Testi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 04 Jan 2025 21:07:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marte distruggerà la Terra / Guerre stellari preventive https://www.carmillaonline.com/2024/08/26/marte-distruggera-la-terra-guerre-stellari-preventive/ Sun, 25 Aug 2024 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83897 di Valerio Evangelisti

[Viene di seguito riproposto un racconto di Valerio Evangelisti pubblicato su “Carmilla online” il 26 Agosto 2003 (Marte distruggerà la Terra) ed uscito originariamente su “Il manifesto” il 17 agosto 2003 (Guerre stellari preventive)]

«Ci hanno ingannati sistematicamente, per quasi un cinquantennio. Sono riusciti a sfuggire alle nostre ricerche, hanno eluso le ispezioni, hanno fornito immagini artefatte.» Il segretario alla Difesa Burke era tutto sudato mentre, al termine di un discorso di un’ora e mezzo corredato da riprese satellitari, fotografie e mappe, menava di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’affondo decisivo. «Perché [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Viene di seguito riproposto un racconto di Valerio Evangelisti pubblicato su “Carmilla online” il 26 Agosto 2003 (Marte distruggerà la Terra) ed uscito originariamente su “Il manifesto” il 17 agosto 2003 (Guerre stellari preventive)]

«Ci hanno ingannati sistematicamente, per quasi un cinquantennio. Sono riusciti a sfuggire alle nostre ricerche, hanno eluso le ispezioni, hanno fornito immagini artefatte.» Il segretario alla Difesa Burke era tutto sudato mentre, al termine di un discorso di un’ora e mezzo corredato da riprese satellitari, fotografie e mappe, menava di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’affondo decisivo. «Perché tanto accanimento nella menzogna? Perché una cortina fumogena così impressionante? Non c’è che una risposta logica. Non volevano farci sapere quale potenza avevano accumulato nelle loro grinfie. E a quale scopo?»
Il rappresentante della Russia guardò l’orologio. «Ce lo dica lei, signor Burke. Noi abbiamo pazientato abbastanza. Venga alle conclusioni.»
Burke trasse dal taschino un fazzoletto e se lo passò sul faccione nero. Oltre a essere affaticato, era incollerito dal palese scetticismo degli astanti. «Le conclusioni? Sono presto dette. Dobbiamo intervenire, e subito. Altrimenti Marte distruggerà la terra.»

Ci fu un lungo silenzio, mentre i consiglieri si guardavano increduli. Poi il rappresentante della Francia si alzò in piedi, afferrò il rapporto che aveva in mano e lo sbatté sul banco. «È pazzesco. Semplicemente pazzesco. Quell’uomo ci prende per idioti. Ma io ne ho abbastanza di questa farsa. Me ne vado.»
Burke fece una risatina sardonica, che però risentiva della fatica per la battaglia sostenuta. «Noto che il mio collega Rousselet non si convince nemmeno di fronte all’evidenza. Ha visto le foto e i filmati. Non riesco a capire perché metta in dubbio con tanta arroganza la buona fede degli Stati Uniti e la mia personale. Mi dia un buon motivo.»
Rousselet era già lontano dal proprio banco. Si chinò su quello del collega cinese e si servì del suo microfono. «Il motivo è uno solo. Su Marte non c’è vita. Proprio le sonde americane ce lo hanno dimostrato, e così le osservazioni al telescopio, più ogni altro dato scientifico disponibile. Dove sarebbero i marziani che dovremmo temere tanto?»
Vi fu un brusio che crebbe di intensità. Burke, ormai fradicio di sudore, afferrò il proprio microfono con due mani. «Si nascondono nei canali!» vi urlò dentro. «Marte è tutto solcato da canali!»
Scoppiò un putiferio. Rousselet alzò le spalle e lasciò la sala. Il rappresentante cinese si rivolse alla presidenza. «Prego il segretario Mubele di indagare se il signor Burke ci ha offerto questa recita assurda di iniziativa propria, o se parla per davvero a nome del presidente degli Stati Uniti. In quest’aula nessuno crede a una sola parola di quello che ci ha detto.»
«Io ci credo.» Era stato il posato sir Jeremy Rollins, incaricato degli affari esteri della Gran Bretagna, a pronunciare quella fase. Cadde un silenzio esterrefatto. «Il governo britannico ha prove del tutto analoghe a quelle illustrate dal signor Burke. I marziani esistono, e sono cattivi. O si agisce in fretta, o sono in grado di distruggere la terra in appena 45 minuti.»

