Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 12 Apr 2025 20:06:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Visum et repertum 3 https://www.carmillaonline.com/2025/04/12/visum-et-repertum-3/ Sat, 12 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87718 di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica [...]]]> di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica ricchissima e di straordinaria godibilità. Al Museo Civico di Crema e del Cremasco, tra 19 ottobre 2024 e 12 gennaio 2025 si è tenuta infatti una splendida mostra dal titolo Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Edoardo Fontana, Lidia Gallanti e Silvia Scaravaggi. Il più fortunato mattatore dei miti notturni vi è indagato a partire dalle prime ambigue epifanie (la Lilītu mesopotamica, i morti ematofagi dell’Odissea) fino all’odierno orizzonte pop, attraverso più di trecento opere provenienti dal patrimonio di venti biblioteche pubbliche italiane e di collezionisti privati, tra testi letterari e poetici, incisioni, fogli sciolti, edizioni originali e materiale iconografico. Poliedrico, multiforme, incerto ed equivoco, il protagonista “è un essere fluido, privo di una connotazione sessuale precisa, a cavallo tra vita e morte, che subisce malvolentieri le leggi della natura e le sovverte, incarnandosi in corpi sempre differenti e contaminando i generi e le forme di arte e di letteratura”: e la sua cifra finisce con l’interpellare un più ampio pelago di fantasmi, incubi, ombre d’ossessione tra folklore e letteratura.

Realizzata in collaborazione con Aretè Associazione Culturale e Alla fine dei conti di Mantova, la mostra è stata accompagnata da questo grande, ricco ed elegantissimo catalogo edito dal Museo con prefazione di Antonio Castronuovo (Quotazione dei vampiri) e testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Edoardo Fontana, Lidia Gallanti, Roberto Lunelio, Silvia Scaravaggi, Elena Vismara.

A due bei contributi di inquadramento antropologico e artistico delle curatrici Gallanti (I vampiri sono tra noi: revenant nella storia, nella letteratura e nell’arte) e Scaravaggi (“Fra poco il mondo finisce”: consapevolezza e fuga tra Simbolismo e contemporaneità) seguono testi approfonditi su singoli temi. Elena Alfonsi tratta di Inchiostro, carta e scrittura nel tempo di un papa e una regina: fede, scienza e astuzia contro la superstizione: papa e regina identificabili per inciso in Benedetto XIV Lambertini – il progressista che non riusciva a liberarsi dal vampiro linguistico dell’intercalare cazzo, ma che ai non-morti non credeva affatto – e in Maria Teresa d’Asburgo che dietro consulenza del dotto archiatra illuminista van Swieten pose il divieto di profanare tombe in sacrileghe cacce antivampiro.

In L’ombra del vampiro, Paolo Battistel parte dalla Lenore di Gottfried Augustus Bürger per una serie di riflessioni sull’immagine – anche erotica – del vampiro e dei suoi simili nella letteratura; lo sguardo si sposta poi a est con il dotto excursus La presenza dei vampiri in alcune pagine di letteratura romena: da Eliade a Eminescu, un intreccio a ritroso di Carla Caccia, e la trattazione di Marius-Mircea Crişan sul tema Dal folklore romeno alla letteratura gotica. Il vampiro oltre Dracula. con opportuna citazione finale da Nina Auerbach, “Every age embraces the vampire it needs”.

Per avvicinarci a noi, Domenico Cammarota, un nome noto nella vampirologia italiana attraverso volumi pionieristici (e ormai datati, ma carichi di fascino per chi – hai visto mai – abbia la ventura di rivenirli nei mercatini), presenta Il vampiro nella letteratura italiana. Bibliografia commentata (1801-1940): a partire da uno pseudobiblion usualmente citato nei repertori, Il Vampiro di De Gasparini, presuntamente rappresentato “al Teatro delle Arti di Torino nel 1801”, ma di cui non esiste alcuna traccia coeva, e il simil-plagio di Cifra (probabile pseudonimo per Raffaele Carrieri) Il Vampiro, che sostanzialmente traduce appropriandosi di un racconto di Jan Nepomuk Neruda. I vampiri, insomma, flirtano da sempre disinvoltamente con il falso e il plagio editoriale: in fondo fin da quando Il vampiro di Polidori era stato attribuito a Byron per biechi interessi dell’editore – e non perché Polidori avesse in effetti ripreso un’idea del suo amatodiato (e ormai soprattutto odiato) ex-datore di lavoro.

Mario Finazzi torna a oriente con Traiettorie di nipponizzazione del vampiro occidentale: vampiri illustrati tra i due mondi, mentre Elena Vismara affronta Anne Rice: A Gothic Soul, un argomento a questo punto must delle biblioteche sul tema. Ai risvolti psicologici del vampirismo Roberto Lunelio dedica Il vampiro innocente con itinerari tra sospetto e paranoia (follia, sessualità femminile disinibita, colonialismo inverso, omosessualità). E il terzo curatore Edoardo Fontana chiude la sezione saggistica con Tardi verso l’alba, con una cavalcata attraverso un’ampia serie di ritratti di una galleria – in senso lato – vampiresca.

Segue il Catalogo delle 328 opere esposte in mostra con schede curate da Finazzi, Fontana, Gallanti e Scaravaggi, le tavole – acquaforti, litografie, volumi a stampa, fotografie, acquerelli, collage, fotogrammi di film, tavole di fumetti, eccetera, con scelte anche originalissime e illuminanti per il tema – e una curata serie di paratesti, con nota bibliografica a cura di Scaravaggi.

Il volume è bellissimo. Merita dunque (tanto più a mostra ormai chiusa) assolutamente una scoperta, con la sua sontuosa serie di contributi, l’iconografia spesso poco nota e ad ampio raggio – ma mai “facile”, neppure nelle estensioni a opere nere non tecnicamente vampiresche, qui comunque giustificate – e, il che rappresenta una marcia in più, l’evidente passione con cui è stato assemblato. Una panoramica molto ampia dove non possono mancare i fondamentali e tuttavia mai scontata, in grado di competere felicemente con monografie celebrate.

(Per le precedenti puntate di Visum et repertum, cfr. qui)

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Vocazione rivoluzionaria. ‘O Zulù https://www.carmillaonline.com/2025/04/11/vocazione-rivoluzionaria-o-zulu/ Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87850 di Giovanni Iozzoli

Luca Persico, Vocazione rivoluzionaria. ’O Zulù. L’autobiografia mai autorizzata di Luca Persico, Il Castello Editore, Milano 2025, pp. 270, € 19,00

Diffidare della memorialistica di movimento – in particolare di quello scivolosissimo genere che è l’autobiografia – è sempre cosa buona e giusta. La maggior parte di tali lavori è appesantita da retoriche, reticenze, autoesaltazioni o pentimenti, tali da renderne discutibili gli esiti letterari. Per fortuna ogni tanto qualche eccezione c’è. E una di tali eccezioni ci sembra Vocazione rivoluzionaria di Luca Persico, in arte Zulù, storico front-man dei 99 Posse. Cos’è che rende questa autobiografia godibile e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Luca Persico, Vocazione rivoluzionaria. ’O Zulù. L’autobiografia mai autorizzata di Luca Persico, Il Castello Editore, Milano 2025, pp. 270, € 19,00

Diffidare della memorialistica di movimento – in particolare di quello scivolosissimo genere che è l’autobiografia – è sempre cosa buona e giusta. La maggior parte di tali lavori è appesantita da retoriche, reticenze, autoesaltazioni o pentimenti, tali da renderne discutibili gli esiti letterari. Per fortuna ogni tanto qualche eccezione c’è. E una di tali eccezioni ci sembra Vocazione rivoluzionaria di Luca Persico, in arte Zulù, storico front-man dei 99 Posse. Cos’è che rende questa autobiografia godibile e coerente? La radicale sincerità, la “resa incondizionata” davanti al lettore con il quale l’autore sceglie di giocare, per così dire, a carte scoperte.

“Ha scritto la storia di getto, a suo modo, senza abbellimenti né storpiature, senza inutili accanimenti né assoluzioni postume. Senza scorciatoie. Una necessaria eruzione di parole calda come la lava di quel Vesuvio che, da sempre, è straordinario maestro di precarietà per tutti i napoletani.” – scrive nell’introduzione Federico Traversa.

Luca Persico è stato molte cose nella sua vita, oltre che musicista. La sua traiettoria biografica ce lo ricorda: innanzitutto un militante tout court (passato giovanissimo dall’esperienza di Dp ai collettivi autonomi napoletani); una figura iconica, per un certo periodo, della scena musicale italiana; e un artista vero, nella capacità di creare, distruggere e ricreare di volta in volta il senso del proprio stare sul palco. A questo ci aggiungiamo una instancabile attitudine a viaggiare, conoscere, sradicarsi e ri-radicarsi in mondi diversi, sempre al ritmo della propria musica, senza sconti e compromessi.

Ricordo le notti passate a cercare la rima giusta davanti al camino e ricordo una riunione in cui rifiutammo l’offerta di un noto produttore napoletano: mezzo miliardo di lire per l’esclusiva del tour senza però date “politiche” e biglietto a prezzo imposto. Dicemmo no, senza esitazioni, all’unanimità, e poi piangemmo tutti insieme. (p.113)

È la storia di un gruppetto di ragazzi – e collaboratori di varia umanità – che si ritroveranno in pochi mesi a passare dalla più sbracata dimensione amatoriale, ad un successo travolgente e ad una celebrità mai inseguita, piovuta quasi per caso sulle loro esistenze. Nel 1992, l’anno di uscita del loro primo disco, misero insieme la bellezza di 120 concerti. Nel 1993 quasi 200! E tutto questo in una frenesia di eventi politici, culturali e sociali, incontrando migliaia di persone, intessendo amicizie e inimicizie perenni, vivendo in città e mondi differenti.

Questa ricchezza di vita viene squadernata pagina dopo pagina, senza verbosità ed eccessive concessioni all’ego. Il fatto che questa non sia una storia “dei maledetti 70” rende meno drammatica – ma non meno intensa – la vicenda umana e politica che racconta, permettendo un surplus di autoironia e malinconica svagatezza. Luca è un bambino degli anni ’70; respira fin dalla più tenera età le benefiche tensioni del decennio, ma si ritrova a vivere da giovane adulto nel pantano del riflusso, per il quale avverte una naturale estraneità. Questa tensione irrisolta tra passato, presente e futuro, ha fatto di lui lo spirito inquieto – e artisticamente fecondo – che il pubblico italiano ha apprezzato lungo l’arco di trent’anni.

Come musicista – e anima politica dei 99 Posse – Zulù non si è fatto mancare niente: Disco d’Oro col suo gruppo nel ’96, autore di colonne sonore e di una infinità di concerti organizzati in ogni luogo e in ogni modo, nello spazio di tre continenti. È stato tra i primi ad impattare con successo di pubblico la scena Rap e Hip Hop italiana, reinterpretandola però con leggerezza, spirito di dissacrazione e un surplus di polemica politico-ideologica. In questo raccoglieva la lezione di coloro che – vedi gli Onda Rossa Posse – erano arrivati poco prima di lui su quel fronte musicale ma coltivavano il genere con un senso di più rispettosa ortodossia. Per Luca e i 99, invece, il Rap era solo uno dei molti modi di comunicare amore e rabbia – e lo strumento si poteva maneggiare o modificare alla bisogna. Tutto molto napoletano.

