allusioni comporta e attiva. Questo tipo di narrativa impregnata di puritanesimo almeno culturale implicava ineludibilmente nella sua evocazione dell’orrore – pensiamo anche a Carmilla, a Dracula… o a tanto Poe, quando evoca nefandezze peggiori di quelle di Erode, Caligola o Eliogabalo (che saranno mai?) – proprio una straniante dimensione censoria, uno sforzo mitologico di tenere tanta roba sotto il tappeto.

Nelle trasposizioni e in questo libro, troviamo Hyde perpetrare eccessi – potremmo dire – a luci rosse: per quanto riguarda quello di Stevenson, al contrario, vediamo assai poco. Un omicidio brutale, la violenza cieca nel calpestare una bambina, una serie di allusioni dall’eco sessuale che potrebbero far pensare alla frequentazione di prostitute e a sodomia, ma nell’ambito di una nebulosa mitica sul sesso perverso le cui censure linguistiche risultano infinitamente più minacciose nella loro vaghezza di qualunque tentativo di puntarvi i riflettori. Perché giocate al filtro di un sentire meglio espresso dall’allusione che da qualunque visione diretta: un sentire mitologico, di impliciti e indicibili, di pelle più che di ascolto di notizie. Il lettore odierno potrebbe persino chiedersi: Tutto qui? Ma non comprenderebbe quel magma di turbamenti che sta in fondo dietro a tutto il nero vittoriano e agli spettri del suo registro narrativo.

Il che costringe forse a ricordarci che non è tanto la trama a suggerire un sapore gotico, ma il rapporto di echi, allusioni e non detti con i brividi e i perturbanti, con le censure e i desideri inconfessabili di una società. Più che vedere Hyde, il Nascosto per antonomasia, dovremo dunque sentirlo: al filtro delle censure nostre, di ciò che per noi è un’esperienza limite – ma lui sta oltre. Potremmo obiettare che i vittoriani, catafratti da pudori e fantasmi puritani oggi dismessi un po’ ovunque in occidente, vincono facile, e forse anche per questo un certo tipo di immaginario ha saputo restare nel tempo, adattandosi attraverso infiniti mascheramenti, declinando diversamente gli oggetti dei fremiti ma mantenendo un’ambigua numinosità.

Eppure il nostro tempo che crede di poter vedere tutto, di poter mostrare tutto, non è esente da censure – saranno meno evidenti, ma forse non meno gravide di mito. Vi entrerà il sesso, con ogni probabilità; plausibilmente la politica, forse la religione, ma così si resta fin troppo sul generico. Però per capire il Nascosto o almeno provarci, occorre costringerci su questa pista. Non tanto per comprendere se Hyde sarà scimmiesco, o invece giovane e belloccio, o magari di un diverso genere sessuale; ma per mettere a fuoco cosa davvero ci turbi, ci provochi e non riusciamo a dire, cosa i miti del nostro tempo qualifichino come indicibile o irriducibile al vocabolario. Forse per questo, al di là di un eterno ritorno condotto anche con intelligenza – come senz’altro in questo caso – la sfida oggi dello scrivere gotico (o weird) non riguarda tanto un’originalità di contenuti ma di tagli per parlarne, di passi e di forme. Che non sono mai semplici vestitini della sostanza, ma identificano una voce.

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Pezzi di vetro https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/pezzi-di-vetro/ Fri, 07 Mar 2025 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87253 di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita [...]]]> di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita la mia collezione di animali di cristallo. Mi guardo intorno e non credo a questo vuoto. Persino tu, ormai, non mi sembri altro che un fantasma. Mi chiedo dove abbiamo sbagliato. Le mie mani sono le stesse di quelle che da bambina costruivano insieme a te castelli di sabbia sempre troppo alti per stare in piedi, e che finivano per crollare prima di essere conclusi.

Ora tu vuoi farmi un sacco di domande. Te le leggo tutte in quei tuoi occhi azzurri, confusi e atterriti. Vorresti chiedermi cosa sapevo di Stefano. Vorresti chiedermi se mi ricordo cosa è successo veramente quella notte. Vorresti chiedermi quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Sono le stesse domande che mi hanno fatto durante gli interrogatori. Me le hanno fatte più e più volte, di continuo, dopo molte ore che non dormivo e alla mattina presto – immaginando forse che avessi potuto riposare. Le mie risposte non sono cambiate. Ho ripetuto come un pappagallo la verità che avevo imparato a raccontarmi, ma a te darò un’altra versione. Perché a te non ha senso mentire. Sono settimane che scambio il giorno con la notte, che mangio senza regole, che mi muovo come una bambola caricata per il mio appartamento. Ho abbandonato i sonniferi. Non ho mai sonno, passo le notti a guardare le vette che ci circondano e le poche macchine che percorrono i tornanti. Ogni tanto, però, mi assale una stanchezza devastante, un torpore improvviso che mi taglia le gambe e mi fa accasciare in un angolo, sul divano, sul letto oppure anche per terra, sul tappeto o sul pavimento di legno. Stasera sei venuta a trovarmi senza preavviso. Non sono stata io a invitarti, e per essere qui non hai disdetto nessun appuntamento. Appena hai varcato la porta di casa, ti sei guardata intorno con aria schifata e sei andata a spalancare la finestra. Ma non credo che tu ti sia illusa che il puzzo se ne sarebbe andato. Questo è il mio odore, è l’odore tuo, di Stefano, del bambino; è l’odore della nostra storia, imprigionata per sempre in questo appartamento, attaccata alle pareti, ai mobili, alla tappezzeria. Perché sei venuta? Per chi hai indossato quel tailleur bordeaux? Sei mia sorella, e allora? Volevi vedere come stavo? E ora che lo hai visto, cambia qualcosa? Fanno forse la differenza le mie unghie rovinate, i capelli in disordine, gli occhi gonfi? Inizierò dall’ultima delle domande che, per paura della risposta, non mi hai fatto. Quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Potrei dirti che l’ho scoperto un giorno in cui eravamo ai giardini pubblici e lui si è messo a urlare come un ossesso, ma non sarebbe la verità. Certo, quel pomeriggio d’autunno, in un parco con l’altalena gialla e lo scivolo di metallo che rifletteva il grigio del cielo, non lo scorderò mai. In un attimo mi si è spezzato il cuore. Se mi concentro, sento ancora la musica jazz, malinconica e amara, che proveniva dal locale di dubbio gusto, con le poltroncine foderate di velluto rosso già mezzo consumate, di fronte all’entrata principale del giardino. Ma in realtà, ho sempre saputo che il bambino nascondeva un segreto. Da quando l’ho attaccato al seno la prima volta e mi ha fatto troppo male per essere così piccolo, così indifeso. Il dolore che ho sentito me l’ha reso estraneo, ma subito dopo ho provato per lui compassione perché appunto aveva sul piccolo viso, sui minuscoli occhi, nelle microscopiche orecchie, il marchio di uno sbaglio. Il suo destino era segnato perché persino io, sua madre, non riuscivo ad amarlo.

Vorresti chiedermi quando mi sono resa conto che anche in Stefano qualcosa si era rotto. È successo un po’ alla volta, e tutto è culminato in quella notte maledetta. Mi ricordo che un pomeriggio stavo parlando al telefono quando mi è caduto l’occhio sulle bottiglie di superalcolici che tengo in soggiorno. Quelle che ti ho appena offerto, esatto. Mi sono accorta che erano tutte vuote. La mia mente ha registrato il dato senza darci importanza. Me ne sono ricordata solo alcune settimane dopo, quando ho visto Stefano piangere la mattina presto seduto in cucina, davanti a un caffè che continuava a portarsi alle labbra ma che non riusciva a bere. Singhiozzava in silenzio e con la mano sinistra si teneva la fronte. Lo ho osservato per qualche istante poi sono tornata a letto.

Stefano è diventato di giorno in giorno più stanco, più scostante, più assente. Una sera sono tornata tardi dal lavoro perché una paziente aveva avuto una reazione allergica al botox; lui, appena ho varcato la porta di casa, mi ha detto: “dove cazzo eri finita? Tuo figlio ha fame”. Non sono state tanto le sue parole a stupirmi, ma il suono stesso della sua voce, che era del tutto diverso da quello che conoscevo. Era acuto, quasi femminile. Gli ho spiegato cosa era capitato. Lui è rimasto in silenzio per un po’, poi ha iniziato con la storia che avrei dovuto lasciare l’ambulatorio, perché così non si poteva andare avanti. Ma io amavo troppo il mio lavoro per poterci rinunciare. Eppure, ora non mi sembra che una delle tante cose che ho perso, e neppure la più importante.

Nel giro di qualche mese, la situazione con Stefano è precipitata, ma non voglio annoiarti. Arriviamo a quella notte. Tu eri venuta a trovarmi per parlarmi di una delle tue stupidaggini, che adesso non ricordo più. Stefano è tornato a casa tardi. Aveva bevuto molto vino, si sentiva dal suo alito. Io gli sono andata incontro e lui mi ha spinto dicendomi: “Spostati troia”. Il bambino, allora ha cominciato a ridere e a ripetere troia senza sapere cosa stava dicendo. Stefano è andato a chiudersi nel suo studio, tu sei andata sul balcone a fumare: non volevi immischiarti in disagi che non ti appartenevano. Sei sempre stata così, ed è proprio per questo, solo per farti un dispetto, che stasera ti racconto finalmente la verità.

Ero nella mia cucina moderna e perfettamente ordinata, con un figlio che non riconoscevo, che rideva e che mi chiamava troia perché lo aveva sentito dal padre. Per lui tutto ciò che il padre diceva o faceva era meraviglioso. A un tratto, io e il bambino abbiamo alzato lo sguardo e sono stata certa che tutti e due nello stesso momento abbiamo visto le montagne fissarci con occhi enormi, gialli e cattivi. Abbiamo anche sentito la loro voce – profonda, baritonale – che si faceva strada tra le rocce. Era un richiamo verso la morte, verso la fine di tutte le cose. Il bambino si è girato nella mia direzione. Continuava a ridere e a ripetere troia ma il suo sguardo ora era terrorizzato. Una forza oscura ci aveva trascinato altrove. Dopo pochi istanti, eravamo già in un inferno freddo e buio. Ho supplicato ancora una volta quel mio figlio sbagliato di stare zitto. Non mi ha ascoltato. I suoi occhi, la sua voce si confondevano con quelli della montagna. Non so perché si sia seduto sulla finestra, ma posso dirti che sono stata io a farlo precipitare nel vuoto. Quando ha raggiunto il terreno, alle mie orecchie è arrivato il rumore di un vaso che si rompe in mille pezzi. Ho pensato che fosse anche lui di vetro come i miei soprammobili. Poi ho sentito il mio urlo. Tu, senza lasciare la sigaretta che ancora tenevi in mano, hai chiamato i soccorsi. Tutti hanno creduto che si fosse trattato di un incidente; sono riuscita a mentire ai giudici perché prima di tutto ho mentito a me stessa. Ci hanno creduto tutti tranne Stefano, che al funerale stava in disparte e che, da quella notte, non mi ha più parlato. Quando è sparito, non ero stupita né preoccupata, ma solo arrabbiata. Se ne è andato senza dirmi addio, senza nemmeno salutarmi. È stata una vigliaccata, dopo tanti anni passati insieme, dopo tante parole buttate al vento. La vigilia di Natale ho ricevuto una telefonata anonima che mi ha rivelato che era entrato in un brutto giro di scommesse e di gioco d’azzardo. Ma anche questo in fondo non mi ha sorpreso.

Ora sono sola. Non ho più un figlio, né un marito, né amici, né un lavoro. A farmi compagnia ci sono abiti maschili che nessuno più indossa, giocattoli che nessuno più guarda. Ci sei tu, con i tuoi ritagli di tempo, le tue sigarette e i tuoi abiti troppo eleganti per il paesino sperduto in cui viviamo. Ci sono le montagne che, chissà, forse un giorno mi parleranno di nuovo. Se ripenso alla mia vita, capisco che sono stata felice, a tratti, forse, ma in fondo non ho mai creduto del tutto alla felicità.

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Una questione estetica https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/una-questione-estetica/ Thu, 06 Mar 2025 23:39:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87193 di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza [...]]]> di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.

Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale. Depressione, ADHD, crisi di panico, ecoansia, anoressia, paranoie complottiste, dropout scolastico, dolore cronico: tutte queste fratture sono interpretate, diagnosticate e infine curate come malfunzionamenti dell’individuo, pensato – in linea con tutta la filosofia moderna – come entità ontologica a sé stante, autosufficiente, che intrattiene con il mondo e con gli altri soggetti relazioni di tipo estrinseco e utilitaristico, che non ne mutano l’essenza.

Per ragioni del tutto imponderabili, alcuni individui portano in sé difetti di programmazione, bachi fisici o psicologici che non permettono loro di funzionare come si deve. Per fortuna però – così prosegue il ragionamento – grazie al progresso tecnico e alle sue creature, oggi è possibile sopperire a questi malfunzionamenti dei singoli con un mix ben dosato di innesti tecnici, (psico)farmaci e distrazioni.
Su questo piano inclinato si ritrova rapidamente chiunque decida di restarsene al calduccio nella doxa del progresso. Sono pochi, e assai malvisti, i protervi che non si accontentano della via larga e vanno in cerca di altre diagnosi e letture diverse della realtà.
Alcuni di loro atterrano nei cosiddetti movimenti olistici (ex new age), una galassia pirotecnica di filosofie, pratiche di vita e sistemi terapeutici – talvolta seri e affidabili, talaltra ambigui e cialtroneschi – accomunati dal proporre eziologie indubbiamente altre. Dai movimenti delle orbite al flusso del qi nei meridiani, dalla divinazione all’incontro con le piante, queste piste sono rifiutate in blocco dai custodi della verità in quanto non scientifiche. Qui si aprirebbe in discorso lunghissimo, che provo a riassumere nel modo più antipatico possibile: antropologicamente parlando, la scienza è solo uno dei molti modi conoscitivi sviluppati dagli umani e la sua presunzione di superiorità deriva in primo luogo dall’essere il sistema di conoscenza dei colonizzatori (chi avesse voglia di approfondire troverà grandi soddisfazioni nei testi di Philippe Descola, Piero Coppo, Eduardo Viveiros de Castro, Boaventura de Sousa Santos, Mike Singleton, Ramon Grosfoguel).

Qui mi interessa invece sottolineare che, spesso, neanche i movimenti olistici superano il presupposto dell’individualità del dolore: come nella biomedicina, anche qui l’attenzione è quasi sempre messa sul singolo, sulle cause soggettive del malessere e sulla guarigione intesa come processo personale.
Altri, presi da sconcerto davanti a un mondo così incredibilmente malmesso, giungono invece a pensare che la stragrande maggioranza dei malesseri, delle dissonanze e delle insopportazioni che avvertiamo in noi è perfettamente giustificata dallo stato del mondo intorno a noi. Questa consapevolezza è ciò che, nella sfera comunicativa para-totalitaria di questi anni, bisogna rintuzzare a ogni costo: i pochi che provano a dire altro sono subito violentemente irrisi e tacitati, nel silenzio – spesso intimidito, a volte compiaciuto – di una maggioranza che al momento, come cantava De André, sta: come una malattia, una sfortuna, un’anestesia…
In alcuni casi, le operazioni di censura sono fin troppo facili. Forse per via del poco allenamento all’analisi critica, alcuni fra i refuseniks del mondo-così-com’è vengono agganciati da spiegazioni risibili (i rettiliani, QAnon, la grande sostituzione), che i guardiani della ragione non faticano a squalificare. Pur nella loro puerilità, tuttavia, queste narrazioni hanno due pregi notevoli: spostano la causa del malessere dall’interiorità del soggetto allo stato di cose in cui è immerso, e forniscono una ragione per i mali del mondo senza nascondere il disastro il corso (sono quelli che Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto chiama “nuclei di verità”; un eccellente approfondimento della questione “complottismo” si legge nella prefazione di Elisa Lello, scaricabile qui).
In altri casi, invece, l’insopportazione allunga le sue radici nell’analisi storica, nel confronto con forme altre di umanità, nell’archeologia filosofica, nell’esperienza di piccole comunità che “fanno altro”: in breve, nel terriccio del grande pensiero critico a cui il libro di Amiech, di fatto, appartiene.

