Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La quiete dopo la tempesta https://www.carmillaonline.com/2025/07/31/la-quiete-dopo-la-tempesta/ Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89779 di Emanuela Monti

“No, grazie, per me niente. Non mangio mai fuori pasto.” “Ma via, Signor Valenzano, solo per oggi! La festa aziendale c’è una volta all’anno! Faccia uno strappo alla regola!” insiste l’usciere. “No, davvero. Non posso. Dopo sto male.” L’usciere mi sorride, fingendosi comprensivo, ma si vede benissimo che non capisce. Del resto, chi ha mai capito? Neanche mia madre c’è riuscita. Anzi, soprattutto lei. Non faceva che ingozzarmi di cibo, a tutte le ore. Aveva la mania delle merende. “I bambini hanno bisogno di mangiare spesso, non hanno mica lo stomaco grande come gli adulti!” Poco e spesso, [...]]]> di Emanuela Monti

“No, grazie, per me niente. Non mangio mai fuori pasto.”
“Ma via, Signor Valenzano, solo per oggi! La festa aziendale c’è una volta all’anno! Faccia uno strappo alla regola!” insiste l’usciere.
“No, davvero. Non posso. Dopo sto male.”
L’usciere mi sorride, fingendosi comprensivo, ma si vede benissimo che non capisce. Del resto, chi ha mai capito? Neanche mia madre c’è riuscita. Anzi, soprattutto lei. Non faceva che ingozzarmi di cibo, a tutte le ore. Aveva la mania delle merende. “I bambini hanno bisogno di mangiare spesso, non hanno mica lo stomaco grande come gli adulti!”
Poco e spesso, mamma. Non tanto e spesso. Almeno, non mezzo chilo di pane con tre etti di affettato a intervalli di due ore. Dall’alto dei tuoi novanta chili – di cui almeno trenta concentrati nei rotoli di grasso in cui si perdevano il tuo stomaco, la tua pancia e il tuo inguine – tu certo potevi reggere merende di questa portata. E in effetti te le concedevi con serenità ogni volta che per me scoccava l’ora della merenda. “Guarda, mangio anch’io con te! Dai, è più bello mangiare in compagnia”, dicevi.
Io però ero un bambino gracile e inappetente e sono sempre stato sottopeso. Lo sono ancora. Neanche nella statura ho preso da te. Piuttosto da papà. Anche lui è piccolo, segaligno, nonostante abbia molta più energia di me.
Almeno io ho sempre pensato che ne avesse molta, se non altro per soddisfare una donna come te. E quando scoprii come si accoppiavano gli adulti, la prima cosa che mi chiesi fu come l’affarino di papà riuscisse a penetrare oltre la cintura di castità che gli strati di grasso formavano sul tuo bassoventre. Quanto all’affarino, non glielo avevo mai visto, ma, ignorando allora la credenza popolare sui nani, lo immaginavo proporzionato alle sue dimensioni. Così, per tutta l’adolescenza ho pensato che papà fosse capace di acrobazie eccezionali. E che fosse dotato di energie altrettanto fuori dal comune.
Io invece mi sono sempre stancato per un nonnulla.
Anche adesso risento subito degli sforzi fisici e se non mi imponessi di andare ogni sera in palestra sono certo che non riuscirei a sostenere la fatica delle mie giornate.
Checché ne dicesse Matilde, la mia ex moglie.
Sì, perché lei era convinta che se mi fossi lasciato andare un po’ di più ai piaceri della vita non avrei avuto bisogno di ammazzarmi in palestra per irrobustirmi e dare un po’ di tono alla muscolatura.
Matilde! Lei certo non aveva bisogno di rinvigorirsi. Era quello che si dice una ragazza florida. Era talmente florida che, per quanto non fosse bella, aveva sempre uno stuolo di corteggiatori intorno. Tutto ciò che è vitale esercita infatti una grande attrazione sugli esseri umani, soprattutto sui maschi.
Lei invece, chissà perché, era stata attratta da me.
Matilde diceva che le facevo tenerezza, che le sembravo una formichina soldato, ostinatamente impegnata nella difesa del nido. Che ogni tanto sporgevo la testa fuori dalla mia fessura per poi ritrarla in modo repentino, ma che rimanevo lì, subito dietro la soglia, senza mai smontare la guardia. Secondo lei avevo uno spiccato senso militare, proprio come si addice a una formica soldato. E mi prendeva in giro perché, con il ferro da stiro, facevo la piega ai jeans: “Ma dai! Stiri anche i jeans? Lo so che il tuo sogno sarebbe stato indossare l’uniforme, ma a tutto c’è un limite!”
Che sciocca! Figurarsi se avrei voluto mettermi l’uniforme!
Ho fatto i salti di gioia quando mi hanno riformato per scarsità toracica! E quanto alla formica nel nido, non poteva trovare un paragone meno calzante!
Non sono certo uno che se ne sta chiuso in casa! Ogni tanto esco con i colleghi di ufficio e in palestra ho fatto amicizia con un ragazzo separato come me. Senza contare che un paio di volte all’anno mi sento ancora con Gianluca e Paolo, i miei compagni di liceo.
Piuttosto, Matilde non aveva tutti i torti a dire che lei era come una bimba dispettosa e un po’ sadica. Che quando, all’inizio, si era divertita a provocarmi, ci aveva provato lo stesso gusto che da piccola sentiva nell’infilare gli aghi di pino nei formicai per catturare qualche preda che poi trasportava lontano e lasciava cadere dall’alto su un terreno sconosciuto, per vedere come se la sarebbe cavata.
Le piaceva disorientarmi, diceva. E ci riusciva, devo ammettere. Perché Matilde era una somma di contraddizioni.
Pur essendo stata educata da una famiglia di cattolici bigotti e pur frequentando regolarmente la chiesa e la gente dell’oratorio, non aveva alcun freno inibitorio. Peccava con assoluta serenità. Era capace di uscire da uno dei cori religiosi a cui partecipava il mercoledì sera, ancora con la chitarra in spalla, di salire in macchina e di mettermi una mano tra le gambe, lì, davanti al sagrato della chiesa, mentre la gente la salutava.
Per non parlare dei peccati di gola. Una volta, per Pasqua, aveva fatto fuori in dieci minuti l’uovo di cioccolato da un chilo che avevano regalato al fratellino. Ed era già una donna sposata. Era già la Signora Valenzano, allora.
Io ero arrossito per lei quando, alla fine del pranzo pasquale, avevano mandato il bimbo a cercare l’uovo e questo era tornato a mani vuote, piagnucolando che non aveva trovato nulla. Matilde era scoppiata a ridere e senza battere ciglio aveva confessato davanti a tutti che lo aveva mangiato lei.
“Non ho saputo resistere, Tommy. Dai, non te la prendere, domani te lo ricompro più grande.” E il buffo è che tutti si erano messi a ridere e neanche il bambino aveva fatto storie. Perché Matilde sapeva come prendersi le cose: senza tanti complimenti e senza che nessuno si sentisse in diritto di lamentarsi.
Quanto a questo io avevo cercato di opporle resistenza, ma era stato inutile. Dopo solo due giorni di convivenza Matilde si depilava le gambe con i miei rasoi blu, anche se le avevo spiegato che per lei c’erano quelli rosa. Li avevo comprati apposta i silk-epil e li avevo messi dentro all’armadietto del bagno, sul lato sinistro, vicino ai pacchetti di assorbenti, ai dischetti di ovatta per il trucco e ai prodotti per l’igiene intima femminile. Sul lato destro invece avevo sistemato la mia roba. Ma niente da fare. Matilde aveva subito mischiato ogni cosa. E quanto ai rasoi, le piacevano quelli blu, così come le piaceva il mio profumo, sebbene il muschio bianco abbia “una fragranza decisamente maschile”, come aveva detto la commessa. E appena usciva dalla doccia, grondante di acqua, Matilde si infilava il mio accappatoio, perché “Quando siamo innamorati è naturale condividere le cose. Quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio”. Con il risultato che l’accappatoio non faceva mai in tempo ad asciugare del tutto e sapeva costantemente di lezzo.
Puzzava anche durante gli ultimi mesi di convivenza, perché Matilde ha continuato fino all’ultimo a infilarsi il mio accappatoio, così come ha continuato a usare i miei rasoi blu e a innaffiarsi il collo e le spalle del mio profumo al muschio bianco. Anche se non era più innamorata di me. Anche se, a rigor di logica, quello che era suo non era più mio e quello che era mio non era più suo.
In effetti quello che era suo non era più mio da un bel pezzo. Erano almeno un paio di anni che si era fatta venire gli scrupoli.
Diceva che si era pentita di aver fatto l’amore prima del matrimonio, che si sentiva in colpa per il passato e non voleva ricascarci.
“Ma ora siamo sposati Matilde! Siamo sposati da quattro anni! Che c’entra quello che abbiamo fatto prima?”
Per lei c’entrava. C’entrava eccome. “Ora devo purificarmi. E comunque l’amore da oggi in poi lo faremo solo per fare figli. Come dice Don Lorenzo, il sesso deve essere finalizzato alla procreazione” aveva spiegato. Non avrebbe mai ammesso che non le andava più.
Riusciva a perdonarsi tutto, ma non la mancanza di slanci.
Al di là di quello che le avevano insegnato al catechismo, l’unico comandamento che Matilde riconoscesse nel profondo era “soddisfa l’istinto”. E non sopportava che il suo istinto ora si fosse assopito.
Era diventata pallida, smunta, con due occhiaie nere sotto agli occhi. La mattina faceva fatica ad alzarsi e non aveva più voglia di mangiare: si limitava a spilluzzicare qualche foglia di insalata. In pratica si nutriva solo di frutta e verdura, lei, che era sempre stata una carnivora e aveva dato il colpo di grazia al mio fegato a furia di intingoli e soffritti.
Ma poi si è iscritta al corso di Spagnolo. In breve tempo è rifiorita. Le occhiaie nere sono sparite e la sua carnagione è tornata luminosa come prima. Ha ricominciato a ridere di gusto per ogni sciocchezza.
Ho subito immaginato che la sua rinascita avesse a che fare con Alberto. Infatti ormai lui l’accompagnava a casa ogni volta che c’era lezione di spagnolo.
“Com’è che sei già tornata, Matilde?”, le avevo chiesto la prima volta.
“Ho fatto presto perché sono venuta in macchina. Mi ha portato Alberto, sai, quello che fa il corso insieme a me”, aveva detto distratta, tenendo gli occhi sul fondo della borsa, intenta a cercarvi qualcosa.
Con il tempo ha cominciato a ritardare. Rimaneva in macchina a chiacchierare con Alberto, sotto casa. Finché una sera, mentre stavo nascosto dietro alla tenda del soggiorno e spiavo l’interno della macchina di Alberto, nel trapezio che la luce del lampione rendeva visibile, ho visto la mano di Matilde tra le gambe di lui.
Allora abbiamo deciso di separarci e un paio di settimane dopo io mi sono preso un bilocale in periferia, vicino al lavoro.
La casa è piccola ma nuova, con le piastrelle di ceramica che si puliscono in fretta e gli infissi di alluminio che non lasciano penetrare gli spifferi.
Il bagno è minuscolo ma ho trovato un armadietto molto funzionale, diviso in scomparti: gli asciugamani a sinistra, le scorte di carta igienica al centro e i prodotti per la barba a destra, vicino al lavabo.
La cucina è a vista, con numerosi pensili, in cui tengo due pacchetti di ogni prodotto, per non restare mai senza. In frigo non c’è altro che frutta e verdura, perché sono diventato vegetariano o, per essere precisi, macrobiotico.
Ormai lo sanno tutti, anche al lavoro.
L’usciere che ha, allora, da fissarmi? Non mangio tramezzini di pollo impiastricciati di salsa cocktail. E, soprattutto, non mangio mai fuori pasto.

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Un’etica di sangue https://www.carmillaonline.com/2025/07/30/unetica-di-sangue/ Wed, 30 Jul 2025 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88855 di Sandro Moiso

Charles Olson, Chiamatemi Ismaele. Uno studio su Melville, traduzione di Nereo Condini, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 164, 15 euro.

Chiamatemi Ismaele costituisce sicuramente uno dei più noti incipit della letteratura mondiale, eppure affrontando le pagine superbe del saggio di Olson, pubblicato in lingua originale nel 1947 e oggi tradotto da Nereo Condini e pubblicato da minimum fax, vien da pensare che forse sono le pagine finali di Moby Dick a rivelare tutta la potenza e tragicità insita nel romanzo. Un testo dal valore universale in cui il tragico rapporto tra uomo e natura, una volta tradito [...]]]> di Sandro Moiso

Charles Olson, Chiamatemi Ismaele. Uno studio su Melville, traduzione di Nereo Condini, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 164, 15 euro.

Chiamatemi Ismaele costituisce sicuramente uno dei più noti incipit della letteratura mondiale, eppure affrontando le pagine superbe del saggio di Olson, pubblicato in lingua originale nel 1947 e oggi tradotto da Nereo Condini e pubblicato da minimum fax, vien da pensare che forse sono le pagine finali di Moby Dick a rivelare tutta la potenza e tragicità insita nel romanzo. Un testo dal valore universale in cui il tragico rapporto tra uomo e natura, una volta tradito il patto della reciproca convivenza racchiuso nel significato morale e autentico della cacciata dal Paradiso terrestre di biblica memoria, si rivela in tutto il suo dramma. Di cui a pagare le conseguenze saranno le generazioni future, come ogni informazione sul cambiamento climatico in corso e la scomparsa di milioni di specie in atto sembra oggi confermare quotidianamente.