Le foto con Arafat alla Moqada e l’evocazione del sub-comandante Marcos che dorme nella tenda a fianco alla sua nella Selva Lacadona, sono la riprova che non di un testimone effimero o occasionale si sta parlando. È la storia di una generazione arrivata alla politica per un’attitudine controcorrente e caparbia. Una stagione lunga che comincia negli anni ’80, con la rivendicazione orgogliosa di una identità sconfitta; e passa attraverso la Pantera, il ciclo dei centri sociali, le prime forme di autorganizzazione operaia, per approdare a Genova ed inaugurare – con un’altra sconfitta! – un nuovo indecifrabile secolo. E le canzoni dei 99 Posse hanno costituito a buon diritto la colonna sonora di questa corsa a perdifiato attraverso gli anni della globalizzazione e della “incredibile opposizione” che andava montando in Italia e nel mondo.

Sempre consapevole del suo background, Luca rivendica di essere stato prima di tutto un militante politico che a un certo punto della sua giovane storia, incontra la musica e decide di cavalcarla, accorgendosi che i linguaggi e gli strumenti della sua generazione politica non funzionano, essendo quasi tutti mutuati dall’eredità ingombrante del decennio precedente. È l’attivismo politico che evolve e dilaga nel discorso poetico e musicale: tutto parte da lì e lì deve tornare, nella storia tormentata dei 99. Questa testarda centralità della militanza, è l’elemento che tiene insieme i frammenti di una vita eccedente e incasinata: Luca è stato “militante” quando scriveva volantini per gli studenti, quando correva travisato in mezzo ai lacrimogeni, quando conobbe la prima volta il carcere, quando cominciò quasi per gioco a scrivere canzoni. E lo è stato, in qualche modo contorto e obliquo, anche nei periodi di “dissoluzione esistenziale”, quando le droghe prima e la depressione poi, parevano averlo strappato alla sua originale irriducibile “vocazione rivoluzionaria”. La militanza è il prisma che tiene insieme tutte queste vite e dà dignità ad ognuna di esse. Così come questo libro, che in poco meno di 300 pagine, riesce a contenere le diverse anime di questo strano artista napoletano, verace e camaleontico allo stesso tempo. O’ Zulù, trent’anni dopo il suo timido esordio in un capannone occupato della periferia orientale di Napoli (Officina Rettifica Motori, civico 99) ha ancora molto da dire, di sé e del mondo.

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Nuovo giunto https://www.carmillaonline.com/2025/04/10/nuovo-giunto/ Thu, 10 Apr 2025 21:55:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87899 di Cesare Battisti

Per alcuni giorni si è rintanato in cella. Uscire per l’ora d’aria voleva dire mischiarsi al carcere, sfiorare i muri e la sporcizia che li tiene in piedi, sentire il bisogno e la vergogna di accodarsi ai macchinali andirivieni. Cominciare a morire a ogni parola pronunciata solo per ispessire il tempo. Non ce la faceva e si rannicchiava, come la preda quando chiude gli occhi per negare l’attacco. E una forma di suicidio passivo, il primo tentativo al quale si abbandona ogni nuovo giunto.

È il momento in cui il carcere ci accomuna tutti, forti e deboli, grandi [...]]]> di Cesare Battisti

Per alcuni giorni si è rintanato in cella. Uscire per l’ora d’aria voleva dire mischiarsi al carcere, sfiorare i muri e la sporcizia che li tiene in piedi, sentire il bisogno e la vergogna di accodarsi ai macchinali andirivieni. Cominciare a morire a ogni parola pronunciata solo per ispessire il tempo. Non ce la faceva e si rannicchiava, come la preda quando chiude gli occhi per negare l’attacco. E una forma di suicidio passivo, il primo tentativo al quale si abbandona ogni nuovo giunto.

È il momento in cui il carcere ci accomuna tutti, forti e deboli, grandi e piccoli, innocenti o colpevoli. Nell’impotenza più assoluta c’è qualcosa che si rompe, la diga cede e, come il martire che si offre a Dio,,/ il. ‘rovo giunto aspetta solo di essere inondato. Ma la morte liberatrice non arriva, hWrigqii.rglé, staccando il corpo dalla coperta immonda, cerca il punto dove appendere la corda, se proprio non ce la dovesse più fare. C’è chi non vuole dare un minuto in più alla prigione e allora si alza a occhi chiusi, strappa il lenzuolo, comincia a intrecciare. È noto come la maggior parte dei suicidi in carcere succedano nei primissimi giorni di prigionia.

La corda è la speranza alla quale il detenuto appende i giorni e le ore di agonia, è anche la via d’uscita che si tiene in serbo e grazie alla quale trova il coraggio di uscire allo scoperto. Di ingurgitare la pasta scotta al sugo e specchiarsi sulla faccia attonita dei compagni, assuefarsi alle espressioni burbere di guardie avvizzite dal lavoro, andare all’aria senza aspettarsi niente e dirsi che sarà solo per poco, tanto la corda non gliela può togliere nessuno. Ed è così che essa diventa tanto lunga che i piedi toccano per terra, le gambe si muovono da sole, i passi si fanno fermi e sempre più veloci. I carcerati diventano persone e le chiacchiere non sono più rumore, pare vogliano dirgli qualcosa e così il nuovo giunto si mette ad ascoltare. Poi la smette anche di guardare a terra e gli capita di incrociare anche un sorriso, un’espressione seria, un gesto che dice altre cose: è il carcere che gli entra nelle vene. Ma imparare a convivere con la caterva di codici di comportamento in carcere, non è cosa facile, sarà 1’ esame più difficile della sua carriera.

Alcuni non lo passano per difetto, altri ci rinunciano in partenza; gli uni e gli altri non avranno pace. Ma il nuovo giunto è prudente, prende il carcere a piccole dosi, vuole resistere all’omologazione, evita di farsi notare. La reclusione in sé non è forse il peggior dei mali. Star chiuso troppo a lungo può portare a crisi di follia, ma anche questo sarebbe uno sfogo umano, una sana reazione preferibile all’inevitabile appiattimento cerebrale. In uno spazio ridotto e affollato, c’è da strisciare i muri per non provocare la suscettibilità di guardie e ladri esasperati. Così il nuovo giunto impara a rendersi invisibile, a cogliere da volti spenti e tutti uguali il segnale differente che può essergli vitale. Imbrigliare la mente, ridurre i battiti del cuore sono accorgimenti necessari.

Ormai lui è un detenuto, sa di essere una macchina in stand-by. L’attesa sarà lunga, le energie vanno conservate: diventare il fantasma di sé stesso per non consegnare una molecola di vita alla prigione. Potrebbe essere una soluzione, ci vuole credere, ma non è così che funziona. Non si attraversa il fuoco senza bruciature, così come non si respira impunemente l’aria di prigione. Con astuzia e un pizzico di fortuna, si può al massimo limitare il danno, ritardare almeno l’ora in cui la mente si rifiuterà tout court di reagire. Ma alla fine, quando sarà giunto il momento tanto atteso e gli si aprirà la porta ambita, all’esperto detenuto non è rimasta più nemmeno la facoltà di capire che tutto ciò che il nuovo giunto era lo ha poco a poco usato per imbrattare un muro prigione.

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Stati alterati di coscienza digitale https://www.carmillaonline.com/2025/04/09/stati-di-coscienza-alterati-dal-capitale/ Wed, 09 Apr 2025 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87752 di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre vite. Infatti la tecnologia, in particolare nella forma della televisione, ci permette di separare noi stessi dalla sfera dei nostri sentimenti.» Per poi continuare affermando: «In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità.»

E concludere, infine: «Certamente uno degli sviluppi che arriveranno molto presto è quella che viene chiamata realtà virtuale. Se le previsioni degli scienziati che stanno lavorando in California e in Giappone sui sistemi per la realtà virtuale sono vere, credo che non vi sia alcun dubbio che la realtà virtuale rappresenterà il più grande cambiamento nella storia dell’umanità. Per la prima volta gli esseri umani vivranno in un ambiente artificiale più convincente della cosiddetta realtà in cui abitiamo oggi. Una realtà artificiale dove saremo in grado di soddisfare qualsiasi fantasia, qualsiasi autoindulgenza, qualsiasi sogno, qualsiasi mito»1.

Certo, però, neanche un indagatore dell’inner space come Ballard avrebbe potuto immaginare il trasferimento della vita reale delle persone avvenuto, senza passare per visori e sensori particolari, all’interno del circuito dei social e di tutto quanto viene oggi ritenuto smart2. Un passaggio che ha permesso ai più di ritagliarsi spazi di vita immaginaria in cui perdere la propria fisicità e condizione reale per trasformarla in altro da sé, pur fingendo di rimanere tali. Una vita che è stata trasformata in altra o altro senza nemmeno passare dalla Second Life lanciata dalla Linden Lab nel 2003, un anno prima di Facebook, e che ha aperto le porte alla diffusione del Metaverso o Meta ideato e sviluppato da Mark Zuckerberg.

Richiamandosi al titolo di uno dei più celebri testi prodotti da Raoul Vaneigem, il Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, nel lontano 1967 e adeguandolo al fatto che le giovani generazioni del tempo sono diventate il ma non solo di adesso, il saggio pubblicato da Colibrì e curato dalla Calusca City Lights si scaglia in un autentico attacco da “non fate prigionieri” contro le illusioni e le falsificazioni prodotte dall’utilizzo dei social, delle nuove tecnologie digitali e tutto quanto, attraverso le stesse, ha finito col definire il miserabile orizzonte di vite che si ritengono al passo coi tempi e, per l’appunto, “smart”.

Il volume si apre con una rapida disanima dei principali fattori culturali, politico/religiosi, economici e tecnologici che hanno condotto al Capitalocene come conseguenza dell’Antropocene, ovvero dalla convivenza umana con il mondo al tentativo di dominarlo in tutte le sue manifestazioni ambientali e naturali, seguito all’affermarsi del modo di produzione capitalistico.

L’acquisita capacità di alterare le caratteristiche, le condizioni biologiche e fisiche del Pianeta con tutte le specie viventi e i fossili, mette in grado di modificare non solo ogni darwiniana evoluzione ma anche il corso stesso della Storia: «La Natura non guida più la Terra. Noi lo facciamo. Ciò che accade è frutto della nostra scelta»3. Si deve quindi dominare il Pianeta attraverso la Tecnologia, presentata come espressione naturale della condizione umana; Tecnologia, la sola in grado di adeguare Gaia allo Sviluppo del Progresso dominando la Natura e le sue leggi: creandola e ricreandola nel Tempo a seconda delle necessità e degli effetti della produzione di merci. «il “dispotismo” capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica»4.
Ovviamente per “attività umane” vengono intese unicamente quelle foriere e portatrici del Progresso: la Proprietà Privata e il Profitto; i virus che sarà il Mercantilismo a diffondere, forgiando al contempo quell’Homo OEconomicus soggetto-modello monocolturale di ogni relazione, che deve
farsi, essere Economia.
Modello unico, globale, totalitario e totalizzante delle relazioni umane, darà origine al Capitalocene che, per affermarsi e divenire esso solo “la Storia”, usufruirà di quattro eventi rivoluzionari:
– A) la pubblicazione del Liber abaci (1202)
– B) la scoperta delle Americhe (1492)
– C) l’affissione delle 95 tesi di Lutero (1517)
– D) l’invenzione della macchina a vapore (1769)5.