Esame obiettivo
L’industria del complottismo funziona come bussola, come lenitivo e come parte di una diagnosi complessa, in cui sofferenza individuale e stato del mondo, intimo e politica, non sono separabili. Per certi aspetti, l’incedere di Amiech ricorda quello dell’Encyclopédie des Nuisances, una delle più straordinarie imprese contro-culturali transalpine, la cui intelligenza critica non ha perso un grammo di mordente (ne approfitto per menzionare almeno i nomi di Jaime Semprun, René Riesel e Jacques Philipponnau; in Italia, il principale alleato dell’Encyclopédie è stato a lungo Piero Coppo, non a caso pioniere dell’etnopsichiatria: v. sotto).

L’accusa di complottismo, nota l’autore, equivale a una psichiatrizzazione della critica. Se sentiamo di non poterci fidare della narrazione pubblica, non è perché siamo paranoici o psichicamente farlocchi, ma perché leggiamo correttamente i segni: della narrazione pubblica non c’è proprio da fidarsi. La carrellata degli orrori comincia, a ragion veduta, con la storia del nucleare. Attingendo a un altro ottimo libro di recente pubblicazione (J.M. Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita. Mimesis, Milano-Udine 2023), Amiech mostra, dati alla mano, come il nucleare sia probabilmente il segreto meglio custodito e la menzogna più colossale di tutti i tempi. Lascio volentieri a chi leggerà il piacere di scoprire i dettagli, un crescendo di atrocità che, diverse volte, mi ha costretta a interrompere la lettura per riprendere fiato. Qui basti dire che, dall’inizio dell’era nucleare, i morti causati dalla sua filiera si contano a decine di milioni e che la crisi climatica stessa potrebbe avere origine dalle sperimentazioni nucleari.
La commistione di interessi industriali, statali, militari e medici rende pubblicamente invisibile e imparlabile ciò che lavoratori e vittime vedono benissimo. Il caso del nucleare è il più colossale, ma non certo l’unico: Amiech prosegue con la storia del piombo e dell’amianto, con la menzogna della transizione green, con il saccheggio delle risorse fossili, con l’estrattivismo “di superficie” spacciato per meno dannoso di quello fossile, con la sciagura dell’informatizzazione coatta descritta come accesso a una vita smart e sicura.
C’è di che mettersi a battere i coperchi.

Diagnosi (dove sta la follia?)

Secondo una celebre ipotesi eziologica, la schizofrenia insorge a seguito dell’esposizione a messaggi contraddittori da parte di qualcuno la cui “versione dei fatti” non può essere contestata. Così, un genitore che malmeni un figlio dicendogli che lo fa perché gli vuole bene, rischia di produrre dissociazione: al figlio, infatti, non è possibile né ipotizzare che il genitore sia disfunzionale, né tenere insieme due messaggi così contraddittori.
L’insieme della comunicazione a cui siamo esposti presenta più di qualche analogia con questa situazione. Qualche esempio: il tecno-entusiasmo, con la promessa che il progresso tecnico risolverà tutti i problemi (e chi non ci crede è un oscurantista), unito alla consapevolezza che lo sviluppo tecno-industriale è la causa prima della catastrofe ambientale; la diffusione dell’agribusiness per “nutrire il pianeta” (e chi non ci crede è un cinico) e le ondate di suicidi fra i contadini; una green transition che punta dritta all’ossimoro del “nucleare pulito” e l’impossibilità di bonificare i siti dei disastri nucleari; il green pass descritto come strumento di prevenzione del contagio e vaccini nel cui bugiardino stava scritto che non proteggevano dal contagio. Per non dire dei molti conti che non tornano: non torna che nel migliore e più progredito dei mondi la maggioranza delle persone sia afflitta da durevole tristezza; che la sola impresa conoscitiva valida non riesca neanche più a prevedere che tempo farà domani; che la lotta di tutti contro tutti possa portare alla maggiore felicità possibile. E via dicendo.

Mala tempora currunt quando la lingua del potere può ignorare la logica e imporre la sua versione unica dei fatti; peggiori ancora, e già prossimi al totalitarismo, quando le menti dei sudditi si acconciano al bipensiero, a tener per vere nello stesso momento due cose contradditorie, a scivolare nella dissociazione pur di non ammettere che la follia è quella del mondo che ci circonda, degli infami che lo governano, della struttura stessa del dominio e del plusvalore.

Cura, cure
I Rage Against the Machine hanno scritto uno dei versi più angoscianti nella storia del rock: There is no other pill to take, so swallow the one that makes you ill. Non c’è cura, finché si resta nell’orizzonte del sistema. Bisogna guardare altrove.
Antropologia medica ed etnopsichiatria hanno descritto un buon numero di sistemi terapeutici non occidentali in cui si fa di tutto per sganciare la malattia dal soggetto che la manifesta, costruendo complesse eziologie sociali. Sono luoghi dove guarire una malattia non significa guarire l’organo malato, e neanche la persona che sta male, ma sciogliere i nodi, gli incastri e i nessi sociali che sono la causa prima del malessere. Coltivata, in tempi migliori, anche dall’antipsichiatria e dalla medicina sociale, questa intuizione è stata poi spazzata via dal riduzionismo e dai protocolli dell’attuale medicina biotech.
Il pensiero critico le è in qualche modo imparentato. Spostando lo sguardo dall’interno all’esterno, dal malessere del singolo allo stato del mondo in cui vive, mette a fuoco il nesso che lega i soggetti all’ecologia complessa in cui sono immersi; accantona le epistemologie della cecità e le ontologie della dissociazione imposte dal pensiero macchinico; non nasconde la portata del disastro in corso; e, nei casi migliori, non rinuncia a cercare strumenti per sciogliere il dolore e rimettere il mondo sulle sue gambe.
Che il nostro mondo è orribile lo sentiamo anche senza saperlo coscientemente. Ma non è l’unico: un po’ perché ancora ne esistono altri (quelli che il colonialismo ci ha insegnato a disprezzare), un altro po’ perché ecologie vivibili di umani e non umani non sono impossibili da immaginare e mettere in pratica. Amiech dà qualche indicazione di massima: disintossicarsi dal digitale; ripensare le forme di autonomia e sussistenza; coltivare la vita comune e le decisioni collettive. E cioè tornare in sé e al proprio mondo.

(Infine, e fra parentesi, un breve nota che riporta all’estetica, alle qualità del sentire. I luddisti non lottavano tanto contro le macchine in sé, quanto contro l’inabissamento dell’autonomia delle collettività e la perdita di qualità – dei prodotti, del tempo, della vita – che ciò comporta. Ebbene, a differenza di quanto accade comunemente presso editori ben più blasonati, il libro di Amiech è ben tradotto, privo di errori di stampa, curato nell’impaginazione e quindi piacevole da leggere. Se lo scopo della rivoluzione è la qualità del nostro quotidiano collettivo, allora bisogna farla finita anche coi libri impaginati a caso, tradotti con DeepL, mai riletti e stampati su carta dozzinale.)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 9 https://www.carmillaonline.com/2025/03/05/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-9/ Wed, 05 Mar 2025 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87097 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Nel buio della Notte di Valpurga (1917)

I primi due capitoli di La Notte di Valpurga ci hanno già mostrato alcuni aspetti d’interesse: in un clima crepuscolare ostaggio della guerra, visioni di miseria e contraccolpi dell’età feriscono la vita apparentemente regolata – o piuttosto asfittica – del medico di corte Flugbeil detto il Pinguino. Ombre di amori imputriditi, di malinconie fatte rancide e di fallimenti esistenziali: il modernismo incontra l’espressionismo tedesco in modo persino più riconoscibile dai frequentatori di quell’epopea cinematografica.

Il romanzo non è certo dei più simbolicamente ricchi di [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Nel buio della Notte di Valpurga (1917)

I primi due capitoli di La Notte di Valpurga ci hanno già mostrato alcuni aspetti d’interesse: in un clima crepuscolare ostaggio della guerra, visioni di miseria e contraccolpi dell’età feriscono la vita apparentemente regolata – o piuttosto asfittica – del medico di corte Flugbeil detto il Pinguino. Ombre di amori imputriditi, di malinconie fatte rancide e di fallimenti esistenziali: il modernismo incontra l’espressionismo tedesco in modo persino più riconoscibile dai frequentatori di quell’epopea cinematografica.

Il romanzo non è certo dei più simbolicamente ricchi di Meyrink, gioca su effetti forti ed eccessi che potremmo definire pop: guardando le datazioni può essere stato composto in fretta. Eppure le stroncature risultano eccessive, emblematica quella di Gianfranco Franchi sul bel sito Mangialibri:

 

Romanzo zoppicante e debole, bene ideato ma mal narrato; e decisamente più confusionario e disordinato rispetto alle altre opere di Meyrink. Stavolta, onestamente, si può concordare con quanti legano la letteratura di Meyrink al ciarpame kitsch: l’artista austriaco, in questo caso, è indifendibile. Qui davvero si può parlare di letteratura gotica tout court; ma è un gotico soporifero e demodé. Davvero un libro irrilevante, se paragonato a Il Golem o al fascino dell’incompiuto La casa dell’Alchimista o al pur disorientante Il volto verde.

 

Si può non essere d’accordo, a fronte della forte suggestione d’atmosfera, dell’uso insistito del grottesco e del torbido che sconfina nell’onirico, della presenza di alcuni personaggi (Zrcaldo, Flugbeil…) ben tessuti. Rispetto al labirintico Volto verde è un libro più “facile” e compatto, e nell’ambito del gotico si può non disprezzare – suvvia – un certo taglio demodé. Soporifero probabilmente no, visto che il lettore è incuriosito da cosa potrà avvenire. Poi è chiaro, non si discute di grande letteratura – alla quale è ascrivibile probabilmente, della produzione di Meyrink, il solo Golem – ma di letteratura interessante, rilevante per l’immaginario e godibile nelle sue trovate. Per cui leggere La Notte di Valpurga, con i suoi limiti e i suoi eccessi, ha ancora senso. E se di ciarpame kitsch si può parlare, è nel segno di quella “Bottega delle Meraviglie” emblema della realtà visitata dal protagonista del Volto verde: una panoramica sulle cantine della Storia dove, sotto il livello dei pavimenti, si conservano oggetti desueti […] Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti che hanno – ci mostra Francesco Orlando – un loro senso letterario e un loro fascino.

Il terzo capitolo, La Torre della Fame, parte da un altro dei luoghi celebri del Hradscin di Praga, la Daliborka dalla fama sinistra. Lì vive come guardiano il veterano Vondrejc – intento ora a contare le esigue mance ricevute – con la moglie e il delicato (nonché, scopriremo, cardiopatico) figlio adottivo diciannovenne Ottokar allievo del Conservatorio. Il figlio scende verso il palazzo della contessa Zahradka, ma poi invece si dirige da Lisa la boema, che lì per lì non capisce che lui intende farsi predire il futuro. Chiarito il suo desiderio, gli fa segnare dei tratti su una tavola di creta molle; poi Lisa conta i segni, numera e ordina i risultati secondo la “antica arte dei punti dei Boemi” appresa dai Saraceni.

La Boemia, recita Lisa secondo la formula, “è il focolare di ogni guerra” e menziona il nome di “Jan Zizka, Zizka il cieco, il nostro capo”. Più precisamente Jan Žižka (cioè “monocolo”, avendo perso un occhio) z Trocnova a Kalicha (c. 1360-1424) era stato un generale ceco tra i capi degli hussiti radicali, dalle innovative trovate belliche e dalla ferocia probabilmente enfatizzata dalla propaganda nemica. Incurante delle domande di chiarimenti del ragazzo, Lisa prosegue ricordando che la Moldava è piena di piccole sanguisughe perché in precedenza era rossa di sangue, e attendono che lo sia di nuovo. Poi però resta colpita dalle figure disegnate dal giovane: vuol divenire l’imperatore del mondo? E fa tutto “per quella là?”: Lisa lo pensava in amore con la cameriera Bozena – lui scuote il capo – ma da quella stia in guardia, è una succhiatrice di sangue. Come lui è della stirpe dei Borivoj, e si attraggono come il ferro e la calamita. Poi, cancellati i segni, sulla tavola, lo ammonisce a non essere lui il ferro con lei come magnete, altrimenti sarebbe perduto. Tra i Borivoij uxoricidi, incesti e fratricidi si sprecavano…

Ottokar vorrebbe ancora sapere qualcosa sulla profezia del “divenire imperatore” ma vengono interrotti dall’apparizione di un figuro grottesco con parrucca e favoriti posticci: le chiede se poco prima non si trovasse lì il medico di corte Flugbeil e Lisa lo caccia. Era Stefano Brabetz, spiega, un poliziotto privato che tenta di estorcere denaro in modi tanto goffi da non riuscirci mai. È della Praga bassa, dove tutti gli sono simili, forse per le esalazioni della terra: quando la gente si incontra, sogghigna maligna come a fingere di sapere chissà che degli altri. A Praga tutto sa di pazzia e di mistero: una pazzia diversa da quella pietrificata del Hradschin. Ora Brabetz sta appunto fiutando che qualcosa sta per accadere sul Hradschin…

Il ragazzo – che, Lisa conferma, è a sua volta pazzo, non c’è niente di male e per la follia di un sogno lei è stata amante del re di Serbia Milan Obrenowitsch (Milan IV Obrenović o Milan I di Serbia, 1854-1901, principe e poi re di Serbia, 1868-1889) – vorrebbe sapere cosa dovrebbe accadere. Ma lei gli chiede dove vada col violino: apprendiamo che andrà a suonare al palazzo della contessa Zahradka che è la sua madrina, e rendendosi conto che Lisa ha fretta di metterlo fuori, riparte. Le campane della Cappella della Santa Casa gli paiono venire da dentro di lui: raggiunge Palazzo Reale e ha la visione di una processione guidata dal principe arcivescovo. Viene colto da vertigini di fronte alle sue fantasie di essere incoronato… poi, mentre cerca di arrivare in tempo dalla contessa, nota che il portone del palazzo Waldstein è aperto: occhieggia incuriosito e vede portar fuori il cavallo impagliato appartenuto ad Albrecht von Wallenstein (o appunto Waldstein, 1583-1634), uno dei protagonisti della guerra dei trent’anni – e destinato a fama postuma anche grazie alla trilogia Wallenstein di Friedrich Schiller (1796-1799).

Dall’immagine di quel cavallo, quasi versione deformata, rigida e grottesca del cavallino a dondolo dei bambini, era stato ossessionato, ma non era mai riuscito a decifrarne il presagio. Come un enorme giocattolo piombato ora nel tempo della terribile guerra dei demoni delle macchine contro l’uomo (torniamo alla costruzione di macchine poi arrugginite nel Volto verde e al tema della macchina in I quattro fratelli della luna). In qualche modo resta comunque turbato dalla battuta scherzosa un servo che lo invita a salire sulla groppa tarlata dl cavallo…

All’inizio di primavera, la contessa è solita passare nel piccolo, cupo palazzo della sorella morta contessa Morzin, buio come ama lei, mentre il suo palazzo resta con le persiane chiuse. Il ragazzo entra nell’edificio circonfuso di storie di tesori e di spettri, e raggiunge la contessa nella scomodissima e buia stanza ricoperta di fodere – come per qualche vendita all’asta – dove attende il figlioccio povero. Unico oggetto a emergere (in parte) dalle fodere è il ritratto a grandezza naturale del defunto sposo della contessa, il maresciallo di corte Zahradka, leggendariamente (e ottusamente) crudele e duro con gli altri come con se stesso. Nemmeno i numerosi gatti del palazzo osano entrare nella stanza… La contessa verso Ottokar mostra atteggiamenti contraddittori, ma la tenerezza dura pochi secondi per essere sostituita da un freddo disprezzo forse retaggio delle antiche radici aristocratiche boeme: e più che i discorsi ciò riguarda i toni. Verso la musica che lui le offre, mostra reazioni assenti o invece contraddittorie rispetto al tono della musica – come l’odio quando lui suonava bene, forse per una sorta di lesione dei privilegi di classe. Più che le persone, in questa storia, finiscono con il rilevare le radici, il DNA e la classe di appartenenza.

(Si presentano qui alcune belle illustrazioni a incisioni di Vladimir Zimakov, dall’edizione Vita Nova del romanzo, San Pietroburgo 2009.)