Ne avevo abbastanza delle cautele e delle frasi elusive del professor Steven O’Bannion. Sono un uomo d’azione, e il solo vedere uno scienziato che se ne sta in poltrona tutto il santo giorno, a leggere rapporti o a guardare dentro un telescopio, mi fa prudere le mani. O’Bannion, poi, aveva occhialetti, pizzo, naso lungo e orecchie a sventola, per non dire delle spalle rachitiche e della posa da gobbo. Il più brutto e sgradevole dei nostri consulenti a Greenwich.
Poiché seguitava a tentennare, feci ricorso alla lealtà di partito. «Ascolti, professore. Lei sa che il Labour Party è in crisi profonda. La base si ribella, un terzo dei parlamentari non obbedisce più. Lei è laburista da sempre. Ha letto gli ultimi sondaggi? Guardi qua…»
Frugai in tasca alla ricerca di un articolo di giornale che sapevo di non avere. Stavo comunque dicendo la verità. La base laburista aveva mal digerito, ai tempi del governo Blair, la proposta di privatizzare le prigioni e gli orfanotrofi. Adesso che il nuovo premier Gideon suggeriva di unificare le due amministrazioni, mettendo gli orfani in prigione, era rivolta aperta in tutto il Regno Unito. I sondaggi gli attribuivano un grado di popolarità inferiore al 2%.
«Ora non trovo l’articolo» continuai, dopo avere frugato un poco «ma sono cose che sa anche lei. Vogliamo ritrovarci sotto un governo conservatore? E’ un destino che non vorrei per i miei figli, se ne avessi. Lei ne ha. Pensi a loro.»
O’Bannion torse le mani scheletriche, che gli avrei spezzato volentieri. Piagnucolò: «Mi chiedete una cosa impossibile! Quando ho sentito sir Rollins parlare al Consiglio di Sicurezza, ho pensato che si fondasse su prove che possedeva già. Poco verosimili, però con una qualche base documentaria. Mai avrei immaginato che vi sareste rivolti a me per fabbricarle!»
«”Fabbricarle” non è il termine giusto» lo corressi, severo. «Guardi che mi sono documentato. Di prove ne esistono a bizzeffe. Magari dimenticate, magari finite in un trafiletto secondario di una rivista di divulgazione scientifica. Del resto, le pare che il segretario alla Difesa della più grande potenza mondiale possa parlare a vanvera? Che si presenti davanti al Consiglio di Sicurezza e spari la prima balla che gli viene in mente? Via, non scherziamo. Quando parla un uomo così, lo fa davanti al mondo.»
«Infatti il mondo sta ancora ridendo.»
«Lei si sbaglia, professore. Già molti paesi, oltre al Regno Unito, reclamano una guerra preventiva contro Marte.» Elencai quelli che mi venivano in mente. «L’Estonia, la Liberia, l’Italia, il Sultanato del Brunei, la Repubblica di Aruba.»
O’Bannion strabuzzò quei suoi occhi vacui. «La Repubblica di Aruba? Che cosa sarebbe?»
«Fino all’anno scorso era un governatorato olandese. Adesso è uno Stato indipendente. Paese piccolo, ma importante per il turismo.»
Notai che lo scienziato rimaneva scettico. Era il momento di passare alle maniere forti. Lo feci con gusto. «Mi ascolti bene, professore. Lei lavora per l’MI6 già da quindici anni. Deve a noi la carriera e la posizione che ricopre ora. E’ tempo di ricambiare tutto ciò che abbiamo fatto per lei. Che cosa le chiediamo, in fondo? Solo di dimostrare che su Marte ci sono i marziani, a tramare nei loro canali la conquista della terra. Sarebbe un peccato se, dopo averla allevata nella bambagia, ci vedessimo costretti a toglierle tutto ciò che ha.»
Lo vidi impallidire. Buon segno. «Ma su Marte non ci sono né canali né forme di vita! Dove vado a trovare le prove che vi servono?»
«Glielo devo dire io?» Feci l’occhiolino. «Lei avrà pure dei colleghi americani che lavorano per il governo, no? Ecco, se fossi in lei non starei tanto a faticare. Le prove le chiederei a loro.»