Dalle conseguenze dello sviluppo dei quattro punti appena elencati, il saggio prende spunto per giungere fino all’attuale trasformazione della comunità umana in “comunità del capitale”; fatto ricollegabile soprattutto allo sviluppo di un’intelligenza artificiale che, in base a processi di calcolo sempre più rapidi e ad algoritmi sempre più raffinati e complessi, fornisce risposte senza la necessità di fornire una spiegazione pienamente comprensibile6.

L’Intelligenza Artificiale è figlia del potere capitalista che utilizza una tecnica onnipervasiva in grado di sostituire l’automatismo all’autonomia, il controllo per mezzo dei big data alle scelte dell’individuo. Un determinismo tecnologico ove sono la società e le persone a doversi modellare, adattare allo sviluppo tecnologico. È la società digitale data driven, omologata ai e dai prodotti della ai, che ripropone il mondo così com’è, il già pensato-detto-fatto (il data base): la Intelligenza Artificiale riproduce l’ordine costituito esistente. Non solo. Le tech companies proprietarie delle piattaforme e delle app di ai propongono un sistema organizzativo e valoriale, quindi una cultura, una pratica imprenditoriale e sociale sulla base di rapporti di potere, prevaricazione e sfruttamento: nell’economia digitale si demolisce la concorrenza (move fast and break things), la merce di successo è un killer, i siti internet sono registrati come domini (domains) e le ricerche in rete si chiamano esplorazioni (evocazione linguistica del colonialismo). La società digitale è in realtà una società macchinica7.

Ecco allora che le speranze riposte nella rete ai suoi esordi e nelle possibilità espresse dalla virtual reality si son trasformate non tanto nel loro contrario quanto, piuttosto nella loro stessa negazione. Marco Margnelli, neurofisiologo e psicoterapeuta presidente della «Società italiana per lo studio degli stati di coscienza», nel 1993, scriveva infatti:

Per molti lo sviluppo della tecnologia della cosiddetta realtà virtuale rappresenta la concreta realizzazione di alcune delle tensioni ideali e delle aspirazioni più vivaci di questo secolo. Il cosiddetto cyberspazio […] viene salutato come il più consistente e concreto passo in avanti verso la conoscenza del Sé che l’uomo abbia compiuto nel corso della sua storia.
[…] Progettare di riappropriarsi dell’intera coscienza significa acquistare autocoscienza della coscienza e cioè tentare, per l’ennesima volta, di conoscere noi stessi. […] La realtà virtuale sarà un software interclasse8.

Mentre a trent’anni di distanza il meccanismo di identificazione, si potrebbe dire, quasi extra-corporea messo in atto dai social network9 e dagli avatar con cui si identificano gli utenti anche quando utilizzano la loro vera identità anagrafica insieme alla massa di dati di ogni genere raccolti tra gli individui che frequentano la rete e gli stessi social, hanno fatto sì che gli stati individuali di coscienza si siano progressivamente alterati in direzione di quello che assomiglia sempre di più ad un annichilimento sia della coscienza individuale che collettiva. Attraverso l’uso di software che più che interclassisti, se non nella loro finalità di controllo automatico del gusto comune e del comune sentire, si vanno rivelando invece estremamente funzionali a un capitalismo che, guarda caso, si rivolge nelle sue forme più avanzate sempre più alla ricerca e allo sviluppo in ambito digitale.

Desiderio e passione, pensiero e sentimenti, corporeità e spirito, tutto ciò che è proprio dell’umano è messo in produzione dal Data computing; nella società delle piattaforme il Data computing esprime la strumentalizzazione e l’asservimento derivanti dall’organizzazione capitalista, che utilizza l’intera umanità come mezzo funzionale al fine ultimo della propria esistenza: il profitto.
Il Data computing è “Lavoro Implicito”, una forma produttiva del Lavoro reso digitale e gratuito, finalizzato alla riproduzione del Capitale-Cloud delle Società delle Piattaforme (Big Tech), capace di generare inedite procedure di governabilità e servitù volontaria. I lavoratori-utenti ci offrono lo spettacolo di una moltitudine di sfruttati felici (= dominio & consenso): dobbiamo aver ben chiaro che il Data computing è inserito a pieno titolo nello scontro sociale tra Capitale e Lavoro, e come tale dev’essere affrontato: il “Lavoro Implicito” è una componente della Economia Politica del Capitalismo.
La lotta degli invisibili deve investire la digitalizzazione del Mondo: laddove il Capitalismo si esprime nelle forme e nei contenuti più rappresentativi della globalità del Nuovo Mondo alieno che sta costruendo, pur conservando modi di sfruttamento assai novecenteschi, fordisti e colonia listi, di genere ove convenienti, utilizzando sia le guerre diffuse e permanenti per il controllo geopolitico delle risorse e dei mercati sia la crisi economica speculativa come strumento oppressivo della condizione proletaria.
[…] Opporsi, impedire la colonizzazione digitale della vita da parte del neurocapitalismo e della sorveglianza, del mercato e del profitto, comporta la consapevolezza individuale e collettiva che subiamo una seconda esistenza negli universi digitali delle app e delle piattaforme, nel Metaverso, dove il corpo è ri-composto dalle nuove protesi, la testa sta in un cloud, il cibo prodotto nelle vertical farm, è geneticamente modificato ma bio, le tecnologie riproduttive e la AI elidono le frontiere tra quanto è umano e quanto non lo è. È questa la condizione post-umana propugnata dal neo-umanesimo capitalista in un pianeta altro, alieno da Gaia. Senza rimpianti per un ’900 che ha esaurito un ciclo storico durato due secoli e che non è più ripetibile. What me worry?10.

Anche se il testo è supportato da numerose altre considerazioni sulle trasformazioni in atto nel pianeta e nelle “dipendenze umane”, è proprio questo appello a mettere metaforicamente mano alle colt dell’azione collettiva e cosciente contro un modo di produzione, autodefinentesi smart, sempre più totale e totalizzante, a caratterizzarlo e a renderlo quasi indispensabile per la biblioteca di chiunque voglia ancora considerarsi nemico e antagonista dell’esistente. Non tanto o solo delle sue forme politiche, ma delle caratteristiche profonde che ne definiscono la produzione e riproduzione della vita biologica, economica e sociale.


  1. J. Ballard, All That Matterede Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, pp. 30-39.  

  2. Smart può essere tradotto come intelligente, sveglio, furbo, astuto, spiritoso, brillante, elegante o alla moda. Nel contesto della tecnologia, “smart” è spesso associato a dispositivi elettronici avanzati e connessi a Internet, come smartphone, smartwatch e smart TV.  

  3. An Ecomodernist Manifesto, sottoscritto da una ventina di accademici ed economisti di fama internazionale: www.ecomodernism.org  

  4. Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, «Quaderni rossi», n. 1, settembre 1961.  

  5. R. Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 13-14.  

  6. Si veda in proposito quanto affermato da Gioacchino Toni qui.  

  7. R. Brioschi, op. cit., p. 51.  

  8. M. Margnelli, Realtà virtuale e autogestione della coscienza, in «Altrove» n. 1, dicembre 1993, Nautilus, Torino, pp. 93-95.  

  9. Per un’ulteriore riflessione in proposito, si consiglia la visione del convincente primo episodio della terza stagione della serie britannica “BlacK Mirror”, intitolato Caduta libera, diretto da Joe Wright e sceneggiato da Charlie Brooker, Michael Schur e Rashida Jones.  

  10. R. Brioschi, Smart Life, op. cit., pp. 54-55.  

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Licantropi, poesia, vino e folk music stralunata: in memoria di Michael Hurley (1941- 2025) https://www.carmillaonline.com/2025/04/08/licantropi-poesia-vino-e-musica-folk-stralunata-in-memoria-di-michael-hurley-1941-2025/ Tue, 08 Apr 2025 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87820 di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf Comes a-stepping along He don’t even break the branches Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf Have sympathy Because the werewolf he is someone Just like you and me (Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e [...]]]> di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf
Comes a-stepping along
He don’t even break the branches
Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf
Have sympathy
Because the werewolf he is someone
Just like you and me

(Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e l’originalità delle esecuzioni era facile, negli Stati Uniti, trovare negozi in cui migliaia di dischi ancora sigillati anche se non di recente pubblicazione venivano venduti a 99 cents.

Così, prima che ogni collezionista fosse convinto da abili e meschini commercianti, che si pensano mercanti d’arte mentre si comportano soltanto da straccivendoli e rigattieri, oppure dagli interessi delle case discografiche di poter mettersi in casa autentiche opere d’arte, seppur ampiamente riproducibile in vari formati, simili a quelle uniche di Picasso, mi capitò, in un negozio di Berkeley, di ritrovarmi tra le mani un disco assolutamente sconosciuto, la cui unica attrattiva era per me rappresentata dall’etichetta, la Folkways, e da una copertina con una fotografia virata in color mattone con il volto onesto e la chitarra di un giovane folksinger di cui non avevo mai sentito parlare prima, nemmeno tra le pagine già scritte all’epoca da un imperversante Bertoncelli.

Unica cosa certa, vista l’etichetta, era che dovesse trattarsi di un disco di folk “duro e puro”, privo degli orpelli e dei suoni elettrici aggiunti al genere dallo sviluppo del folk rock degli anni precedenti. La Folkways Records & Service Co., infatti, era stata la prima casa discografica a proporre al pubblico autori e cantautori come Woody Guthrie, Pete Seeger, Cisco Hustono e i materiali sonori raccolti in giro per l’America e per il mondo da John e Alan Lomax, padre e figlio, che vanno considerati tra i fondatori della moderna etnomusicologia.

In questo modo, l’etichetta che avrebbe prodotto dischi di blues, gospel, jug e suoni prodotti delle comunità bianche e nere degli stati del Sud e delle montagne americane, contribuì a dare vita al cosiddetto folk revival dei primi anni Sessanta. Anche se rimane celebre il rifiuto opposto da Mose Asch alla pubblicazione delle prime canzoni di Bob Dylan, che avrebbe poi trovato in John Hammond il proprio mentore presso la Columbia Records.

Moses Asch era nato in Polonia, nel 1905. Nel 1912, la famiglia Asch aveva lasciato la Polonia, a causa dell’antisemitismo e si era stabilita a Parigi e soltanto nel 1915 sarebbe emigrata a New York e in quella città, dopo la guerra, Asch avrebbe iniziato a lavorare come ingegnere del suono.