Sentendo l’impeto formidabile della lancia che sfondava il mare, la balena si girò per presentare a difesa la fronte liscia, ma in quell’evoluzione scorse lo scafo nero della nave che s’avvicinava, e apparentemente trovando in essa la sorgente di tutte le sue persecuzioni, considerandola, magari, un avversario più grande e più nobile, d’improvviso si diresse verso la prora accorrente, sbattendo le mascelle tra fantastici diluvi di schiuma. […]
«La balena! la nave!» gridarono i rematori allibiti. «Remi! Remi! Fa’ un pendio verso i tuoi abissi, o mare, che, prima che sia troppo tardi, Achab possa scivolare quest’ultima volta al suo segno! Vedo: la nave! la nave! Scattate avanti, marinai! non salverete la mia nave?» Ma, mentre i vogatori forzavano con violenza la lancia attraverso ondate che picchiavano come mazze, le teste prodiere di due tavole colpite prima dalla balena saltarono, e in in un attimo l’imbarcazione, momentaneamente disabilitata, giacque quasi al livello delle onde; con l’equipaggio mezzo a bagno e sguazzante, che cercava in tutti i modi di turare la falla e aggottare l’acqua che irrompeva.
[…] «La nave! Il carro funebre!…. il secondo carro funebre!» gridò Achab dalla lancia. «Il suo legno non poteva essere che americano!» Tuffandosi sotto la nave affondante, la balena percorse la chiglia che rabbrividì, ma, voltandosi sott’acqua, si precipitò di nuovo rapida alla superficie, al largo dell’altro fianco di prora; e, a poche jarde dalla lancia d’Achab, qui per un momento stette calma. […] «Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Olà, olà! dai più lontani confini, rovesciatevi ora quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande cavallone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci; fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro. Che ogni bara e ogni carro affondi in un pozzo comune! e poiché queste cose non sono per me, che io ti trascini in pezzi, dandoti la caccia, benché legato a te, balena dannata! Così! Lancio l’arpione!»
Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far faville la lenza scorse nella scanalatura: la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. s’imbrogliò. Achab si piegò a disimpegnarla, la disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i Muti turchi strangolano la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non c’era più. L’istante dopo, la pesante gassa impiombata in cima al cavo volò fuori della tinozza vuota, abbatté un rematore e, staffilando il mare, scomparve nei gorghi.
Per un momento, l’equipaggio incantato della lancia stette immobile, poi si volse. «La nave? Gran Dio, dov’è la nave?» Presto, attraverso un mezzo fosco e confuso, ne videro il fantasma inclinato che svaniva, come nei vapori della Fata Morgana; con soltanto gli alberetti fuori acqua; mentre fissi, per infatuazione o fedeltà o destino, ai posatoi un tempo tanto alti, i ramponieri pagani mantenevano le vedette affondanti nel mare. E allora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni palo e, facendo girare le cose vive e quelle inanimate, tutto intorno in un vortice, trascinarono anche il più piccolo avanzo del Pequod fuori vista. Ma mentre gli ultimi rovesci si mescolavano sul capo sommerso dell’indiano alla testa di maestro, lasciando ancora visibili alcuni pollici del bastone eretto, insieme a lunghe jarde sventolanti della bandiera che ondeggiava tranquilla con ironico accordo alle onde distruggitrici che quasi la toccavano; in quell’istante un braccio rosso e un martello sorsero tesi all’indietro, nell’aria libera, in atto d’inchiodare ancora la bandiera al bastone affondante. Un falco del cielo che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua naturale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego, cacciò per caso ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; e contemporaneamente sentendo quel brivido etereo, il selvaggio sommerso là sotto, tenne, nel suo anelito di morte, il martello rigidamente piantato; in modo che l’uccello celeste, con strida d’arcangelo, col rostro imperiale teso in alto e tutto il corpo prigioniero avvolto nella bandiera d’Achab, andò a fondo con la nave, che, come Satana, non volle scendere all’inferno finché non ebbe trascinata con sé, per farsene elmo, una parte vivente del cielo. Piccoli uccelli volarono ora, strillando, sull’abisso ancora aperto; un tetro frangente bianco si sbattè contro gli orli in pendio; poi tutto ricadde, e il gran sudario del mare tornò a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa1.

Charles Olson (1910-1970) accademico, critico, archeologo e scrittore a sua volta, è stato uno dei maggiori studiosi di Melville e in Chiamatemi Ismaele scandaglia il sotto-testo della sua opera maggiore, inquadrandolo in una vastissima disamina del tessuto storico e sociale statunitense e indagando le intricate influenze che hanno indirizzato Melville nella scrittura, in particolare le opere di Shakespeare.

Olson, infatti, è stato il primo ad avanzare la tesi secondo la quale esisterebbero due versioni del celebre romanzo e che a separarle (e differenziarle in modo sostanziale) fu un evento cruciale: tra la prima e la seconda stesura Melville aveva letto per la prima volta Re Lear. Secondo lo studioso e poeta la tragedia di Shakespeare ebbe un impatto dirompente sull’opera di Melville, deviandone drasticamente il corso: addirittura nella prima versione del libro non ci sarebbe stato il capitano Achab e – fatto se possibile ancora più incredibile – addirittura la balena bianca sarebbe comparsa soltanto come elemento marginale.

Attingendo alle copie personali di Melville delle opere shakespeariane, inseguendone come un detective il flusso di pensieri nelle annotazioni a matita, Olson ci lascia un’opera unica per originalità e densità, in cui l’ossessione filologica si mescola a una brillante analisi sociale e al rigore critico dalla sconvolgente potenza poetica: una lettura fondamentale per chiunque abbia amato uno dei più grandi, se non il più grande, romanzo americano di tutti i tempi

Per questo motivo appare inevitabile rinviare qui alle pagine dell’Introduzione, curata dal traduttore, dello stesso testo di Olson.

Rossa premessa al corpo di Moby Dick, diviso in cinque sezioni, interrotte da macabri rendiconti di crimini, è la storia della baleniera Essex, americana, che nel 1819 fu colata a picco dalle testate di un enorme capodoglio. Proprio in quell’anno nasceva a New York Herman Melville, che avrebbe rintracciato il resoconto di quella tremenda avventura dettato a un suo segretario dal primo ufficiale Owen Chace. Questa l’introduzione per così dire poietica; quella pratica sarebbe maturata più tardi, quando Melville stesso si diede, a diciotto anni, alla baleneria, venendo in tal modo a contatto con la realtà sociale ed economica più rilevante dell’America di allora.
Il diagramma di Olson al riguardo è estremamente documentato: la decisione di Melville di scrivere un’epica della baleneria nacque in lui dalla convinzione che quest’ultima costituiva una frontiera e un’industria. Per Olson, Melville fu il vero prototipo dell’uomo americano. Non come Whitman che dell’America celebrò (parliamo di Leaves of Grass) il trionfo; ma come colui che ne registrò la solitudine, l’angoscia, la colpa, la maligna radice. Melville, dei due, fu l’uomo più sincero, perché quello che più avvertì la tortura dell’estraniamento, colui che in ogni circostanza cercò, della vita, gli elementi primari, gli inizi incontaminati. Se a questo senso spaziale, primigenio, integro delle cose, sovrapponete l’ossessione del male, Endicott che torna dal mondo di tenebra di alcuni personaggi shakespeariani, avrete l’altra chiave di interpretazione di Olson, e, indirettamente, la confessione puritana di Melville.
Abbiamo detto shakespeariani: di Shakespeare a Melville interessano certe terribili verità enunciate da quelli che definisce, in una sua copia delle Opere, i personaggi tenebrosi: Jago, Lear, Amleto, Otello. […] La tragedia che più colpisce Melville è però Re Lear: la sua attenzione si volge inorridita alle qualità positive dei depravati; al peccato che splende di una sua luce di vittoria; al costo della conoscenza del dolore altrui che vuol dire sempre diminuzione del proprio orgoglio e sofferenza propria.
[…] Pietà e compassione da Re Lear, atmosfera di tregenda da Macbeth. Il mondo di Ahab affonda le sue radici in ridde di streghe, in profezie ingannatrici, in soliloqui paurosi. Una nera magia fascia il dramma e lo precipita alla sua anti-cristiana conclusione. Il motivo del male che furoreggia, di Lucifero che si ribella, è ben presente in Melville […] Aggiunta di Melville a Shakespeare è, per Olson, un maggior senso della democrazia. Ismaele, colui che presta il titolo al libro, è l’«orfano» che dà voce e dignità all’umanità dell’equipaggio, il punto dove ciò che l’America simboleggia entrò in Moby Dick. E non il solo. Per Olson, il Pacifico è il secondo West americano; la costa dell’Asia, il legittimo prolungamento della California. È così appassionatamente americano in Melville da anticipare i Vietnam; non gli dà fastidio l’ironia di un Pequod2 che schiude la rotta all’imperialismo quacchero. Ma centra il problema quando addita, nella composizione epica di Moby Dick, tre forze principali: Melville, uomo di miti, antimosaico; un’esperienza di Spazio, la sua potenza e il suo prezzo, l’America; e antiche grandezze di tragedia. In più, la legge israelita dell’occhio per occhio, la favola di Moby Dick concepita come vendetta. In linguaggio balenante Olson specifica l’etica di Melville: nessuna dolcezza di Cristi o remissione di peccati; il mondo di Ahab è di prima del Vecchio Testamento, spaziale, un Primo; è un’etica di sangue3.

Un’etica del sangue e, aggiungeremo, della morte che avrebbe sempre pervaso la grande letteratura americana: da Twain a Hemingway e da Poe a McCarthy. Oscura premessa di un inconscio collettivo marchiato dalla crudeltà e dalla distruzione che l’allargamento a livello planetario della Frontiera della Terra della libertà avrebbe sempre portato con sé. Fin dalla sua fondazione, avvenuta nel sangue delle tribù native e degli schiavi come nella scomparsa dei bisonti e della natura che ne aveva permesso la vita. Fino alla comparsa dell’Uomo bianco, del suo puritanesimo e della sua insaziabile sete di ricchezza.


  1. H. Melville, Moby Dick, traduzione di Cesare Pavese  

  2. Nome della baleniera del capitano Ahab, su cui si svolge la maggior parte degli avvenimenti narrati nel romanzo di Melville.  

  3. N. Condini, Introduzione a C. Olson, Chiamatemi Ismaele. Uno studio su Melville, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 8-10.  

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Il diluvio oltreoceano https://www.carmillaonline.com/2025/07/29/il-diluvio-olteoceano/ Tue, 29 Jul 2025 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89622 di Franco Ricciardiello

Stephen Markley, Diluvio (The Deluge, 2023), trad. Manuela Francescon e Tiziana Mennella, Einaudi, 2025

Lo scorso giugno ho partecipato a Futuri ambientali, un incontro pubblico organizzato dal Politecnico di Torino. Tra i relatori c’era Paola Mercogliano, scienziata che studia come difendersi dai danni della catastrofe climatica. Durante il dibattito ha ribadito una cosa ovvia, che però non è recepita a sufficienza dai media, e di conseguenza non fa presa sulla coscienza delle persone e nel dibattito politico: il fatto, cioè, che la catastrofe climatica non produce soltanto effetti climatici, ma, soprattutto, effetti sociali, tanto più gravi quanto meno abbienti sono le popolazioni [...]]]> di Franco Ricciardiello

Stephen Markley, Diluvio (The Deluge, 2023), trad. Manuela Francescon e Tiziana Mennella, Einaudi, 2025

Lo scorso giugno ho partecipato a Futuri ambientali, un incontro pubblico organizzato dal Politecnico di Torino. Tra i relatori c’era Paola Mercogliano, scienziata che studia come difendersi dai danni della catastrofe climatica. Durante il dibattito ha ribadito una cosa ovvia, che però non è recepita a sufficienza dai media, e di conseguenza non fa presa sulla coscienza delle persone e nel dibattito politico: il fatto, cioè, che la catastrofe climatica non produce soltanto effetti climatici, ma, soprattutto, effetti sociali, tanto più gravi quanto meno abbienti sono le popolazioni colpite. In sostanza, la disuguaglianza sociale, la forbice della ricchezza, è un indicatore dell’incidenza dell’innalzamento della temperatura media.

Molta della fiction climatica pubblicata oggi nel mondo si concentra sulla descrizione di effetti particolari, locali, del climate change, come La memoria dell’acqua della finlandese Emmi Itäranta, La foresta brucia sotto i nostri passi dello svedese Jens Liljestrand o C’era una casa sopra la collina dell’inglese Jessie Greengrass. Rara è una prospettiva più ampia, che tenti di raccontare la catastrofe nel suo farsi, e i tentativi di opporsi e di riportare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera a livelli non dannosi.
Abbiamo avuto, qualche anno fa, Il Ministero per il Futuro di Kim Stanley Robinson, scrittore statunitense di fantascienza, libro che ha anche ispirato un dibattito politico-scientifico sulle soluzioni tecniche che sembra suggerire, e abbiamo di recente un altro statunitense, Stephen Markley, scrittore non di genere, che pubblica questo monumentale Diluvio, concentrato sull’immediato futuro, fino al 2039, partendo però da qualche anno dietro di noi, dal 2013, quando uno dei protagonisti, lo scienziato Tony Pietrus, esperto della transizione degli idrati di metano, pubblica un libro molto radicale in cui esorta i governi a prendere misure drastiche contro l’innalzamento della temperatura media del pianeta, e per la decarbonizzazione dell’atmosfera, prima che sia troppo tardi. Naturalmente viene considerato un eccentrico menagramo, e ignorato.
Ha scritto l’accademico Sean Adams, specializzato in storia del capitalismo statunitense, che “The Deluge non è solo un catalogo impressionante, ben congegnato e fin troppo realistico dei modi in cui la crisi climatica potrebbe mutare in qualcosa di molto peggiore; è anche un libro avvincente e ricco di emozioni e di cuore”. Infatti questo complesso, magnifico, colossale romanzo di 1300 pagine che possiamo ascrivere al genere “fiction climatica”, è anche un romanzo politico sugli Stati Uniti del futuro prossimo, troppo prossimo purtroppo. Infatti, racconta la crisi ecologica, di democrazia e di rappresentanza di quel Paese che ancora oggi pensa se stesso come il centro del mondo, e che tanti danni ha inferto al pianeta in termini di emissioni di carbonio.
La lettura all’inizio può sembrare impegnativa, perché Markley presenta a rotazione Pietrus e gli altri protagonisti in lunghi capitoli introduttivi, ambientati nel nostro presente o nel passato prossimo; ma lo stile è di semplice lettura, anche nei passaggi che spiegano teorie scientifiche, applicazioni tecnologiche e sofismi politici statunitensi.
I differenti registri politico-sociali del romanzo sono esemplificati dai personaggi principali, che insieme a Pietrus raccontano gli anni terribili della crisi prossima ventura. La più importante è Kate Morris, giovane attivista climatica che fonda l’associazione Fierce Blue Fire per combattere l’establishment negazionista (la vediamo in azione attraverso il PdV del suo compagno Matt); ci sono poi Keeper, un marginale tossicodipendente che cerca di sbarcare il lunario, e tenta di rimettersi in sesto quando si fa una famiglia; Ashir al-Hasan, l’analista politico che supporta le scelte dei decisori politici; Shane, inafferrabile terrorista che organizza attentati contro stabilimenti industriali che emettono anidride carbonica; Jackie Shipman, che lavora nel mondo della finanza ma si rende conto della mancanza di responsabilità sociale e ecologica del sistema capitalista. A questi si aggiunge un insieme di personaggi secondari, politici di primo piano, predicatori cristiani integralisti, suprematisti bianchi, spacciatoli di stupefacenti, attivisti climatici, agenti FBI, deputati al Congresso, terroristi, e via dicendo. Senza contare, tra i protagonisti non umani, eventi come incendi devastati, mostruosi uragani , inondazioni rovinose. I media si sono sbizzarriti nella ricerca di risposte al declino dell’America media e alla disperazione dei trumpisti, scrive il New York Times in un trafiletto, ma Markley è uno dei primi romanzieri a riflettere pienamente le forze sociali in gioco senza sacrificare un briciolo del lavoro sui personaggi o di tensione narrativa.