Ralph Rupert, dell’osservatorio di Monte Palomar, stava sorseggiando una birra Colt 45, più alcolica di un bourbon, e intanto guardava la tv. Il presidente Bruce Maynard spiegava da quasi un’ora come distruggere i marziani fosse nell’interesse dei marziani stessi: per ciò che si sapeva della loro società, vivevano sotto un’orrenda dittatura colpevole di quotidiane violazioni dei diritti umani. Disse proprio così: “diritti umani”. Rupert ammirò la sottigliezza dello staff che scriveva i discorsi del presidente. Se avesse parlato di “diritti marziani”, l’impatto emotivo sui telespettatori sarebbe stato molto minore.
Il telefono prese a squillare, e Rupert si precipitò a sollevare la cornetta. Sperava che fosse la bella Astrid, la ricercatrice a cui faceva la corte da una settimana circa. Invece era quell’insopportabile lagnoso di O’Bannion, che lo chiamava da Greenwich. Pazienza: una volta detto il proprio nome, era impossibile riattaccare.
Per un poco, Rupert ascoltò il collega. Quindi disse: «Steven, so che tutta la questione sembra puro delirio. Però il presidente Maynard ha appena confermato le parole del segretario Burke, punto per punto. Ha anche aggiunto del suo. Il vostro premier può anche mentire in pubblico, ma il nostro presidente no. Sai cosa è capitato ai suoi predecessori che lo hanno fatto. Maynard è certo mezzo scemo, ma non è un disonesto e parla col cuore. Tutta l’America è con lui. Ciò significa una cosa sola: noi astronomi ci eravamo sbagliati. E così i nostri colleghi che si sono occupati di Marte.»
Rupert rimase in attesa per udire la replica dell’interlocutore, che fu lunga. Alla fine sbuffò. «Parliamoci chiaro, Steven. In fondo cosa sappiamo di Marte? Quanti metri quadrati hanno percorso le nostre sonde? Nota: parlo di metri quadrati! D’accordo, ci sono le foto dall’alto e non mostrano nessun canale. Be’, potrebbe trattarsi di canaletti. Credi che un qualche satellite sarebbe capace di fotografare il rigagnolo che irriga il tuo giardino di casa? Magari sì, ma non se ne prenderebbe la briga. La verità è che noi i canali non li abbiamo mai cercati sul serio, e nemmeno i marziani. Chi pensava che se ne stessero nascosti nei loro fiumiciattoli, con gli occhi avidi da insetto puntati sulla terra? Eppure, chissà da quanto tempo ci spiavano.»
Altra pausa, e nuova risposta di Rupert. «Mi ha contattato solo la National Security Agency, ai massimi livelli. Voleva sapere qual era l’aspetto presumibile dei marziani. Non ho la mia relazione sotto mano, ma ho detto che si poteva scartare tutta la fauna di John Carter di Marte, di Edgar Rice Burroughs. Giganti e bestie alti tre o quattro metri li avremmo visti. Meglio le creature piccole e ripugnanti de La guerra dei mondi, di H.G. Welles. Però hanno macchine enormi, e avremmo visto anche quelle. Più credibili le creature di Cronache marziane, di Ray Bradbury. Fantasmi di una razza perduta, che manipolano i ricordi degli uomini. Il problema è che robe così non sembrano una gran minaccia…»
Fu tanta la veemenza dell’obiezione che Rupert dovette staccare la cornetta dall’orecchio. Gli cadde persino la lattina di birra. Quando riuscì a parlare di nuovo, era ormai esasperato. «Lo so anch’io che quella è narrativa! Ma se mi chiedono una tipologia del marziano medio, dove la trovo? Solo nella fantascienza, libri e cinema. Meglio il cinema: da un certo momento in poi si è fatto strada il preconcetto che su Marte non ci fosse vita, e gli scrittori ne hanno parlato sempre meno. A chi potevano interessare quattro sassi sotto un cielo rosa? Per fortuna il cinema è andato avanti col tema qualche anno in più. Sai quanti film scadenti mi sono visto, nelle ultime settimane? Tutta l’idea che ancora ci facciamo di Marte come pianeta rosso e vivo viene da lì.»
Rupert ascoltò il commento di O’Bannion, e finalmente sorrise. «Vedo che capisci. Bene, per la tua relazione guardati tutti i film che puoi, eccetto Mars attacks, che è demistificante e induce al disfattismo. Dimentica invece ufo, rapimenti da parte di alieni e cerchi nel grano. Fanno riferimento a pianeti molto più lontani… Lo vuoi un consiglio da amico? Per la parte astronomica del rapporto, punta sulla cosiddetta Sfinge di Marte. E’ un viso femminile. Senz’altro un omaggio a una qualche regina tirannica. Sì, abbiamo detto che si trattava di un gioco di ombre e di luci su montagne di pietre e sabbia. Allora però non sapevamo che i marziani esistevano per davvero.»
Ultimo silenzio, mentre ci si avviava al congedo. «Sì, Steven. Anch’io ho pensato a una scena simile. La Sfinge che crolla, colpita dai nostri missili, mentre i marzianini fanno festa e celebrano la libertà ritrovata. Prima che altri missili arrivino. Una bella immagine per chiudere il tuo rapporto… Oh, non ringraziarmi. Tra colleghi ci si aiuta. A presto.»

Già provavo stima per il nostro primo ministro Gideon. Diventò ammirazione sconfinata quando, in tv, lo vidi additare alla Camera dei Comuni un immaginario corpo astrale rosso fuoco e scandire, solenne: «Lassù c’è Marte, il dio della guerra. Per me, uomo di lotta, ha sempre avuto un’attrazione irresistibile. Abbattere Marte, ci pensate? Quale compito più degno può unire il popolo britannico e il popolo americano? Ditemi voi: quale?»
Pochi riconobbero un passo del rapporto segreto di O’Bannion, a sua volta ricalcato sulle prime righe di John Carter di Marte. Gideon raccolse il primo applauso scrosciante dopo mesi di fischi ininterrotti. La sua proposta di privatizzare le amministrazioni municipali e di vendere la carica di sindaco al maggior offerente aveva scontentato molti, dentro e fuori il partito. Ma adesso, con la guerra ai marziani imminente, la popolarità del premier nei sondaggi stava risalendo. Aveva già superato il 6%, e continuava a crescere.
Come uomo dei servizi segreti non avevo più molto da fare, a parte scovare eventuali agenti filomarziani nei ranghi dell’esercito o nei ministeri (ne trovai pochissimi). L’unico incarico di rilievo fu spingere O’Bannion a impiccarsi, dopo la consegna del suo rapporto. Si temeva che potesse rivelare a qualche ficcanaso della BBC che aveva ricevuto l’imbeccata da noi e che si era basato su romanzi e film, sulla traccia di una bibliografia fornita da Monte Palomar. Poiché O’Bannion non collaborava lo impiccai io stesso, nel giardino di casa sua. Odio gli scienziati.
Forse fu inutile, perché la BBC si comportò assai bene, specie dopo che il governo Gideon l’ebbe venduta al gruppo Fox. Di continuo ritrasmetteva pellicole come La guerra dei mondi, Il vampiro del pianeta rosso e, soprattutto, Marte distruggerà la terra. Le immagini finali di quest’ultimo, in cui una specie di asparago con tre occhi bisbigliava truce “Attenti, terrestri, attenti. Siete spiritualmente ed emotivamente infantili. State lontani da noi, altrimenti…” era in coda a tutti i telegiornali. Anche Independence Day funzionava: poiché non si sapeva da dove venissero gli alieni, poteva benissimo trattarsi di Marte.
Intanto la battaglia del segretario Burke al Consiglio di Sicurezza volgeva al peggio. Mi telefonò il capo del MI6 in persona. «Ci sarebbe da fare pressione sulla Repubblica di Aruba. Pare che si sia pentita della propria adesione alla coalizione contro Marte. Gideon e il presidente Maynard stanno per andare là in visita ufficiale. Ti senti di accompagnare la nostra delegazione?»
«Certamente.»