Nel 1940, Asch fondò la Asch Recordings e si concentrò sulla pubblicazione e la vendita di dischi fonografici. Asch estese eccessivamente le sue operazioni e andò in bancarotta nel 1948. Ma Asch fu in grado di resuscitare la sua carriera discografica nello stesso anno facendo in modo che la sua segretaria, Marian Distler, avviasse una nuova casa discografica, la Folkways Records, a suo nome. La nuova etichetta sarebbe poi rapidamente passata dalle registrazioni a 78 giri ai long playing a 33.

Nel 1952, il regista ed etnomusicologo Harry Smith compilò per Asch una antologia di folk music americana, una raccolta di canzoni popolari indigene del sud e del mid-west degli Stati Uniti, che fu il primo disco a non tracciare una rigida distinzione tra cantanti folk bianchi e neri; antologia che, considerata l’epoca, sarebbe diventata “la raccolta più importante del suo genere”.

Uno dei principi che spinsero Asch a dirigere l’etichetta, che dalle origini fino alla sua morte ha distribuito 2.168 album discografici, fu che mai un singolo titolo fosse cancellato dal catalogo Folkways. Dopo la sua morte, le registrazioni della Folkways Records furono acquisite dalla Smthsonian Institution e Asch stabilì nel suo testamento che nessun titolo sarebbe stato cancellato e che i nastri master rimasti inediti nell’archivio di Folkways avrebbero dovuto essere esplorati. Cosa che, tra le tante altre, ha fatto sì che un critico musicale del «New York Times», Neil Alan Marks, abbia potuto affermare che: “La Folkways Records è stata per i folkloristi e i musicisti la fonte talmudica di gran parte del materiale primario. Il suo fondatore, Moses Asch, potrebbe avere più a che fare con la conservazione della musica popolare di qualsiasi altra singola persona in questo paese”.

Dunque, tenere in mano un Lp prodotto da quell’etichetta prometteva già una sorta di viaggio nella cultura popolare americana anche se, certamente, la sorpresa nell’ascoltarlo fu grande lo stesso. Era un disco per voce e chitarra dall’arrangiamento scarno ed essenziale, eppure, eppure…

Quel misto di dolore, naïveté e storie surreali di licantropi che si librava dai solchi dal disco rivelava fin dal primo ascolto qualcosa di inaspettato. Così First Songs, pubblicato nel 1964 e ritrovato da chi scrive nel 1977, tra i dischi ancora sigillati ma dalla copertina “bucata” che ne segnalava lo scarso successo commerciale, segnò l’inizio di una passione pari a poche altre, in termini musicali, nei confronti di Michael Hurley.

Michael Hurley era nato il 20 dicembre 1941 nella contea di Bucks, in Pennsylvania, e aveva scritto la sua prima canzone (in cui si immaginava un aeroplano) quando aveva cinque anni, ricevendo la sua prima chitarra, quando aveva 16 anni, da uno dei fidanzati della sorella maggiore; motivo per cui imparò a suonarla da autodidatta in un modo idiosincratico che avrebbe in seguito sempre caratterizzato le sue esecuzioni.

New York lo aveva attratto fin da adolescente, così come, oltre alle birre e all’alcol, lo avevano attratto i giovani frequentatori di Washington Square e dei locali del Greenwich Village in cui andava sviluppandosi un nuovo amore per la musica folk, in parte animato proprio dall’antologia di Harry Smith citata prima1. Così, dopo aver formato un gruppo chiamato Three Blues Doctors con Steve Weber e Robin “Rube” Remaily, iniziò a suonare in un club nel Village.

Il soggiorno del gruppo a New York fu breve, e non molto tempo dopo il loro ritorno a Bucks County, Hurley partì per Cambridge, Massachusetts, mentre Weber e Remaily avrebbero poi contribuito, insieme a Peter Stampfel, a formare gli Holy Modal Rounders, uno dei gruppi più deraglianti e squinternati della scena folk degli anni successivi2 e che poté vantare almeno per un album, Indian War Whoop del 1967, lo scarso contributo alla batteria dell’attore e scrittore Sam Shepard. Gruppo con cui per anni Hurley avrebbe ancora incrociato il suo percorso artistico.

Lo stile di vita perlomeno turbolento, unito alla passione per gli alcolici, fece sì che Hurley finisse con l’essere ricoverato nel reparto di tubercolosi del Bellevue Hospital di New York, dove fu curato per mononucleosi e danni al fegato, nonché per tubercolosi. Soltanto dopo quell’esperienza, di cui sarebbe rimasta la traccia autobiografica nel suo primo album, e dopo essere tornato in Pennsylvania, incontrò Fred Ramsey Jr., un archivista folk e ingegnere del suono che, tra le altre cose, aveva registrato le ultime sessioni di Leadbelly. Fu proprio Ramsey a convincere Moses Asch, forse a caccia di nuovi talenti dopo l’autentico smacco commerciale rappresentato dall’aver sottovalutato il talento del giovane Dylan qualche anno prima3, a firmare un contratto con Hurley per un lp che sarebbe poi diventato First Songs.

No no no I won’t go down no more
No no no I won’t come down no more
No no I won’t go
No no I won’t go
No no no I won’t come down no more

Stars are rolling in and out of my ears
Stars are rolling in’n’n’n’n and out of my ears
Well they roll in and out
Make me want to jump and shout
No no no I won’t come down no more

(No, No, No, I Won’t Come (Go) Down No More – Michael Hurley 1964)

Asch anticipò a Hurley 100 dollari per fare un secondo album, e iniziò a registrare altro materiale con Ramsey, ma l’LP non fu mai completato, a causa sia del carattere erratico del cantautore che del contenuto delle sue canzoni il cui marchio era costituito, così come sarebbe poi sempre rimasto da una musica folk giocosamente surreale, spiritosa, riflessiva, piena di gioia e di dolore allo stesso tempo. In un insieme di suoni spesso stravaganti anche se tratti quasi esclusivamente dall’uso di strumenti acustici, con la chitarra che si alternava ad uno stridente violino oppure al banjo e a un kazoo, accompagnati talvolta dalle imitazioni vocali degli strumenti a fiato.

Hurley, nomade per natura, trascorse diversi anni viaggiando frequentemente e suonando occasionalmente, ma tuttavia, gli amici di Hurley negli Holy Modal Rounders iniziarono a registrare le sue canzoni e la voce sul suo lavoro, caratterizzato di rondini in volo nel cielo sopra le missioni californiane, vagabondi e lupi mannari amanti del vino e in cerca di gentilezza , iniziò a diffondersi. Col tempo, uno degli amici di Hurley dei tempi di Bucks Country, Perry Miller, adottò il nome d’arte Jesse Colin Young e formò una band chiamata Youngbloods.

Il gruppo ottenne un grande successo nel 1969 con la canzone Get Together, che raggiunse la Top Ten proprio quando il loro contratto con la RCA Victor Records stava per scadere. Così firmarono con la Warner Bros., che come incentivo offrì loro la loro etichetta, la Raccoon Records motivo per cui Young decise di far incidere Hurley per il loro nuovo catalogo.

Hurley preferiva spesso registrare a casa piuttosto che andare in studio. Gran parte del suo lavoro aveva un’affascinante atmosfera lo-fi, una delle qualità che lo hanno reso un eroe e uno spirito affine alla successiva scena freak folk, così Armchair Boogie, il secondo album del cantautore, venne registrato da Young nella camera da letto di Hurley, nel 1971.

When the swallows come back to Capistrano,
That’s the time I hope that you come back to me.
When you whispered farewell in Capistrano,
That’s the time the swallows flew out to the sea.

Ah, the mission bells will ring,
The chapel choir will sing.
The happiness you bring
When we go hand in hand.

(When the Swallows Come Back to Capistrano – M. Hurley, 1971)

Poi, nel 1972, fu la volta di Hi-Fi Snock Uptown (“snock” era allo stesso tempo uno dei soprannomi di Hurley e una frase che usava per descrivere il suo suono), con diversi membri degli Youngbloods ad accompagnarlo nel corso della registrazione, che ancora adesso è considerato uno dei suoi dischi migliori. Have Moicy!, del 1976, una collaborazione con gli Unholy Modal Rounders (nome che era stato cambiato in seguito all’uscita di Steve Weber dal gruppo), con cui aveva cominciato a suonare regolarmente, con canzoni come Griselda, What Made My Hamburger Disappear oppure Jealous Daddy’s Death Song avrebbe finito col rappresentare un piccolo capolavoro di folk urbano e segnato il passaggio ad un’altra etichetta specializzata in folk, bluegrass, blues e musica tradizionale americana, la Rounder Records, fondata nel 1970 a Somerville, Massachusetts.

Il disco fu un successo immediato di critica e vendette inaspettatamente bene. La Rounder Records mise sotto contratto Hurley come artista solista. I suoi due album per Rounder, Long Journey del 1977 e Snockgrass del 1980, sono stati considerati tra i suoi lavori migliori, ma quando la Rounder gli propose di incidere un album per bambini, Hurley decise di cercare una nuova etichetta discografica.

Comunque è ancora un universo frutto di uno stile decisamente naif quello che il cantautore ci racconta e descrive in Snockgrass, intriso di influenze blues, folk e jug band e, ancora una volta, caratterizzato da una copertina contenente una delle tipiche immagini da fumetto realizzate dallo stesso Hurley, poiché la maggior parte degli album di Hurley presentano in copertina le sue opere grafiche, spesso con una coppia di lupi antropomorfi, Boone e Jocko, che sono spesso presenti nei suoi fumetti, come le precedenti, e contenente un titolo riferito al nome di una band con cui il cantautore si era esibito in precedenza: Automatic Slim & the Fatboys.

Gli album dei primi anni settanta avevano infatti incoraggiato Hurley a ricominciare a suonare regolarmente in pubblico, incluso un tour con altri artisti dei Raccoon, ma dopo la decisione della Warner Bros. di staccare la spina dall’etichetta, ponendo fine alla sua collaborazione con una major, Michael si unì per un periodo a una band del Vermont chiamata Puddledock, con cui si mise in viaggio con un nuovo nome, Automatic Slim & the Fatboys per l’appunto, trovando seguaci nel Vermont e nel Massachusetts, e registrando del materiale su un registratore a quattro tracce che avrebbe trovato una pubblicazione tardiva nell’album del 2011 Fatboy Spring.

Hurley collaborò con l’etichetta indipendente Rooster per il suo album successivo, Blue Navigator del 1984, ben accolto anche se, non molto tempo dopo la sua uscita, un incendio nel magazzino della Rooster distrusse le scorte dell’LP e i nastri master, trasformandolo in questo modo in un ricercato oggetto da collezione prima che la Feeding Tube Records lo ristampasse nel 2021. Watertower del 1988 fu registrato per la Fundamental Records poco prima che l’aumento degli affitti portasse Hurley a lasciare il Vermont in favore di Richmond, in Virginia, e prima che l’artista americano iniziasse a creare registrazioni fatte in casa e disponibili solo su cassetta da vendere ai suoi spettacoli, così come fumetti e dipinti.