La trama è vasta, piena di storie collaterali, colpi di scena, ribaltamenti di prospettiva; volendo riassumerla, possiamo dire che mentre diverse organizzazioni preoccupate dalla catastrofe climatica lavorano per giungere a leggi molto restrittive contro i combustibili fossili, manovre lobbiste e interessi politici introducono negli USA una stretta securitaria che porta all’arresto di diversi presunti oppositori e alla loro detenzione senza processo, mentre si prosegue come se nulla fosse con le immissioni di CO2 nell’atmosfera. L’organizzazione Fierce Blue Fire, fondata dall’attivista Kate Morris, arriva persino a appoggiare una candidata repubblicana alla Presidenza che ha garantito, in cambio, il varo di una legge sul clima; questa legislazione viene però bloccata, ritardata, stravolta in una stretta autoritaria che ricorda ciò che sta succedendo negli USA dopo l’elezione di Donald Trump.
Il paese si trasforma gradualmente in uno Stato di polizia, il Presidente non esita a ordinare un intervento militare contro i manifestati che protestano pacificamente nella capitale, provocando un sanguinoso massacro.
Diluvio è un’opera straordinaria e agghiacciante, estremamente documentata e altrettanto plausibile: non è difficile riconoscere negli USA dei nostri giorni, con l’opera di fascistizzazione portata avanti da Trump e dal suo entourage, i primi passi di questa deriva ultra-autoritaria, negazionista e violenta: la tipica risposta delle élites liberiste alla crisi politico-sociale.
La lettura di questo romanzo ci conferma che è impossibile disgiungere capitalismo e catastrofe climatica, e che per affrontare la seconda sarà necessario che termini il lungo dominio del primo, se non vogliamo che si trasformi in una sorta di “fascismo fossile”.

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Non mi prenderete per stanchezza https://www.carmillaonline.com/2025/07/28/non-mi-prenderete-per-stanchezza/ Mon, 28 Jul 2025 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89723 di Marco Sommariva

L’8 giugno 1976 fu ucciso Francesco Coco, il primo magistrato a cadere sotto i colpi delle Brigate Rosse. Insieme a lui furono uccisi gli uomini della sua scorta: Giovanni Saponara e Antioco Deiana. Il triplice omicidio avvenne poco distante dalla stazione ferroviaria di Genova Piazza Principe, sulla scalinata di Santa Brigida, a una manciata di metri da quello che oggi è l’ingresso del Count Basie Jazz Club, un circolo Arci che si occupa di promozione sociale e culturale. Il locale si trova all’interno delle fondamenta dell’antico convento di Santa Brigida che risale al 1400, ed è reso a dir poco [...]]]> di Marco Sommariva

L’8 giugno 1976 fu ucciso Francesco Coco, il primo magistrato a cadere sotto i colpi delle Brigate Rosse. Insieme a lui furono uccisi gli uomini della sua scorta: Giovanni Saponara e Antioco Deiana. Il triplice omicidio avvenne poco distante dalla stazione ferroviaria di Genova Piazza Principe, sulla scalinata di Santa Brigida, a una manciata di metri da quello che oggi è l’ingresso del Count Basie Jazz Club, un circolo Arci che si occupa di promozione sociale e culturale. Il locale si trova all’interno delle fondamenta dell’antico convento di Santa Brigida che risale al 1400, ed è reso a dir poco suggestivo dalle pareti in pietra e il soffitto ad archi. Da oltre dieci anni salgo sul loro palco con spettacoli fatti di monologhi e canzoni, che hanno come denominatore comune il sottoscritto – i musicisti spesso cambiano – l’antifascismo come argomento portante e il fatto che la metà delle persone che mi promette – a volte, anche per mesi – di far parte del pubblico all’ultimo momento non si presenta, a volte senza neppure disdire la prenotazione online gratuita.
L’ultimo spettacolo al Count Basie l’ho tenuto il 25 aprile scorso – era un venerdì – e, nonostante le disdette ancor più numerose del solito, per fortuna il locale era pieno. Stavolta, però, è successa una cosa strana; forse complice l’importanza della data che sarebbe stata ricordata e festeggiata quella sera, quasi tutti mi hanno scritto per giustificare l’assenza, e incredibilmente tutti mi hanno scritto la stessa cosa, pur non conoscendosi tra loro: “Non riusciamo a venire, siamo troppo stanchi” – e questo nonostante ci fosse un intero fine settimana alle porte.
Mi sono chiesto da cosa poteva dipendere tutta questa stanchezza che piega le persone, e ho pensato potesse essere la stessa stanchezza già denunciata nel 1908 da Anatole France ne L’isola dei pinguini, quando parla di un popolo stanco di un governo che lo rovina e non fa nulla per lui, di un governo ogni giorno travolto da nuovi scandali, di una repubblica che annega nella vergogna, una repubblica ormai perduta; poi ho pensato alla stanchezza citata da Elizabeth Gaskell in Nord e Sud – un romanzo che uscì a puntate su un settimanale edito da Charles Dickens, fra il 1854 e il 1855 – quando parla di una stanchezza dovuta al trambusto frutto di tutti coloro che si avventano l’uno sull’altro durante la loro corsa alla ricchezza.
Ho pensato anche che forse fossero stanchi della fatica di pensare, come scriveva Jack London in John Barleycorn; di certo, come diceva Steinbeck ne La battaglia, è tutto difficile quando si è stanchi. Eppure, le lotte dei lavoratori iniziate oltre un secolo e mezzo fa per ottenere otto ore per lavorare, otto ore per dormire e otto ore per educarsi, avrebbero dovuto portarci a usufruire della terza e ultima tranche per leggere, scrivere, studiare, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, partecipare a movimenti e associazioni di carattere sociale e politico, dedicarsi alla famiglia e socializzare in genere, eccetera. E allora come mai siamo sempre circondati da gente stanca, specie dopo una giornata lavorativa? Stanchi per l’eccessivo carico di lavoro, stanchi per la ripetitività della mansione svolta, stanchi per l’ostilità dell’ambiente lavorativo, stanchi perché consapevoli d’essere inutili rotelle di un ingranaggio che potrebbe stritolarti in qualsiasi momento. In effetti, siamo sempre tutti un po’ stanchi. Chi più chi meno.
E stanchi ci addormentiamo su un divano davanti a uno schermo che ci inzuppa con una doccia di luce di cui sembriamo non poter più fare a meno. A questo punto, mi verrebbe da dedurre che Qualcuno s’è fatto furbo e invece che toglierci quelle otto ore libere ottenute con lo scopo di istruirci, ricrearci e magari fare gruppo, ce le ha lasciate ma riducendoci incapaci di goderne, usufruirne, esaurendo prima ogni nostra energia, spegnendoci; l’obiettivo d’impedire il risveglio delle masse sarebbe comunque raggiunto, e pure senza dare troppo nell’occhio con eventuali scioperi e manifestazioni a cui, tra l’altro, partecipa sempre meno gente e quasi esclusivamente soltanto i diretti interessati dal problema, senza alcuna solidarietà esterna.

La Casa dello studente di Genova è oggi sede del Mueseo della Resistenza europea ed è dedicato al comunista tedesco Rudolf Seiffert

Torno allo spettacolo dello scorso 25 aprile perché il giorno precedente un conoscente, ridendo allegramente, prendeva in giro i professori di suo figlio che avevano portato l’intera classe in gita alla Casa dello studente di Genova, per la Festa della Liberazione. Rideva perché convinto fosse questa una gaffe colossale: “Cosa c’entra la Casa dello studente con la storia della Liberazione?”, e giù risate e scrollamenti di testa.
Molto brevemente, durante gli anni finali della Seconda guerra mondiale la Casa dello studente divenne sede della Gestapo; comandata da Friedrich Engel – a quei tempi si faceva chiamare Siegfried, ed era noto come “il boia di Genova” – fu luogo di tortura di prigionieri politici, partigiani e antifascisti genovesi in genere. Testimonianze dei prigionieri sopravvissuti riportano il probabile uso delle caldaie dell’edificio come forno crematorio per smaltire i corpi di chi moriva durante le torture.
Rendendomi conto che il conoscente non sta assolutamente scherzando, ma è convinto delle sue ghignate, provo a raccontargli qualcosa e lui – mio coetaneo, un sessantenne nato e cresciuto a Genova – mi risponde: “Non lo sapevo”. Dopodiché balbetta qualcosa circa la sua stanchezza.
Perché racconto questo? Perché temo che mentre ci addormentiamo sconvolti davanti a una fonte di luce artificiale, fra le tante cose abbiamo perso anche la possibilità di spendere qualche minuto per informarci sulle nostre radici, su quanto è successo nella nostra città: magari semplicemente cliccando su Wikipedia.
E qui mi torna in mente il buon vecchio Jack London quando, in Martin Eden, scriveva: “Non aveva visto un giornale in tutta la settimana e, cosa strana per lui, non sentiva il desiderio di vederlo. Le notizie non lo interessavano. Era troppo stanco e sfiancato per interessarsi a qualcosa”.
E dato che a un certo punto ho intravisto nei muscoli facciali del mio conoscente qualcosa che mi ricordava una miscela d’imbarazzo e paura – chissà, forse s’era spaventato della sua ignoranza – ho pensato a Raymond Chandler quando ne Il lungo addio scrive: “L’uomo medio è stanco e spaventato, e un individuo stanco e spaventato non può permettersi il lusso di avere ideali. Deve procurare il cibo alla propria famiglia”.
L’uomo medio non può permettersi il lusso di avere ideali: bingo!
Sbaglierò, ma chi ha il potere in mano e deve guardarsi bene dal non perderlo, è riuscito nell’impresa; quella di toglierci le otto ore per la nostra educazione senza toglierle effettivamente: ci stanca a tal punto da renderci incapaci d’istruirci e, pregni d’ignoranza, non realizziamo neppure quali fregature quotidianamente ci tirano, gl’inganni in cui cadiamo ogni giorno, figuriamoci se siamo capaci di sposare degli ideali! – insomma, il delitto perfetto.
È intorno alla risoluzione di un delitto che nasce Regno a venire, l’ultimo romanzo di James G. Ballard: con la speranza di scoprire l’assassino, il pubblicitario Richard Pearson si reca a Brooklands, una cittadina come tante tra Londra e l’aeroporto di Heathrow, alcune settimane dopo l’omicidio del padre ucciso in un enorme centro commerciale, il Metro-Centre, un complesso di magazzini, alberghi, piscine e centri sportivi, con una propria televisione via cavo che trasmette pubblicità, dibattiti e partite di calcio, hockey e rugby.
Protetto da un’inquietante rete di omertà, il principale indiziato viene rapidamente rilasciato dai magistrati locali; al centro del mistero è il Metro-Centre, tempio del consumismo più sfrenato, dove convive una passione ossessiva per gli sport e un violento nazionalismo: gli attacchi alle comunità d’immigrati sono all’ordine del giorno e gli incontri sportivi sembrano raduni politici: “La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce” – scrive Ballard.
Il consumismo smodato sembra sul punto di mutare in una nuova forma di fascismo che parrebbe poter aiutare un’Inghilterra apatica: “un vero senso di comunità, la gente lo trova negli ingorghi stradali” – ancora Ballard.
Annoiata dalla propria vita, la gente ha necessità d’andare oltre il consumismo e così, mentre club di tifosi marceranno per le strade sventolando le loro bandiere e i loro simboli aspettando un nuovo leader che li guidi verso la terra promessa, Richard frequenterà un gruppo di persone decise a fermare il fenomeno prima che s’espanda ma, come pubblicitario, verrà anche attratto dal potere del Metro-Centre: “Sono cose che fanno parte della vita delle persone. Il consumismo è l’aria che abbiamo dato loro per respirare” – sempre Ballard, ovviamente.
Questo romanzo del 2006 racconta molto bene quanto ci siamo deformati e com’è stato possibile creare un popolo di mostri che, senza accorgersene e senza neppure capirne il motivo, un giorno ha deciso di gettarsi volontariamente dell’acido sul viso.
Ballard ci racconta così la nostra mostruosità, dicendoci che siamo un popolo addormentato che possiede tutto. Il parcheggio è la nostra più grande esigenza spirituale; riteniamo aeroporti e centri commerciali delle attrazioni turistiche; si sta diffondendo una forma soft di fascismo, un odio silenzioso e disciplinato; siamo invasi da intrusi che pensano solo a guadagnare;  vogliamo essere convinti a comprare emerite schifezze; finiremo con l’essere circondati da supermercati aperti tutta la notte; celebriamo le vittorie calcistiche come ultima speranza di violenza; il mondo consumistico è un enorme amnesia del passato; nei centri commerciali viviamo un eterno presente fatto di compere e privo di un’idea di futuro; gli stessi centri commerciali sono incubatrici di violenza, dei nuovi gulag dove la pena è lo shopping; riusciamo a entrare in contatto con la realtà solo quando ci ammaliamo; i tifosi non sono tifosi ma militari razzisti e dettano legge; al giorno d’oggi onestà e franchezza vengono scambiati per subdoli stratagemmi e ci vuole del coraggio per compiere una buona azione; la maggior parte delle persone non ha proprio nulla da dire; il consumismo chiede di rispettare la regola del più forte; non riusciamo più a crescere, siamo tutti bambini; la gente ha un enorme bisogno di autorità; non c’è quasi più nessuno ad avere un briciolo di senso civico; il pericolo più grande è la noia e, anche per questo, le persone adorerebbero qualsiasi cosa; chela gente si rifugia in superstizioni e irragionevolezza; crediamo di poter scegliere, ma è tutto già deciso; tutti si sentono soffocare e, anche per questo, c’è fame di violenza in giro; potrebbe nascere una nuova democrazia dove si vota alla cassa di un supermercato anziché alle urne; l’emozione comanda anche perché la ragione è andata a farsi benedire; c’è sempre bisogno di nuovi nemici; alle persone la sola politica rimasta è comprare; il consumismo è l’ultimo rifugio dell’istinto religioso; non abbiamo più una spina dorsale e per questo adoriamo i codici a barre; desideriamo noi stessi diventare merce proprio come quando ci addormentiamo davanti a una luce artificiale sullo scaffale del nostro divano.
Dimenticavo, fra le mille cose che Ballard ci dice col romanzo Regno a venire c’è anche quella che premiamo il grilletto perché ci annoiamo tanto, e credo sia vero anche questo. Oggi.
Sottolineo oggi perché non credo fosse la noia, nel corso della Storia, ad aver fatto decidere di premere più volte il grilletto. Credo fossero mossi da degli ideali. Ideali che potrebbero esser nati e stati curati durante le otto ore conquistate un secolo prima per la nostra educazione. Poi qualcuno deve aver capito che narcotizzando quelle ore s’azzerava qualsiasi lotta armata, fisica e metaforica, e allora… vai di cloroformio! Tutto quel cloroformio che tanto bene elenca Ballard nel suo romanzo. Qualcosa, però, dev’esser andato storto nei piani di chi persegue il Regno, visto che io sono ancora qui a lottare sparando, come al mio solito, raffiche di parole. E se a breve chiuderò il pezzo, nessuno si illuda: non lo faccio di certo perché mi son stancato.
Perché anche se ogni tanto mi cala la palpebra, ricordo bene cosa scrisse Albert Camus in Ribellione e morte: “Le nostre grandi virtù finiscono per stancarci. L’intelligenza ci umilia e talvolta sogniamo di qualche felice barbarie nella quale la verità si possa raggiungere senza sforzo. Ma di questo si fa presto a guarire; ci siete voi [nazisti] a mostrarci dove si va a finire con sogni di questo tipo e allora ci correggiamo” – era il luglio del 1943.
Insomma, per farmi tacere non basterà radere al suolo la striscia ligure, occorrerà riaprire la Casa dello Studente e farmi passare per qualche camino e magari, mentre sarò nel vento di tramontana, sentirò riecheggiare le risate del mio conoscente.