In realtà, scoprii ad Aruba, si trattava di una semplice questione di quattrini, facile da risolvere. «E’ vero» sentii dire il presidente Maynard, stravaccato in una sedia a sdraio sulla spiaggia, sotto un ombrellone a stelle e strisce. «Il veicolo che abbiamo studiato per fare scoppiare Marte richiede una quantità spaventosa di combustibile. Ci siamo voluti ispirare ad H.G. Wells: per questo avrà la forma di un grande cilindro. Per sparare in aria una cosa così serve un bel po’ di carburante, e ancora di più ne occorre per mandarla sul bersaglio.»
Io ero in piedi dietro Gideon che, in costume da bagno, esponeva le costole al sole e sorseggiava una granita. Attorno c’erano una ventina di agenti della CIA, tutti in completo nero e camicia bianca. Invece nessuna guardia sorvegliava il presidente di Aruba: un ometto in canottiera, con un berretto da marinaio sulla testa calva.
Pareva molto preoccupato. «Io capisco il primo cilindro, ma non gli altri nove carichi di aiuti umanitari da lanciargli dietro. Per chi sono gli aiuti, visto che si prevede lo sterminio totale dei marziani? Se gli Stati della coalizione devono partecipare alle spese, Aruba rischia la rovina.»
Maynard e Gideon si guardarono e scoppiarono a ridere. Fu l’americano che rispose, appena riuscì a tornare serio: «Il ruolo di Aruba è un altro. Più cilindri spariamo, più soldi vi entreranno in tasca. Qual è la società petrolifera che ha qui il suo più grande deposito al mondo?»
L’arubiano spalancò la bocca, colto da folgorazione: «Volete dire la…»
«Esatto. Quella.» Maynard rise ancora, imitato da Gideon.
L’ometto si batté la mano sulla fronte. «Che stupido! Non ci avevo pensato!… E il consiglio di amministrazione della società è presieduto dal segretario alla Difesa Burke!»
Maynard e Gideon avevano le lacrime agli occhi dal gran ridere. «Bravo! Ci siete arrivato!» dissero quasi assieme.
Adesso anche il presidente di Aruba sghignazzava. «Comincio a pensare che tutta la storia dei marziani e dei canali sia una patacca.»
Maynard e Gideon non riuscirono nemmeno a rispondere, piegati in due com’erano.

Quando tornai nella mia camera d’albergo accesi subito il televisore, sintonizzato sulla BBC, per ascoltare un notiziario. Invece stavano trasmettendo ancora una volta Marte distruggerà la terra. Si era alle battute finali, e l’asparago gigante stava per pronunciare la sua arringa. Lasciai acceso e andai in bagno.
Solo là mi venne in mente che l’asparago che ricordavo io aveva tre occhi, di cui uno in mezzo alla fronte. Quello appena visto ne aveva due, ed era senza antenne. Inoltre nel film originale le scene su Marte erano colorate di rosso, non di verde scuro.
Tornai di corsa davanti al televisore, in tempo per ascoltare la minaccia: «Attenti, terrestri, attenti. Siete spiritualmente ed emotivamente infantili. State lontani da noi, altrimenti Marte distruggerà la terra!» Le parole successive non le avevo mai udite: «Sapete cosa potete fare con i vostri cilindri?»
Udii un coro di grida venire dall’esterno. Corsi sulla terrazza. La spiaggia era piena di gente che, angosciata, guardava il cielo.

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Il professor Wang https://www.carmillaonline.com/2024/07/30/il-professor-wang/ Tue, 30 Jul 2024 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83688 di Giovanni Iozzoli

Non riusciva proprio a ricordare che cattedra occupasse. Cioè, cosa concretamente insegnasse, il dott. Wang F. Ross. Era qualcosa che aveva a che fare con la filosofia, sicuramente, ma a lui non era mai entrato in testa nulla del complicatissimo cursus accademico di suo figlio. Sapeva solo che era diventato un docente importante – un pezzo grosso, diceva ai suoi amici con un filo d’ironia, alludendo al fisico mingherlino del ragazzo -, ma la parte concreta della carriera e della vita del figlio, gli era sempre rimasta più o meno ignota. A diciotto anni il giovanotto aveva preso [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Non riusciva proprio a ricordare che cattedra occupasse. Cioè, cosa concretamente insegnasse, il dott. Wang F. Ross. Era qualcosa che aveva a che fare con la filosofia, sicuramente, ma a lui non era mai entrato in testa nulla del complicatissimo cursus accademico di suo figlio. Sapeva solo che era diventato un docente importante – un pezzo grosso, diceva ai suoi amici con un filo d’ironia, alludendo al fisico mingherlino del ragazzo -, ma la parte concreta della carriera e della vita del figlio, gli era sempre rimasta più o meno ignota. A diciotto anni il giovanotto aveva preso la via del college e poi era partito – testardo, solitario e orgoglioso – a percorrere quella sua insondabile carriera di professorone.