Solo nel 1994 avrebbe potuto incidere un nuovo album, Wolf Ways, in cui venne inclusa una nuova versione di Werewolf, che nel 2003 sarebbe stata ripresa da Cat Power (alias Chan Marshall) nel suo album You Are Free, e diversi brani già comparsi nel precedente, ma sostanzialmente inedito, Watertower. Wolf Ways uscì, invece, sul mercato discografico quando uno scrittore e fan tedesco che gestiva una piccola etichetta tedesca (Veracity) lo portò in Europa per suonare alcuni concerti e si convinse a pubblicare un nuovo album. L’etichetta pubblicò Parsnip Snips nel 1995, ma i problemi finanziari avrebbero contribuito alla sua prematura chiusura non molto tempo dopo l’uscita di quest’ultimo, rendendolo un’altra rarità fino a quando la Mississippi Records non ha ne pubblicato una nuova edizione nel 2009.

Una fanzine irlandese dedicata a Hurley, Blue Navigator, pubblicò il suo successivo progetto in studio, Bellemeade Sessions del 1998, un raro album dominato da cover piuttosto che da originali. Weatherhole del 1999 è stato registrato invece per la Koch Records, ma quando la proposta decadde prima ancor di andare in stampa, Nick Hill, A&R dell’etichetta, si fece avanti per pubblicarla lui stesso sulla sua etichetta indipendente Field Recording Co.

Poi l’esoterico interprete di un mondo naif ma non infantile, poiché sarebbe come definire i quadri di Henri Rousseau detto il Doganiere come illustrazioni per l’infanzia, avrebbe ancora girato per l’Europa e il Regno Unito nei primi anni del XXI secolo, contribuendo a dare impulso anche alla sua carriera discografica. L’etichetta tedesca Trikont organizzò la pubblicazione di Sweetkorn nel 2002, seguito da un album registrato alla fine di un tour irlandese, Down in Dublin (2005).

Il culto di Hurley avrebbe iniziato ad espandersi quando un certo numero di artisti più giovani iniziarono ad interpretare cover dei suoi brani, come Devendra Banhart e la già citata Cat Power. Proprio l’etichetta Gnomonsong di Banhart avrebbe pubblicato due dei suoi album, Ancestral Swamp del 2007 e Ida Con Snock del 2009. Blue Hills del 2010, pubblicato dall’etichetta indipendente Mississippi Records, presentava in gran parte Hurley al pianoforte e all’organo a pompa piuttosto che alla chitarra. Mentre Back Home with Drifting Woods del 2012 ha resuscitato registrazioni inedite del 1964, alcune delle quali provenienti dalle sessioni per il secondo album incompleto dei Folkways.

Land of Lo-Fi del 2013 è uscito per la Mississippi Records in edizione limitata, e Bad Mr. Mike è seguito nel 2016. Poi è stata la volta di Redbirds at Folk City, pubblicato nel 2017, tratto da uno spettacolo dal vivo del 1976. Living Ljubljana del 2018 è un’altra registrazione d’archivio, questa volta da un concerto del 1995 a Lubiana, in Slovenia. The Time of the Foxgloves del 2021 ha messo insieme brani registrati sia in casa che in studio ed è stato pubblicato poche settimane prima che il cantautore festeggiasse il suo 80° compleanno. È stato l’ultimo album pubblicato durante la sua vita, ma Hurley ha continuato a fare concerti fino alla sua morte avvenuta il 1° aprile di quest’anno all’età di 83 anni.

Trovando rifugio in quell’angolino di aldilà in cui già l’avevano preceduto altri gloriosi freak newyorkesi come Tuli Kupferberg (1923-2010) e Steve Weber (194-2020) e al cui tavolo da qualche tempo a questa parte, in compagnia di Dave Van Ronk (1936–2002), si è trasferito anche Amadeo Bordiga (1889-1970), per parlare di ciclismo davanti ad un piatto di cozze, dopo essersi accorto di quanto fosse diventato noioso l’angolo riservato ai comunisti.

You can hear his long holler from away across the moor
That’s the holler of a werewolf when he’s feeling poor
He goes out in the evening when
The bats are on the wing
And he’s killed some young maiden before the birds sing

Once I saw him in the moonlight
When the bats were a-flying
All alone I saw the werewolf and
The werewolf was crying

Crying “Nobody, nobody, nobody knows
How much I love the maid as I tear off her clothes”
Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

(Werewolf – Michael Hurley)


  1. Sulla scena musicale newyorkese a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta e in particolare per la scena folk che gravitava intorno a Washington Square e al Greenwich Village, si veda qui  

  2. Il cui brano più famoso presso il grande pubblico fu sicuramente Bird Song compreso nella colonna sonora del film Easy Ryder, diretto da Dennis Hopper nel 1968, e tratto dall’album The Moray Eels Eat The Holy Modal Rounders, pubblicato dalla Elektra alla fine degli anni Sessanta.  

  3. Si veda in proposito B. Dylan, Chronicles – Volume 1, traduzione di Alessandro Carrera, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2005 (ed.originale americana 2004).  

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Le immagini veggenti nell’era delle macchine oracolari https://www.carmillaonline.com/2025/04/07/le-immagini-veggenti-nellera-delle-macchine-oracolari/ Mon, 07 Apr 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87735 di Gioacchino Toni

Jorge Luis Marzo, Le veggenti. Immagini nell’era della predizione, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 248, € 22,00

Guardando agli affreschi della Volta della Sistina, l’importanza assegnata da Michelangelo alle figure dei Profeti e delle Sibille risulta evidente sin dalle dimensioni loro assegnate. È noto come Michelangelo, convinto del ruolo assolutamente prioritario spettante tra le arti alla scultura “che si fa per forza di levare”, tendesse a pensare allo scultore come ad una sorta di veggente capace di cogliere, in anticipo rispetto ai comuni mortali, le tracce della perfezione divina contenute nella materia bruta tenuto dunque ad ingaggiare una faticosa [...]]]> di Gioacchino Toni

Jorge Luis Marzo, Le veggenti. Immagini nell’era della predizione, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 248, € 22,00

Guardando agli affreschi della Volta della Sistina, l’importanza assegnata da Michelangelo alle figure dei Profeti e delle Sibille risulta evidente sin dalle dimensioni loro assegnate. È noto come Michelangelo, convinto del ruolo assolutamente prioritario spettante tra le arti alla scultura “che si fa per forza di levare”, tendesse a pensare allo scultore come ad una sorta di veggente capace di cogliere, in anticipo rispetto ai comuni mortali, le tracce della perfezione divina contenute nella materia bruta tenuto dunque ad ingaggiare una faticosa lotta con la pietra volta a “sollevare il soverchio” al fine di liberare e dare a vedere la bellezza con cui si manifesta il divino.

Affrontando maldisposto l’enorme ciclo pittorico alla Sistina, vissuto come ripiego al poderoso monumento funebre di Giulio II a cui avrebbe voluto lavorare, Michelangelo sembrerebbe identificarsi, in quanto scultore, con quelle figure di veggenti, dotate del dono di vedere prima, appunto, quanto agli altri non è consentito.

L’immagine di copertina del volume Le veggenti di Jorge Luis Marzo propone una suggestiva rielaborazione del volto della Sibilla Delfica michelangiolesca ad opera di Nicolò Ciccarone che ha provveduto ad applicarvi il reticolo di punti di mappatura utilizzati per il riconoscimento facciale dalle moderne tecnologie di identificazione e sorveglianza. Un’immagine di per sé capace di offrire spunti di riflessione circa l’evoluzione delle immagini veggenti, della logica che le produce e di quella da queste determinata.

Se la Sibilla impressa sulla Volta della Sistina rimanda tanto al ruolo della veggenza nel mondo antico, quanto a quello proprio degli albori della modernità, il reticolo di punti tracciato su di essa rinvia al nuovo ruolo assunto dalle immagini veggenti nel momento in cui le macchine pensanti sembrano aver fatto proprio il linguaggio oracolare per interpretare e giudicare tutto ciò che sta loro attorno, esseri umani compresi.

L’immagine di copertina conduce efficacemente alla ricostruzione di Jorge Luis Marzo del «percorso che ha portato le macchine a fare proprio il linguaggio degli oracoli» in un’epoca in cui i computer stanno imparando a «vedere le immagini, vedere il mondo attraverso le immagini, scriverle, convertire in immagini tutto ciò che scrivono» inducendo gli umani a «interpretare il mondo quasi esclusivamente attraverso di esse» (p. 10). Le macchine si sono così fatte veggenti in quanto hanno già previsto quanto dovrebbe accadere; di fronte al loro preoccuparsi esclusivamente di capire, e indirizzare, un futuro prefigurato, all’essere umano non resterebbe che adattarsi.

Quando si guarda al mondo oracolare non si deve pensare al «semplice dominio di una superstizione primitiva», bensì ad «un complesso apparato sociologico ed epistemologico, un insieme di tecnologie coerenti di controllo e un sistema di pratiche sociali che rispecchia miti e immaginari» (p. 36). Ricostruito il mutare della logica predittiva dall’antichità legata al mito fino a piegarsi alle finalità tecno-scientifiche moderne, l’autore si focalizza su come l’intelligenza artificiale sia una tecnologia predittiva in quanto, attraverso il calcolo statistico, tenta di interpretare correttamente dati esterni senza basarsi su un modello predefinito per dedurre scenari futuri.

L’importanza assegnata alle immagini nell’ambito della logica predittiva contemporanea è esplicitata dalla desiderio di accumulare sempre più dati visivi di qualità e migliorare i modelli iconologici a cui si rifanno le macchine. Si pensi, ad esempio, a come i sistemi di guida autonoma necessitino di raccogliere ed elaborare sempre più dati visivi al fine di prevedere le più diverse casistiche, anticipare le circostanze eliminando così il più possibile l’incertezza.

L’autore mette in evidenza come l’ossessione dei produttori di smartphone di dotare i loro apparecchi di fotocamere di una risoluzione sempre più sostenuta abbia poco a che fare con i desideri fotografici degli utenti derivando piuttosto dalla volontà «di fornire all’intelligenza artificiale le migliori condizioni di lettura, in modo che possa riconoscere più facilmente oggetti e volti e quindi catalogarli con maggiore precisione» (p. 130).

Il livello sempre più elevato di risoluzione delle fotocamere di cui vengono dotati gli smartphone si sta ormai rivelando in grado di derivare dalle immagini scattate le impronte digitali, nel caso in cui siano inquadrate le dita, per la gioia degli appartati polizieschi come di chi intende sfruttarle al fine di falsificare l’identità o avere accesso ai dati sensibili altrui.

All’elevata risoluzione delle immagini ottenuta dagli smartphone si accompagnano, ovviamente, tutti i metadati del caso (modello di smartphone con tanto di specifico numero di serie, data ed ora in cui è stata scattata la fotografia, l’esatta collocazione geografica ecc.), consentendo così una precisa tracciatura dei movimenti ed indicizzazione delle immagini agli organi di polizia, ai social ed a chi è mosso da intenzioni criminali.