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La società delle singolarità e della competitività distintiva https://www.carmillaonline.com/2025/07/27/la-societa-delle-singolarita-e-della-competitivita-distintiva/ Sun, 27 Jul 2025 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88967 di Gioacchino Toni

Andreas Reckwitz, La società delle singolarità. La trasformazione strutturale della modernità, Prefazione di Michele Sorice, Lorenzo Viviani e Andrea Volterrani, Traduzione di Massimo De Pascale, Meltemi, Milano, 2025, pp. 540, € 25.00

A distanza di alcuni anni dall’uscita in lingua tedesca è ora disponibile in  italiano il volume La società delle singolarità (Meltemi, 2025) di Andreas Reckwitz, tradotto da Massimo De Pascale, impreziosito da una corposa Prefazione stesa da Michele Sorice, Lorenzo Viviani e Andrea Volterrani, a cui si farà ampio riferimento di seguito, che introduce al quadro teorico entro cui si muove il sociologo tedesco.

Il volume indaga [...]]]> di Gioacchino Toni

Andreas Reckwitz, La società delle singolarità. La trasformazione strutturale della modernità, Prefazione di Michele Sorice, Lorenzo Viviani e Andrea Volterrani, Traduzione di Massimo De Pascale, Meltemi, Milano, 2025, pp. 540, € 25.00

A distanza di alcuni anni dall’uscita in lingua tedesca è ora disponibile in  italiano il volume La società delle singolarità (Meltemi, 2025) di Andreas Reckwitz, tradotto da Massimo De Pascale, impreziosito da una corposa Prefazione stesa da Michele Sorice, Lorenzo Viviani e Andrea Volterrani, a cui si farà ampio riferimento di seguito, che introduce al quadro teorico entro cui si muove il sociologo tedesco.

Il volume indaga il passaggio dalla logica del generale, propria della società industriale, a quella delle singolarità, caratterizzante la società postindustriale. L’affannosa ricerca della distinzione e dell’unicità che si manifestano nel lavoro, nel consumo, nelle relazioni sociali e nella costruzione dell’identità da parte degli individui della tarda modernità ha, sostiene Reckwitz, soppiantato la valorizzazione della standardizzazione, della conformità a modelli generali di classe, professione e consumo proprie della modernità industriale.

Il consumo e le esperienze culturali si sono andati sempre più trasformando da atti di adesione a standard collettivi a pratiche di auto-espressione, di definizione di un’identità personale e distintiva, così come le esperienze di “lavoro creativo”, fattesi sempre più precarie – quando remunerate e non direttamente estorte dalle piattaforme  con cui ci si relaziona online –, e spalmante ben oltre un canonico orario di lavoro, sono caratterizzate da una forte individualizzazione e da un’incessante richiesta di aggiornamento al fine di mantenersi competitivi o, almeno, partecipi all’universo digitale.

La società delle singolarità prospera sulla fluidità delle identità contemporanee e sul processo di estetizzazione della vita quotidiana che si palesa nella costruzione identitaria sulle piattaforme e sui social digitali. Questi ultimi, inoltre, si fanno dispensatori di un’informazione sempre più compartimentata per bolle omogenee che, attraverso la selezione algoritmica, tende a farsi sempre più individuale.

Il diffondersi della logica della singolarità implica trasformazioni politiche e sociali, visto che questa, sostiene Reckwitz, determina una nuova stratificazione sociale basata certamente sul capitale economico, ma anche su quello culturale e simbolico, imponendo nuove forme di disuguaglianza e vulnerabilità derivate dalle disponibilità economiche e culturali necessarie per perseguire l’imperativo di uno stile di vita singolare.

Insomma, secondo il sociologo tedesco, la stratificazione sociale non deriverebbe più soltanto dalla collocazione nella struttura economica e nel mercato del lavoro, ma anche, e soprattutto, dalla polarizzazione socio-culturale che emerge dai processi di singolarizzazione.

Secondo Reckwitz, la società contemporanea – in cui la competizione distintiva non manca di generare ansia, insicurezza e timore di marginalizzazione negli individui costretti a confrontarsi attraverso pratiche di auto-espressione e innovazione –, è caratterizzata da una peculiare stratificazione. Oltre a una ristretta upper class, espressione del mondo della finanza e dei settori ad alta redditività, si ha: una nuova classe media, dotata di una certa cultura e di una spiccata attenzione alla distinzione estetica; una classe tradizionale, la vecchia classe media non particolarmente acculturata – un tempo partecipe delle promesse di progresso della modernità e che ora sperimenta la percezione di crescente insicurezza, marginalità, alienazione rispetto a un sistema che promuove le forme della singolarizzazione e dell’ipercultura –, più legata a modelli di consumo e stili di vita standardizzati; una classe inferiore, dotata di basso capitale culturale, in balia della precarietà e della disoccupazione, dotata di scarso accesso alle risorse necessarie per la competizione simbolica richiesta dalla società delle singolarità.

Nel momento in cui la vecchia classe media percepisce di essere stata messa all’angolo, non potendo più aspirare ad uno sviluppo verso l’alto ma, viceversa, di essere destinata a scivolare sempre più verso il basso, matura il suo risentimento tanto nei confronti di chi, sopra di essa, riesce a sfruttare le opportunità della società delle singolarità, quanto nei confronti di coloro che, in termini di opportunità, si pongono sotto di essa, a cui guarda con disprezza anche per il timore di finire per farne presto parte.

La riconfigurazione della struttura di classe tardo moderna dettata, come detto, dalle diseguaglianze economiche, educative, culturali e degli stili di vita, secondo Reckwitz ha eroso il sostegno nei confronti degli attori tradizionali della politica. «In chiave sociologica», come viene sintetizzato nella Prefazione, «queste sono le radici sociali e culturali di fenomeni solitamente identificati con le etichette del nuovo cleavage, che contrappone sovranisti e cosmopoliti, “vincitori” e “perdenti” della globalizzazione, fino alle declinazioni socio-politologiche di nuove destre tradizionaliste, autoritarie e nazionaliste e nuove sinistre ecologiste, alternative e libertarie» (pp. 28-29).

È tra gli anni Sessanta ed i primi decenni del nuovo millennio, scrivono Sorice, Viviani e Volterrani nella Prefazione al volume, che, secondo Reckwitz, la logica della singolarizzazione diviene un principio costitutivo dell’intera società.

A farne le spese è la linea di separazione propria delle forme dell’individualizzazione moderna. Laddove la sfera privata era il luogo dell’individualità, riconosciuta e protetta dall’invasione dei condizionamenti tradizionali attraverso l’istituzionalizzazione dei diritti individuali, e le istituzioni pubbliche (economiche, politiche, scientifiche) erano il luogo della generalizzazione e dell’“uguaglianza” a sostegno delle interazioni sociali, nella tarda modernità la singolarizzazione opera all’interno delle forme stesse del legame sociale. Il lavoro, le relazioni affettive, la vita quotidiana, la politica, assumono la centralità del singolo nel suo saper cogliere le opportunità di raggiungere, e dimostrare, il successo personale, prima, oltre e contro la dimensione collettiva. Si tratta del fenomeno dell’ipercultura, ossia della valorizzazione radicalizzata della densità di significato, esperienza, successo, associata a ogni ambito della vita quotidiana. L’ipercultura rappresenta per Reckwitz lo specifico terreno che ridisegna la nuova struttura delle classi sociali nella società tardo-moderna, e la loro progressiva nuova contrapposizione. Nell’ambito dell’ipercultura, che innalza continuamente il vessillo dell’affermazione della propria unicità, l’individuo deve – non può – saper cogliere le opportunità che si creano a partire dall’insieme delle possibilità messe a disposizione dalla cultura alta e bassa, dal locale e globale, in una de-gerarchizzazione di valore fra le diverse sfere e, di contro, in una spinta verso la continua combinazione di esperienze diverse che sostanziano il cosmopolitismo contemporaneo (p. 24).

Secondo il sociologo, ad acquisire sempre maggiore importanza nella società tardo moderna è l’accesso alle opportunità culturali e simboliche legate alla cultura dell’affermazione di sé e agli stili di vita singolarizzati. Un cambio di paradigma, come viene sottolineato nella Prefazione, che «ha il suo momento simbolico nel 1968, con la rivoluzione dell’autenticità, l’accresciuta rilevanza della qualità della vita e delle relazioni sociali, la centralità dell’emancipazione dai residui vincoli che limitano l’autonomia personale, e il perseguimento della qualità della democrazia tramite i processi di cittadinanza politica attiva» (p. 27).

[Per Reckwitz] questa trasformazione dismette il carattere costitutivo della precedente modernità organizzata. In particolare, a essere rivisitata è la promessa del progresso come fonte di benessere per tutti. Ecco allora che la singolarizzazione dispiega la sua ambivalenza e alcuni – solo apparenti – paradossi. La singolarizzazione meritocratica non è accessibile a tutti, e la modernizzazione avanzata sembra riproporre il tema dell’anomia e del risentimento come effetto della mancata integrazione sociale e della politica di parti crescenti della società che si confrontano con la tensione fra aspettative sociali e privazione degli strumenti per raggiungerle (p. 27).

Nella tarda modernità, spetta, secondo Reckwitz, soprattutto agli ecosistemi digitali, in particolare alle piattaforme online, in cui si struttura l’economia dell’attenzione e della visibilità, agire come architetture della singolarizzazione. Un universo digitale che, sottolinea il sociologo, non deve essere pensato come luogo a sé rispetto alla materialità, stante il fatto che non manca di incidere su questa.

Insieme alla fine delle illusioni neoliberale, cosmopolita e tecnologica, la tarda modernità è caratterizzata anche dai fenomeni di disintegrazione sociale, sofferenza psicologica e di sempre più scarsa partecipazione democratica, inoltre, sostiene il sociologo tedesco, il nuovo contesto risulta permeato dalla dialettica fra iper-complessificazione e de-complessificazione da cui traggono nutrimento polarizzazioni, estremismi e fondamentalismi di ogni tipo.

Per comprendere le implicazioni politiche della teoria della società tardo-moderna di Reckwitz [scrivono Sorice, Viviani e Volterrani] occorre esplorare un ambito centrale dei processi socio-politici della tarda modernità: la singolarizzazione dei collettivi e l’emergere dell’essenzialismo culturale. A fianco dell’ipercultura prende avvio, infatti, un altro processo, di chiara origine post-romantica, in cui la culturalizzazione non passa per il singolo ma per un’ulteriore dimensione di pratica del fare singolarità: i collettivi. In questo passaggio emergono i richiami alla teoria di Charles Taylor [Radici dell’io, 1993] sulle forme del comunitarismo, e al tempo stesso le ricerche di Benedict Anderson [Comunità immaginate, 1996] sulle comunità immaginate. La singolarizzazione non coinvolge soltanto individui, oggetti, spazi nella loro unicità, ma diventa una modalità propria anche delle forme neo-comunitarie di aggregazione sociale. I collettivi singolarizzati sono neo-comunità che si aggregano sulla base di una specifica unicità storica, geografica o etica, generando rappresentazioni collettive di comunità immaginate. La dimensione immaginata non equivale a quella “fittizia”, nella produzione di effetti sociali, dato che questo tipo di collettivi attira i “simili a sé” e respinge gli “altri da sé”, in una logica che mette in discussione la domanda di ricerca centrale della sociologia, ossia la capacità di integrazione in contesti plurali di tipo societario. Se nella modernità classica i gruppi sociali venivano perimetrati e istituzionalizzati politicizzando particolari basi sociali pre-politiche, nei collettivi singolarizzati la politica dell’identità è intesa come affermazione antagonistica che opera sul doppio binario della valorizzazione e della de-valorizzazione. Una tale natura differenziale non sottende solo la rilevanza del particolare, ma afferma l’unicità non diluibile nella relazione con gli altri. Ne consegue che il collettivo singolarizzato si distingue per una complessità e una densità interne che coinvolgono la dimensione etica, estetica e progettuale. La natura bonding e non bridging di tali gruppi pone una sfida costitutiva alla democrazia intesa come processo di integrazione dei conflitti. La logica amico-nemico, propria della categorizzazione del politico in Carl Schmitt, riemerge nelle interpretazioni politiche che si basano sulla natura dei collettivi singolarizzati. Non è un caso che, nell’analisi sulla ricostruzione delle identità politiche, questa polarizzazione radicalizzata si esprima in termini di antagonismo come modalità del conflitto politico propria dei neo-populismi [Laclau, La ragione popuilista, 2008; Mouffe, Sul politico, 2007]. In-group e out-group, interno ed esterno, amico e nemico sono le modalità espressive dei conflitti che rientrano nella culturalizzazione dei collettivi singolarizzati [Reckwitz, The Society of Singularities, 2019]. Ciò che sta fuori dal gruppo non solo non ha valore, ma assume un valore negativo e incarna il ruolo di avversario da cui difendersi e contro cui opporsi (pp. 29-30).