Adesso Mr. Ross guardava un po’ titubante il cartellino sulla porta di mogano. C’era anche una tabella con gli orari dei ricevimenti. Bussare o no? Forse sarebbe stata più opportuna una telefonata, prima della visita? Ormai era tardi per avere ripensamenti. E del resto non c’era niente di disdicevole nel passare a salutare brevemente un figlio sul lavoro.

– Salve, desidera qualcosa? – la voce gracchiante lo fece sussultare, come se lo avessero colto in fallo in una situazione poco chiara.  Era un tizio in pullover, dall’aspetto e dall’accento ispanico, con un faldone o qualcosa del genere sotto al braccio.

– Buongiorno, sono il papà del prof. Wang; sono passato un attimo per un saluto. Posso…?

Il viso dell’uomo si illuminò di un sorriso cordiale.

– Ah, ma certo, lei è il papà del professore… Mr. Ross… mi scusi la riconosco solo ora… è un piacere averla qui. Come va Mr. Ross? Ero un suo grande ammiratore… sta bene?”

– Bene, grazie… posso bussare allora?

– Certo, prego… il professore dovrebbe esserci, si è trattenuto in ufficio e non l’ho ancora visto uscire… si accomodi… se è ancora dentro le aprirà.

– Grazie.

Mr. Ross si decise finalmente a bussare, con un pudico sfioramento di nocche. Per quanto provasse a tranquillizzare le sue ansie, non era ancora sicuro di fare qualcosa di opportuno o di corretto. Il fatto è che là dentro, dietro quella porta, non avrebbe trovato il suo bambino – il piccolo occhialuto, amabile Wang – ma un austero professore, un uomo ancora giovane d’età ma che a tutti dava l’idea di un precoce invecchiamento nello spirito. Non lo vedeva da quattro o cinque mesi – non riusciva neanche a ricordare bene da quando. Forse era passato da loro, a Santa Monica, nel week end del Ringraziamento. Una delle sue solite visite frettolose. Ormai da molti anni avevano smesso di avere un vero e proprio rapporto padre-figlio. Il professore semplicemente faceva la sua vita e non manifestava il minimo interesse per quella dei genitori.

Dall’altra parte della porta nessuno rispondeva. La targhetta Prof. Wang J. Ross stava lì sulla porta, a fissarlo. Filosofia morale: cazzo, ecco cosa insegnava il piccolo Wang. Filosofia morale. Ci aveva scritto anche un paio di libri, che teneva in casa, da qualche parte. E che roba era, la filosofia morale? Boh. Di sicuro non glielo aveva mai chiesto. Non aveva neanche mai aperto i libri scritti dal figlio. Cose ostiche.

Bussò ancora, questa volta in modo più deciso. Quella specie di bidello gli aveva detto che probabilmente il professore era ancora dentro. Appoggiò l’orecchio alla porta. E fu a quel punto che riconobbe la voce antipatica di suo figlio: – chi è? Avanti!

Il tono sembrava infastidito. Aveva un che di metallico, come una voce pre-registrata; e un fondo stridulo, respingente. Era la voce che aveva acquisito nell’adolescenza e che continuava a portarsi dietro nella sua maturità ingrigita. Avrebbe voluto dire qualcosa prima di aprire quella porta, tipo: sono io, tuo padre. Ma gli sembrava inutile e posticcio. Aprì direttamente e si presentò con il suo sorriso più volenteroso.

Infilò dentro la testa prima del corpo e rimase meravigliato. L’ufficio era disadorno e disordinato, ma gli sembrò enorme. Il piccolo Wang era davvero diventato un pezzo grosso, per meritare un simile camerone tutto per sé. La stanza era piena di libri e armadietti che parevano vecchi schedari metallici. E due computer accesi troneggiavano su altrettante scrivanie. Le finestre alte e opache non avevano tende. E in un angolo, seduto ad una delle due scrivanie, un quarantenne dai tratti chiaramente asiatici, lo sguardo miope e un’espressione tra l’ostile e il sorpreso, accoglieva il visitatore senza alcuna cordialità.

– Frank…? Tu? Che ci fai qui?

– Scusa Wang, ti disturbo?  Sono venuto in città per un colloquio di lavoro e ho pensato di farti una sorpresa. Accidenti… che bell’ufficio… vedo che ti sei piazzato bene, qui.

– Non è tutto mio. Lo condivido con gli assistenti… il ricevimento studenti. E altre cose. Hai… hai fatto un buon viaggio? Quando riparti?