Le offre dunque una canzone popolare sentimentale (la prima mai suonatale, in occasione della cresima) e vive lui il trasporto estatico della musica vagheggiando un volto femminile fantasticato – con il curioso effetto che al suo emergere reca stranamente alla musica ritmi di selvaggia crudeltà. E all’improvviso quella giovane appare dalla porta, come scaturita dal suo stesso essere: e suona per lei, rapito. Si vede con lei nel buio della cripta di San Giorgio, dove la luce di un cero illumina una scultura in marmo nero di una morta semidecomposta con un serpente sul petto, e risente le parole del monaco custode ai visitatori sull’artista: avendo ucciso per gelosia l’amante incinta era stato costretto a scolpirne il ritratto prima di finire sulla ruota… Ma ora la giovane sorridente si è posta vicina alla contessa, che la presenta come la nipote Polissena e le ingiunge di non disturbare. Ottokar, colpito, resta bloccato ma poi viene nuovamente interrotto da Polissena che ammette di aver pensato (anche lei!) alla cripta di San Giorgio. Ma la contessa ha notato con meraviglia il modo appassionato in cui Polissena ha pronunciato il nome di lui: e diviso tra le reazioni opposte delle due donne, il povero Ottokar tenta con il motivo di un organetto ambulante dalla strada – e nota che Polissena ha scappucciato l’orologio a pendolo e ha puntato le lancette ferme sulle otto. Poi la contessa loda la sua esibizione ma lo avvilisce offrendogli due banconote per comprarsi un paio di calzoni non così macchiati. Persa completamente lucidità, il giovane si trova in strada… e pensa all’appuntamento con Polissena. Ha anche l’idea di affogarsi per la vergogna nella Moldava, ma desiste devastato tra vergogna e strazio per la delusione, se lei venisse o invece mancasse all’appuntamento. Fissa la Daliborka, la torre nei cui tre piani (il più alto con i prigionieri nell’oscurità, il secondo per la morte per fame, il più basso coi corpi in decomposizione delle vittime) la gente impazziva, e che non è ancora sazia, come una fiera che si nutra di carne e sangue. Torna verso casa, la madre sospetta che a interessarlo non sia più Bozena.

Nella Daliborka una stanza è memore della prigionia della contessa Lambua, bisnonna della contessina Polissena e avvelenatrice del marito, morta pazza: aveva fatto in tempo a lacerarsi i polsi coi denti e dipingere col sangue il proprio ritratto sulla parete. Lì nella torre Ottokar attende terrorizzato l’ora dell’appuntamento: da qualche mese a Polissena pensa sempre, ma agitazione e dolore lo straziano. La loro storia pare una favola nera: si trovava per suonare per degli ospiti al palazzo Elsenwanger ed era stato rapito dal ritratto di una dama di età rococò dall’espressione crudele e sensuale, la contessa Lambua battezzata Polissena, e l’ambiente della Torre della Fame aveva contribuito a plasmare il suo mondo fantastico. Ma non immaginava che l’oggetto del suo sogno potesse esistere davvero, e un giorno nel Duomo l’aveva incontrata in carne e sangue della discendente omonima: si era gettato ai piedi di lei ed era nata una “passione selvaggia, innaturale […] come un turbine diabolico”, carica dei desideri di tutto un retaggio. Col risultato che la ragazza spensierata entrata nel Duomo ne era uscita mutata anche nell’anima nell’omonima antenata… incontrandosi proprio quando si desiderano più intensamente. Comunque lei appare all’appuntamento, e tutto quel che precedeva è inghiottito dall’oblio: le vesti di lei finiscono sparpagliate sulle sedie, lui sente “il calore della sua carne, il morso dei suoi denti sul collo, […] i suoi gemiti di voluttà” in un’estasi dei sensi di cui poi non ricorda nulla, come del fatto di aver suonato – ma si tratta di una musica venuta da lei, di voluttà, orrore e spavento (si può immaginare che le metafore usate per descrivere una consumazione sessuale risultino troppo retoriche e datate per un romanzo “elegante”, ma l’idea dell’autore è di insistere sul disturbato, sul patologico fino a sfumature grottesche). Mentre i pensieri di Polissena si trasmettono vivi al cervello di Ottokar come proiettandovi una storia evocata da una lapide della Piccola Cappella sul Hradscin. A proposito di un temerario, Borivoj Chlavec, che aveva mirato alla corona di Boemia ed era stato impalato: ma il palo si era spezzato e l’uomo, con il troncone ancora nel corpo, era riuscito a trascinarsi fin da un prete per ottenere una morte devota coi Sacramenti… Ormai Polissena se n’è andata, ma il sogno di Ottokar è di offrire all’amata, foss’anche centuplicando i tormenti dell’impalato, ciò che di più alto la volontà umana possa conquistare.

Intanto Flugbeil continua a essere di malumore per la visita a Lisa la boema e soprattutto per il riemergere del ricordo del suo antico amore per lei. Si debba attribuire all’aria languida del maggio o all’eccesso di spezie nei gulyas della trattoria Zum Schnell che rende difficile prendere sonno, resta irrequieto; e si spaventa quando, leggendo il giornale per pensare ad altro che alla giovane Lisa, prende a vedere sospetti spazi bianchi – li vede anche la cameriera, è l’opera della censura di guerra, ma il timore è che dagli spazi vuoti erutti il volto ghignante della Lisa di oggi… persino guardare nel telescopio gli richiama simili paure. Ma continua a pensare all’attore Zrcadlo e insieme non è disponibile a tornare a cercarlo. In compenso viene a sapere che Elsenwanger da quella notte non riceve più nessuno e vive nel panico che il documento invisibile evocato dal sonnambulo alluda a una revoca postuma dell’eredità da parte del morto Bogumil – e nel completo clima di sragione collettiva il nobile di Schirnding gli dà ragione, meglio non guardare nel cassetto… Flugbeil resta perplesso.

Decide a un certo punto all’improvviso di cercare Zrcadlo al Rospo verde, dove il proprietario lascia un tavolo sempre libero per il Pinguino e i suoi amici – in realtà mai più presentatisi dall’inizio della guerra. Mentre beve, Flugbeil vede la propria immagine allo specchio ripetere capovolti i suoi gesti: ma per evitare riflessioni malinconiche sull’uomo come mera maschera passiva spegne la lampada vicina. Avvista così invece nello specchio parti delle sale vicine, ricordando malinconico i propri amori con Lisa giovane su un certo divano – e nota a disagio come i ricordi emersi subito si dilatino, come a proposito del fazzoletto regalatole con le iniziali (L.K., Lisa Kossut), da lei morso per non gridare nell’amplesso… La vista grottesca di un gruppo di avventori gozzoviglianti lo spinge a recuperare episodi della giovinezza: ma all’improvviso in mezzo a loro appare Zrcadlo – non imbellettato, ha pelle gialla e la testa sembra di cera. Torniamo alla cera…

A uno dei gaudenti che vuole abbracciarlo, il sonnambulo saetta un’occhiataccia – poi Flugbeil crede di aver visto male nello specchio (come uno schermo cinematografico, per inciso), perché il volto di Zrcadlo si modella come l’orrenda maschera di un morto. Il gaudente, terrorizzato, cade al suolo con un rantolo, morto: e quando Flugbeil riaccende la luce si ritrova davanti il sonnambulo come una sorta di golem.

Cercando di restare freddo, Flugbeil gli chiede cosa cerchi e come si chiami, senza ricevere risposta; allora avvicina un fiammifero acceso alle pupille dell’altro, che non reagisce. Il polso ha un battito lentissimo, che accelera solo alla domanda del medico si chi sia lui; poi inala aria con veemenza e gli occhi sorridono innocentemente. Però non è tornato normale, e il segno intorno alle labbra e il viso del sonnambulo richiamano ora a Flugbeil il volto di lui stesso bambino. Poi l’attore pronuncia “Chi sono?”, con la voce che il vecchio medico aveva da piccolo e insieme, con uno strano duplice tono come a confonderle, con quella del presente: e inizia una sorta di responsorio delle due voci da quella stessa bocca, sul tema “Chi sono?” e sulla sordità al canto della propria anima. Flugbeil dimentica di trovarsi davanti a un incosciente, resta turbato alle accuse del lungo responsorio che in fondo riecheggia i suoi stessi turbamenti, la sua peccaminosa incapacità di gioire per una gioia che non conosca causa, la sterilità della sua senescenza – come se il suo Io l’avesse abbandonato per passare in un altro. Poi gli pare che l’attore sia libero di mente, ma ora è solo posseduto da un’altra entità, un uomo coi baffi che non a caso spiega come le persone incontrate per le strade non posseggano un Io, ma siano semplicemente invasate da fantasmi diversi – come il nostro Io tende a invadere altre persone. Zrcadlo – o come si possa definire la presenza – mostra anzi di conoscere i pensieri formulati da Flugbeil. L’Io passa attraverso gli uomini, non si esaurisce in corpo, sensi, pensiero di ciascuno. Comunque l’interlocutore spiega di essere un Manciù degli altipiani della Cina, non un morto ma un Vivente e residente in quell’Impero di Mezzo che è il centro dell’universo, dappertutto… Si accorge che Flugbeil diffida della sua ironia, ma spiega che la seriosità si addice ai vasi vuoti, mentre la “suprema sapienza va in veste di pazzia”. L’umiltà è un masochismo “ammantato d’ipocrita devozione”, un segno “meno” che unendosi con altri crea un vuoto pneumatico nel regno dell’invisibile. A quel punto è inevitabile che il vuoto chiami un segno “più”, sadistico, portatore di dolore e violenza. Ma, come il povero attore di cui si serve, ogni uomo è uno strumento, mentre l’Io non lo è e resta equidistante dai “memo” e dai “più”.

Il 30 aprile è la notte di Valpurga, ma esistono anche notti di Valpurga cosmiche, a grande distanza l’una dall’altra, e una sta arrivando: l’alto prende il posto del basso e viceversa, si susseguono avvenimenti quasi senza causa e no, non c’entrano la dimensione sessuale o le nozze di una ragazzetta borghese come nei romanzi… Se ai cani del Cacciatore Selvaggio verranno spezzate le catene, viene però spezzato anche l’obbligo del silenzio per il bene di quanti siano maturi per il “volo”. Esorta dunque colui che ha avuto la pretesa di occuparsi dei corpi di occuparsi un po’ delle anime – anche se in effetti non ha finora spiccato il volo sufficientemente in alto… coi suoi monconi di ali da pinguino. Che non significa fare qualcosa a tutti i costi, ecco il segno “più” diabolico che colora di sangue: si tratta di lasciare spazio all’Io.

Ma l’arrivo di una guardia che annuncia la chiusura del locale segna la fine della conversazione – e l’attore è silenziosamente uscito.

Merita ricordare che il romanzo, pubblicato nel 1917 a Lipsia in piena guerra, si colloca in un certo quadro di scossoni internazionali:

 

la rivoluzione bolscevica sta per trionfare in Russia, la civiltà cristiana cambiava corso, una nuova era si apriva nella storia del mondo. Ma il presentimento che ne aveva Meyrink aveva poco a che vedere con le contingenze politiche: questo veggente si interessava solo ai sommovimenti della storia invisibile, ove sono segnate le tappe della coscienza cosmica. […] Per questa risonanza storica [di capovolgimenti epocali], La Notte di Valpurga occupa un posto un po’ a parte nell’opera di Meyrink, che tratta piuttosto di esperienze individuali e di drammi personali, anche quando questi si inscrivono nel destino di una schiatta o di un ordine iniziatico occulto. Al contrario, possiamo dire che qui il dramma collettivo e i drammi personali si congiungono. Tutta una filosofia esoterica della storia emerge dalla lunga tirata che il sonnambulo Zrcadlo rivolge al medico della corte imperiale Flugbeil, che da un capo all’altro del romanzo svolge il ruolo di testimone, un testimone che porta il simbolico soprannome di Pinguino, l’uomo che ha dei monconi di ali. Questo passaggio è sicuramente uno dei più importanti dell’opera di Meyrink: ci fornisce il pensiero più avanzato, più condensato, più chiaro, anche, di un autore di cui non è sempre facile decantare agevolmente l’espressionismo non di rado ridondante e carico di simboli. Contrariamente agli altri romanzi di Meyrink d’altro canto, La Notte di Valpurga non si lascia ricollegare all’una o all’altra tradizione specifica, ma sembra semmai utilizzarle tutte. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Le speculazioni di questo capitolo, peraltro, risultano in modo robusto e tuttavia creativo debitrici di dialoghi con Bô Yin Râ (il bavarese Joseph Anton Schneiderfranken, 1876-1943), scrittore, pittore ed esoterista e dei suoi scritti, particolarmente Das Licht vom Himavat (La Luce di Himavat, 1914) e Der Wille zur Freude (La volontà di gioia, 1917): nonostante il permesso esplicito di uso dei materiali, Bô Yin Râ chiederà poi a Meyrink di non ricorrervi ulteriormente, a fronte di un uso troppo libero e letterario-occultistico di riflessioni di tipo spirituale che aveva lasciato sconcertati alcuni suoi lettori. Il Nostro, correttamente, eviterà in seguito di farvi ricorso (e Bô Yin Râ stesso ne difenderà l’onestà): ma la posizione di Meyrink è esplicitamente quella dell’artista che non pretende un’autenticità puntuale e magari vissuta degli eventi narrati, e si riserva il diritto e la responsabilità di modifiche funzionali alla vicenda – tanto più in quanto genuinamente persuaso dell’esistenza di una realtà sottostante quella della comune esperienza e di cui avverte l’influenza anche quando scrive.

Ogni 16 maggio, in occasione della festa di san Giovanni di Nepomuk patrono della Boemia, al pianterreno di Palazzo Elsenwanger viene offerta una grande cena alla servitù cui presenzia il padrone: e dalle otto a mezzanotte ci si dà del tu mangiando assieme senza divisioni sociali. Se il padrone ha un figlio o in alternativa una figlia, la maggiore d’età, quelli lo sostituiscono. Ma dall’incontro con il sonnambulo il barone è rimasto scosso e ha chiesto alla nipote Polissena di prendere il suo posto: la riceve in biblioteca, tra libri che non ha mai letto, sferruzzando una calza gialla, e suggerisce che poi lei resti a dormire lì. Polissena in realtà non lo dice, ma ha già fatto sistemare un letto nella sala dei quadri: comunque lui si addormenta, e lei non ha voglia di svegliarlo per ricadere in qualche squallido discorso, d’altra parte si sente spossata. Ripensando all’infanzia, la avverte sconsolata e asfittica, soffocata dall’intollerabile senescenza dei due zii e dalle loro terribili maschere quando sonnecchiano, maschere di vecchiaia che paiono rifrangersi nelle azioni, negli ambienti, nei ritratti alle pareti e persino nelle strade, nelle case e negli alberi muschiati della città: a dominare la giovane è un odio contro tutto ciò che è morto e una sete di vita nascosta e pronta a prorompere. La situazione, dopo l’iniziale senso di novità, non è andata meglio con l’educazione al convento del Sacro Cuore, dove la parola “amore” viene costantemente, ossessivamente abbinata al sangue – nel Crocifisso, nelle immagini di martirio o di sofferenza come il cuore trafitto da sette spade, nella luce sanguigna dei lumicini… finché il sangue come simbolo di vita non si lega indissolubilmente al fervore della sua anima. Ciò che rende Polissena la più ardente tra le nobili educande del convento e le resta dentro – l’idea di amore, ma per il sangue e ad esso associata – laddove le materie studiate evaporano.

Alla fine della vita in collegio, il ritorno nella senescenza di casa sprofonda nuovamente Polissena in un passato tombale: ma il sangue come vita resta nel suo sentire e vi collega tutto quanto è giovane, vivo e l’attrae. L’apertura a Palazzo Elsenwanger della sala con il ritratto dell’antenata Polissena Lambua le offre la sconcertante sensazione che inquadri una creatura viva, il cui destino sia strettamente legato al suo. E da matrice destinata diviene una sorta di incarnazione delle sue stesse qualità manifeste come latenti… benché non conosca la fondamentale legge magica “Se due grandezze sono simili, esse sono una stessa cosa secondo simultaneità, anche se nella loro esistenza sono separate da spazio e tempo”.

Il quadro agisce dunque su di lei come poi su Ottokar, affascinato peraltro tramite la ragazza viva che conosce, mentre lei cresce a gradi con esso identificandovisi: ma l’immagine è carica della forza magica del sangue di lei, che chiama quello di Ottokar… e al loro incontro nel Duomo è inevitabile un fatale legame, perché ciò che è latente passa in atto. Il giorno dopo Polissena è andata a confessare la propria colpa, ricordando che al convento le avevano insegnato che sarebbe morta se l’avesse taciuta: ora decide di tacere sentendo che resterà viva – ma ha ragione e torto insieme, perché l’Io vecchio cade morto ed è sostituito da un altro che corrisponde all’immagine dell’antenata. La Polissena morta della sala dei ritratti è ora viva, la viva è caduta morta ed entrambe sono innocenti, visto che una tace in confessione quanto l’altra ha commesso. E amore e sangue vanno a confondersi.