Secondo Reckwitz, a partire dagli anni Sessanta, mentre da una parte «i valori di autorealizzazione e valorizzazione del sé del liberalismo aperturista hanno favorito l’integrazione e il riconoscimento di gruppi precedentemente discriminati […], e hanno innervato la singolarizzazione degli individui della nuova classe media istruita e dell’upper class», dall’altra, «hanno attivato modalità reattive, difensive e rivendicative da parte di coloro, specie la vecchia classe media, che si sono trovati esclusi dalla capacità di accesso alla valorizzazione dell’unicità offerta dai dispositivi della razionalità del generale che continua a operare come infrastruttura della società delle singolarità» (p. 31). Non si tratta, per Reckwitz, si un atteggiamento anti-moderno, di messa in discussione delle ragioni delle diseguaglianze, ma, piuttosto, di un tentativo di entrare individualmente nel nuovo sistema.

A fronte del venir meno delle ideologie che avevano cementato il perimetro di appartenenza dei “popoli” dei diversi partiti e movimenti politici in conflitto, si avvia una “ri-semantizzazione” del “popolo” come comunità immaginata unitaria, moralmente superiore, coesa, e al tempo stesso rappresentata come “spogliata” della sua sovranità dagli attori mainstream della rappresentanza. Neo-comunità in cui il collettivo ha una sua unicità e una sua densità di appartenenza, con la sua storia particolare, le sue credenze e le sue origini mitizzate. In breve, nell’ipercultura il luogo della singolarità è la persona individuale, mentre nell’essenzialismo culturale è la comunità nel suo insieme a farsi singolarizzata. In questo senso [scrivono Sorice, Viviani e Volterrani] Reckwitz ci guida in una delle contrapposizioni determinanti della società occidentale attuale, socialmente e culturalmente fondata e che vede farsi fronte proprio l’ipercultura e l’essenzialismo culturale (p. 32).

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Odéonia e il paradiso perduto https://www.carmillaonline.com/2025/07/26/odeonia-e-il-paradiso-perduto/ Sat, 26 Jul 2025 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89840 di Franco Pezzini

Luca Della Bianca, L’Eden alla Contrescarpe. Scrittori a Parigi nel 1925 e dintorni, prefaz. di Corrado Donati, pp. 119, € 15, Metauro, Pesaro 2025.

Luca Della Bianca (1962) è un raffinato studioso di letteratura che condivide la sua sapienza con gli studenti del liceo di Garbagnate Milanese. Al suo attivo ha una ricca serie di romanzi, saggi (dalla letteratura italiana a quella latina e greca, ma anche su soggetti meno inquadrabili, come «Io d’amore mi vestirò». Sentimento ed eros nelle canzoni italiane degli anni Settanta, Metauro, 2023 e seconda edizione 2024). Nel 2021 ha pubblicato con BookTime l’affascinante [...]]]> di Franco Pezzini

Luca Della Bianca, L’Eden alla Contrescarpe. Scrittori a Parigi nel 1925 e dintorni, prefaz. di Corrado Donati, pp. 119, € 15, Metauro, Pesaro 2025.

Luca Della Bianca (1962) è un raffinato studioso di letteratura che condivide la sua sapienza con gli studenti del liceo di Garbagnate Milanese. Al suo attivo ha una ricca serie di romanzi, saggi (dalla letteratura italiana a quella latina e greca, ma anche su soggetti meno inquadrabili, come «Io d’amore mi vestirò». Sentimento ed eros nelle canzoni italiane degli anni Settanta, Metauro, 2023 e seconda edizione 2024).
Nel 2021 ha pubblicato con BookTime l’affascinante monografia Faulkner e Hemingway a Saint-Sulpice, pp. 81, € 12, Milano 2021, delicato e malinconico pellegrinaggio nella Parigi degli scrittori, in particolar modo tra gli anni venti e i quaranta del Novecento. Una sorta di Baedeker molto dettagliato di caffè e librerie, luoghi di sbronze e ristoranti, chiese silenziose dove autori talora inimmaginabilmente cattolici affidavano in Alto i loro rovelli (in effetti si partiva e idealmente si tornava al dipinto di Delacroix a Saint-Sulplice sul misteriosissimo corpo a corpo tra Giacobbe e l’angelo, un episodio biblico vertiginosamente arcaico poi spesso letto come immagine della preghiera). La partecipazione interiore dell’autore era evidente, il passo profondamente personale.
In chiave più asciuttamente letteraria ma non meno profondamente sentita esce ora questa bellissima, elegante monografia, che del volume precedente riprende il tema con un taglio un po’ diverso. I personaggi sono alla grossa quelli incontrati, ma il focus è il tema d’un paradiso perduto nella Parigi di metà anni Venti di scrittori agli esordi e aspiranti tali, tale da permettere l’incubazione di una loro vocazione.
Così per Faulkner (I giardini del Luxembourg), che arriva a Parigi il 13 agosto 1925, prende inizialmente alloggio a Montparnasse ma di lì si sposta, favorito dal cambio tra dollaro e franco, nella zona del Luxembourg e più precisamente in quella rue Servandoni che al tempo di d’Artagnan – che secondo Dumas vi affittò una mansarda – si chiamava rue des Fossoyeurs. Tanto timido da non osar presentarsi a una serie di grandi nomi della letteratura d’epoca (prima Pound, poi a Parigi Hemingway e Joyce), senza affacciarsi al salotto di Gertrude Stein e senza farsi notare nella leggendaria libreria “Shakespeare and Company” di Sylvia Beach, Faulkner si crea comunque una leggenda da eroe di Dumas, inventandosi – per la frustrazione di non aver potuto combattere in Europa – fantomatiche ferite e fratture da eroico ex aviatore.
Si passa poi a Sherwood Anderson (Rue de l’Odéon), che a Parigi era giunto a fine maggio 1921 per un mesetto, attratto dai Misteri di Sue, e che lì attorno a “Shakespeare and Company” – dove nota eccitato in vetrina il suo Winesburg, Ohio – identificherà Odéonia, dal nome di rue de l’Odéon dove c’è anche La Maison des Amis des Livres di Adrienne Monnier. Proprio a Odéonia Hemingway incontra Joyce, e viene ritratto in foto da Sylvia Beach, come Pound e Fitzgerald. Dialoghi, condivisioni intellettuali, suggerimenti tecnici e insegnamenti: niente in comune con certo circo librario dei giorni nostri.
Il terzo capitolo (Place de la Contrescarpe) è incentrato su Hemingway, giunto a Parigi nel dicembre 1921 con la giovane moglie Hadley Richardson (sposata a settembre) formalmente come corrispondente del “Toronto Star” ma soprattutto per diventare scrittore. Dal gennaio 1922 all’agosto dell’anno dopo andranno ad abitare in un alloggio economico in Rue du Cardinal Lemoine, subito prima di place de la Contrescarpe. Zona non di artisti ma di lavoratori e bevitori – un certo numero clochard. Della Bianca conduce dettagliatamente nella vita sociale dell’area, richiamata in più opere dello scrittore americano, fino a Festa mobile (postumo, 1964), in un’attenta costruzione da parte di Hemingway del proprio mito.
Ma via via il groviglio tra autori e loro avventure letterarie si fa inestricabile, come a proposito di “Le Closerie de Lilas” (titolo del cap. 4), il più bel caffè di Montparnasse, dove Hemingway a un certo punto prende a fermarsi a scrivere e nel maggio 1925 incontra brevemente Fitzgerald, per maturare in un successivo invito a pranzo una franca avversione – ricambiata – per la fatale Zelda. Ma compare anche Ezra Pound, che da Hemingway prende lezioni di pugilato ricambiando con l’insegnamento letterario della concisione efficace – tanto Pound non può mettere più piede nel salotto di Gertrude Stein dove ha sfasciato, sedendovisi sopra, una preziosissima sedia antica, e da allora qualifica l’inviperita padrona di casa del titolo di “vecchia palla di lardo”. Da Pound, Hemingway conosce il raffinato pittore Henry Strater detto Mike, compagno di studi e amico di Fitzgerald: in compenso quest’ultimo verrà presentato da Hemingway a Gertrude Stein e conoscerà presso Odéonia anche l’ammiratissimo Joyce.
Groviglio inestricabile anche perché Della Bianca non scandisce la narrazione sulla base dei profili degli autori, ma dei luoghi, rendendo il testo un prezioso sussidio nel caso di viaggi a Parigi e tanto più per soggiorni solitari in città, magari con pochi soldi in tasca, come avvenuto a parecchi dei personaggi descritti. Così Quai d’Anjou evoca l’ufficio di William Bird e Ford Madox Ford e le fortune editoriali del giovane Hemingway, la sua conoscenza di Robert McAlmon e il rapporto complesso tra amicizia e rottura con Harold Loeb e Sherwood Anderson (più che ingratitudine, nel caso di Hemingway, c’era la difficoltà caratteriale di dovere qualcosa a qualcuno sul piano professionale), nonché le sbronze di Joyce trasportato – si dice – in carriola. In Île Saint-Louis compare Dos Passos, che a Parigi fu parecchie volte, frequentandovi Hemingway, Edward Estlin Commings e la studiosa di letteratura Crystal Ross (vincitrice – fatto eccezionale per una donna al tempo – di una borsa di dottorato a Strsburgo) che avrebbe voluto sposare. In Place des Vosges si ricorda Simenon, giunto a Parigi un anno dopo di Hemingway, ma anche Joséphine Baker, Eliot, Kiki di Montparnasse compagna di Man Ray, ancora Fitzgerald e la scomoda Zelda.
I capitoli successivi sono Rue de Tilsitt (gli amori falliti di Faulkner e Fitzgerald, Il grande Gatsby…), Rue del Grande-Chaumière (il ristorante preferito da Faulkner, la miseria di Parigi raccontata da George Orwell, Hart Crane, nato lo stesso giorno di Hemingway, come lui erede da uno dei genitori di tendenza alla depressione maniacale e come lui suicida, l’editore edonista Harry Crosby, Nathanael West e la sua morte quasi contemporanea a quella di Fitzgerald…). E infine il decimo, Saint-Sulpice, dove a tanta distanza dai tempi di rue Servandoni, di un Faulkner coronato dal Nobel (siamo ormai nel 1950) si cita il mistero del romanzo A fable dedicato alla figlia, ma “ambizioso e inadeguato”: una storia pseudocristiana dove pure “manca la tensione religiosa che ai vertici dell’arte di Faulkner, in Light in August e Absalom, Absalom!, accompagna una straordinaria carica morale” – e in quelli semmai va cercato l’effetto della visione del dipinto di Delacroix sulla lotta di Giacobbe con l’angelo.
Ma del resto a quel tempo il piccolo mondo di Odéonia è sostanzialmente finito. La clamorosa liberazione della strada dai nazisti a opera di una colonna di jeep guidata da Hemingway (1944) non farà riaprire “Shakespeare and Company” e una decina d’anni dopo Adrienne Monnier interrompe volontariamente le sofferenze della propria malattia (1955) spegnendo assieme La Maison des Amis des Livres. Nel 1961, travolto dalla depressione e poi da crisi maniaco-depressive, la fa finita anche Hemingway: con una diversa situazione di salute, il suo postumo Festa mobile “sarebbe stata […] una delle opere più belle del Novecento, una piccola nuova Recherche du temps perdu”. Dell’epoca incantata di Parigi, del paradiso di “libertà inebrianti e dedizione assoluta alla scrittura”, di gioventù in cui tutto è ancora possibile, resta solo nostalgia. Rileva il prefatore Donati:

E allora diventa chiaro il senso di quella “nostalgia” di cui parla, in chiusura, Luca Della Bianca: nostalgia di quegli uomini attraverso i cui libri abbiamo scoperto il senso della vita e nostalgia, anche, di quelle voci che richiamano le genti addormentate al valore universale della letteratura e della poesia.

 

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Ambigue utopie della DDR https://www.carmillaonline.com/2025/07/25/ambigue-utopie-della-ddr/ Fri, 25 Jul 2025 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89810 di Paolo Bertetti

Angela e Karlheinz Steinmüller, Andymon, trad. di Beatrice Sensini, pp. 392, euro 20,oo stampa, Del Vecchio Editore, Bracciano 2025.

La fantascienza tedesca, al pari – occorre dire ­– delle altre tradizioni non anglofone, ha sempre avuto scarsa circolazione dalle nostre parti, a parte la pubblicazione ormai quasi 50 anni fa di una intera collana dedicata a Perry Rhodan, un fortunato quanto mediocre (e interminabile) serial di avventure spaziali incentrato sulle vicende dell’omonimo personaggio. Pochi gli autori tradotti in Italia: tra gli altri Herbert Franke, Andreas Eschbach, Frank Schätzing (che hanno impreziosito gli storici cataloghi di CELT, Nord e Fanucci) [...]]]> di Paolo Bertetti

Angela e Karlheinz Steinmüller, Andymon, trad. di Beatrice Sensini, pp. 392, euro 20,oo stampa, Del Vecchio Editore, Bracciano 2025.