La previsione della macchina pensante si configura come il processo di riempimento delle informazioni mancanti: prese tutte le informazioni disponibili (dati), questa le utilizza per generare informazioni non presenti riferendosi alle regolarità derivate dall’esperienza. Il punto di forza dell’apprendimento automatico risiede proprio nella capacità di generalizzare. «Una regola è ciò che viene creato dall’analisi dei modelli e utilizzato per prevedere il futuro», dunque, sostiene Jorge Luis Marzo, «l’IA non porta direttamente all’intelligenza, ma a una componente critica dell’intelligenza: la previsione» (p. 16).

L’enorme disponibilità di dati potrebbe condurre la scienza in una nuova era in cui la causalità andrebbe a perdere il ruolo fondamentale che ha avuto negli ultimi secoli: la semplice correlazione dei dati potrebbe venire considerata sufficiente a spiegare il funzionamento del mondo. «Questa teoria porterebbe a una nuova rivoluzione scientifica che, oltre ai tre paradigmi già esistenti – sperimentale (guidato dai protocolli), teorico (governato dai modelli), computazionale (orientato al calcolo logico) –, ne rivelerebbe un quarto, che potremmo definire “correlativo”» (p. 17).

L’idea espressa, tra gli altri, dall’esperto di informatica Chris Anderson, caporedattore della rivista “Wired”, che con l’avvento dei Big Data si possano analizzare i dati senza necessità di ipotesi, induce a porsi alcuni importanti interrogativi.

Chiediamoci: è possibile una scienza puramente induttiva e predittiva, basata solo su presunte osservazioni oggettive e priva di qualsiasi teoria che prefiguri un “perché”? Possiamo arrivare a concepire e ad accettare che il risultato della semplice sintassi logica di dati incrociati non abbia bisogno di un particolare quadro interpretativo per essere approvato o rifiutato? È un modo di pensare che cerca di sposare surrettiziamente un positivismo radicale con le origini puramente augurali della Chiesa (p. 17).

L’intelligenza artificiale, nell’adottare una logica tutta sua, ad oggi a noi oscura, «designa il mondo attraverso le proprie immagini, frutto dei suoi calcoli», disseziona l’universo umano «attraverso un nuovo tipo di iconografia, tramite visioni che non ci riguardano» (p. 19).

Sono macchine la cui affidabilità si costruisce grazie alla veridicità matematica all’interno del discorso, che apparentemente rende superflui il nostro punto di vista e la nostra opinione. Man mano che il loro linguaggio diventa sempre più visivo, dobbiamo riconsiderare il vecchio problema del potenziale della visione meccanica per configurare sistemi di visione veritiera, o verovisione. Le immagini tecniche sono sempre state interpretate come verità che disincarnano ogni soggetto, come i raggi X, che cercano di separare il grano dalla pula e di esporre la realtà pura, quella invisibile e che, una volta mostrata, ammette poche repliche. Ma oggi le immagini intelligenti si propongono come e-videnze, come indicazioni affidabili non solo della realtà ma anche di quella che deve costituirsi come verità della realtà sotto il prisma di un occhio onniveggente, che crede di sapere tutto perché percepisce il successo accordatogli tra gli umani (pp. 19-20).

Oggi, sono le macchine veggenti, scrive Jorge Luis Marzo, «a ergersi ad arbitri delle contraddizioni, lasciandoci solo il ruolo di attuare abilmente le raccomandazioni che suggeriscono, se non addirittura impongono» (p. 20). La logica con cui l’IA elabora la sua spiegazione del mondo tende ad esclude l’essere umano proprio mentre lo analizza e lo prevede. Quali competenze assegnano all’essere umano queste nuove conoscenze intelligenti con le immagini escludenti l’umano a cui ricorrono per per comunicare tra loro?

Ogni cultura della predizione è inscritta in società che vivono in un’epoca altra. Quella di oggi è l’esperienza di un tempo che non è il presente, ma la proiezione di tutti i presenti in una catena di plusvalenze da ammortizzare istantaneamente nel casino dei mercati dei futures e degli investimenti rischiosi. […] Per la macchina, dedurre la logica dai dati rende sempre il futuro inerte, un déja-vu (pp. 2019-220).

Nel caso una macchina apprenda di aver sbagliato una previsione, tenderà a trasformare il passato in un errore. In un tale tipo di narrazione, la memoria è mero calcolo di schemi, privata di fantasie ed immaginari, di competenze politiche e storiche.

Ora è urgente pensare a come influenzare l’ostinata costruzione del mondo come storia datata, cosa fare con ciò che non viene calcolato ed elaborato, o con ciò che viene calcolato ed elaborato male. La costruzione dell’identità digitale si basa sul principio dell’autoesposizione. La registrazione continua e pubblica delle attività certifica l’identità, mentre la scarsità delle transazioni la penalizza. Questo riconduce, su scala inversa, al vecchio sogno degli scienziati di un secolo fa, che immaginavano di trasformare le proprietà della vita in dati, in una teoria del presente: si tratta di sapere quale vita c’è dietro ogni dato (p. 220).

Le veggenti di Jorge Luis Marzo è un libro che invita a domandarsi come ci si possa rapportare nei confronti di macchine pensanti che, appropriandosi del linguaggio oracolare per interpretare e giudicare il mondo, essere umano compreso, una volta previsto quanto dovrebbe accadere, indirizzano gli esseri umani verso un futuro prefigurato derivato dalla mera analisi statistica.

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Bologna cowboy https://www.carmillaonline.com/2025/04/07/bologna-cowboy/ Sun, 06 Apr 2025 22:01:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87512 di Mauro Baldrati

[Si pubblica di seguito un estratto di Bologna cowboy pubblicato poche settimane fa per i tipi di DeriveApprodi. Mauro Baldrati, l’autore, ambienta nella Bologna del 2047 un giallo che contiene un noir. L’agente speciale Nicodemo riceve l’incarico di identificare dei resti umani rinvenuti in una fossa anonima. Da un dattiloscritto emergono le vicende di un giovane fotografo che realizza un servizio durante la manifestazione seguita all’omicidio di Francesco Lorusso nel 1977. LC]

A dire il vero Toni Rinaldi, detto Jimi Hendrix di Romagna, non era mai stato un gran politico. Frequentava l’ambiente, i centri sociali, era amico coi compagni e [...]]]> di Mauro Baldrati

[Si pubblica di seguito un estratto di Bologna cowboy pubblicato poche settimane fa per i tipi di DeriveApprodi. Mauro Baldrati, l’autore, ambienta nella Bologna del 2047 un giallo che contiene un noir. L’agente speciale Nicodemo riceve l’incarico di identificare dei resti umani rinvenuti in una fossa anonima. Da un dattiloscritto emergono le vicende di un giovane fotografo che realizza un servizio durante la manifestazione seguita all’omicidio di Francesco Lorusso nel 1977. LC]

A dire il vero Toni Rinaldi, detto Jimi Hendrix di Romagna, non era mai stato un gran politico. Frequentava l’ambiente, i centri sociali, era amico coi compagni e le compagne, ma non riusciva a gettarsi col corpo e con la mente nella vera militanza politica. Alle manifestazioni c’era. Aveva anche portato le bandiere e retto gli striscioni, partecipato a qualche presidio davanti alle fabbriche, distribuito volantini. Ma svolazzava qua e là, si perdeva dietro alla musica, il cinema, i libri, le vacanze.
Insomma, diciamolo: più che altro voleva divertirsi, senza escludere un certo cazzeggio.
E si perdeva dietro Milonga, che in quel periodo era la sua luce blues.
Infatti, nel dicembre di quel bisbetico 1976 era avvenuta una straordinaria operazione di meticciato nella dura frontiera di Mezzaluna, tratto di pianura ravennate a venti chilometri dal mare Adriatico.
Il gruppo di Jimi, ex hippies e poeti country, un po’ disperso ma ancora unito nonostante la frattura del servizio militare che li aveva sequestrati per 15 mesi (i più sfortunati per due anni, in marina) si fuse con un gruppo di ex marxisti leninisti, a loro volta un po’ dispersi per le continue scissioni e reciproche accuse infamanti, ma riuniti in un collettivo in area Manifesto. D’altra parte come potevano due gruppi alternativi al P.C.I., che aveva più dell’80% dei voti a Mezzaluna, restare estranei? Come potevano ignorarsi?
L’incontro produsse nuove scoperte, nuove amicizie. Gli ex m-l erano più anziani, e quasi tutti fidanzati, mentre gli ex fricchettoni erano praticamente tutti single. D’altra parte Jimi e i suoi avevano notato da tempo che nel mondo politicizzato giravano ragazze carine, mentre per i poeti teorici della liberazione sessuale, nessuna pioggia sulle contrade occidentali.
Insomma, questo meticciato fu vantaggioso soprattutto per gli ex freak.
Le ragazze militavano nei movimenti femministi, alcuni ultra radicali, benché tra le loro file regnasse una discrepanza tra l’agire politico e quello privato. Femministe che manifestavano con cartelli del tipo Dito, dito, orgasmo garantito, oppure Cazzo, cazzo, orgasmo da strapazzo, alla sera si ritrovavano col fidanzato, con altra coppie di fidanzati, come vecchie mogli e vecchi mariti in un monotono rapporto borghese.
Gliene parlò una sera la fidanzata storica di un loro leader, Kocis, detta Milonga. Erano alla Casa delle Aie, il grande ristorante nei pressi di Cervia in un palazzo settecentesco che fu una “pignarola” (edificio adibito al magazzinaggio e alla lavorazione delle pigne). Dopo una cena abbondante a base di enormi piatti di tagliatelle, spezzatino con funghi e polenta, il tutto innaffiato con gargantuesche bicchierate di Sangiovese, Jimi e Milonga uscirono a prendere una boccata d’aria e a fumare una sigaretta.
Milonga gli piaceva, era un po’ rotondetta, con un caschetto di capelli neri, sempre allegra, ironica. Ogni volta che uscivano tutti insieme si trovavano vicini, uno di fronte all’altra. Se Jimi la guardava incrociava sempre i suoi occhi che lo fissavano. E viceversa.
Era una serata di metà gennaio, fredda e limpida. Si appoggiarono a uno steccato e guardarono la luna. Una mezzaluna, alta nel cielo sereno.
“Lo sai da quanto tempo siamo fidanzati io e Kocis?” disse Milonga, all’improvviso.
“No. Da quanto?”
“Otto anni” disse, chinando la testa.
Restarono qualche secondo in silenzio. A Jimi sembrava di avvertire il rumore della sua mente presa in un vortice di pensieri.
“Otto anni” ripeté. “Ero una ragazzina. Non mi sono più staccata da lui.”
Jimi ascoltava il tono della sua voce. Sembrava triste. O rassegnato.
“Siamo come sposati” continuò. “Anzi, siamo sposati. Stiamo sempre insieme, a parte quando io sono a Bologna all’università. Lui mi raggiunge spesso, dopo il lavoro. Dormiamo insieme e al mattino presto lui esce per tornare a Ravenna, nell’ufficio del sindacato.”
Jimi guardava davanti sé, nella notte stellata, la massa oscura della pinetina al di là della veranda. Soffiava il fumo della sigaretta che tremolava nervoso nell’aria gelida. “Ne parliamo spesso, con le compagne, durante i meeting. Critichiamo questa contraddizione tra la battaglia per emancipare noi stesse dal potere dell’uomo, che per quanto si dichiari comunista alla sera pretende il rilassamento del guerriero per poi girarsi dall’altra parte e ronfare come un orso. Siamo le compagne, siamo le fidanzate, in un rapporto chiuso e reazionario. Capisci?”
Fidanzamento? Non era pratico.
“Insomma, benché abbiamo fatto nostro lo slogan che il personale è politico, in realtà i due piani continuano a essere distinti. E in conflitto.”
Jimi respirò una boccata di aria fresca e spense la sigaretta. Non aveva nulla da dire. Di sicuro non desiderava consolarla.
“Otto anni” disse Milonga, sottovoce. “Una vita.”
Gli piaceva il suo profilo, il suo naso piccolo, il viso rotondo incorniciato dai capelli lisci. Per la prima volta erano soli, dopo innumerevoli incroci di sguardi e chiacchierate a bassa voce dietro ai tavoli dei ristoranti.
“E tu Jimi? Sei fidanzato?” chiese, con un sorriso allusivo. Sapeva bene che non lo era.
“Ehm, no. Ora no.”
Chissà, forse lo disse con un tono impacciato e buffo, perché lei rise e gli sferrò un pugno nello stomaco che lo fece piegare in due, più che altro per la sorpresa. E si trovò a pochi centimetri dalla sua faccia. Allora l’abbracciò, la strinse e le loro bocche si unirono.