Mr. Ross si avvicinava alla scrivania a piccoli passi titubanti, guardandosi intorno, come aspettasse qualche parola di benvenuto che potesse legittimare la sua presenza dentro quella stanza. Ma il prof. Wang continuava a guardarlo con quella sua espressione indecifrabile…

– Sono passato solo per un saluto e scappo all’aeroporto, alle 17 ho il volo. Non ci vediamo mai. Hai mangiato? Ti offro il pranzo, un caffè?

Fu a quel punto che il prof. Wang si alzò – piuttosto bruscamente – e si decise a intercettare suo padre prima che la presenza di quell’intruso nel suo ufficio diventasse troppo invasiva. Lasciò la sua postazione e gli si parò davanti, porgendogli la mano, come avrebbe fatto con un rappresentante di libri o un collega di lavoro. Indossava una giacca elegante e sotto una camicia bianca e linda, senza cravatta.

– La mamma come sta?

– Mah… il solito… lo sai… vi siete parlati qualche giorno fa, no?

– Ti sei rimesso al lavoro, dunque?

– Più che altro sto cercando di capire qualcosa circa un’offerta… una cosa ancora non ben definita… vediamo se diventerà una proposta concreta… intanto sono andato a parlare con la produzione… si tratta di una particina, in ogni caso. Una cosa piccola. Tanto per tenermi impegnato. La noia della vita da pensionato alla lunga diventa pesante… lo sai, io ho sempre lavorato…

Parlava del suo lavoro di attore con modestia, minimizzandolo. Per motivi a lui insondabili il piccolo Wang, invece di essere orgoglioso di un padre attore (per quanto attore comico) aveva sempre vissuto con una qualche segreta insofferenza, quel mestiere di artista. Forse avrebbe preferito un padre idraulico, o postino. Chissà perché. Lo sguardo di Wang si manteneva guardingo, come uno che stesse ricevendo la visita di un creditore o di un agente del fisco.

Frank Solomon Ross, attore brillante e in gioventù anche cabarettista e improvvisatore, conservava nel suo repertorio una infinità di storielle, battute, motteggi su ogni genere di circostanze della vita (funerali compresi). Questo deposito di spiritosaggini lo aveva spesso aiutato in situazioni complicate o imbarazzanti. Ma davanti ad un figlio dai modi così austeri, non si azzardava più a esercitare la sua vocazione naturale di uomo simpatico, ruolo a cui il suo Dna pareva averlo destinato. Il prof. Wang decisamente non amava le facezie. E Mr. Ross non aveva mai capito se questo atteggiamento di esagerata sobrietà Wang lo riservasse solo a suo padre o in generale a tutte le cose effimere dell’umana esperienza.

Allora, Wang, hai già pranzato? Hai tempo per mangiare insieme?

– No, grazie… io a quest’ora non mangio…

-Sei a dieta?

– No, è solo un orario buono per il lavoro e non voglio sprecare tempo.

La frase raggelò il povero Mr. Ross. Il figlio professore non avrebbe potuto essere più esplicito: la visita paterna rappresentava per lui solo una perdita di tempo.

Provò una forte delusione, per se stesso e per le sue illusioni. In fondo al cuore sapeva di non essere in cima al gradimento di quel ragazzo. Ma in lui albergava sempre la speranza che forse un giorno – entrando lui nella vecchiaia e il figliolo nella piena maturità – il loro dialogo così complicato avrebbe potuto finalmente distendersi. Adesso si sentiva uno stupido, ad aver nutrito simili aspettative. Il filosofo dott. Wang era uno stronzo, ecco tutto. Suo figlio era stronzo. Un ragazzo cresciuto male con la sola attenuante della sua infanzia difficile. Per bilanciare questa amarezza, Mr. Ross provò a evocare il ricordo dell’arrivo del piccolo Wang, a 5 anni, con una minuscola sacca su una spalla, insieme alla sorellina Lulù poco più grande. Li videro la prima volta nella sala arrivi dell’aeroporto di Los Angeles, accompagnati da una funzionaria dell’Immigrazione. Lui e sua moglie Rose si innamorarono subito di quei due angioletti vietnamiti. E loro guardavano spaesati l’immensa America riflessa negli occhi di quei due strani genitori adottivi, grassi, pallidi e sorridenti, che li aspettavano carichi di aspettative e piccoli regali. Quand’è esattamente che il piccolo adorabile Wang si era trasformato in un maledetto stronzo ingrato?

– Sei sempre stato un ragazzino così serio. Filosofia morale. È vero che ti sei specializzato in quella cosa lì?

Wang lo guardava quasi scandalizzato: cos’era questa intrusione nel suo regno perfetto di libri e teorie?

– Con chi ne hai parlato, di filosofia morale? Con Oprah Winfrey?

Anche nell’ironia il ragazzo era acido e spiacevole. Mr. Ross sorrise suo malgrado.

– Ah… ricordi ancora quando fui ospite da Oprah. Sono passati tanti anni.

– Si, vagamente. Ricordo tutte quelle domande sul cane. Il cane del telefilm. Che poi era il protagonista, no?

– Ah… beh… il mio Spike… ci lavoravo con quello. Era il periodo d’oro di “Detective Spike”. Ti piaceva quel telefilm. Ti piaceva anche Oprah, non ricordi?

– Ricordo che durante l’intervista Oprah sembrava più interessata al cane che a te, quello me lo ricordo.