La fantascienza tedesca, al pari – occorre dire ­– delle altre tradizioni non anglofone, ha sempre avuto scarsa circolazione dalle nostre parti, a parte la pubblicazione ormai quasi 50 anni fa di una intera collana dedicata a Perry Rhodan, un fortunato quanto mediocre (e interminabile) serial di avventure spaziali incentrato sulle vicende dell’omonimo personaggio. Pochi gli autori tradotti in Italia: tra gli altri Herbert Franke, Andreas Eschbach, Frank Schätzing (che hanno impreziosito gli storici cataloghi di CELT, Nord e Fanucci) e, più di recente, Uwe Post (Future Fiction) e Dietmar Dath, il cui L’abolizione della Specie (Nero Edizioni) è stato sicuramente uno dei romanzi di fantascienza più stimolanti apparsi lo scorso anno. In particolare, nessuna testimonianza era finora arrivata da noi della produzione fantascientifica della DDR, pure non trascurabile quantitativamente e qualitativamente, come osserva Paola Del Zoppo nell’approfondita introduzione.
Grande plauso, dunque, a Del Vecchio Editore che propone ora (tra l’altro in prima traduzione mondiale e con una splendida veste grafica) quello che è considerato il romanzo di fantascienza più popolare nella vecchia Repubblica Democratica; tanto più che Andymon, uscito in origine nel 1982, non è un mero reperto storico, ma un piccolo grande gioiello che parte dalla hard science fiction alla Arthur Clarke (assieme a Stanislaw Lem sicuramente un nume tutelare di Angela e Karlheinz Steinmüller) per giungere a un’ampia riflessione sulla natura dell’utopia. Del resto, il sottotitolo dell’edizione originale del romanzo era “Utopia dello spazio”, e non a caso Del Zoppo associa i coniugi Steinmüller al nome di Ursula Le Guin in nome di una comune tensione verso una fantascienza intesa come indagine sulla società e sull’uomo.
Il romanzo affronta il tema della colonizzazione di altri sistemi stellari tramite navi più lente della luce in maniera piuttosto originale: non siamo di fronte a un’astronave generazionale, né a coloni in sonno criogenico; invece, il carico della gigantesca astronave (certo non immemore dalla clarkiana Rama) è costituto da ovuli umani che nell’approssimarsi al pianeta Andymon, meta del viaggio, vengono fecondati da sistemi automatici. Generati in vitro in gruppi di otto, bambine e bambini vengono cresciuti da balie meccaniche (le Ramme) e istruiti da insegnanti robot, in vista dell’insediamento sul pianeta. La prima parte del romanzo si incentra sulla loro crescita e educazione, sviluppando alcuni affascinanti interrogativi: è possibile allevare un’intera generazione affidandola soltanto a creature meccaniche, senza alcun contatto con esseri umani adulti? E quali potrebbero essere le conseguenze sulla loro psiche e sulla loro stessa percezione del mondo? Nel corso della loro formazione, i futuri coloni apprendono dagli insegnanti robot l’eredità culturale umana, ma le conoscenze acquisite confliggono con l’esperienza quotidiana: la Terra finisce di essere considerata “una favola bella e crudele” impossibile da dimostrare, un luogo mitico se non addirittura una menzogna, e la stessa umanità diviene mera ipotesi e finzione. E forse, arriva a pensare uno dei protagonisti, non vi è nessuna realtà, ma solo illusione e apparenza”, e loro non sono altro che esseri prodotti con memorie artificiali in un universo virtuale.
Tale straniamento è accresciuto dal fatto che gli scopi e le motivazioni che hanno portato i leggendari Costruttori della nave a varare il progetto di colonizzazione spaziale sono avvolti nel mistero. Escamotage questo originariamente pensato, a detta degli stessi Steinmüller, per eludere la censura della DDR, ponendo la vicenda del romanzo in un altrove senza alcuna continuità con il presente, ma che assume nel romanzo un suo significato preciso. È infatti proprio dalla cesura con il passato che è possibile, sembrano dirci gli autori, costruire l’utopia. Un’utopia che è qui considerata in maniera dinamica, come pratica utopica, possibilità di compiere delle scelte e di costruire un futuro.
È la possibilità di costruire un’utopia la vera Utopia. E questo anche, e a maggior ragione, se il pianeta Andymon non è l’Eden auspicato, ma “un inferno rovente e velenoso”, che deve essere terraformato attraverso un lungo lavoro. Alla terraformazione del pianeta e alla costruzione di una nuova società è dedicata la seconda parte del romanzo, che vede in coloni dare origine a vari insediamenti, ognuno dei quali persegue una diversa via alla propria Utopia: Andymon City, dove vivono i favorevoli al progresso tecnologico e al proseguimento della terraformazione, Oasis, i cui abitanti perseguono un’esistenza semplice e rurale e un ritorno alla riproduzione naturale, Kastell, l’avamposto sede di una superintelligenza nata dall’intima connessione di un gruppo di menti umane.
In contrapposizione all’ambiente della nave, dove tutto è programmato e previsto (“la nave intera, quell’apparato titanico, seguiva movimenti stabiliti dall’inizio. Perfino il nostro desiderio di libertà, perfino i miei pensieri di quell’esatto momento erano parte del calcolo” si legge a un certo punto) e ogni bambino è benevolmente assistito ma anche costantemente sorvegliato (difficile non vedere qui un riferimento critico alla pianificazione socialista), Andymon è in ogni caso il luogo dell’impredevibilità, dove si è liberi, anche a costo di fallire: “un nuovo mondo, un mondo in cui le illusioni non contavano più nulla: […] l’inizio di tempi stracolmi di esperienze reali, di verità dirompente”.

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Philip K. Dick e l’Aforisma di NietzscheNel Labirinto di Philip K. Dick 3 https://www.carmillaonline.com/2025/07/24/philip-k-dick-e-laforisma-di-nietzche/ Thu, 24 Jul 2025 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89163 di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e [...]]]> di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e Dalí.

Chissà se per caso oppure di proposito, o se non fu piuttosto un semplice scherzo del destino, come nella canzone di Bob Dylan, ma il giovane Dick s’era spinto più in là di qualunque scrittore di fantascienza della sua generazione. Chissà come e perché, gli capitò un giorno di lanciare uno sguardo oltre le copertine di Galaxy, Astounding, Worlds of Tomorrow e Amazing Stories – prima da lettore di Heinlein, Asimov e soprattutto van Vogt, poi da scrittore di novelle «brevi» e «lunghe», secondo le misure contemplate all’epoca delle riviste pulp, oggi per lo più scomparse – si trovò puramente e semplicemente a contemplare l’abisso. Lì, Oltre la Soglia, c’era l’Aforisma di Nietzsche – simile all’Occhio di Dio che d’un tratto si spalanca nel cielo in Eye in the Sky, del 1975, oggi nel vol. II del Meridiano delle Opere scelte di Dick – e l’Aforisma ricambiò il suo Sguardo. Dick non fu più lo stesso dopo questo incontro con l’indicibile (un po’ come Johnny Yen, il Criminale Nova di William Burroughs e «galoppino del trauma della morte», quando spiega all’Ispettore J. Lee: «Ero molto più bello prima dell’incidente»). Philip Dick trasformò l’ingenua cassetta degli attrezzi della fantascienza (i marziani, l’iperspazio, i robot, gli androidi) in un calderone stregato e fumante nel quale ribollivano incubi metafisici e terrificanti dubbi sulla natura della realtà.

Straordinario autore di racconti, come quasi tutti i suoi semblables nell’epoca d’oro delle riviste, gli anni Cinquanta e Sessanta, scrisse anche romanzi giustamente molto celebrati, ma niente di paragonabile all’eccezionale sequenza di storie brevi e lunghe che in una serrata successione di pagine – dialoghi serrati, finali non «a sorpresa», come nei racconti più banaloidi dell’epoca, ma affilati come rasoiate – mettevano in scena agghiaccianti paradossi filosofici, singolarità e metamorfosi da incubo, terrificanti loop temporali dai quali non c’era uscita, macchine assassine in veste umanoide che non sapevano d’essere tali. Trovate queste novelle nei quattro volumi (preziosissimi) di Tutti i racconti editi da Mondadori tra il 1994 e il 1997 (poi ristampati, non saprei quanto fedelmente, da Fanucci, una decina d’anni dopo, nel 2009). Dick, dicebamus, ha scritto anche romanzi giustamente celebrati, e i migliori compaiono tutti, in veste particolarmente reverente e sciccosa, oltre che in traduzioni ineccepibili, nei due volumi appena usciti delle sue Opere scelte. Ma i racconti brevi e lunghi (più i brevi che i lunghi) restano fuori gara. Dick novelliere è stato semplicemente un gigante.

La sua, fin dalle primissime prove, è una fantascienza d’avant-garde radicale (il tempo scorre all’indietro, i dittatori modellati su Mussolini si moltiplicano come virus mutanti del Covid attraverso gli universi paralleli, gli oggetti d’uso comune tipo le caffettiere e i tostapane diventano senzienti grazie all’«effetto Rushmore», i quiz televisivi sono la copertura di guerre apocalittiche, tutto è Matrix, nulla è come sembra, tutto è permesso, niente è vero). Lì per lì, nei Cinquanta e Sessanta, non se ne accorge nessuno, tanto meno i lettori di fantascienza, per lo più incapaci di distinguere un Urania dall’altro, figurarsi Dick da E.T.A. Hoffman (o da Ursula Le Guin, che frequentò la sua stessa scuola, il Berkeley High School di Berkeley, California, dove si diplomarono entrambi nel 1947). È soltanto dopo la sua morte, come capita agli artisti di Montmartre nei melò strappacore, che l’opera di Dick attira l’attenzione di lettori sofisticati, registi e sceneggiatori alla ricerca di soggetti insieme romanzeschi e inquietanti, saggisti controcorrente, autori non soltanto di fantascienza che si professano a lui affini (per esempio Emmanuel Carrère, che gli dedicq un lungo e ammirato saggio, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi 2016). A dimostrazione, come pensava lui, gnostico convinto, che qui nel mondo d’Arimane non c’è giustizia, anche i film (a partire da Blade Runner, regia di Ridley Scott, 1982) che furono tratti dalle sue storie come pure i serial televisivi ispirati dai suoi racconti e romanzi (tra gli altri L’uomo nell’alto castello nel 2015-2019 e Philip K. Dick’s Electric Dreams nel 2017-2018) uscirono tutti dopo la sua morte.

Oggi Mondadori pubblica nei Meridiani – iniziativa meritoria, che ne impreziosisce il côté pop del catalogo – una scelta ricca e ragionata dei suoi romanzi a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce; Carrére firma la cronologia. Sono storie abissali. Poco prima di morire, e di passare per questa via alle edizioni prestigiose e all’immortalità, Dick partecipò a una convention di fan della fantascienza. Si presentò con una maglietta sulla quale c’era scritto: «Se non vi piace questo mondo, dovreste vederne certi altri».

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E’ uno sporco lavoro / 2: assassinare i brigatisti non è reato https://www.carmillaonline.com/2025/07/23/e-uno-sporco-lavoro-2-assassinare-i-brigatisti-non-e-reato/ Wed, 23 Jul 2025 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89394 di Sandro Moiso

Andrea Casazza, Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse (nuova edizione), DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 500, 28 euro

Più volte su Carmillaonline chi qui scrive ha avuto occasione di annotare come siano ormai numerosissime le storie e le testimonianze riguardanti l’esperienza della lotta armata condotta in Italia da formazioni di sinistra di vario genere. Annotazione che spesso sono state accompagnate dall’osservazione di come, purtroppo, il fenomeno sia stato più registrato dal punto di vista personale di chi vi aveva partecipato, con tutto il corredo di giustificazionismo pre-politico che ciò poteva comportare, oppure da quello di [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Casazza, Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse (nuova edizione), DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 500, 28 euro

Più volte su Carmillaonline chi qui scrive ha avuto occasione di annotare come siano ormai numerosissime le storie e le testimonianze riguardanti l’esperienza della lotta armata condotta in Italia da formazioni di sinistra di vario genere. Annotazione che spesso sono state accompagnate dall’osservazione di come, purtroppo, il fenomeno sia stato più registrato dal punto di vista personale di chi vi aveva partecipato, con tutto il corredo di giustificazionismo pre-politico che ciò poteva comportare, oppure da quello di una lettura tutta istituzionale che, soprattutto nel caso delle Brigate Rosse, ha raggiunto talvolta livelli insopportabili di complottismo e ingiuria politica.

Certo, non mancano gli esempi di opere “serie” che si sono occupate del periodo intercorrente tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima degli anni Ottanta nell’ottica della ricostruzione storiografica, e non solo memorialistica o accusatoria, delle vicende delle “bande armate” che raccolsero un gran numero di adesioni e militanti nell’Italia di quegli anni. Come ricorda Pino Casamassima in un suo, non sempre condivisibile, testo pubblicato nel 2012:

Sono stati 20.000 gli inquisiti per i fatti di lotta armata; 4200 sono stati incarcerati a seguito dell’accusa di banda armata o associazione sovversiva; 300 hanno avuto pene con meno di dieci anni, oltre 3100 più di dieci anni, quasi 600 più di quindici anni, centinaia gli ergastoli. Oltre 50000 anni di galera sono stati nel complesso già scontati. Dei 4200, circa 200 (tra cui 40 donne) sono ancora detenuti, parzialmente o totalmente. Tra loro 77 sono ergastolani”1.

Dati da considerare non soltanto di carattere statistico ma, piuttosto, socio-politico; soprattutto se a questi si aggiunge il fatto che è l’identità proletaria, fin dall’infanzia, a caratterizzare molti di coloro che aderirono alla scelta della lotta armata nell’ambito delle BR, a differenza di altre esperienze simili (italiane, europee, americane e giapponesi) che, spesso videro una maggior adesione di studenti, intellettuali e sottoproletari. Mentre, a livello generale, occorre ancora sottolinea che tale scelta, come si vedrà ancora più avanti, coinvolse un gran numero di donne, giovani e giovanissime ma non solo, come dimostrò, ad esempio, il processo contro la colonna Walter Alasia di cui della “sessantina di imputati una quarantina erano donne, cioè oltre la metà”2.

DeriveApprodi, che già ha edito in passato proprio alcuni dei testi migliori sulle origini e la storia della lotta armata3, ripropone una nuova edizione con aggiunta cronologia di un valido testo, già comparso nel 2013, di Andrea Casazza sulla colonna genovese delle BR, definita come la «colonna simbolo» di quell’esperienza.

Simbolica non solo per l’alto numero di azioni portate e a termine, ma anche per il radicamento della stessa nel tessuto sociale del capoluogo ligure e per la storia “particolare” della sua formazione, avendo aggregato, a differenza di altre città come Torino e Milano, militanti provenienti da Lotta continua e, in esigua minoranza, dalla sinistra radicale che si era espressa negli anni precedenti in varie riviste di movimento certamente non di ispirazione marxista-leninista se non addirittura apertamente piccista o stalinista.

Un’esperienza che in qualche modo affondava le sue radici anche nel primo caso di azione armata dell’Italia repubblicana, quella della «banda 22 ottobre»4, un’organizzazione attiva a Genova tra il 1969 e il 1971, che animata da ex partigiani, operai, portuali (alcuni dei quali cresciuti nelle sezioni del Pci) fu tra le prime, se non la prima, insieme ai GAP di Giangiacomo Feltrinelli, a professare e ad attuare forme militari di lotta nel panorama politico italiano.

La ricerca di Casazza, pur essendo quasi del tutto condotta su fonti ufficiali e giornalistiche, si fa leggere come un romanzo di stampo dostoevskiano, per la complessità e la tragicità dei temi che propone, non soltanto politici, ma anche umani. Di cui il massacro dei militanti delle Brigate rosse avvenuto in via Fracchia il 28 marzo 1980 rimane uno dei temi centrali. Centrale sia per comprendere le modalità messe in atto dallo Stato per rimuovere quello che avrebbe potuto diventare, non solo a livello locale, un problema politico e militare piuttosto grave e, soprattutto, la spietatezza con cui tale piano di rimozione e defalcamento di tale impedimento al raggiungimento della pace sociale dopo gli anni delle lotte di fabbrica e di massa doveva essere, e in quel caso fu, portato a termine5.

Un’azione che, affondando le sue origini nella campagna di arresti successiva alla cattura di Patrizio Peci, primo pentito importante della lotta armata italiana, avvenuta a Torino il 20 febbraio 1980 insieme a quella di Rocco Micaletto. Poco più di un mese prima della strage di via Fracchia e a seguito delle rivelazioni rilasciate al generale dei carabinieri Carlo Alberto della Chiesa dallo stesso “Mauro”, nome di battaglia di Peci.