[Le foto pubblicate appartengono a una documentazione sulle subculture giovanili realizzata da Mauro Baldrati tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, inserita nel libro]

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Sei stato gotico, Giovanni https://www.carmillaonline.com/2025/04/05/sei-stato-gotico-giovanni/ Sat, 05 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87738 di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del [...]]]> di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del resto riconosciuto da Fabio Camilletti e altri cultori del genere. Gotico nelle dinamiche – un protagonista orfano e smarrito come certe titubanti madamigelle radcliffiane, una magione misteriosa dal sentor di castello con misteriosi scricchiolii notturni, uno zio finto-buono detentore di loschi segreti e manipolatore patologico (un po’ alla Silas), una zia di conclamata ingenuità, la sua matura domestica “storta e minuta” che borbottando offre imbeccate al protagonista, un pazzo recluso in una stanza a imitare un serpente con lingua dardeggiante, il tema del malato che succhia il sangue dei vivi, uno spioncino per occhieggiare come voyeur, un gioco torbido di doppi, un’identità nascosta, un rondò straniante tra bene e male, una donna di vita legata come in un dungeon, figure umbratili che si consumano nottetempo nella dispersione del gioco d’azzardo… e una conclusione raggelante –, il romanzo è però anche gotico nell’ambiguità d’ambiente.

Il romanzo esce per Mondadori nel 1966. Una decina d’anni dopo, Dino Risi ne trae un film (1977), lo dota di interpreti straordinari (Gassman, Deneuve) ma sposta la vicenda a Venezia, tradendo uno dei connotati di base, una sorta di meta-personaggio retrostante la vicenda: la Torino appiccicosa e avvizzita del caldo di luglio dei primi anni sessanta in cui il narrante diciassettenne Tino, orfano e reduce dal collegio, giunge per gli esami di maturità classica nella palazzina signorile oltre Po degli abbienti zii Calandra. Si attende con ebbrezza la città vitalistica del boom e di Italia ’61, delle fabbriche e delle automobili – e tra zabaglioni, caffè ben zuccherati e calmanti (l’ormai obsoleta simpamina) si trova invece in uno spazio appartato, impenetrabile e onirico più simile alle dimore dei quadri di Italo Cremona e del gruppo Surfanta. Un finto, lieto candore regna nella casa asfittica, claustrofobica e omertosa dove la zia Galla si sdilinquisce per il coniuge ingegnere tanto buono: mostruosamente, morbosamente buono nell’accudire da solo il fratello “professore” impazzito in Africa e recluso come la Bertha Mason di Jane Eyre… procurandogli periodicamente persino una prostituta per offrirgli qualche soddisfazione fisica, nella comprensione aureolante e nelle ampie vedute da modernità subalpina della devota (e ricca) moglie. La casa – un dedalo di stanze aperte o chiuse, di corridoi, di passaggi dalle scale per occhieggiare – e la città rappresentano forse gli oggetti più geniali di questo romanzo, a trapiantare l’intera vicenda nell’onirico e le sensazioni di Tino in una risacca di emozioni insieme collose e inquietanti. “Tutto s’è consumato in questa notte, dal momento in cui il Duca e il cameriere Luigi hanno ricondotto di peso a casa l’ingegner Calandra, o forse soltanto il suo spettro”.

Attraverso una straniata catabasi in un mondo di perplessa fascinazione, dove le pellicole demenziali girate dal Professore rilasciano un sapore diffuso di non-senso e di spettacolo del farlocco, tutto precipita verso una conclusione dove il sordido e il degradato prevalgono persino sul tema in sé della follia. Sordido e degradato velati dalla quinta rispettabile di un decoro molto piemontese: e Tino vi troverà la sua traumatica iniziazione alla realtà – un esame di maturità per lui ben più crudo di quello consumato in sottotono nelle aule scolastiche. Una discesa agli inferi che tuttavia sembrerà lasciarlo prostrato: la storia di formazione si conclude in sostanza con un fallimento – a meno che non si consideri successo una traumatica iniziazione al dubbio degli adulti. Fallimento individuale, del resto, nel caso di Tino ma collettivo nell’affresco della canonizzata borghesia dell’ossequiato Ingegnere – di nome oltretutto Serafino, come esponente d’una gerarchia angelica – nella capitale della Fiat.

Forte di una scrittura straordinaria – dove tutto si regge grazie a un equilibrio stilistico scintillante, una scelta affilata del lessico, e una costruzione maliziosamente brillante del tragicomico, Un’anima persa finisce con l’offrire un quadro disperato che non si esaurisce nel follia ombelicocentrica del singolo ma in silenzi, maschere e derive interpella crudelmente la facciata di un intero mondo. Lorenzo Mondo scrisse che Un’anima persa era il romanzo più torinese tra quelli pubblicati fino a quel momento da Giovanni Arpino: dove l’ex capitale Torino mostra un suo volto misterioso e nero – gotico, appunto – non di satanismi d’accatto ma di ambiguità e finzioni d’un intero assetto sociale.

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Elogio dell’ideologia https://www.carmillaonline.com/2025/04/04/elogio-dellideologia/ Fri, 04 Apr 2025 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87567 di Pietro Garbarino

Una delle definizioni che si danno del termine “ideologia” è quella secondo cui per essa si intende “il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale”.

Si potrebbe anche aggiungere, a tale larga definizione, anche l’identificazione di una certa ideologia come riferita ad un determinato momento storico più o meno ampio; si potrebbe anche individuare il “gruppo sociale” sopra menzionato con la collettività dei cittadini di un ente politico, come lo stato nazionale.

Ma tutto ciò non toglie nulla al fatto che si tratti di un complesso di elementi che condizionano la cultura [...]]]> di Pietro Garbarino

Una delle definizioni che si danno del termine “ideologia” è quella secondo cui per essa si intende “il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale”.

Si potrebbe anche aggiungere, a tale larga definizione, anche l’identificazione di una certa ideologia come riferita ad un determinato momento storico più o meno ampio; si potrebbe anche individuare il “gruppo sociale” sopra menzionato con la collettività dei cittadini di un ente politico, come lo stato nazionale.

Ma tutto ciò non toglie nulla al fatto che si tratti di un complesso di elementi che condizionano la cultura di ogni persona ma che non necessariamente, devono coincidere, ma possono diversificarsi a seconda del livello culturale individuale.

Direi di più; tanto più gli accenti e le motivazioni sono diversificati, tanto più risultano caratterizzati democraticamente, ma ad una condizione, e cioè che si abbia un minimo denominatore valoriale comune.

In tal caso si potrebbe parlare di “ideologia democratica” intesa come senso comune tendente al rispetto del cittadino e delle sue libertà e, sotto tale profilo, si ritiene che nessuno possa essere reso differente da quel termine.

Tuttavia, da diversi decenni a questa parte, l’ideologia è considerata un termine di contenuto negativo, ed è entrata nel novero delle “parolacce” escluse dal politically correct.

Ma, se consideriamo la definizione che abbiamo richiamato in precedenza, non sembra proprio che quella parola debba avere significati così riprovevoli.

Ed allora sarà necessario svolgere alcune considerazioni sul fatto che certi vocaboli, col tempo e nel variare dei contesti socio-politici, possono mutare di significato nella percezione comune.

Ad esempio il concetto di nazione, se usato propriamente per indicare, come si legge nei libri di scuola, un territorio, una collettività di persone, una storia e una volontà culturale, non assume un significato chiuso e aggressivo.

Qualora si utilizzi quel termine, invece, in termini di contrapposizione rivendicativa nei confronti di altre nazionalità, allora il significato cambia e diviene foriero di conflitti; cioè diviene nazionalismo.

Ma anche lo stesso concetto di patria, originariamente inteso come la terra delle proprie origini, può essere utilizzato come rivendicazione nazionalistica, con grave rischio della pace tra i popoli.

Dunque, anche l’ideologia, complici alcune circostanze di carattere storico e geo-politico, ha subito quella distorsione.

E allora cerchiamo di riportare quel concetto nel suo alveo naturale e più oggettivo.

Chi si fa promotore, si identifica o segue una certa ideologia, lo fa in quanto ha nella propria mente un certo disegno di come vorrebbe il mondo, i rapporti individuali e sociali, la organizzazione di una società, gli obiettivi da raggiungere.

Ad esempio, il cristiano-cattolico, desidererebbe una società ispirata alla dottrina sociale e religiosa della chiesa romana, e perciò sottoposta a quei principi morali e alla professione di quella fede.

Chi si professa anarchico vorrebbe una società di uomini liberi e uguali, senza l’assoggettamento a soggetti economici, a regole statali e a precetti religiosi.

Ebbene entrambe le ipotesi, ben diverse tra loro, che abbiamo indicato possono essere considerate, sulla scorta della definizione data all’inizio di questo modesto scritto, delle ideologie.

Ma cosa c’è di riprovevole nell’ipotesi di definizione dell’ideologia cui si è, nell’incipit, fatto cenno?

Che cosa possiamo trovare di sconveniente o negativo, in un contesto di società democratica dove vigono i principi dell’uguaglianza, della libertà, della solidarietà, nella pratica di tali ideologie da parte di coloro che le professano?

E qui entra in gioco il fatto che ciascuno di noi ha, o dovrebbe avere, una propria etica, delle finalità, delle aspirazioni.

E dunque purché tale etica, finalità o aspirazioni siano in qualche modo coerenti con i principi di uguaglianza, libertà e solidarietà, qualsiasi impostazione ideologica compatibile con esse, è non solo conforme, ma addirittura utile proprio per la realizzazione, anche concreta, di quei principi.

Infatti, nell’ambito di tale combinazione, l’ideologia di ciascuno segue o alla quale aderisce, assume il significato di una pulsione ideale, oltre che morale, e conferma pertanto una dimensione etica all’attività dell’uomo.