Spinta da un “desiderio dolce e voluttuoso” scambiato dai vecchi per brama di sapere, si aggira dunque sul Hradscin da un luogo di sangue e di martirio a un altro, assorbendone l’alito rosso di eccidi e torture, un’angoscia mutata in ardore.

Alle otto della sera della cena, la ragazza scende dunque nello spazio dedicato alla cena della servitù, viene accolta con baci affettuosi da un vecchio domestico e condotta a capotavola. Intorno, con Bozena che serve le pietanze, la vecchia cuoca degli Elsenwanger e altri servitori un po’ imbarazzati che Polissena cerca di mettere a proprio agio, ci sono alcuni dipendenti di altri aristocratici – in particolare il cocchiere russo Sergio e lo scudiero tartaro Molla Osman – che la fissano con aria tagliente. Ma alla fine, arrivati ai liquori, Polissena chiede notizie della comparsata dello strano sonnambulo: le risposte sono un po’ confuse, ma a un tratto il cocchiere russo chiede come si chiamasse e Polissena riporta il nome di Zrcadlo. A detta del tartaro, è “lo strumento di un ewli”, un fachiro mago che usa la bocca di un altro che si trovi in stato di morte, o dormiente o tramortito. Per quel tempo, l’ewli è come morto: e “Ciò vien chiamato aweysha” – che non ha niente a che vedere col Corano. Ma un defunto di forte volontà o con “ancora una missione da compiere sulla terra” può entrare in un essere vivente desto senza che se ne accorga, oltre che in corpi in stato di morte apparente come il sonnambulo Zrcadlo. Polissena chiede al tartaro perché un morto possa mai voler possedere un vivo, e lui offre una serie di possibili spiegazioni: per godere, per fare qualcosa in terra che non è riuscito a concludere, per provocare – se è crudele – un mare di sangue, e ciò spiegherebbe gli orrori della guerra (anche se il tartaro non spiega così la guerra in corso). Un’idea, un entusiasmo, sono infusi dall’aweysha… di cui esistono diverse specie, a partire da un semplice parlare. Certo vi è indenne chi creda solo in se stesso, sia sempre presente a sé e rifletta prima di agire… ma poi Molla Osman risulta elusivo. Polissena è irritata, non si tratta che di uno stalliere: “E che cosa mi direbbe qualora io gli domandassi, se anche dei ritratti possono fare aweysha?”, offesa nel proprio orgoglio di casta per non aver mai trovato tanto interessante il dialogo con qualcuno dei propri parenti. Vagheggia che, fosse in suo potere, gli farebbe tagliare la testa, ma la fantasia non la soddisfa: “Non poteva sentire delle crudeltà, se ad essa non si accoppiava anche l’amore o la sensualità”, ai quali il tartaro non offre appigli.

Poi Polissena coglie un po’ di agitazione tra i servi, e le parole di un giovane boemo, “ciò che il proletariato, al massimo, può perdere, sono le sue catene”, “la proprietà è un furto”; ma poi spuntano anche il nome Jan Zizka, reazioni scettiche, “Basterà muovere un dito, a che ci sparino addosso. Mitragliatrici!”, risposte del cocchiere russo, e a un tratto il nome Ottokar Vondrejc. Si protende per sentire, ma smettono di parlare. Decide di ignorare il borbottio, ma Bozena – con cui Ottokar aveva avuto una relazione – è rimasta indifferente, dunque il discorso non tocca la sfera privata.

Rammenta allora di alcuni fermenti, brontolii di rivolta che non giungono al Hradscin e a lei non interessano. Ma quando fissa il russo avverte l’odio di lui, distoglie lo sguardo, e coglie come un brivido voluttuoso la prospettiva che possa scorrere del sangue. Un sangue che erompe dal suolo di Praga… e ora è il russo a mostrarsi vinto. Tra sé commenta gelida che ci vorrà ancora tempo prima che il loro proletariato possa spezzare le catene: e matura la certezza di sapere – lei e il suo ceppo – fare aweysha da secoli.

Conclusa la cena, Polissena non si sente di andare subito a dormire, si domanda se Ottokar dorma e per un attimo la prende il desiderio: poi però realizza che i propri sogni sono diversi, ben più selvaggi e ardenti di quelli del fragile giovane, e si chiede se davvero lo ami. E cosa accadrebbe se lo lasciasse… non riesce neppure a sentire dolore al pensiero che Ottokar, malato di cuore, possa persino essere morto. Come se lui avesse confidato quella situazione a un quadro – quello dell’antenata o uno degli innumerevoli altri che ora, passando, la sua candela illumina e che se fossero vivi le rimarrebbero estranei ma ora le paiono cadaveri…

Sente che dabbasso i domestici stanno congedandosi e spia dalla finestra a candela spenta. Il cocchiere russo attende qualcuno e poi viene raggiunto dal giovane lacchè boemo, lei sente solo la parola Daliborka. C’entra con Ottokar? Decide di seguirli o meglio precederli alla torre, anche per evitare di restare tutta la notte con quegli orribili ritratti. Scende, evita crocchi di persone, sale verso il castello; a un tratto le pare di cogliere il tabacco del russo, intravede un volto illuminato dalla luce di una sigaretta e corre oltre fino alla torre dove un gruppo di persone sta puntando. Raggiunta una finestra di casa del giovane, lo chiama piano. Si accorge che all’interno qualcuno sta pregando: è l’anziana madre adottiva di Ottokar – pensa Polissena, riconoscendola per la vecchia governante – che prega perché i peccati di Ottokar non siano imputabili a “colei, che io amo”, cara come una figlia (Polissena, evidentemente) e lui per quella passione non si macchi le mani di sangue assieme a coloro che meditano assassinii. La vecchia chiede nella preghiera di potersi caricare pesi e peccati del giovane o di lei oppure di far morire il giovane ancora innocente. A quel punto Polissena – o piuttosto l’immagine dell’antenata che la possiede e sta per essere scacciata dal suo cuore – non resiste più e fugge.

Nel piano di mezzo della Daliborka si è riunito tutto un gruppo di cospiratori, ma Polissena raggiunge il piano superiore e, distesa bocconi, spia. Sono soprattutto operai di officine e fabbriche di munizioni, al cui confronto Ottokar pare un bambino; in disparte c’è anche Zrcadlo, come addormentato. Ci sono il lacchè boemo e il russo, parlano di ribellarsi contro stato, chiesa, nobiltà e borghesia e di sterminare la nobiltà. A quel punto Ottokar si dichiara contrario, suscitando l’irritazione del russo e scaldando il dibattito. “[…] non è che un musicante!” lo difende un conciaiolo. Il russo, che cerca di tenere le redini e non crede all’attuazione delle teorie nichiliste, brandisce un opuscolo dell’anarco-comunista Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921) – in sé di famiglia aristocratica – che annuncia una rivoluzione universale contro chi ha promesso con le industrie un’esistenza umana degna di quel nome e ha invece consegnato il popolo alla miseria, ha promesso la pace e invece ha trascinato in una guerra infinita… e contro uno stato che contrasta la liberazione del proletario. Mentre le classi dominanti giocano solo all’alternanza sui propri interessi: il lacchè boemo vede la soluzione nel massacrare ebrei e nobiltà, il russo fissa Zrcadlo (che però continua ad apparire assente) e propone di ribellarsi, ora che le truppe sono al fronte. Il conciaiolo obietta che con telegrafi e ferrovie i soldati piomberebbero loro addosso, il russo risponde che allora sapranno morire. Vagheggiano di predare i tesori di chiese e palazzi per sostenersi, e a un certo punto intervengono gli operai: discendenti di hussiti, vogliono sapere cosa dica Dio – Zrcadlo ne sarebbe la voce – e hanno abbastanza esplosivi da far saltare tutto il Hradscin.

Dall’apertura del pavimento, l’agitatissima Polissena vede allora l’attore alzarsi, e comprende che il russo vuol fare aweysha con lui, per renderlo proprio ventriloquo. Lei si ribella a quell’idea: non ha capito molto dello scambio politico, sa solo che la plebe vuole rovesciare l’assetto sociale, per

 

la brama dello schiavo di divenire il signore: un pogrom sotto altra forma. Che tale non fosse stato l’originario intento dei creatori di simili teorie, di Kropotkin, di Michele Bakunin e dello stesso Tolstoi – che essa metteva nello stesso gruppo – non lo sapeva: quei nomi essa li aveva sempre odiati, dal più profondo dell’anima.

 

per cui la sua volontà cerca di impedire a Zrcaldo di fare da altoparlante al russo. Ovvio, un certo modo di vedere i rivoluzionari popolari fa montare la saliva alla bocca agli eredi del gruppo di Ur: ma in realtà Meyrink, che è un moderato e non banalizza i distinguo ideali, non vede in modo più positivo la feroce classista Polissena.

Ma tra le due forze in contrasto per prendere il sopravvento e che lo fanno dapprima vacillare, è infine una terza a offrirgli voce. Non è cercando contraddittoriamente – annuncia – la voce di Dio altrove che in noi, senza fede nel fatto che Lui è dappertutto, o cercando il destino deciso da Dio con la pretesa di diventarne signori ma da semplici uomini, che possiamo cambiare le cose: occorre vedere il divino in noi stessi. La domanda non verte dunque sul perché Dio abbia fatto scoppiare la guerra, ma sul perché gli uomini – “voi stessi” – l’abbiano lasciata scoppiare. Dio non vi rivela il futuro, ma “perché non credete di essere Dio” e dunque senza comprendere che sono gli uomini a crearlo per la propria parte, e di lì si potrà prevedere il resto. Mentre restano schiavi di un destino che rotola come un masso caduto da una cima…

Ma solo ora si verifica la creazione dell’uomo dal soffio e dal fango, chi è testa ne diverrà la testa, chi è un essere debole e sensitivo ne formerà il mero sentimento. Persino nel chiedere, questa gente lo fa in modo asfittico, rivolgendosi a uno che chiamano Zrcadlo, specchio, invece che a Dio… ma viene interrotto dal lacchè boemo che domanda chi vincerà la guerra – forse i tedeschi? – e quale sarà la fine. Ormai il sonnambulo si sta afflosciando, risponde che il principio della fine sarà l’“incendio di Londra e la rivolta delle Indie”, e invano la gente gli si accalca addosso. Il losco cocchiere russo capisce a quel punto che, scatenato il fanatismo religioso, lui si trova tagliato fuori.

Intanto Polissena, abbacinata dalla lampada all’acetilene che illuminava il sonnambulo, vede il riflesso impresso sulla propria retina… e presto altre immagini prendono ad affiorarvi, “parti fantasmatici di una notte di Valpurga dell’anima”. Ma mentre le parole dell’attore risvegliano qualcosa in lei, al piano di sotto una vertigine fanatica travolge i presenti. E quando Polissena torna a guardare le appaiono figure spettrali, prima delle quali un doppio di Ottokar come un’ombra del passato con lo scettro in mano, quindi un uomo con la benda sull’occhio, cioè Jan Zizka l’hussita, e poi la stessa antenata Polissena Lambua impazzita in quella torre. E si mescolano invisibili ai rivoltosi… Il doppio di Ottokar si fonde con il giovane vivente, Zizka scompare in Zrcadlo, lo spettro della contessa stringe le mani al collo del russo che prende a respirare affannato. La ragazza allora comprende cosa le immagini suggeriscano e concentra la volontà su Zrcadlo pensando al concetto di aweysha – per cui il sonnambulo si rianima. Una lama d’ombra gli copre un occhio come una benda, e il cenciaiolo e poi tutti gli altri ravvisano in lui Jan Zizka come profetizzato (ricorda qualcuno) da Lisa la boema. Lo sentono borbottare e poi muovere la mano – Polissena, anzi, vede la scena – come quando Zizka fracassava il cranio dei monaci alla testa delle sue truppe con falci e mazze. Rivede anche mentalmente l’eccidio degli Adamiti nudi massacrati dagli hussiti, e il realizzarsi della maledizione dai primi scagliata, l’accecamento del suo unico occhio. “E poi… e poi la cosa più terribile: Zizka, morto di peste, eppure tuttora vivo!”, la cui pelle stesa su un tamburo mette in fuga gli avversari. Così “il cieco e lo spellato – spettro su di un cavallo decomposto – cavalca invisibile alla testa delle sue orde e le conduce di vittoria in vittoria”: e forse, sospetta orripilata Polissena, è proprio lui che ha penetrato il corpo dell’attore e dà ordini ai ribelli. Lei non capisce cosa dica, ma un fuoco selvaggio si è acceso negli occhi di quegli uomini. Intorno al collo del russo si vedono sempre le dita spettrali dell’antenata… Polissena pensa così di essersi liberata da quelle immagini dell’anima divenute spettri che ora compiono la propria opera – e spera a quel punto di poter possedere un proprio autonomo Io.

Intanto Ottokar ha alzato gli occhi al soffitto in direzione – non lo sa – dell’amata, ma la preghiera della vecchia sul preservarlo dal peccato è stata ascoltata (comprende Polissena) e così non sente la voce di Zizka. Ma Polissena coglie anche l’immensità dell’amore di lui, incarnato in quel doppio spettrale di Ottokar con scettro e corona: e capisce che l’amore che lei prova è solo un pallido riflesso di quello di lui. E le giungono come lontane le parole di Zrcadlo sull’antico splendore e la futura grandezza della Boemia, mentre Ottokar trema cereo come lottando per non cadere al suolo. Mentre la gente proclama che Jan Zizka sarà il loro capo, il sonnambulo addita Ottokar che perde i sensi. Polissena grida il nome di lui, ma a quel punto la sentono e guardano in alto, si ritrae e urta contro qualcuno nascosto nel buio, forse la persona incontrata sulla scalinata del palazzo reale, per cui fugge fuori nella nebbia.

(9-continua)

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Elogio dell’eccesso / 7: David Johansen (1950-2025) and the New York Dolls https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/elogio-delleccesso-7-david-johansen-1950-2025-e-i-new-york-dolls/ Tue, 04 Mar 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87178 di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan Who can expound all the children this time? (Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo [...]]]> di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan
Who can expound all the children this time?

(Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo in cui ancora la provocazione si accompagna alla rabbia e alla disillusione con esiti tutt’altro che scontati.

Oggi è facile, troppo facile, presentarsi sui palchi finti-rock con atteggiamenti ambigui, reggicalze indossati da uomini truccati e bassiste a seno scoperto, per fingere di rappresentare una “novità” o, peggio ancora, una “provocazione”, ma, che dio ce ne scampi, non sono altro che rifritture di quanto avvenuto sulla scena musicale anglo-americana ad inizio anni Settanta con l’esplodere del fenomeno glam-rock, di cui l’esponente di maggior spicco fu certamente Marc Bolan (1947-1977) e che per David Bowie (1947-2016) avrebbe rappresentato soltanto uno dei momenti di passaggio di una più che camaleontica carriera,

Le date di nascita dei protagonisti sembrano parlare, per i giovani d’oggi, di un’età lontana e di dinosauri e non a caso, forse ancora, lo stesso Marc Bolan, dopo una breve esistenza del suo primo gruppo di ispirazione psichedelica, i John’s Children1 avrebbe raggiunto il successo con un gruppo denominato nella sua prima formazione acustica Tyrannosaurus Rex e successivamente, nella fase elettrica, più semplicemente T.Rex.