In quell’appartamento genovese, che probabilmente aveva costituito la base per le riunioni delle BR in città, furono giustiziati Riccardo Dura, Piero Panciarelli, Lorenzo Betassa e Annamaria Ludmann, quest’ultima proprietaria dello stesso alloggio. Sulle modalità operative e gli avvenimenti che accompagnarono l’operazione, fuori e dentro le mura dello stabile è facile comprendere che esistano ricostruzioni quanto meno controverse e contraddittorie soprattutto a causa del fatto che nessuno dei brigatisti presenti fu lasciato in vita per testimoniare la reale successione degli avvenimenti di quella notte.

Al di là delle armi utilizzate, tra le quali il comandante del gruppo operativo vantava la disponibilità di un fucile a pompa in grado di sventrare i muri, già in uso presso la polizia canadese, tutto sembra confondersi, nelle successive testimonianza delle forze dell’ordine e dei dati raccolti dagli inquirenti, nel fumo, nei bagliori e nel frastuono degli spari e nel buio del corridoio una volta sfondata o, aperta con le chiavi ritrovate nelle tasche di Micaletto, la porta dell’appartamento.
Come scrive Casazza nelle sue pagine:

Se il blitz fu messo in atto subito dopo le rivelazioni di Peci, così come si evincerebbe dalla prima nota informativa dei carabinieri alla Procura, o dopo un sia pur frettoloso lavoro di intelligence come sostiene Bozzo6, non è dato sapere. Di fatto, nella notte fra i27 e il 28 marzo, la zona attorno alla palazzina a quattro piani di via Fracchia viene circondata da un ingente spiegamento di carabinieri sistemato a distanza, mentre il blitz viene affidato a un gruppo ristretto del nucleo antiterrorismo. Sono da poco passate le quattro del mattino quando una donna, svegliata dal guaire del suo cane, si alza e si affaccia a una finestra del palazzo: fuori sta piovendo e lungo la stradina in discesa che conduce al portone d’ingresso intravede muoversi delle ombre. Sono carabinieri che, protetti da giubbotti antiproiettile e da caschi, entrano nello stabile e scendono tre rampe di scale per fermarsi davanti alla porta dell’interno 1. Sono in sei e a guidarli è il capitano Michele Riccio. Su quanto avviene da quel momento in poi restano ancora aperti molti interrogativi7.

In contrasto, almeno parziale con il suo braccio destro che avrebbe voluto condurre indagini più stringenti su quell’appartamento di 120 metri quadri e i suoi occupanti, il generale dalla Chiesa aveva fretta di concluder l’operazione. Sia per anticipare possibili altre azioni programmate dai brigatisti sul territorio ligure, sia per poter condurre a termine altre due operazioni simili presso altri “covi” indicati da Peci, a Biella e a Torino.

Secondo la versione ufficiale, peraltro fornita alla magistratura ben otto giorni dopo i fatti, i carabinieri suonano il campanello dell’interno 1, qualificandosi e intimando agli occupanti di aprire. Al che dall’interno, qualche tempo dopo, una voce maschile risponde «un attimo», senza però che la porta venga aperta. Atteso ancora qualche istante e ripetuto l’ordine perentorio di aprire, un militare colpisce la porta con una serie di calci sino a che l’uscio non cede e si spalanca. «I carabinieri potevano così intravedere, al di là di una tenda, un corridoio buio dal quale non proveniva alcun rumore. Intimavano allora agli occupanti la resa e una voce maschile rispondeva: “Va bene, siamo disarmati”. Subito dopo, però, dal fondo del corridoio veniva esploso un colpo di pistola che colpiva al capo il maresciallo Benà. I carabinieri aprivano il fuoco e udivano il tonfo di un corpo che cadeva a terra. Intimata nuovamente la resa, essi potevano notare due uomini e una donna avanzare carponi nel corridoio provenendo da una stanza laterale. A questo punto era possibile far luce con un faro in dotazione. Seguiva immediatamente da parte dei tre una brusca reazione e i carabinieri, notato che uno dei due uomini impugnava una pistola e la donna una bomba a mano, riaprivano il fuoco con tutte le armi. Cessato il fuoco si constatava che i tre erano stati colpiti a morte»8.

Casazza, però, può annotare subito dopo:

La versione fornita alla magistratura dai carabinieri è evidentemente edulcorata da alcuni particolari non irrilevanti. Il più importante si riferisce ai tempi in cui si sviluppa la sparatoria all’interno dell’appartamento. Secondo il comunicato della procura sembra svolgersi in due fasi ben distinte mentre, nella realtà, subito dopo il ferimento del maresciallo Benà, i militari non sospendono il fuoco: «In tutto, dall’esplosione del primo colpo, passarono tre minuti. Un inferno di fuoco, un inferno», ricorderà il capitano Riccio nel febbraio del 2004 nel corso di un intervista […]
Il capitano del nucleo antiterrorismo nega categoricamente di essere stato in possesso delle chiavi dell’appartamento, fatto che, invece, viene da più parti ipotizzato. Moretti, ad esempio, lo affermerà con certezza: «I carabinieri avevano le chiavi della base, le avevano trovate in tasca a Rocco Micaletto. Rocco non aveva detto parola, ma Peci aveva detto loro dov’era la base e hanno potuto entrare senza neanche sfondare la porta». Riccio dice invece di aver suonato il campanello, di essersi qualificato e di aver ordinato di aprire per consentire una perquisizione.
«Dall’interno sentimmo dei passi, pensammo che qualcuno ci avrebbe aperto. Invece chi si avvicinò diede altri due giri alla serratura. Allora impartii a Benà e all’altro maresciallo l’ordine di sfondare la porta. Non usammo alcun attrezzo, lo fecero a calci, portavano stivaloni. Una volta saltata la serratura ci trovammo di fronte a una spessa tenda nera, da cinema, che ci coprì subito la visuale dell’ingresso. La scostammo subito, all’interno iniziò a filtrare la luce delle scale. “Arrendetevi!”, gridai. Benà sollevò la visiera del casco, era appannata dal sudore. Fu un attimo. Sentii gli spari poi vidi il maresciallo Benà cadere all’indietro lentamente, come al rallentatore.
[…] Nel frattempo sparai col fucile a pompa, cinque colpi in rapida successione. Iniziò l’inferno». Il capitano racconta che a quel punto i suoi tre uomini rimasti nel pianerottolo entrano a loro volta nell’appartamento iniziando a sparare all’impazzata. «Sparavano tutti. Ad un certo punto gridai: “Venite avanti, arrendetevi!”. Sentii una voce: “Hanno una bomba!”, era un mio uomo. Riprendemmo a sparare. Ricaricai un’altra volta il fucile a pompa. Fu un inferno, un inferno»9.

Del resto che in via Fracchia sia andata in scena una vera e propria carneficina è l’impressione generale suscitata nei cronisti fatti entrare nell’appartamento (uno per volta e sotto la guida di un sottufficiale dell’Arma) ben undici giorni dopo i fatti.

I fori delle pallottole sui muri sono moltissimi e gli schizzi di sangue, in corridoio, arrivano sin quasi al soffitto: difficile pensare che i brigatisti siano stati colpiti mentre avanzavano carponi e sono in molti a notarlo. «Quando Gad Lerner ebbe la possibilità di entrare in quella casa – ricorderà Giuliano Zincone, giornalista del “Corriere della Sera” – ci raccontò di aver visto fori di proiettili ovunque. Una carneficina, insomma. Quattro morti, tutti brigatisti, ci sembrarono subito troppi. Non era possibile pensare a un conflitto a fuoco come invece sostenevano i carabinieri. Ritenevamo che potevano esservi altri modi, meno cruenti, per portare a termine il blitz».
Mario Moretti, molti anni dopo, sarà ancora più esplicito: «La notte del 28 marzo i carabinieri sorpresero i compagni nel sonno e li uccisero deliberatamente, tutti. È vero che a Genova non eravamo stati teneri, avevamo attaccato delle pattuglie di carabinieri e c’erano stati dei morti, ma quello fu un macello deliberato che potevano evitare; invece decisero di sbatterlo in faccia a tutti. Ci misero tanto zelo che un proiettile ferì accidentalmente anche uno di loro. Dalla Chiesa voleva dimostrare la decisione dello Stato, la potenza dei corpi speciali e darci una lezione che non lasciasse dubbi: nessuno doveva uscire vivo da quella base». Una lettura di parte? Senza dubbio. Ma che la versione ufficiale fornita da carabinieri e procura non sia del tutto attendibile lo rivelano anche altri particolari.
Sul muro del pianerottolo, a circa trenta centimetri da terra ci sono quattro fori provocati da una raffica di mitra; com’è possibile, se la sparatoria si è svolta solo all’interno dell’appartamento e se i carabinieri hanno sparato solo verso il fondo del corridoio? Ma, fatto ancor più strano, la porta d’ingresso dell’interno 1 non presenta segni di scasso alle serrature (una sola delle tre risulta chiusa), ma mostra solo la parte fissa di un catenaccio divelta. Per gli inquirenti questo basta a dire che «le serrature appaiono forzate» ma il fatto non si spiega se è vero che i carabinieri non avevano le chiavi della base. Il maggior numero di bossoli, poi, si trova infondo al corridoio, davanti alla camera da letto in cui dormivano tre dei quattro brigatisti, eppure, sia nella versione di Riccio, sia in quella della procura, si sostiene che i militari fecero fuoco dall’ingresso. Inoltre l’unico colpo che i brigatisti avrebbero esploso viene attribuito all’arma impugnata da Betassa, una calibro 9, e il bossolo espulso viene ritrovato in camera da letto, segno che il brigatista ha sparato dal fondo del corridoio. Come è possibile, visto che davanti a lui c’erano gli altri tre compagni? Come se non bastasse, a rendere ancora più sospetta l’intera ricostruzione dei fatti, c’è il ritardo con il quale i carabinieri presentano il loro rapporto e la cortina di ferro che gli uomini di dalla Chiesa stendono attorno all’appartamento impedendo a chiunque, compreso ai magistrati, di entravi per più di una settimana. Che cosa si doveva nascondere o cercare in quella irrituale solitudine investigativa?10

Sulla disposizione dei quattro corpi lungo il corridoio o a ridosso delle camere e sul fatto che presentassero tutti un foro di entrata dei proiettili che andava in linea quasi orizzontale dalla nuca verso la fronte non c’è poi molto da aggiungere rispetto a quanto riporta ancora Casazza attraverso le testimonianze giornalistiche o dei periti, ma almeno, prima di chiudere, occorre qui ricordare la figura di Annamaria Ludmann, oltraggiosamente segnalata in precedenza come donna dai facili costumi, a causa del “via vai di uomini” nel suo appartamento.

Nella piantina dell’appartamento allegata al rapporto dei carabinieri sul blitz di via Fracchia, il corpo di Annamaria Ludmann è indicato con il numero 3: giace in corridoio, preceduto dai cadaveri di Riccardo Dura e Piero Panciarelli e seguito da quello di Lorenzo Betassa. «Il cadavere numero 3 è quello di una donna che giace bocconi trasversalmente al corridoio con le gambe estese tra la porta del ripostiglio. Braccia indotte, avambracci flessi, lato sinistro del viso rivolto sul pavimento. Veste pullover avana, sottoveste beige, mutandine rosa e calza scarpe di corda. In corrispondenza della testa vasta chiazza di sangue di forma irregolare. Nell’angolo interno formato dal braccio ed avambraccio destro si nota la presenza di un paio di occhiali da vista e di una bomba a mano MK
tipo ananas»11.

Una sottoveste, le mutandine, uno sguardo quasi voyeuristico sul corpo di una donna di poco più di trent’anni di cui sembra rimanere poco nella storia, drammatica di quegli anni, se non il fatto che fosse sposata con un uomo che sarà intervistato poco dopo la sua morte violenta. Di più ci dice forse, e con meno spreco di parole, la lettera di addio a lei indirizzata da una collega, Liliana Boccarossa, impiegata presso il centro culturale francese Galliera, e inviata al «Manifesto» pochi giorni dopo l’assalto all’alloggio di via Fracchia.

«Parlavi poco di te, mai nessuno ti aveva insegnato questo lusso. […] Ricordavi la sofferenza della scuola per ricchi dove ti avevano mandato i tuoi. Accennavi a un matrimonio fatto per andare via di casa e presto degenerato in violenza. E poi c’erano le tue paure: paura di non valere niente, paura di non essere all’altezza (di che cosa, poi?), paura della gente: e un’enorme solitudine»12.

Però, in un mondo in cui, alla fine, ogni lavoro sporco non costituisce mai altro che l’altra faccia del perbenismo borghese e della sua illusoria legalità, il 3 settembre 1982 a Palermo, lo stesso generale dalla Chiesa sarebbe stato ripagato per il suo servizio con la medesima moneta, per mezzo di un altro braccio armato: quello della Mafia, maestra insuperata di ogni “lavoro bagnato”.


  1. P. Casamassima, Gli irriducibili. Storie di brigatisti mai pentiti, Editori Laterza , Bari — Roma 2012, p.16  

  2. P. Casamassima,op. Cit., p.79  

  3. P. Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, 2022; C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976), 2019; A. Tanturli, Prima Linea. L’altra lotta armata (1974-1981), 2018; M. Clemeti, P. Persichetti, E. Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera». Vol. I, 2017; G. Donato, «La lotta è armata». Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), 2014.  

  4. Si veda in proposito: P. Piano, La «banda 22 ottobre». Agli albori della lotta armata in Italia, DeriveApprodi, Roma 2008.  

  5. L’autore delle presenti righe si scusa con Galileo Galilei per aver preso in prestito la sua idea di difalcamento degli impedimenti, intesa a livello di ricerca per togliere di mezzo gli ostacoli alla proposizione di una una nuova ipotesi scientifica.  

  6. Niccolò Bozzo, all’epoca braccio destro del generale dalla Chiesa.  

  7. A. Casazza, Gli imprendibili, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 368.  

  8. A. Casazza, op. cit., pp. 368-369.  

  9. Ibidem, pp. 369–370.  

  10. Ivi, pp. 371-372.  

  11. Ivi, p. 364.  

  12. Cit. in Casazza, p. 362.  

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La Sinistra Negata 01 https://www.carmillaonline.com/2025/07/22/la-sinistra-negata-01/ Tue, 22 Jul 2025 21:45:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89854 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)

A cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

INTRODUZIONE ALL’OPERA

Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca che sembra omai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)

A cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

INTRODUZIONE ALL’OPERA

Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca che sembra omai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a introdurvi, insieme a tutti i numeri della rivista Progetto Memoria, di cui La Sinistra Negata rappresenta un po’ il canto del cigno. E per scaricare l’intera raccolta in pdf dovete andare qui1. Il fatto però di pubblicare La Sinistra Negata, significa riportare al pubblico, alla sua attenzione, un contributo d’analisi ancora molto attuale, ma anche molto utile per la comprensione delle fasi politiche a cui fa riferimento: un lasso di tempo che va da Piazza Statuto, anni ’60 fino almomento in cui usciva l’ultimo numero di Progetto Memoria. Infatti dal 1960 al 1980 è un refuso poiché non comprende anche tutta la fase successiva, che invece nel saggio viene analizzata. Ma andiamo con ordine.