– Hai sempre questo tono, con me. Mi dai un sacco di dispiacere… anche a tua madre… certe volte ci chiediamo dov’è che abbiamo sbagliato… in che cosa abbiamo mancato, con te e tua sorella per meritare un simile atteggiamento…

Il prof. Wang alzò una mano con decisione, come a bloccare sul nascere il rischio di una conversazione troppo intima. Non aveva nessuna voglia di tornare sulle annose memorie familiari.

– Non c’è niente che non va… tu e la mamma non avete niente da rimproverarvi… va tutto bene. Io e mia sorella stiamo facendo la nostra vita e grazie di tutto.

– Ma Lulù la senti ogni tanto? Vi vedete?

– Lascia stare. Sono affari nostri. Siamo fratelli e sorella, ricordi? E poi non si chiama Lulù. Si chiama Lu. Dopo 30 anni potreste anche ricordarvi del suo vero nome. Comunque nel gestire i nostri rapporti non abbiamo bisogno di intrusioni esterne.

– Ah, adesso io sarei un estraneo intruso?! – E finalmente Mr. Ross, il co-protagonista di “Detective Spike”, che tra il 1985 e il 1992  rappresentò per l’America  il prototipo dell’amabilità – il simpatico zio grassottello e arguto che tutti avrebbero voluto avere in famiglia, il simpatico vicesceriffo che rassicurava la contea, il simpatico preside amato dai suoi studenti, il simpatico meccanico de Il Maggiolino Tutto Matto, nonché il simpaticissimo detective privato che faceva da spalla al cane Spike – ebbene il poliedrico Mr. Ross stava quasi per tirare fuori tutte le spiacevolezze e le amarezze che aveva faticosamente represso negli anni. Avrebbe voluto dire al filoso morale Wang: brutto ingrato bastardo, ti abbiamo preso da profugo e sei diventato un cazzo di luminare della NYU, ti abbiamo nutrito e cresciuto con l’amore e la cura più totale, ti abbiamo sostenuto in ogni tua scelta senza mai condizionarti, e adesso tu ci tratti come estranei, brutto muso giallo rachitico e antipatico? Il cane Spike dava mille volte più soddisfazioni della tua filosofia morale del cazzo! – questo pensava Mr. Ross e questo avrebbe voluto sputare in faccia al suo figliolo.

Ma naturalmente non disse niente di tutto questo. Aveva imparato da tempo che l’arte principale dei genitori è imparare tacere. E per i genitori adottivi questo era ancora più vero. Mostrava solo un sorriso triste e deluso che era la maschera dietro cui nascondeva tutti i suoi rimpianti, il povero Mr. Ross.

– Senti Wang, non sono venuto qui per litigare. Volevo solo salutarti. Non vogliamo nulla da te. Sai dove siamo e ti auguriamo sempre il meglio per la tua vita. Diamoci la mano e me ne vado a prendere l’aereo.

Ma mentre Mr. Ross stava per fare un altro passo avanti, verso il centro dell’ufficio, suo figlio gli andò incontro a sua volta in modo un po’ goffo, come a sbarrargli il passo. Quasi a evitare che si avvicinasse troppo al suo tavolo di lavoro ingombro di carte. E senza volere, in quel preciso istante, Mr. Ross intravide dietro al piede della scrivania, qualcosa che assomigliava molto ad una scarpa femminile rossa. Gli sembrò proprio di vederne la punta. Una scarpa da donna dietro la scrivania del prof. Wang. Mr. Ross si fermò lì, mentre il figlio gli porgeva la mano con un movimento che somigliava più ad un invito a indietreggiare, che ad un cordiale saluto.

– Fai buon viaggio Frank e salutami la mamma.

– Fatti… fatti vivo… mi raccomando, Wang. Ciao.

Mr. Ross uscì e si chiuse la porta dietro le spalle. Rimase un attimo fermo impietrito nel corridoio. Dall’interno non proveniva alcun rumore. Era passato dalla rabbia mal controllata verso Wang ad una sensazione di sincero stupore. Sarebbe stata una bella scena degna di uno dei suoi telefilm. Recitandola avrebbe esibito la sua faccia più buffa e meravigliata. Ma qua c’era poco da esibire. Aveva davvero visto una scarpa da donna rossa dietro l’angolo destro della scrivania? E che diavolo poteva significare? C’era una collega o una sua studentessa nascosta là dentro, da qualche parte? Magari sotto la scrivania? E Wang l’aveva occultata lì, sperando che il visitatore occasionale sparisse presto per ritornare al suo tête-à-tête ? Era questo il vero motivo del malumore del figliolo filosofo? Era stato disturbato in un momento delicato?

Questo cambiava tutto. Ricollocava quello stronzo del prof. Wang entro una dimensione più umana. Salutò educatamente il bidello-assistente ispanico, che volle a tutti i costi stringergli la mano e augurargli buon viaggio, e ridiscese le scale, ridacchiando e facendo ballonzolare il ventre abbondante. Il suo figliolo adottivo non era Socrate. I travagli dei sensi lo colpivano come tutti. Aveva voglia a fare la faccia austera. Con sua moglie stasera avrebbe ironizzato un bel po’ su quel ragazzotto saputello. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro con lui. Un geniaccio ma anche un mandrillo. Cercava il modo giusto per raccontarlo a sua moglie, senza scadere in volgarità ma…accidenti. Si fermò di nuovo, dopo la prima rampa di scale: – e se quelle maledette scarpe fossero le sue, di Wang? Se fosse uno di quei tipi che in privato indossano vestiti femminili?