Sì, ma che dinosauri e tirannosauri! Come impararono rapidamente gli adolescenti dell’epoca che, per la prima volta, colsero in quelle espressioni, a metà strada tra provocazione e vena intimistica proiettata con forza fuori dal misero sé, con un nuovo e semplificato stile musicale e di abbigliamento transgender, un ulteriore passo verso la liberazione individuale e di genere. Come ha affermato Dick Hebdige, non solo il glam, dai Roxy Music a Bolan, passando per David Bowie:

era apertamente disinteressato sia alle questioni politiche e sociali dell’epoca sia alla vita della working class in genere, ma tutta la sua estetica veniva affermata evitando deliberatamente il mondo “reale” e il linguaggio prosaico in cui quel mondo veniva abitualmente descritto, vissuto e riprodotto. […] Quando si affrontava la “crisi” contemporanea”, ciò accadeva in maniera così indiretta che veniva rappresentata in forma metaforica come un mondo morto di umanoidi, ambiguamente piacevoli e oltraggiosi. […] cionondimeno si dovette [al glam] se furono sollevati per la prima volta problemi di identità sessuale che erano stati precedentemente repressi, ignorati o appena ccennati nel rock e nella cultura giovanile. Nel glam rock, almeno fra quegli artisti che si collocavano, come Bowie e i Roxy Music, all’estremità più sofisticata di quello scintillante spettro, l’enfasi sovversiva si spostò dalla classe e dai giovani sulla sessualità e sulla tipologia sessuale. Benché Bowie fosse ben lontano dalla liberazione intesa nel senso radicale corrente, dando la preferenza al dandysmo e al travestimento – a ciò che Angela Carter ha descritto come “l’ambivalente trionfo dell’oppresso”2 – più che un”autentico” superamento dei ruoli sessuali, egli e per estensione quelli che copiavano il suo stile “misero” effettivamente “in discussione il valore e il significatondell’adolescenza e il passaggio al mondo adulto del lavoro”. E lo fecero in un modo singolare, per mezzo di una confusione arificiosa delle immagini maschili e femminili, tramite le quali si compiva tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità3.

In quel contesto e in quegli anni, però, continuando con la metafora preistorica, i New York Dolls formatisi e cresciuti nella Grande Mela, rappresentarono i velociraptor della scena musicale. Poco romantici e retrò, ma autentici assassini di chitarre e note, con un sound ispirato ai Rolling Stones più selvaggi e ai Velvet Undergroundi, autentici santi patroni dei bassifondi della città4, i Dolls ebbero all’inizio vita difficile.

La facile sistematizzazione “rockettara” li ha spesso inseriti nel genere glam, quello di Bolan, dei T.Rex, Gary Glitter, Roxy Music e, per un periodo come si è detto, anche di Bowie, ma si tratta soltanto di una forzatura. Basta infatti ascoltare anche una sola nota uscente da una delle loro canzono più famose, come Personality Crisis, Vietnamese Baby oppure Frankenstein, per capire che siamo già da un’altra parte, su un altro pianeta: quello del punk.

David Johansen (voce e armonica a bocca, 1950-2025), Johnny Thunders (chitarra e voce, 1952-1991), Sylvain Sylvain ( chitarra, tastiere e voce, 1951-2021), Arthur Harold “Killer Kane” (basso elettrico, 1949-2004) e Jerry Nolan (batteria, 1946-1992), dalla meravigliosa copertina del loro primo album, intitolato semplicemente New York Dolls, già promettevano sfracelli. Cinque potenziali juvenile delinquent travestiti e truccati, con scarpe dai tacchi a spillo, rivolgono uno sguardo minaccioso all’intero ordine macho e perbenista del mondo.

In realtà abiti e trucchi provenivano, almeno per alcuni di loro, dai guardaroba e dalle toilette delle madri, come avrebbero poi confessato in alcune interviste5, ma l’ispirazione e la postura, oltre che dai già citati Rolling Stones, discendeva direttamente da quelle di Iggy Pop e dei suoi scelleratissimi, almeno per i benpensanti e i “brown shoes” di cui già aveva cantato Frank Zappa6, Stooges della Detroit ancora fiammeggiante di rivolte e musica heavy metal7.

Come ci spiega Steven Blush:

Nel 1970 New York era caduta in rovina. Il dissesto economico aveva catapultato ls capitale americana del business e della cultura in un inferno criminale popolato di rapinatori, prostitute, senzatetto, ladri e truffatori. Il braccio violento della Legge e Kojak ne coglievano la ferocia e il degrado, ma non il sovraccarico olfattivo causato da spazzatura, gas di scarico ed escrementi di origine ignota. […] Mentre l’America attraversava lo sfinimento post-Vietnam, il rock dopo la morte di Jimi, Jim e Janis, risentiva dello stress post-Woodstock. Il rock era diventato autentico e introspettivo [e] raggiunse il suo punto più basso con il Concert for Bangladesh di George Harrison che si tenne nell’agosto del 1971 al Garden (il primo evento di beneficenza di una rock star), una faccenda autoreferenziale e mal gestita che intimidì il pubblico e i cui proventi non arrivarono praticamente mai ai bambini affamati. Il “flower power” sembrava già una storia di secoli prima. Erba e acidi cedettero il posto a cocaina, speed ed eroina8.

In quel contesto anche l’adolescenza doveva perdere la sua innocenza, vera o presunta che fosse mai stata. Lo stesso David Johansen avrebbe ricordato in un’intervista rilasciata nel 1997:

Quando si sono formati i Dolls, era il tempo in cui tutti, almeno nell’East Village, prendevano un sacco di acido, ed erano in fissa con questa utopia dell’androgino. E’ stato allora che si è formato il femminismo radicale e il collettivo “Up Against the Wall Motherfuckers” – anche io me la facevo con quella gente. Ci vestivamo sempre in quel modo. Non è che ci siamo riuniti e abbiamo deciso: “Vestiamoci in modo provocatorio” – è stata la cosa che ci ha accomunati tutti fin dall’inizio. […] Certa gente ci molestava, ma finiva inevitabilmente per pentirsene9.

Come i Fugs e i Velvet Underground prima di loro, rappresentavano una nuova specie di rocker newyorkesi. Uno dei primi gruppi a esibirsi nei locali come Max’s Kansas City, Mercer Arts Center, l’Hotel Diplomat, i drag bar dell’East Village e il Mother’ in prossimità del Chelsea Hotel. I cinque mettevano in scena un rock fatto di Off Off Broadway, Rhythm and Blues della vecchia scuola, nichilismo tossico e l’estremizzazione del bad boy travestito da donna. Per l’epoca una miscela potenzialmente esplosiva. E’ ancora una volta Johansen a descrivere quella scena:

Eravamo decisi ad annientare quella sensazione di “gabbia dorata” da rock star. Quando suonavamo la Mercer, il pubblico saltava sul palco e ballava. Volevamo essere diversi perché odiavamo tutti quei fottuti tizi che pensavano di essere migliori di chiunque altro. Per quanto ci riguardava erano solo un branco di idioti10.

Mentre sulle origini effettive della band ci rammenta poi ancora che

St. Marks Place, da ragazzino quella strada era tutta mia. Conoscevo un mucchio di gente, ed erano tutti artisti alternativi. Quello era il vero underground; non era tutto omologato. Quando avevo circa diciassette anni lavoravo in un negozio di cianfrusaglie chiamato Matchless a St. Mars Place: facevano orecchini con lattine di birra. Il proprietario era anche un costumista e scenografo che lavorava con il Ridiculous Theatre. Ho iniziato a lavorare per lui e la paga faceva schifo, ma grazie a lui ho conosciuto tutta qquesta gente del Ridiculous Theatre che frequentava il negozio. All’inizio era una specie di tuttofare del Riculous. Luci, suono […] ho anche scritto delle canzoni per loro. A volte suonavo – male- la chitarra. […] La sera andavamo al Max’s. Nessuno aveva un soldo e lì si potevano mangiare gratis panini e insalata. E’ stato più o meno in quel periodo che ho conosciuto Thunders e gli altri. Un tizio nel mio palazzo conosceva BillyMurcia. Mi aveva detto che c’era una band a cui serviva un cantante. Un giorno qualcuno ha bussato alla mia porta, erano Arthur e Billy. Sono andato a casa di Johnny e ci siamo messi a suonare. La band è nata il giorno stesso11.

Il primo album ufficiale, nonostante esistano un gran quantità di demo session, registrazioni dal vivo e in studio precedenti quella data, uscì nel 1973 con una produzione suddivisa tra Marty Thau, Paul Nelson, Steve Leber e Todd Rundgren, che risulterà essere nelle note di copertina il produttore ufficiale. Ma nonostante questo la vita del gruppo non divenne più facile, come ricordava Sylvain Sylvain, in realtà Sylvain Mizrahi, in un’intervista del 1998.

La gente crede che la cerchia di Warhol abbia accolto i Dolls. In realtà i Velvet Underground erano la vecchia generazione, mentre noi eravamo le nuove leve dei club, e stavamo invadendo il loro territorio. Non erano esattamente accoglienti. Ci sono state delle volte in cui abbiamo suonato al piano superiore del Max’s perché eravamo banditi dal bar al piano terra. Non eravamo ammessi al piano di sotto. Ecco a che punto eravamo arrivati12.

Il secondo album, ed ultimo per la formazione originale, intitolato profeticamente Too Much Too Soon, sarebbe uscito nel 1974 e sarebbe stato necessario attendere trent’anni prima di quello successivo, apparso nel 2004 con una formazione rivisitata a causa dei malumori sorti tra i componenti e la morte sopraggiunta nel frattempo per alcuni di loro. Il produttore del secondo album, George “Shadow” Morton avrebbe spinto ancora di più l’acceleratore su temi e composizioni blues e Rhythm and blues, senza però alterare le linee musicali essenziali del gruppo, anzi finendo col rafforzarle. La cosa che potrebbe suonare strana è che un gruppo destinato a diventare l’antesignano del Punk. Certo la cosa strana a dirsi è che questi precursori di ogni efferatezza punk ebbero come produttori, prima, un raffinato ricercatore di suoni perfetti come Todd Rundgren e, successivamente, un ottimo produttore di gruppi degli anni Sessanta come le Shangri-Las o i Vanilla Fudge

Tre anni dopo il loro secondo disco, i Sex Pistols non riuscirono a inventare nulla di musicalmente altrettanto viscerale e pericoloso. Forse è per questo che i Dolls non hanno mai trovato il loro pubblico nei primi anni ’70: non solo erano punk rock prima che il punk rock fosse di moda, ma sono rimasti più indigesti e idiosincratici di qualsiasi altra band che è seguita. Oltre ad avere anche suonato più forte, molto più forte.

Sex Pistols che, spacciati come fondatori del genere punk, altro non fecero che rubare, grazie alla “creatività” del loro produttore Malcom McLaren, ogni riff di chitarra a brani come Looking for a Kiss, Frankenstein, Chatterbox, Jet Boy e il profetico, per tutti quelli che sarebbero arrivati dopo, compresi i Ramones. It’s Too Late, è troppo tardi. Nei fatti, mentre si trovava a New York per una fiera dell’abbigliamento, McLaren incontrò i membri del gruppo e alla fine del 1974 ne assunse la gestione, vestendoli di pelle rossa e usando il simbolo della falce e martello dell’Unione Sovietica nelle loro scenografie e nelle fotografie pubblicitarie. Il concetto non si adattava certo bene all’America, dove il comunismo rimaneva un anatema, ma non ebbe un grande impatto sulla carriera dei Dolls, che erano comunque agli sgoccioli.

Così Malcom tornò al business dell’abbigliamento londinese nel maggio 1975 e usò ciò che aveva imparato con loro per aiutare a mettere insieme i Sex Pistols: ovvero The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del rock’n’roll, come sarebbe stato intitolato il film sugli stessi diretto dal regista Julian Temple e prodotto da Don Boyd e Jeremy Thomas nel 1980.

I Dolls erano già finiti da un pezzo, vuoi per gli abusi di sostanze, vuoi per le inevitabili rivalità sorte all’interno di un gruppo nato senza troppo cura per i ricami artistici e diplomatici. Ancora Johansen ricordava:

Non ho idea di quante copie abbiamo venduto all’epoca, non moltissime. Se eravamo fortunati ci piazzavamo al centoventesimo posto in classifica. Decisamente non eravamo una band per tutti i gusti, non il tipo di cosa da impatto sulle masse. Ci andava bene dove c’era un sacco di ragazzini alienati13.

Ma, oltre allo scarso successo commerciale, ci furono anche altre cause per lo scioglimento del gruppo, come avrebbero raccontato in successione Jerry Nolan, Sylvain Sylvain e lo stesso David Johansen.

Jerry (1977): «David aveva il brutto vizio di dettar legge su cose di cui non sapeva niente. Sceglieva il produttore e si accontentava di un missaggio scadente. Tutte le mosse sbagliate sono imputabili a lui che ha mandato tutto a puttane. I primi due album sono stati massacrati. C’erano delle gran belle canzoni, e avremmo potuto interpretarle alla grande, ma David era un tipo di persona che in studio non voleva rifare due volte lo stesso pezzo. Bastava che lui cantasse bene, non gliene importava un cazzo che gli altri facessero una buona performance.»

Sylvain (1998): «Stavamo a casa della madre di Jerry Nolan e Johansen si sbronzava di brutto. Era un alcolizzato violento. Diceva che non contavamo niente, che lui era il cantante e che poteva andare avanti senza noi a creargli impedimenti e altre stronzate. Praticamente ce l’ha detto una sera dopo cena, e Johnny e Jerry, dopo aver sentito per l’ennesima volta che potevamo essere rimpiazzati, se ne sono andati. Li ho portati io all’aeroporto.»

David (1997): «Non ricordo esattamente la sequenza degli eventi, ma eravamo giù in Florida, in un posto tipo Bates Motel gestito dalla madre di Jerry. C’erano delle vecchie roulotte che fungevano da stanze d’albergo e avremmo dovuto stabilirci lì, per poi andare a suonare dappertutto. La band si è sciolta perché alcuni ragazzi non ce la facevano senza la roba, quindi la situazione era diventata ingestibile. Sai, le grandi rockstar hanno infermieri e galoppini, ma noi non li avevamo. Quei ragazzi volevano essere come Bela Lugosi.»14.

Effettivamente, dopo lo scioglimento dei Dolls, David avrebbe continuato una discreta carriera solista, sospesa tra rock, rhythm’n’blues e blues strapazzato, con qualche cover di gruppi degli anni Sessanta, sia a nome proprio che con quello di Bruce Pointdexter (pseudonimo con il quale rivelerà insospettate doti da crooner e con cui aveva già firmato alcune canzoni dei New York Dolls) oppure in anni più recenti come David Johansen and the Harry Smith, gruppo ispirato al nome di uno dei più importanti musicologi e collezionisti americani che contribuì fin dagli anni Sessanta al rilancio del blues e del country blues degli anni ‘20, ‘30 e ‘40.

Ma dopo la reunion con Arthur Kane e Sylvain Sylvain per The Return of the New York Dolls: Live from Royal Festival Hall, 2004, prodotto da Morrissey, l’esperienza sarebbe ancora continuata con numerosi concerti e almeno altri tre album in studio. One Day It Will Please Us to Remember Even This (2006), soltanto più con Sylvain Sylvain vista la scomparsa di Kane nel 2004, ma con ospiti quali Iggy Popo e Michael Stipe dei REM; ‘Cause I Sez So (2009), ancora una volta con Todd Rundgren alla produzione dopo trentasei anni, e Dancing Backward in High Heels (2011), arricchito da inaspettati arrangiamenti per archi e fiati.

Oggi, con la dipartita di David, si è definitivamente chiusa l’era dei dinosauri androgini, di cui rimarranno solo pallide e insignificanti copie riprodotte in un universo pop privo di storie da raccontare e di genio vero. So long David, so long Dolls…so long rock’n’roll.


  1. Di cui va almeno ricordato l’album Orgasm, registrato nel 1967 prima che Bolan si unisse alla band, ma pubblicato soltanto nel 1970, che aveva anticipato e dilatato all’infinito i sospiri e i gemiti di piacere di Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, pubblicato nel 1969.  

  2. A. Carter, The Message in the Spiked Heel, «Spare Rib» 16 settembre 1976.  

  3. D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa &Nolan, Ancona 2000.  

  4. Si veda in proposito, e a solo titolo di esempio, S. Blush, New York Rock. Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB, Goodfellas Srl, Firenze 2016 (ed. originale 2016).  

  5. Si veda il fondamentale: L. McNeil, G. McCain, Plese Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006 (ed. originale 1996)  

  6. Brown Shoes Don’t Make It è il titolo di un brano di Zappa e delle sue Mothers of Invention inciso per la prima volta nell’album Absolutely Free, pubblicato nel 1967, e in cui le infami scarpe allacciate di colore marrone erano indicate come il modo migliore per riconoscere i tutori dell’ordine che cercavano di infiltrarsi nelle manifestazioni e nei movimenti; un po’ come da noi il famigerato “borsello” che avrebbe caratterizzato e fatto riconoscere immediatamente gli agenti della Digos negli anni Settanta.  

  7. La definizione heavy metal era stata utilizzata già molto tempo prima della comparsa delle band che si sarebbero definite come appartenenti allo stesso canone, poiché per la critica musicale statunitense potevano già essere heavy metal sia Jimi Hendrix che i Blue Oyster Cult e le band di Detroit come Stooges, Grand Funk Railroad e molte altre ancora.  