Un po’ di storiografia

Nel dicembre del 1998 usciva l’ultimo numero di una rivista bolognese, Progetto Memoria, che è stata di fatto la madre politica e culturale di Carmilla e che ha accompagnato la nostra rivista di letteratura antagonista e cultura d’opposizione per alcuni anni. Carmilla infatti nasce nell’estate del 19952, mentre Progetto Memoria (che assumerà nel suo cammino anche il nome di La Comune per poi tornare alla testata originaria) è di molto precedente, risalendo al 1988.

Si può dire che sotto la direzione di Valerio Evangelisti, la redazione di Progetto Memoria, abbia creato le premesse per un viaggio che con Carmillaonline dura ancora oggi che il direttore,Valerio Evangelisti ci ha lasciato… e sono già tre anni.

L’articolo che mi accingo a ripubblicare a puntate, La Sinistra negata, è un redazionale che si trova nell’ultimo numero di questa rivista. Il taglio del lavoro è decisamente operaista. Tuttavia, l’analisi che popone rappresenta un ottimo escursus storiografico e di riflessione che va ben al di là dell’operaismo stesso, estendendo lo sguardo a tutti gli anni ’70, quelli delle pratiche di riappropriazione e autonomia di classe, gli anni della guerriglia sociale, dei collettivi autonomi e della lotta armata. L’intento è quello di chi intende superare i limiti, comprendere le ragioni della sconfitta di fase, con la finalità di proseguire lo scontro di classe e non di affossarlo come un campionario di venduti d’ogni risma ha fatto nel corso di questi decenni.

L’interesse per il militante comunista e antimperialista, così come per lo studioso di quegli anni che, come già accennato, comprendono anche gli anni ’80, ossia l’avvento del neoliberalismo tatcher-reaganiano nel riflusso del movimento rivoluzionario, non può non addentrarsi dentro il punto di vista di in chi quegli anni, in un paio di generazioni, dal ’75-77 ai collettivi universitari e al Kamo3, ha partecipato allo scontro sociale.

Sarebbe infatti fuorviante pensare questa rivista e questo stesso saggio come un’opera omnia del solo Evangelisti. Progetto Memoria vedeva il dibattito e il lavoro di ricerca di tutto il collettivo redazionale. Da parte mia posso solo dire che nemmeno mi ricordo quale punto abbia sviluppato4, ma l’assonanza e la condivisione dei punti di vista e dei temi trattati esprimono un lavoro corale, la sintesi si può dire di un’esperienza che ha preso posizione non certo a favore delle degenerazioni dei disobba casariniani5, ma della prosecuzione di un antagonismo irriducibile. L’imprinting di Progetto Memoria è quello dell’autonomia di classe, in uno stretto legame e in una visione d’insieme delle lotte e dei movimenti di liberazione antimperialisti su scala mondiale, con l’antimperialismo irriducibile e l’antiliberismo anticapitalista nelle metropoli, lungo le varie fasi delle lotte sociali e dello scontro politico nel paese.

Non mi esprimo oltre e lascio ai lettori la scoperta di elementi politici che hanno tutt’oggi un’attualità politica e una visione corretta sulla strategia rivoluzionaria6.

Infine, questo lavoro non si esaurisce in poche puntate e  il valore dell’opera risiede anche nella sua mole di materiale analitico lungo un percorso storico di avvenimenti legati allo scontro di classe e alla ristrutturazione capitalistica di cui oggi vediamo l’epilogo… e gli epigoni. Ovviamente chi non volesse attendere i tempi della pubblicazione ha modo come già indicato di andare a leggersi tutto subito. Ma riportare alla ribalta un lavoro come questo è cosa ben diversa dall’averlo in archivio.

Non mi resta che dirvi una buona lettura.

(Avvertenza: in questa prima parte le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, poiché partono dal mio testo introduttivo)

Parte prima. Gli Anni Sessanta.

1. IL PROBLEMA.
Le origini dell’estrema sinistra italiana potrebbero essere collocate in qualsiasi momento della più generale storia del movimento operaio, e non è mancato chi, di volta in volta, ha inteso farle coincidere con le fasi “alte” della resistenza al fascismo, con la nascita del sindacalismo rivoluzionario dei primi del secolo, con l’azione di questo o quel gruppo dissidente, o addirittura con l’affermazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Il fatto è che le espressioni “sinistra rivoluzionaria”, “estrema sinistra”, “sinistra di classe” sono abbastanza generiche da comprendere filoni, movimenti, correnti di pensiero tra loro diversissimi e nati in momenti disparati. Un anarchico, ad esempio, legittimamente collocherà la genesi del proprio spezzone di “sinistra rivoluzionaria” nell’epoca della Prima Internazionale; mentre un bordighista la vedrà nel congresso di Livorno e un trotzkista negli anni immediatamente successivi.

Esiste però un settore dell’estrema sinistra che, al contrario degli altri, può vantare una quasi completa “italianità” uno sviluppo non collegato ai destini di un corpus ideologico, bensì alle modificazioni del tessuto di classe che lo ha generato e da cui ha tratto alimento. Ci riferiamo al cosiddetto “operaismo”, nato tra gli anni ’50 e ’60, cresciuto nelle lotte operaie dei grandi stabilimenti del nord Italia, concretizzatosi negli anni ’70 in forme organizzative tanto diverse quanto i CUB, Potere Operaio, Lotta Continua, Autonomia Operaia – fino a dissolversi in quello che è stato ed è chiamato il “movimento” senza ulteriori specificazioni, che tutto ha compreso e tutto ha, in certa misura, appannato.

Le ricostruzioni della storia dell’operaismo – in chiave apologetica o in chiave criminalizzante – non sono mancate7 Quasi sempre, però, è venuta meno, tanto nei protagonisti del movimento quanto (più comprensibilmente) nei loro avversari, la capacità di ancorare le vicende della sinistra operaista – l’unica, ripetiamo, con radici marcatamente sociali e nazionali – al terreno solido delle modificazioni di classe. Ciò ha dato luogo a rivisitazioni tutte ideologiche, quando non effimere o superficiali, agevolando così quell’opera di delegittimazione e di canalizzazione che ha visto impegnata tutta la cultura “istituzionale” italiana dagli inizi degli anni ’80.

Nelle pagine che seguono cercheremo non tanto di ricostruire organicamente la storia della sinistra rivoluzionaria di matrice operaista, quanto di metterne in evidenza la solidità strutturale, sperando – in tal modo – di lasciar trasparire la profonda legittimità storica di un’esperienza che tanto ha inciso sulla società italiana, oltre che sulla vita di migliaia di militanti.

2. L’HUMUS
Alla fine degli anni Cinquanta l’economia italiana perde ogni residuo connotato rurale, beneficiando di una nuova posizione assegnatale sui mercati internazionali. In virtù della maggiore integrazione nei mercati europei, l’Italia adegua la propria produzione alle esigenze dei nuovi partners, convertendo l’industria nazionale ai beni richiesti dai paesi industrializzati. Tali beni – ha notato Augusto Graziani – ovviamente non potevano essere i prodotti tradizionali, nei quali si andavano raggiungendo livelli di consumo prossimi alla saturazione, e nei cui mercati esistevano comunque posizioni acquisite da parte di imprese di antica data. I mercati più intensamente dinamici erano necessariamente quelli dei prodotti nuovi, dei beni di consumo di massa prodotti dall’industria meccanica, dei prodotti della petrolchimica, che per la prima volta si andavano diffondendo in misura massiccia8.

Un impetuoso processo di crescita investe quindi le grandi imprese settentrionali produttrici di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici ecc.) originando, accanto ad una tumultuosa distorsione dei bisogni primari9, una forte domanda di forza-lavoro.

È da notare che fino al 1961 esistevano vincoli legali all’emigrazione interna. In particolare, una legge del 29/4/1949 rendeva obbligatorio, ai fini di un cambiamento di residenza, dimostrare l’esercizio di un lavoro nella località prescelta, ma gli uffici di collocamento concedevano il nulla osta necessario solo a chi era in grado di certificare di essere già residente10 .
Stando così le cose, la forza-lavoro immigrata (principalmente meridionale) era costretta a occupazioni clandestine, precarie e sottoremunerate. Nelle metropoli settentrionali si era così addensato un proletariato marginale ed incontrollabile, concentrato nei quartieri-ghetto e negli interstizi dei centri storici, con condizioni di lavoro, di alloggio e di esistenza spesso ai limiti della sopravvivenza.

Quando la domanda di forza-lavoro generata dall’accento posto sui beni di consumo si dilata, le barriere poste all’emigrazione interna cadono come per incanto, e le fasce d’occupazione precaria e clandestina si restringono, fornendo manodopera “regolarizzata” alle grandi industrie in via d’espansione11.
L’assorbimento dei settori “deboli” di forza-lavoro conduce ad un inatteso rafforzamento della classe operaia centrale, la cui composizione interna vede il progressivo passaggio dalle figure operaie tradizionali al cosiddetto “operaio-massa – termine comprendente gli operai “nuovi”, per lo più giovani immigrati nel triangolo industriale dalle altre regioni, ed in particolare da quelle meridionali, spesso senza precedente esperienza di fabbrica o con scarso radicamento nel sindacato12.

In questa fusione tra classe operaia industriale e proletariato “marginale” stanno non solo le ragioni delle sorprendenti caratteristiche della rivolta di Piazza Statuto – in cui una vertenza interna alla FIAT si distende in sommossa territoriale, con larga partecipazione di precari e clandestini13 – ma anche delle conquiste salariali del 1959-1963, la cui portata non ha precedenti nell’Italia del secondo dopoguerra.
La fase economica immediatamente successiva è segnata dal tentativo, padronale e statale, di recuperare quanto concesso sul piano remunerativo, e al tempo stesso di scomporre la classe staccandone nuovamente le fasce meno protette.
Mentre gli imprenditori scaricano sui prezzi gli aumenti salariali accordati, la base produttiva del paese appare ancora troppo fragile per poter soddisfare la domanda aggiuntiva che le conquiste operaie hanno generato14.

È l’inizio di un’intensa spirale inflattiva, cui le autorità monetarie cercano di porre rimedio (onde riequilibrare la bilancia dei pagamenti) con la violenta stretta creditizia dell’autunno 1963. Le conseguenze sono quelle tipiche di qualsiasi politica deflazionistica: gli investimenti cadono, e con essi la produttività e l’occupazione. Va notato che raramente lo Stato aveva manifestato con tanta evidenza la sua natura di regolatore supremo dell’economia capitalistica, non più soggetto alle pressioni dei maggiori gruppi imprenditoriali, ma anzi in grado di imporre loro delle soluzioni sgradite e funzionali solo alle superiori esigenze del “capitale sociale”15.

Durante la crisi, che si prolungherà dal 1964 al 1966, larghi settori di forza-lavoro giovanile e femminile devono lasciare le grandi fabbriche, rifugiandosi nel convalescenziario dell’economia sommersa o rimanendo semplicemente in stato di disoccupazione. Nelle maggiori industrie restano gli operai delle fasce centrali d’età, il cui grado di acquiescenza, come si vedrà, sarà lungi dal corrispondere alle aspettative padronali.
È da notare che, dei processi descritti, la sinistra storica (PCI, PSI, PSIUP) afferra poco o nulla. Il suo referente sociale rimane l’operaio di mestiere di tipo tradizionale, mentre le esigenze di un’analisi approfondita delle trasformazioni interne alla fabbrica sono sacrificate ad una generica impostazione antimonopolistica, nel quadro della quale giungere all’auspicata alleanza con i ceti medi produttivi. È qui che s’inserisce l’azione di gruppi di militanti che, pur operando all’interno dei partiti di sinistra, avvertono con urgenza la necessità di superarne i limiti analitici e programmatici.

(Segue la Prima parte)

NOTE:


  1.  https://grafton9.net/progetto-memoria/  

  2. L’insurrezione immaginaria, Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, capitolo: Carmilla non è Dracula di Nico Maccentelli, pag. 105  

  3. Centro sociale bolognese sito in Vicolo Borchetta, punto di riferimento negli anni ’80 della sinistra antagonista bolognese, di cui molti frequentatori sono stati oggetto di inchieste come quelle della giudice Scaramuzzino e altri emuli di Calogero  

  4. Mia è la parte grafica e di impaginazione, di questo ne sono ovviamente sicuro  

  5. Critica ben presente in questo lavoro  

  6. Mirabile e del tutto evangelistiana è la disamina leninista sulle condizioni oggettive e soggettive del processo rivoluzionario. Lo vedremo nella parte degli Anni ’90 al punto 3. IL PALAZZO D’INVERNO  

  7. Rinviamo alla bibliografia ragionata contenuta in S. Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, 1978. Nessuna delle opere complessive apparse dopo il bel saggio di S. Merli pare degna della minima menzione.  

  8. A. Graziani, Introduzione a AA.VV., L’economia italiana: 1945-1970, Bologna, 1972, p. 34.  

  9. «Poiché la domanda proveniente dai paesi più avanzati, non poteva essere che una domanda tipica di società caratterizzate da livelli di reddito ben più elevati, e quindi orientata largamente verso i consumi di massa e di lusso, anche l’economia italiana era costretta a fare largo spazio alla produzione di beni di consumo di massa e addirittura di lusso; beni peraltro che risultavano del tutto fuori fase rispetto ai livelli modesti del reddito italiano per abitante». A. Graziani, op. cit., p.35.
     

  10. Cfr. M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna 1973, p.
    322.  

  11. Ivi, pp. 50-51.  

  12. G.Barile, R.Levrero, L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, in “Classe”, 1974, n°8, p.3.  

  13. Cfr. D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Milano, 1980.  

  14. Cfr. M. Salvati, Le origini della crisi in corso, in “Quaderni Piacentini”, 1972, n°46, pp. 11-12.  

  15. Cioè del capitale nel suo insieme, superiore alla somma delle singole componenti. Cfr. K. Marx Il Capitale, libro secondo vol. II, Roma 1952, pp. 7-10.  

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