E ciò sarà tanto più valido e positivo quanto più tali dimensioni etiche, che possono anche essere tra loro differenti, si potranno identificare in quei principi sommari della democrazia, che non abbiamo inventato noi oggi, ma che vigono niente meno che dalla fine del 1700.

Il pericolo dal quale guardarsi è invece quella della manipolazione dell’ideologia in un pensiero unico che, in tempi passati, è stato realizzato con la repressione e forme di stato oppressivo e autoritario, e che oggi viene realizzato con forme più sofisticate, come la concentrazione dei poteri sul governo politico, la concentrazione delle testate giornalistiche, la induzione forzata a certi consumi, l’abbassamento del livello culturale complessivo.

Oggi talune ideologie dominanti tendono ad accreditarsi come se fossero teorie scientifiche descrittive e, nello stesso tempo, accusano le altrui posizioni descrittive come viziate da pregiudizi ideologici, in tal modo confondendo i rispettivi livelli concettuali. Nel caso dell’uguaglianza, il fatto sembra evidentissimo: l’ideologia neoliberista afferma, come se fosse una teoria scientifica, che la disuguaglianza fa bene a tutti, e attacca come ideologicizzati (e cioè non scientifici) gli studi che descrivono le disuguaglianze esistenti e i loro effetti nefasti.

E da quelle insidie, oggi assai diffuse e perfino viste con benevolenza da diversi governi, anche nell’ambito dell’Unione Europea, che bisogna guardarsi e anche combattere per l’abbandono di siffatte tendenze.

Qualora ciò avvenga, non ci sarà più il pericolo che qualsiasi individuo, che si dichiari professante di un’ideologia, possa essere scambiato o additato come uno squallido propagandista.

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Università, saperi critici, militarizzazione. Una proposta di discussione dell’antropologia italiana a partire dalla questione palestinese https://www.carmillaonline.com/2025/04/04/universita-saperi-critici-militarizzazione-una-proposta-di-discussione-dellantropologia-italiana-a-partire-dalla-questione-palestinese/ Thu, 03 Apr 2025 22:02:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87773 di AntropologƏ per la Palestina

Nel momento in cui si realizzi che tutte le istituzioni risultano funzionali al nostro sistema economico, si giunge ad una presa di coscienza successiva che potrebbe definirsi il momento della razionalizzazione politica. Infatti, nel loro essere funzionali al sistema, le istituzioni si rivelano direttamente legate ai valori della classe dominante che le crea e le determina, dimostrando come la loro funzione consista essenzialmente nel mantenimento di questi valori e nel garantirne l’efficacia nella manipolazione di un’intera società. L’azione che si vuole attuare in un’istituzione funzionale al sistema non può quindi limitarsi ad un [...]]]> di AntropologƏ per la Palestina

Nel momento in cui si realizzi che tutte le istituzioni risultano funzionali al nostro sistema economico, si giunge ad una presa di coscienza successiva che potrebbe definirsi il momento della razionalizzazione politica. Infatti, nel loro essere funzionali al sistema, le istituzioni si rivelano direttamente legate ai valori della classe dominante che le crea e le determina, dimostrando come la loro funzione consista essenzialmente nel mantenimento di questi valori e nel garantirne l’efficacia nella manipolazione di un’intera società. L’azione che si vuole attuare in un’istituzione funzionale al sistema non può quindi limitarsi ad un semplice capovolgimento umanitario della situazione specifica, ma dovrebbe agire all’interno della funzionalità dell’istituzione nei confronti del sistema stesso (Franco Basaglia, L’utopia della realtà, p. 176)

 

Come AntropologƏ per la Palestina, un collettivo di docenti/ricercatori/ricercatrici di Antropologia Culturale, abbiamo organizzato una due giorni a Siena (11 e 12 Aprile: qui il programma) dal titolo “L’antropologia di fronte al genocidio. Giornate di studio in solidarietà con il popolo palestinese”. Abbiamo scelto una formula che ci sembra in grado di rompere l’opposizione fittizia tra teoria e pratica (politica), che è alla base dell’altrettanto fittizia “neutralità” scientifica. Nella prima giornata parliamo di accaparramento delle terre e sfide epistemologiche relative alla questione palestinese con la partecipazione, tra gli altri, di Ruba Salih (Università di Bologna), Rema Hammami (Università di Birzeit), Noureddine Amara (Università di Zurigo),  Mahmoud Hawari (Università di Birzeit), Hafsa Marragh (Università di Napoli L’Orientale), Izzeddin Araj (Università di Ginevra) e Ziad Medouck (Al Aqsa University).  Mentre nella seconda giornata, che si concluderà con un laboratorio sul cinema palestinese ed alcune testimonianze da Gaza, abbiamo proposto la mattina una discussione assembleare del comparto “istruzione”, dal titolo “Militarizzazione della ricerca e dell’istruzione e silenziamento dei saperi critici: quali direzioni, quali resistenze?”. L’obiettivo è quello di un dialogo tra docenti di ogni ordine e grado, organizzazioni studentesche, realtà organizzate del mondo dell’istruzione, sindacati, rispetto a quello che la questione palestinese, l’accelerazione della tendenza alla guerra, i tentativi di “disciplinamento” dell’istruzione, comportano per il mondo della scuola e dell’università e quali strumenti ci diamo per il controllo e l’opposizione a questi processi.

Diversi mesi fa avevamo ritenuto opportuno intervenire nel dibattito pubblico  rispetto a quello che sta accadendo in Palestina, che si differenzia soltanto per grado, e non certo per natura, con quello che in quella terra accade dal 1948: un genocidio che passa per la costante espropriazione della terra, delle risorse e delle possibilità stesse di residenza dei palestinesi; una continuità che solo uno sguardo razzista e coloniale può occultare eleggendo il 7 ottobre del 2023 a origine di tutto, negando la storia, la cultura, l’umanità e la sofferenza dell’altro.  Decidemmo di scrivere un appello mentre i nostri tentativi di assumere il boicottaggio accademico in maniera ufficiale furono ampiamente ostacolate dalle organizzazioni di categoria.

Se nelle strade, rispetto al solito “ceto politico” o “di movimento”, si produceva una promettente eccedenza di mobilitazione, la questione palestinese avanzava sempre più come tema all’interno delle università, grazie all’impegno di organizzazioni studentesche che hanno sostenuto presidi, prodotto materiali, e costretto le istituzioni accademiche a scegliere tra il confronto aperto o la esplicita repressione. La questione palestinese era il punto di caduta di altre problematiche del settore istruzione, il cui rischio è di assomigliare a quello israeliano.

La traduzione in Italia del libro Torri d’avorio e di acciaio di Maya Wind condensava tutte le complicità delle università Israeliane con il colonialismo e il suo progetto genocida (appoggio visibile sin dalla visita alle home page di queste istituzioni):  da un lato, nei termini di come i saperi (archeologia, storia, scienze sociali) prodotti al loro interno creassero l’ulteriore patina ideologica per l’avanzata del progetto israeliano; dall’altro, sul livello del supporto all’industria bellica:  le università israeliane hanno stabilito dei programmi con aziende leader nel settore militare (Iai, Rafael, Elbit) che progettano gli F-16, i carri armati Merkava, gli elicotteri apache usati in tutte le recenti campagne militari contro la striscia di Gaza (2008-2009, 2012, 2014, 2021), puntualmente sanzionate come “crimini di guerra” dal consiglio ONU per i diritti umani. Queste aziende prontamente ricambiano con cospicue borse di studio, posti di lavoro garantiti come sbocco agli studenti e centinaia di migliaia di dollari per la ricerca (inutile sottolineare in che direzione…). Se il primo problema da porsi era dunque quello degli accordi di collaborazione delle nostre istituzioni accademiche con università israeliane direttamente coinvolte nell’oppressione dei palestinesi, come non temere, contestualmente, che questi approcci possano essere dei modelli accattivanti per la nostra università sempre più definanziata e colpita dai tagli al fondo ordinario del luglio 2024 e dalla nuova riforma sul preruolo dell’agosto successivo? Iniziava a irrompere nel dibattito pubblico, anche grazie alla pubblicazione di “università e militarsimo” di Michele Lancione, il tema delrapporto tra università e la filiera bellica: il Legame con Leonardo S.p.a., il ruolo della fondazione Med-Or, le dinamiche di accordo con pezzi dell’esercito, nonché le infinite possibilità determinate dal cosiddetto “dual use”, ovvero la possibilità che le tecnologie (ma anche le etnografie) sviluppate da ricercatori e dipartimenti scientifici possono essere utilizzate sia per usi militari che per usi civili.

In parallelo si amplificava un livello di “disciplinamento”  del personale accademico rispetto a quanto già visto nelle precedenti crisi: a livello internazionale Ghassan Hage viene licenziato dal Max Plank Institute per alcune sue affermazioni sulla questione Palestinese, una feroce campagna mediatica viene avviata contro Luciano Vasapollo per aver espresso l’idea che Israele fosse uno stato terrorista, in diverse occasioni incontri che contengono il termine “genocidio” vengono vietati, nonostante le disposizioni di diversi organi di giustizia internazionale, e nonostante la costante aggiunta di migliaia di morti al macabro conteggio, i feriti gravi, i mutilati e un orrore israeliano arrivato a denudare e legare il personale degli ospedali, bruciare tende con bambini, sparare sul personale sanitario, e, soprattutto, parlare pubblicamente della volontà di deportazione di massa dei palestinesi altrove.

Gli accadimenti più recenti non descrivono un cambio di tendenza, ma anzi confermano la complessità e la pericolosità della fase storica che stiamo attraversando: se negli Stati Uniti sono partite direttive per il divieto di alcune espressioni e temi di ricerca, accompagnate alle persecuzioni di coloro che si erano attivati per la questione palestinese, le cose da noi non vanno certo meglio. Le recenti linee guida per la scuola primaria propongono una visione di suprematismo europeo (gli unici a conoscere la storia e la libertà), mentre si propone di sottoporre le strutture universitarie e della pubblica amministrazione all’obbligo di fornire informazioni ai servizi segreti su student_ e docenti, sancendo materialmente e simbolicamente la negazione dell’autonomia dell’università. Difficile immaginare che queste intimidazioni non abbiano processualità reale, soprattutto in un mondo trasformato in lavoro ad alto livello di precarietà e, dunque, di ricattabilità. Lo scorso 22 marzo ad un convegno sull’università organizzato da Cambiare Rotta, Tommaso Montanari ha posto la seguente e sacrosanta domanda “Come è possibile difendere l’università come luogo del sapere critico se è un sistema basato sullo schiavismo?”. Bisogna immaginarci una università diversa, la cui funzione sociale sia invertita rispetto alla mera partecipazione ai processi di valorizzazione e alla produzione di soggettività utili solamente a svolgere compiti specifici nella grande catena di montaggio sociale. Noi non vogliamo tirarci indietro dalla responsabilità di dover svolgere un ruolo, costruendo saperi diversi, antagonisti, anticoloniali, che possano nascere e calarsi immediatamente sul piano delle pratiche.

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