  8. S. Blush, op. cit., pp. 99-101.  

  9. Cit. in S. Blush, op. cit., pp. 100-102.  

  10. D. Johansen in S. Blush, op. cit., p. 119.  

  11. Ivi, pp. 119-122.  

  12. S. Sylvain in S. Blush, op. cit., p. 122.  

  13. D. Johansen, cit. in S. Blush, op. cit. p. 133.  

  14. Tutte e tre le dichiarazioni sono contenute in S. Blush, op. cit., pp. 134-135.  

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Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale. Intervista a Michele Cometa. https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/paleoestetica-alle-origini-della-cultura-visuale-intervista-a-michele-cometa/ Tue, 04 Mar 2025 06:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86864 di Valentina Cabiale

In Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale sostiene che bisognerebbe applicare allo studio dell’arte preistorica i metodi della cultura visuale, sostenuti da quelli delle neuroscienze cognitive e dell’archeologia cognitiva. Il suo saggio è un tentativo di “riflettere sulle capacità cognitive che presiedono al nostro fare-immagine e che, come dimostra un’ampia letteratura, condividiamo con i nostri antenati paleolitici”. In una intervista ha dichiarato che le è sempre piaciuto “sbirciare” nel campo accanto. Che cosa l’ha spinta a sbirciare nelle grotte dipinte del Paleolitico e che reazioni ha avuto dal mondo della paleoantropologia e dell’archeologia cognitiva?

L’idea di andare a cercare altrove [...]]]> di Valentina Cabiale

In Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale sostiene che bisognerebbe applicare allo studio dell’arte preistorica i metodi della cultura visuale, sostenuti da quelli delle neuroscienze cognitive e dell’archeologia cognitiva. Il suo saggio è un tentativo di “riflettere sulle capacità cognitive che presiedono al nostro fare-immagine e che, come dimostra un’ampia letteratura, condividiamo con i nostri antenati paleolitici”. In una intervista ha dichiarato che le è sempre piaciuto “sbirciare” nel campo accanto. Che cosa l’ha spinta a sbirciare nelle grotte dipinte del Paleolitico e che reazioni ha avuto dal mondo della paleoantropologia e dell’archeologia cognitiva?

L’idea di andare a cercare altrove fa parte della mia forma mentis ma ha una motivazione teorica. Nel senso che credo sia improponibile studiare la letteratura – io sono una letterato di formazione, un germanista, anche se da sempre mi occupo di arti figurative e di cultura visuale – come sganciata da tutto il resto. Per esempio dal tema della visualità. Così è nata la mia attenzione per campi che dovrebbero essere quelli dell’estetica, piuttosto che della storia dell’arte. In realtà, a parte il fatto che ogni libro ha una sua forma, un suo layout, i grandi libri sono sempre stati  accompagnati da immagini, anche i grandi classici della letteratura; I promessi sposi venne illustrato da Manzoni che andava personalmente in tipografia a scegliere le immagini.
Questo libro, Paleoestetica, che sembra totalmente eccentrico rispetto al mio percorso, ha invece un senso, perché nasce da una domanda che mi ero posto ancora una volta sbirciando fuori casa, mentre scrivevo Perché le storie ci aiutano a vivere, ovvero: va bene parlare di narrazione, della centralità della letteratura, del fatto che non possiamo fare a meno delle storie, ma quali sono le motivazioni antropologiche, biologiche, cognitive di questo fatto? Così ho cominciato a scavare per cercare di capire quali fossero le condizioni antropologiche da un lato, e cognitive dall’altro, del fare storie. In quell’indagine inevitabilmente bisogna affrontare il passato, che ha un grande vantaggio, soprattutto il passato preistorico: ci libera immediatamente dal nostro eurocentrismo, dal pensiero che tutto accada, sia accaduto, soltanto in Europa – questo vale per la letteratura e per l’arte – poi ci libera dall’antropocentrismo, dall’idea di essere gli unici viventi in grado di comunicare e di produrre un certo tipo di artefatti. Questo per me è una mossa teorica importante. Paleoestetica ha questa funzione, in primis: mettere in crisi tutte le nostre consolidate idee su che cos’è un’immagine e sul perché facciamo le immagini, la convinzione che tutto il nostro fare-immagine possa essere ridotto ai pochi attimi che l’intera storia dell’arte rappresenta rispetto ai tempi immemoriali dell’evoluzione.
Interroghiamoci, piuttosto, sulla funzione cioè sul vantaggio adattivo che ci danno cose come la narrazione (e da qui il libro Perché le storie ci aiutano a vivere) e le immagini (e da qui Paleoestetica). Se è vero come che facciamo da sempre storie e immagini, ci dev’essere qualcosa di profondo in questo “fare”, qualcosa che ha una valenza evolutiva. Questo tipo di interrogazione interrogativo mette subito in allarme i professionisti della letteratura e dell’arte – e questa è un po’ la storia di tutta la mia vita – che dicono “sì ma come fai ad acquisire queste conoscenze?”. Con Paleoestetica il rischio aumenta perché mi sono avventurato in ambiti veramente lontani dal mio specifico: la paleontologia, l’archeologia cognitiva, ecc. Però è un libro frutto di dieci anni di lavoro, non è improvvisato. Di Paleoestetica sono usciti degli saggi preparatori in inglese, e quindi ho avuto modo di confrontarmi con neuroscienziati che lavorano su temi archeologici e ho capito che le cose che andavo ipotizzando non erano del tutto peregrine. Anche loro, tra l’altro, sono sedotti da ragionamenti filosofici ed estetologici, talvolta le tentano in modi spesso ingenui e dicendo delle cose che per uno che si è occupato di estetica tutta la vita sembrano delle banalità. Allo stesso modo, è possibile che alcune cose che sostengo possano essere corrette, rivedute e riconsiderate da parte di paleontologi e archeologi, però è proprio così che vanno avanti le scienze: rischiando, non facendo o dicendo sempre la stessa cosa.
Il punto è che noi siamo animali che fanno immagini, le abbiamo sempre fatte e tra di esse queste immagini hanno una inquietante somiglianza.

Statuine di Berekhat Ram

Nel libro mi interrogo sul perché abbiamo sempre fatto miniature; perche abbiamo sempre cercato superfici su cui poggiare le nostre immagini, superfici da toccrae, da attraversare, per immaginare cosa c’è dall’altra parte; e, infine, perchè abbiamo sempre fatto ibridi. Prendiamo il caso delle miniature, le figurine per lo più femminili che si trovano sparse in tutta Europa, e non solo.  Siccome questi artefatti non li possiamo spiegare dal punto di vista dei significati perché stiamo parlando di 40-50.000 anni fa, in alcuni casi di un tempo ancora più remoto – le più antiche statuine ritrovate a Berekhat Ram in Israele risalgono probabilmente a 500.000 anni fa, quando non eravamo neanche Sapiens – allora la domanda non può che essere di carattere cognitivo: perché ci interessa, ci piace, ci è utile tenere in mano quelle miniature? Tento delle risposte che non sono definitive, sono dei paradigmi che ho messo insieme lavorando su quello che vanno facendo i neuroscienziati e gli archeologi cognitivi, cercando di ragionare sul perché facciamo questi oggetti dato che riflettere sui significati è veramente insensato: quando ci rendiamo conto che una grotta del Paleolitico è stata usata per 25.000 anni è inutile discutere di rituale, di magia della caccia… sono interpretazioni plausibili, certo, ma altrettanto certo è che questi significati sono stati trasformati nel corso dei millenni.
Quindi non mi preoccupa quanto rischio avventurandomi in un territorio di questo tipo. Quello che ho fatto per la letteratura, domandandomi che cosa la narrazione abbia a che fare con Homo Sapiens – altri l’hanno fatto per la musica, ad esempio – l’ho fatto per le immagini. Ci dev’essere un motivo perché facciamo proprio queste immagini e non abbiamo mai smesso di farle, e questo motivo che va cercato. Faccio delle ipotesi, sono sicuro che ce ne sono altre possibili, mi auguro che qualcun altro vada avanti su questo fronte. Un estetico o comunque qualcuno che ha riflettutto sull’arte e sulle immagini  magari non si rende conto di alcune sfumature in termini di datazione o del tipo di materiale usato, insomma, del lavoro specifico che fanno gli archeologi, però non può non rendersi conto che una statuina come quella dell’uomo-leone è una svolta epocale dal punto di vista della cognizione umana.

Lei sostiene che il fare-immagine del Paleolitico è analogo al nostro, ci è familiare, in qualche modo riconosciamo quelle immagini anche se il significato resta inattingibile. Se è così, e forse la domanda suona provocatoria o paradossale, come dovrebbe essere un fare-immagine del tutto diverso? Non lo riconosceremmo neanche? e forse esistono già altre culture animali che producono in qualche modo immagini che non siamo in grado di recepire perché distanti dalla nostra cultura visuale?

Bisonte delle grotte di Altamira. Museo de Altamira

Il fatto è che noi vediamo questi animali rappresentati nelle grotte del Paleolitico, li riconosciamo, ci sembrano molto belli. Pare che Picasso dopo aver visto alcune di queste immagini abbia detto qualcosa del tipo “Qui hanno già fatto tutto”; poi lui in realtà si è messo a disegnarlo, un toro, e con dei tratti che potremmo definire paleolitici. Questo riconoscimento naïf significa, secondo la mia ipotesi, che abbiamo delle capacità cognitive che ci permettono di comprendere questa cosa, certo non possiamo pensare che vediamo tutti, da migliaia di anni, le stesse cose e alla stessa maniera, tuttavia prevale la sensazione che queste immagini in effetti ci parlino ancora ed evidentemente la capacità di leggere, di capire e di emozionarsi di fronte a queste immagini discende dalla nostra struttura cognitiva. Sicuramente ci sono state delle piccole trasformazioni Dire che la mente è sempre la stessa significherebbe negare qualunque prospettiva evoluzionista, però che esistano delle costanti cognitive selezionate durante l’evoluzione è evidente, e che essa abbia una sua stabilità e che sia in grado, per esempio, di riconoscere le forme, come ci hanno insegnato i grandi teorici della Gestalt.
Secondo me il vero guaio di qualunque approccio umanistico è il fondamentalismo ovvero pensare che le nostre interpretazioni siano l’unica possibile verità. Bisogna essere sempre molto cauti, anche nel caso di questa coerenza millenaria, però non c’è dubbio: chiunque entra – ormai purtroppo è quasi impossibile –  in una di queste grotte si rende conto di essere di fronte a uno spettacolo straordinario, la “cappella Sistina della preistoria” come si diceva di Altamira. Ci ritroviamo circondati da immagini che ci raccontano delle storie, e questo è un altro capitolo importante: è evidente che l’evoluzione delle immagini è parallela all’evoluzione della nostra capacità di raccontare storie a partire dalle immagini o attraverso di esse. Credo che facendo dei passi avanti dal punto di vista cognitivo saremo in grado di capire le somiglianze ma anche eventualmente le differenze, ma è fuori discussione che Homo sapiens, per tutta la sua durata, ha prodotto immagini che sono in qualche modo riconducibili ad alcune famiglie ben chiare. Non posso immaginare che esistano immagini che non sono fatte in questa maniera, che ci possa essere un altro dall’immagine.
Peraltro c’è anche in altro problema molto importante dal punto di vista antropologico. La questione non è tanto l’immagine, che è “applicato” sulla parete di una caverna o su un piccolo manufatto. La questione su cui vale la pena interrogarsi è quella che riguarda i nostri “comportamenti” al cospetto delle immagini.  L’antropologia culturale negli ultimi secoli ci ha dimostrato che il nostro modo di rapportarci alle immagini è riconducibile a poche modalità. Ci sono diverse teorie, chi è strutturalista pensa che le modalità siano quattro, invece che ha ascendenze hegeliane organizza tutto in triadi. Con modalità intendo ad esempio il totemismo, il feticismo, l’animismo. Con le immagini infatti “facciamo” delle cose e ci comportiamo da sempre alla stessa maniera. Non c’è dubbio, ad esempio, che utilizziamo delle immagini come totem; lo abbiamo fatto nei tempi più remoti e continuiamo a farlo ancora oggi con oggetti che sono completamente diversi. Basta pensare a tutti i piccoli feticci che ci portiamo appresso sotto forma di immagini, nei nostri telefonini. Quindi il problema non è tanto quello di scoprire il mistero del fare immagine, ma soprattutto di interrogarsi su quello che noi esseri umani facciamo con le immagini. Tra le cose che facciamo, ad esempio, c’è il fatto che da sempre cerchiamo di animare le immagini, tanto che alla fine abbiamo inventato una cosa che si chiama cinema. E questo era già sicuramente presente nel Paleolitico. Un esempio è nella grotta di El Castillo dove il nostro antenato ha visto uno spuntone di roccia con una forma simile a quella di un bisonte, lo ha retroilluminato facendo in modo che questo spuntone/bisonte si proiettasse nella parete di fronte con un’ombra, e poi sulla parete ha disegnato le gambe dell’animale, cioè la parte che nello spuntone mancava. Ebbene, questo è un genere di cose che abbiamo fatto sempre e continuiamo a fare regolarmente. Ma pensiamo anche a “invenzioni” più complesse, come la caverna platonica. Platone si inventò questa storia e se la guardiamo dalla prospettiva di ciò che c’eraprima di Planote, ci rendiamo conto che che probabilmente non si trattò di pura invenzione ma di un’esperienza fortemente radicata negli umani: questi giochi di ombre erano una realtà consolidata nell’umanità.  Invece Werner Herzog, il grande regista, quando fece il film documentario su Chauvet [Cave of forgotten Dreams, 2010] si accorse che una parete della caverna era illuminata attraverso una serie di lumini e che era possibile mettersi tra la parete e i lumini, in modo che la persona venisse investita di luce e proiettata sulla parete. Chi meglio di un regista come Herzog poteva capire che cos’è un’ombra… Insomma, i paleolitici avevano immaginato la possibilità di entrare nell’immagine attraverso una retro-illuminazione. Noi abbiamo usato questa tecnica in tutta la storia del teatro e continuiamo a usarla oggi con tecnologie raffinatissime.
In sintesi, credo che il fare immagine sia caratteristico dell’Homo sapiens, che le modalità siano relativamente simili nel corso dei millenni. La questione è che noi davanti alle immagini, come ci hanno spiegato peraltro grandi storici dell’arte come David Freedberg, abbiamo atteggiamenti di devozione, di desiderio sessuale, atteggiamenti totemistici, e via dicendo.

Nella capacità di creare oggetti che rispondono ai nostri bisogni e nello stesso tempo ci danno piacere (un’ascia bifacciale del Paleolitico, ad esempio, che unisce creatività, progettualità, estetica), noi contemporanei condividiamo con i preistorici anche una vanità simile?
Anche pensando al fatto che ogni immagine è una proiezione del Sé, per cui godere dell’opera significa godere di sé.

Grotta di Chauvet, dettaglio del pannello dei leoni

La parola vanità certamente è giusta ma alcuni archeologi, in particolare gli scopritori delle prime  ornamentazioni a Blombos in Sudafrica – tra cui Francesco D’Errico –  ci hanno detto che da quello che i nostri antenati hanno fatto 70.000 anni fa (collane di conchiglie, disegni con l’ocra), quindi 30.000 anni prima di Lascaux, si deduce l’inizio di una forma di differenziazione sociale. possiede una collana è un individuo consapevole di se stesso e del fatto di differenziarsi dagli altri. Quindi questa “vanità” ha una valenza sociale potentissima. È un modo di affermare una differenza sociale ma soprattutto, cosa più importante dal punto di vista teorico, l’unicità del Sé. Naturalmente questo significa la nascita della coscienza. È un tema delicato, tra l’altro non dimentichiamoci che noi non ritroviamo quasi nulla di quello che era il mondo dell’ornamento e della decorazione che nasce quasi sicuramente dai tatuaggi e dalle pitture sul corpo (che, per inciso, continuiamo a fare ancora oggi). Gli scopritori degli ornamenti di Blombos, Francesco D’Errico e Christopfer Henshilwood, correttamente li interpretano come forme di affermazione del sé, che non è cosa da poco calcolando, ripeto, che siamo intorno ai 70.000 anni fa. Peraltro questo gioco all’indietro ci dimostra che forse dobbiamo ipotizzare una continuità non solo per Homo Sapiens ma anche tra Sapiens e gli altri ominidi perchè quando parliamo di 500.000 anni fa non abbiamo a che fare con Homo Sapiens ma con HomoEergaster, ad esempio, per cui la “Venere” di Berekhat Ram che si trova al museo di Gerusalemme è stata fatta da un ominide ancora lontanissimo dai Sapiens europei. Forse dobbiamo riconsiderare seriamente la continuità tra animale e umano. È evidente che non ci sono scimmie che scrivono la Divina Commedia però che, per esempio, si servano di strumenti in maniera rudimentale e sappiao che alcuni uccelli sanno trasmettere delle “tradizioni di canto” ai loro “discendenti”. Quindi il discorso sulla continuità tra animali ed umani va riconsiderato e per altro ci permettere di comprendere meglio il nostro ruolo sul pianeta e, come ho già detto, di ridurre il nostro antropocentrismo trionfalistico.

Prima accennava alla connessione tra l’origine del fare immagine e la dimensione narrativa (già prima dello sviluppo del linguaggio). Ma in tutto questo c’è anche un’idea del tempo? Della memoria, intesa come modalità di comunicazione con il futuro. Secondo lei, cioè, gli uomini e le donne del Paleolitico avevano il pensiero che quelle immagini sarebbero sopravvissute a loro?

Dettaglio del pannello dei cavalli, da Chauvet 2 (replica della grotta originale)

Assolutamente sì. Peraltro ciò che è non sopravvissuto probabilmente è altrettanto importante: penso ai rituali, alle performance che dovevano svolgersi in queste grotte: ricordiamoci che già solo per raggiungere questi luoghi spesso bisognava fare una fatica non irrilevante e rischiare la pelle. Sappiamo che andavano in gruppo, anche con bambini, c’era tutta una costruzione sociale di avvicinamento a queste immagini. Poi c’erano sicuramente delle storie, alcune strutturazioni narrative o micro-narrazioni sono evidenti. Quindi aspetti performativi, teatrali, recite, canti, tutte cose di cui non ci resta quasi nulla! Ora si comincia a studiare in maniera molto seria l’aspetto sonoro delle caverne, cioè il fatto che le caverne producono dei suoni, amplificano e riducono i suoni. Tutto questo era compreso da chi le frequentava. Le impronte ritrovate dimostrano che ci si muoveva davanti a queste immagini. Nell’insieme si doveva trattare di esperienze che  definiremmo multisensoriali. Naturalmente noi oggi vediamo soltanto le immagini.
Ma per tornare alla domanda, non c’è dubbio che queste cose duravano, erano una raffigurazione che aveva senso proprio nel momento in cui il Sé si stabilizza e anche il fatto di scendere in una caverna al buio piena di insidie non doveva essere una esperienza semplice che chiunque a cuor leggero poteva fare. C’era probabilmente una forte auto-consapevolezza che comprendeva anche il desiderio di fare memoria di se stessi, di raccontare di essere esistiti, di potersi proiettare oltre i propri limiti temporali, oltre la morte.
Purtroppo nulla sappiamo dei meccanismi transgenerazionali. In alcuni casi queste caverne sono state utilizzate per 25.000 anni, e quindi è chiaro che c’è stata una trasmissione, qualcuno che ha raccontato della caverna a un altro. In questi casi la trasmissione intergenerazionale è inevitabile e questo significa la costruzione di una memoria.
Uno straordinario storico dell’arte, oggi quasi dimenticato,  Max Raphael, un ebreo tedesco che fuggì negli Stati Uniti e scrisse a New York un libro, Prehistoric Cave Painting, ipotizzò per primo che quello che era stato dipinto ad esempio ad Altamira era la rappresentazione di una guerra fra clan. Raphael parlò di una “Iliade della preistoria”. Detto così naturalmente fa storcere subito il naso agli archeologi, ai paleontologi e persino ai letterati. Resta il fatto che l’idea che questi tori rappresentassero una guerra fra i clan, quindi siano una memoria storica a tutti gli effetti, è una idea affascinante che poi ha stimolato delle riflessioni molto serie e ci ha fatto capire che le immagini nelle caverne non sono casualmente disposte sulle pareti. Saranno poi Annette Laming-Emperaire e André Leroi-Gourhan a capire che le immagini delle cavere hanno una relazione tra di esse, sono cioè “strutturate” secondo regole condivise. C’è un intreccio, una storia che organizzale immagini. Se ci troviamo di fronte a una “Iliade della preistoria”, si tratta con ogni evidenza di modi per fare memoria, per raccontare chi siamo, cos’è un gruppo e anche cos’è un individuo.

Grotta di Lascaux

Nel Paleolitico immagina una distanza tra “artisti” e “pubblico”, per quanto questi termini siano ovviamente inappropriati?

La domanda è una proiezione moderna di ciò che noi sappiamo su epoche e sistemi sociali del tutto diversi. Però una cosa bisogna dirla: ricordiamoci che per dipingere quelle immagini bisognava avere delle capacità manuali straordinarie. La reazione di Picasso di fronte alle pitture, pensare che lì ci sia già tutto quello che è stato fatto poi nell’arte, è indicativa.
Quindi a questa domanda tutti risponderebbero: no, la figura dell’artista è un’altra cosa. Ma che ci siano dei soggetti che avevano delle capacità che altri non avevano è fuori discussione. Magari non si chiamavano artisti e neanche artigiani come nell’antica Grecia.  E forse, come sostengono i sociologi che si occupano di questo tipo di culture, si deve immaginare una differenzazione di ruoli, per cui alcuni andavano a caccia e altri stavano a casa a dipingere; questo presupporrebbe però una economia che consentiva a un’artista di non “lavorare”.
Dietro le capacità di chi ha fatto queste pitture ci sono probabilmente lunghe fasi di prove ed errori, lo dimostra il fatto che ad esempio molte disegni sono stati re-incisi e ripassati in mille modi e questo ci induce a pensare che non dobbiamo immaginare un’opera d’arte, come facciamo noi oggi, in termini di unicità. Pensiamo per esempio alle immagini dei cosiddetti aborigeni australiani, che hanno ridipinto i loro disegni per decine di migliaia di anni e continuano a farlo ancora oggi. È un atteggiamento nei confronti dell’arte profondamente diverso dal nostro fondato su categorie come l’originalità, la non-riproducibilità, l’unicità, il genio individuale.

Il primo capitolo parla delle incisioni della grotta dell’Addaura, presso monte Pellegrino vicino a Palermo. Si tratta di incisioni sviluppate su tre pareti di una grotta, con molte figure antropomorfe, un unicum nel Paleolitico. Inoltre, si tratta di rappresentazioni raffinate, realistiche ad esempio nella resa della musculatura. Sono state realizzate in una fase che ci appare di svolta, sul finire del Paleolitico (tra Epigravettiano finale e Mesolitico): ci si smarca dalle raffigurazioni animali e si approda a una nuova estetica della figura umana. È l’inizio di un “nuovo umanesimo”, lei scrive. Come è stato possibile? È una svolta biologica, neurologica, arrivata d’improvviso, o ci sono delle cause?

Incisioni dalla Grotta dell’Addaura, Mondello (PA). Fonte preistoriainialia.it (ph. S. Vassallo, R. M. Cucco, 2015)

Le risposte possono essere molteplici. La prima, più naïf, è di carattere sociologico: è chiaro che si arriva a forme di diversificazione sociali tali da indurre queste popolazioni primitive a distinguere sempre più il lavoro umano in vari livelli: per esempio all’Addaura ci sono questi due giovinetti al centro della rappresentazione  poi tutta una teoria di figure attorno che performa un rituale, quindi c’è già una distinzione, forse in quel caso tra chi doveva essere ancora iniziato (i due giovani) e quelli che invece erano già stati iniziati. Così come c’è una figura, tra le più belle forse della preistoria, di un cervo accompagnato da un uomo con un bastone in mano, forse un pastore.
Quindi la prima risposta è relativa alla differenzazione sociale, tema con il quale torniamo al discorso di prima sulla costituzione del Sé. Poi, certo, qui tocchiamo uno degli argomenti più cruciali: tutta la grande figurazione del Paleolitico superiore trascura l’uomo. La figura umana è quasi del tutto assente, a volte rappresentata in piccoli disegni rudimentali, , quasi caricaturali che accentuano nasi, occhi, arti. Nella raffigurazione animale, invece, il Paleolitico arriva a una perfezione assoluta, per tornare al discorso di Picasso. Successivamente, le cose sono evidentemente cambiate.
Ci viene in aiuto una figura come George Bataille il quel sostenne che gradualmente prende corpo una distinzione degli umani dall’animalità. Questa è la nostra tragedia: oggi cerchiamo di riscoprire in letteratura e nell’arte, proprio il nostro contatto e rapporto con l’animale. L’emergere della raffigurazione umana determina una centralità antropocentrica nella quale un filosofo come Bataille vedeva il distacco dall’animalità che era stata centrale per decine di migliaia di anni in un contesto dove evidentemente l’uomo si percepiva come una parte degli animali. Evidentemente a un certo punto qualcosa si rompe. Dire “nuovo umanesimo” è poco più di una battuta. Però certamente il focus dell’Addaura è l’uomo. Siamo in un’epoca in cui la percezione del Sé è molto più matura. Le capacità tecniche fanno sì che l’uomo si distingua sempre di più dall’animale, nel senso che egli capisce che può, attraverso l’uso di strumenti, essere meno a rischio della vita.
Ci tengo però a dire che ho usato la grotta dell’Addaura anche come plot narrativo per sottolineare il fatto che noi al cospetto di queste immagini proviamo delle emozioni estremamente forti. Questo è successo a tutti quelli che hanno scoperto le grotte principali ma è successo anche a me, si parva licet. Quando vidi per la prima volta queste immagini fu una rivelazione – stiamo parlando degli anni Settanta-Ottanta, quando ancora non c’erano tutte le riproduzioni fotografiche e digitali che ci sono adesso – perché si trattava di rappresentazione completamente diverse da quelle conosciute. Al di là delle riflessioni più scientifiche, il fatto è che chiunque entri lì dentro e si metta di fronte a questi disegni non può restare insensibile a quello che vede, tanto che l’Addaura è un piccolo anfratto, una grotta “prêt-à-porter”. La frequentazione di questa grotta poteva essere quotidiana, non si trattava di scendere per decine di metri al buio. E nonostante tutte le modifiche intercorse successivamente, che hanno determinato il cambiamento del piano di camminamento e quindi l’altezza alla quale si vedono le immagini, ancora oggi se entriamo lì dentro subiamo uno shok visivo. Veniamo risucchiati in questa performance e ci chiediamo chi siano questi due ragazzini che volano, se delle vittime o degli iniziati. Aggiungo il fatto che, come ha dimostrato la letteratura scientifica, vi compare anche un’idea di proiezione assonometrica. Non vediamo una teoria degli animali, disposti uno accanto all’altro: nell’’Addaura è rappresentato lo spazio, quasi una prospettiva. Anche pensando a questo, ho parlato di “nuovo umanesimo”.

Riguardo all’aspetto emozionale della vista delle pitture, ho trovato molto interessante la sua osservazione che quasi tutti gli studi sull’arte del Paleolitico partono sempre raccontando esperienze personali, quindi dalla propria reazione di fronte alla visione delle pitture. Scrive che la vista diretta delle immagini è necessaria per sperimentare l’ambiente, la posizione dell’osservatore, la consistenza materica delle pitture; una esperienza emotiva e cognitiva nello stesso tempo. Come sappiamo, però, è un’esperienza che pochissime persone al mondo oggi possono fare; quasi tutte le grotte sono chiuse al pubblico per ragioni conservative e si possono visitare soltanto delle repliche (Altamira, Chauvet, Lascaux, ecc).
Cosa pensa di queste repliche?

Penso che le repliche abbiano due funzioni: la prima, di permettere un minimo di fruizione a un pubblico vasto e quindi anche far acquisire la consapevolezza dell’importanza di tutelare questi luoghi. Tra parentesi, continuo a lamentare, come già facevo insieme al mio compianto amico archeologo Sebastiano Tusa, il fatto che un posto come l’Addaura sia chiuso al pubblico e non abbiamo un museo dedicato.
La seconda funzione, ancora più importante, è che attraverso queste riproduzioni comprendiamo un sacco di cose su come venivano dipinte e prodotte queste immagini. Quindi la replica ha senso anche da un punto di vista scientifico. In futuro con meccanismi di realtà virtuale sempre più raffinati potremo simulare di camminare dentro questi spazi, ma non ci sarà nessuna tecnologia in grado di riprodurre fino in fondo tutte le stimolazioni sensoriali che si hanno in una caverna vera. Chiunque abbia fatto l’esperienza di entrare in una di quelle ancora visitabili (ad esempio in Francia a Les Eyzies) sa benissimo che bisogna mettere in conto il freddo, l’umidità, la posizione, la dimensione claustrofobica, la sonorità, il buio e di conseguenza la luce. Sicuramente quella delle grotte era un’esperienza multisensoriale.  Oggi nelle repliche possiamo vedere le immagini, forse toccarle, ma negli spazi originali l’esperienza era ben più complessa, aveva una dimensione di embodiment incredibilmente più potente. Quindi ben vengano le riproduzioni perchè ci spiegano tante cose, ma sicuramente non tutto. Hanno una funzione educativa, ci permettono di renderci conto della profondità immemoriale del tempo e del nostro essere Sapiens.
Attenzione però: molte grotte giustamente non sono visitabili per motivi di conservazione, ma l’arte rupestre è sparpagliata in tutto il pianeta. Ci sono centinaia di luoghi in cui fare un’esperienza molto vicina a quella dei nostri antenati paleolitici, penso alla rock art, ai petroglifi che si trovano ad esempio negli Stati Uniti, nell’America del sud, in Australia, in ambienti ancora molto simili a quelli dei nostri antenati.

Secondo André Leroi-Gourhan le prime “collezioni” di reperti, scoperte in livelli post-musteriani nella grotta di Arcy-sur-Cure, composte da oggetti curiosi (tra cui alcuni fossili) selezionati e messi da parte da quelle genti preistoriche, sono il primo segno di una coscienza estetica.
Lei cita un esempio ben più antico di possibile ‘coscienza estetica’, ovvero un ciottolo di diaspro ritrovato a Makapansgat in Sudafrica, attribuito a tre milioni di anni fa, a un Australopithecus Africanus: un ciottolo naturale ma dalle forme particolari che ricordano un volto umano. Quindi saremmo di fronte a un ominide che ancora non produceva arte ma sapeva in qualche modo riconoscerla e ne sentiva il bisogno, se questo ciottolo se lo portava con sé.
L’idea di fare arte, l’aspirazione all’arte, parte da uno sguardo? Dall’accorgersi e dal guardare in modo diverso quello che ci sta intorno?

Ciottolo di Makapansgat (Fonte Wikipedia)

Beh, questo è dimostrato non soltanto dal ciottolo di Makapansgat. Non c’è dubbio che quel ciottolo sia stato preso e trasportato per moltissimi chilometri, e quindi sia il segno di una esperienza di riconoscimento che oggi chiamiamo estetica. È probabile che questo volto riconoscibile nel ciottolo fosse interpretabile sulla base di una esigenza forse religiosa, alla stregua di un interlocutore, o un Dio.
Una cosa è sicura: siamo in grado di riconoscere i volti anche quando volti non sono, e in quel caso il nostro antenato ha riconosciuto un volto umano, il che la dice lunga sul fatto che l’esperienza estetica ha molti aspetti: da un lato c’è la ricezione, la capacità di riconoscere alcune “cose belle” e questo vale per il ciottolo ma anche per i paesaggi naturali. Poi c’è l’aspetto della produzione in termini moderni, ovvero quando produciamo un oggetto con delle finalità di tipo estetico; ma c’è anche, come al solito, una questione di comportamenti che sono sempre gli stessi. Perché il nostro antenato ha preso questo ciottolo e l’ha portato con sè? Qual è il significato del gesto?
Tutta la psicologia delle prime fasi di vita ci dimostra che il volto umano è qualcosa che fa la differenza nella percezione di un infante che è capace di riconoscere soprattutto il volto della madre, e questa abilità fa parte della nostra costituzione genetica. Ma al di là di questo, chi ha preso quel ciottolo probabilmente vi ha proiettato dei significati che potrebbero essere stati sociali, religiosi o anche semplicemente di gioco. La dimensione del gioco è tutt’altro che secondaria nella nascita dell’estetica, così come quella ripetizione: portando quel ciottolo con sé, quella “persona” ha potuto ripetere più volte l’esperienza del riconoscimento di un volto.
L’esperienza estetica crea una continuità tra l’animale e l’uomo. La capacità di riconoscere un volto, ad esempio, è propria anche degli animali. Gli animali riconoscono, attraverso  la simmetria degli occhi un potenziale predatore o al contrario un amico. La simmetria ha a che fare con la storia dell’ornamento ma anche con il nostro percorso evolutivo: se vedo due occhi colgo non solo la simmetria ma anche la possibilità di difendermi da un potenziale nemico. Quindi quel riconoscimento ha delle valenze importantissime; riconoscere un volto ci ha aiutato a sopravvivere,  a conoscere i nostri simili e forse anche a conservarne la memoria.

Andrea Tagliapietra (La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, Donzelli Editore, 2023) ha scritto che la prima immagine in assoluto è stata il riflesso di qualcosa o qualcuno nell’acqua, dove quello che conta “non è il riconoscimento di chi o di cosa si riflette nello specchio, bensì la raggiunta consapevolezza che quella che stavamo guardando è, in effetti, un’immagine”.Lo specchio è un manufatto ambiguo, in quanto nello stesso tempo “cosa” e immagine. Ci fa vedere oltre la portata del nostro sguardo e in primo luogo noi stessi: una esperienza formativa e identitaria in qualche modo ingannevole (nello specchio c’è un riflesso della realtà e non la realtà in sé) ma anche strumento di conoscenza.
È d’accordo sul fatto che il riflesso di sé possa essere stata la prima immagine?

Certamente il tema del riflesso entra nella questione dell’idea del Sé. Sulla scoperta del Sé c’è tutta una mitologia che insiste su questi temi (basti pensare a Narciso). Sul fatto che questa possa essere l’esclusiva nascita dell’immagine ho i miei dubbi, per il semplice fatto, di carattere etico piuttosto che estetico, che non credo alle origini e alle spiegazioni uniche. Sono incline a pensare che qualunque fenomeno sia il prodotto di progressioni evolutive molto complesse, di avvicinamenti, errori, prove, durati migliaia e migliaia di anni.
La nascita delle immagini potrebbe essere vista nel riconoscimento del ciottolo di Makapansgat che è, in fondo, una forma di rispecchiamento. Perché evidentemente se so chi è l’altro, forse allora so anche chi sono io e magari mi sono già visto per esempio riflesso nell’acqua. Però cosa viene prima? Il riconoscimento del volto umano, che comunque fa parte dell’esperienza di un qualunque neonato, o il fatto di affacciarsi su una superficie riflettente, o di trovare una pietra che ricorda le sembianze dei miei compagni? Probabilmente si tratta di tutte queste cose messe insieme e verificate per migliaia di anni. Verosimilmente il primo individuo che si è rispecchiato non ha neppure capito di che si trattava e forse si sarà spaventato, non riconoscendosi affatto.
Dobbiamo anche tenere in conto l’elemento della casualità. L’idea che tutto abbia una causa è ingannevole; alcune cose succedono per caso eppure possono cambiare il nostro modo di vedere e di comportarci. Pensiamo ad esempio a un altro evento fondamentale, l’essere diventati bipedi: quanti passaggi di migliaia e migliaia di anni ci saranno voluti?

Nel mondo contemporaneo il digitale ha una valenza e una pervasività sempre maggiori ma le immagini digitali hanno pur sempre ancora bisogno di un supporto materiale per essere prodotte (uno schermo, gli occhiali per il tridimensionale, una pellicola per le immagini oleografiche, …). Quindi c’è un supporto mediale come prima c’erano i dispositivi ottici e prima ancora le pareti delle caverne, i frammenti di osso e avorio sui quali incidere raffigurazioni, ecc.
Secondo lei il digitale sta cambiando il nostro modo di fare immagini o non si tratta di una svolta così importante?

La mia risposta, un po’ polemica, è che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Non tanto perché pensi che nel contemporaneo non troveremo nuovi modi di fare immagine, li troveremo e saranno sempre più virtuali e complicati. Però se spostiamo l’attenzione verso i nostri comportamenti e approcci nei confronti delle immagini, credo che lì invece ci sia una stabilità notevole che ancora stentiamo a decifrare. Perché, ad esempio, baciamo una immagine? Perché un’immagine in qualche modo ci chiama, ci coinvolge, sembra avere una agency che ci induce a fare determinate cose? Se riflettiamo su queste cose forse andiamo un po’ più avanti rispetto alle magnifiche sorti e progressive della tecnologia. Le immagini, come ci hanno insegnato i grandi della cultura visuale (W.J.Y. Mitchell, David Freedberg, Alfred Gell) alla fine ci fanno fare sempre le stesse cose.  Quindi, per quanto mi renda conto che le tecnologie facciano la differenza, sposterei sempre il discorso dalla parte della ricezione; anche con l’intelligenza artificiale facciamo in modo che si producano immagini con le quali abbiamo delle relazioni fin troppo scoperte, evidenti e “primitive”.

Nel libro ribadisce spesso che non dobbiamo andare alla ricerca del significato, della spiegazione, quantomeno ribadisce che lei non intende farlo. Mi ha fatto venire in mente il famoso saggio di Susan Sontag, Contro l’interpretazione (1964), dove Sontag si pone contro l’interpretazione dell’arte, e dice che bisogna ritornare a sperimentare un’opera dal punto di vista sensoriale (e questo mi fa pensare alle descrizioni delle visite nelle grotte paleolotiche). Ci hanno insegnato che il contenuto è prioritario sulla forma, e ci aspettiamo sempre che l’opera d’arte dica qualcosa; davanti a un quadro o a una installazione artistica ci scervelliamo alla ricerca del vero significato, dando per scontato che voglia dire qualcosa. Mentre la moralità dell’arte, dice Sontag, sta nel fatto che risveglia la nostra sensibilità: l’esperienza estetica è una risposta morale alla vita.
E poi scrive:  “Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse.”
Crede che sia impossibile tornare a quello sguardo innocente?

Non credo che ci siano sguardi innocenti. Gli sguardi sono costruiti, hanno una dimensione storica, una memoria visiva. Se uno studia il Paleolitico per raggiungere la verità sulle immagini piuttosto che su qualunque altra cosa, è sicuramente sulla strada sbagliata. Il Paleolitico, lo ribadisco, ci serve soprattutto a smontare le nostre sicurezze estetologiche, etiche, sociali, politiche; a ridurre le nostre pretese antropocentriche, eurocentriche e anche generocentriche. Pensiamo per esempio a tutta la tradizione delle interpretazioni delle statuine femminili, le c.d. Veneri; giustamente la cosiddetta Gender Archeology (Margaret Conkey in testa) ha fatto un lavoro di decostruzione dello sguardo maschile su questi manufatti: è stato detto che non potevano che essere donne incinte o comunque collegate al tema della fertilità, addirittura ci sono stati degli archeologi che hanno parlato di Paleo Porn, cioè hanno ipotizzato che le statuine avessero delle finalità sessuali. Oggi abbiamo capito che questi oggetti potevano avere moltissime altre funzioni, anche se alcune di esse continueranno a rimanere un enigma. Un grandissimo studioso delle figurine soprattutto neolitiche, Douglass W. Bailey, sostiene che questi artefatti siano degli “strumenti” filosofici, che ci permettono di riflettere sul Sè, sull’ornamento, sul nostro stare nel mondo.
Penso che il mio libro, se ha un senso, sia quello di dire: sappiamo tante cose, abbiamo inventato l’estetica, la storia dell’arte, ma ogni tanto lo sguardo in una dimensione immemoriale ci permette di ridurre il nostro superomismo filosofico e ci fa intuire quanto sia limitante interpretare tutto a partire solo dalle ultime fasi della storia evolutiva di Homo Sapiens.
Riconsiderare, come stanno facendo tanti filosofi, il tema dell’animalità, cioè il fatto che viviamo in un contesto dove siamo soltanto uno dei tanti animali sulla Terra e neanche il più forte, probabilmente neanche il più furbo, al massimo il più colto, ha anche una valenza etica perché ci aiuta a comportarci nella società reale e politica. Iscriverei questo libro in una logica di riduzione delle nostre presunzioni.

L’accenno a Sontag mi permette di farle una domanda un po’ divagante, ma fino a un certo punto: Sontag ha scritto molto di “cultura visuale” e del rapporto tra metafora (nella quale rientra la produzione di immagini) e la realtà (basta pensare al suo saggio sulla fotografia).
Ho ascoltato una sua conferenza in cui ha analizzato due saggi di Sontag, La malattia come metafora e Davanti al dolore degli altri. Nel secondo, in particolare, Sontag si chiede come dobbiamo porci di fronte a immagini di morte, di dolore; osserva che è impossibile districare tra compassione (uno sguardo buono, ben intenzionato, positivo) e voyeurismo (uno sguardo perverso). Lei conclude quella conferenza con un giudizio negativo su Annie Leibowitz, la famosa fotografa che fu compagna di Sontag e che pubblicò poco dopo la morte della scrittrice americana un libro di fotografie (A Photographer’s Life 1990-2005) nel quale comparivano anche diverse immagini di Sontag malata nel letto di ospedale, e poi morta. Dice che Sontag forse non avrebbe apprezzato. Personalmente più che le foto in ospedale o sul letto di morte, trovo impietose certe altre foto di Sontag ancora viva e non malata, distesa sul divano, trasandata e poco curata. Mi riesce difficile pensare che Sontag non immaginasse che Leibowitz prima o poi avrebbe pubblicato tutte le foto che le scattava. Pare che anche la celebre foto di Demi Moore nuda e incinta di sette mesi, scattata da Leibowitz e che fu una copertina di Vanity Fair nel 1991, fosse uno scatto nato come privato.
Tutto questo vale come spunto per chiederle: come si fa a ripulire la nostra visuale dalle immagini? A decidere che qualcosa non si deve mostrare, non si deve vedere. Nei nostri comportamenti al cospetto delle immagini, e nelle possibilità di diffusione e riproduzione delle stesse (possibilità che non c’erano nel Paleolitico), non c’è in fondo una forma di impertinenza, di patto con il diavolo, che rende le immagini inarrestabili? – e questo, in fondo, pure, ci è necessario, come il fare-immagine in sé.

Il punto è che noi abbiamo un serio problema con le immagini. Abbiamo delle forme di comportamento fobiche, ad esempio, come ci ha insegnato Aby Warburg già all’inizio del secolo scorso. Certe immagini hanno su di noi una presa che ci mette seriamente in questione. Probabilmente questo è anche il loro fascino ed è il motivo per cui continuiamo a cercare l’origine dell’immagine. Ma scendendo da questa astrazione e andando sul piano dell’uso delle immagini, e dell’uso eventualmente immorale, proprio Susan Sontag, che considero la più importante filosofa del Novecento oltre che teorica della letteratura, ci ha spiegato che dobbiamo prendere delle decisioni di fronte alle immagini perché esse spesso ci inducono a comportamenti dissacranti. Come racconta in quel libro meraviglioso sul dolore degli altri, godiamo di certe immagini perché siamo fatti costitutivamente così, ci saziamo del dolore degli altri, usiamo impropriamente le immagini. La decisione che dobbiamo prendere è quindi di carattere morale.
Ho insistito sul fatto che non avrebbe accettato quelle ultime immagini – è vero che ce ne sono di peggiori, rispetto ad esempio a quella dove appena si intravede il suo corpo su una barella mentre viene caricata su un aereo – perché se si segue la storia della malattia di Sontag, si capisce che lei  non si è mai rassegnata a questa sofferenza e alla distruzione della sua umanità. Quindi credo che non avrebbe santificato in alcun modo questi ultimi momenti della sua vita, come ha fatto Leibowitz trasformandola in una sorta di icona del dolore. Sontag odiava la malattia, l’ha sempre combattuta, disprezzata, considerata un animale dentro se stessa che non poteva controllare. Per questo non riesco a immaginare, soprattutto dopo l’ultima fase che è stata particolarmente dolorosa e durante la quale è rimasta per gran parte cosciente, che potesse avere cambiato idea. Mi sono fatto questa convinzione leggendola attentamente, rigo per rigo, leggendo anche tutti i diari. Non riesco a pensare che avrebbe potuto avere un atteggiamento estetico o religioso o devozionale nei confronti di queste fotografie.
Poi è chiaro che, nella dinamiche relazionali, accadano cose imperscrutabili. Le foto più impudiche di lei dentro il bagno scattate dalla Leibowitz sono anche atti d’amore reciproci, sono cose che uno fa o si lascia fare magari per amore o senza rendersi conto fino in fondo delle implicazioni. Però studiando approfonditamente la teoria dell’immagine di Sontag e i suoi pensieri sulla malattia, è evidente che lei non indulge mai in un atteggiamento teistico, per non dire cattolico romano, di compiacimento per le sublimazioni artistiche di queste esperienze. In Davanti al dolore degli altri non c’è neanche un minimo compiacimento estetico. A maggior ragione considera intollerabile, insopportabile, la malattia, nella quale non c’è redenzione o trasfigurazione possibile. Anche nei momenti più bui e sofferenti esprime astio nei confronti della malattia. Leibowitz invece ha santificato la malattia, l’ha trasfigurata esteticamente: l’estetica (pittura, fotografia) fa questo, basti pensare a quanti crocifissi abbiamo nella storia dell’arte. È una sorta di tentativo di compensazione, di addolcire la pillola attraverso pillole altrettanto velenose, che poi è l’atteggiamento tipico dell’arte cristiana e forse dell’arte in toto. Attraverso l’arte noi riusciamo a sopportare il tragico, il male. In questo periodo sto lavorando su un tema affine: il rapporto tra ansia e letteratura, il fatto che la letteratura possa essere un calmiere dell’ansia nonostante attivi le ansie (si pensi a Kafka).

Ritornando a Paleoestetica, come lettrice ho sentito la mancanza di un capitolo di conclusione, di sintesi. Come mai non l’ha scritto?

Non l’ho scritto perché le cose che ho detto sono dei primi tentativi di spiegazione di che cosa è un ibrido, che cosa è uno schermo, cosa è una miniatura. Mi sarebbe sembrato un atto un po’ presuntuoso arrivare a una conclusione. Nel libro ci sono due movimenti principali. Il primo è relativo alla necessità di affrontare questi temi dal punto di vista cognitivo e non da quello dei significati storico-artistici, dei miti, dei simboli. Il secondo aspetto, che spero sia compreso, è che nonostante tutto il cognitivismo, le neuroscienze e la psicologia, molte interpretazioni tradizionali, cioè quelle tipiche per esempio dell’antropologia culturale di questo secolo e molte interpretazioni “umanistiche”, sono ripensabili. Prendiamo il caso delle miniature: quello che è stato detto dai vari Lévi-Strauss, da Bachelard, da Benjamin, non è da buttare a mare ipso facto, solo perché ormai siamo nell’era delle scienze cognitive. In realtà molti di questi ragionamenti preparavano in qualche modo a riflessioni di tipo cognitivo. Quando Walter Benjamin scrive che i giocattoli danno all’uomo la sensazione di poter dominare il mondo e di poterlo disporre a suo piacimento, sta esprimendo un pensiero di tipo cognitivo, anche se ovviamente non utilizza questo termine. Ci dice che il nostro piacere deriva dal fatto che ci illudiamo di potere controllare ciò che in realtà non controlliamo mai. Non possiamo controllare il traffico di una città ma possiamo gestire le miniature delle macchinine, uno scenario tipico del gioco dei bambini. Questa è una cosa che, scrivendo il libro, tenevo molto a dire: gli studi che sono venuti prima, ad esempio anche la psicologia tradizionale di Winnicott, non sono cani morti della riflessione teorica ma pensieri che possono essere riattivati, ovviamente in direzione delle scienze cognitive.
Una conclusione vera e propria sarebbe stata un atto di hybris. Preferisco lasciare la questione aperta, sarà qualcun altro ad arrivare a una sintesi.

MICHELE COMETA (Palermo,1959) ha studiato germanistica e filosofia nelle Università di Palermo e di Colonia. Ha insegnato nelle Università di Düsseldorf, Catania, Cosenza e Cagliari e attualmente insegna Studi culturali Cultura Visuale nell’Università degli Studi di Palermo. Ha scritto numerosi libri sulla cultura tedesca ed europea dal diciottesimo al ventesimo secolo, e sulla cultura visuale. Nell’ottobre 2024 è uscito Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale (Raffaello Cortina Editore, Milano).

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