Una specie di depravato, in pratica. Ne aveva già conosciuti, soprattutto nel suo ambiente. Era un vezzo americano, da Ed Wood a Hoover. Forse Wang era di quella tribù. Certo sembravano proprio scarpette da donna, piccoline, un po’ a punta. Ma anche Wang aveva dei piedini piccoli da asiatico. Si sforzava di ricordare il numero di scarpe di suo figlio che però non viveva più con loro da quando aveva 18 anni. A quei tempi gli pareva di ricordare un numero 38. Ma cresce ancora il piede dopo i diciotto?

Effettivamente Wang non aveva mai presentato ai genitori una fidanzata o una compagna o una futura moglie. Forse aveva avuto qualche simpatia al liceo, o qualche piccolo flirt da adolescente; ma era molto timido, bloccato, imbranato e anche bruttino. Da giovane somigliava un po’ all’imperatore Hiro Hito. Insomma, donne zero. Però questo non voleva dire niente, perché Wang era il non plus ultra della riservatezza. Non avrebbe mai esibito le sue eventuali conquiste ai genitori. Ma si trattava davvero solo di riservatezza? O semplicemente al figlio non interessava granché l’articolo? E non poteva mica dirla così, alla moglie, soprattutto nelle condizioni di salute in cui la povera donna si trovava ormai da un anno. Non è che puoi dire ad una madre adottiva: sai che tuo figlio si veste da donna? Quali sensi di colpa avresti scatenato nel suo intimo? Ci mancava solo questo.

Ma poi era davvero di una scarpa rossa, quella punta delicata che aveva intravisto? O era solo un oggetto d’ufficio di colore rosso caduto per terra, che dalla sua prospettiva poteva sembrare una calzatura? Non è che ci aveva ricamato lui di fantasia? Boh: sembrava proprio una scarpa. Sua moglie doveva averne un paio uguali, dello stesso colore. Un rosso opaco. Quasi rosa. Mentre era fermo nel corridoio del piano inferiore vide la porta dell’ufficio di Wang che si apriva. Mr. Ross si nascose dietro a una colonna e provò a sbirciare verso alto.

Dall’ufficio uscì il solo Wang e si incamminò a passo lesto lungo il corridoio, nella direzione opposta alle scale. Ma il filosofo diede a suo padre l’idea di aver indugiato un momento di troppo sulla soglia, prima di chiuderla: come se avesse detto qualcosa a qualcuno (o qualcuna?) che era rimasto dentro l’ufficio. Quindi c’era davvero qualcun altro? Mr. Ross fu tentato dal tornare al piano di sopra, appena Wang fosse andato via, per bussare di nuovo a quella porta e capire qualcosa di più di quello che succedeva là dentro. Il suo desiderio era solo tornare a casa dalla moglie e raccontarle finalmente di aver trovato il figliolo felice, realizzato, magari con una bella ragazza al suo fianco. Una bionda wasp che avrebbe risolto tutti i suoi eterni complessi di immigrato adottato. Ma se invece gli avesse aperto la porta un omaccione barbuto? Oddio. No. Ma le scarpette rosse non potevano essere mica di un omaccione: o erano di una donna o erano di Wang. Che casino. Che ridda di supposizioni. Il piccolo Wang avrebbe rappresentato per sempre un enigma irresolubile; meglio mettersi l’anima in pace: sarebbero morti senza capire niente di quello spirito aggrovigliato. Alla moglie non avrebbe detto niente. Solo che aveva incontrato il prof. Wang e che si erano cordialmente salutati. E che aveva davvero un bell’ufficio.

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Il lignaggio https://www.carmillaonline.com/2024/03/31/il-lignaggio/ Sun, 31 Mar 2024 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81620 di Giovanni Iozzoli

– Pronto… fratello… sei tu? Dammi notizie. – Non buone, Omar. Non buone. Nostro padre ha avuto un crollo. Mi dice il dottore che ormai si può parlare di pre-coma. – Co…sa? Pre-coma? Ma me lo dici così? Eravamo rimasti d’accordo che mi avresti avvisato in anticipo su eventuali peggioramenti… – Sì… certo… ma fino a ieri sera eravamo ancora speranzosi, si era anche ripreso un po’. Ci siamo detti: non facciamo di nuovo correre Omar da Miami, aspettiamo che la situazione sia più chiara. Poi stanotte è stato di nuovo male. Si lamentava mentre dormiva… si svegliava [...]]]> di Giovanni Iozzoli

– Pronto… fratello… sei tu? Dammi notizie.
– Non buone, Omar. Non buone. Nostro padre ha avuto un crollo. Mi dice il dottore che ormai si può parlare di pre-coma.
– Co…sa? Pre-coma? Ma me lo dici così? Eravamo rimasti d’accordo che mi avresti avvisato in anticipo su eventuali peggioramenti…
– Sì… certo… ma fino a ieri sera eravamo ancora speranzosi, si era anche ripreso un po’. Ci siamo detti: non facciamo di nuovo correre Omar da Miami, aspettiamo che la situazione sia più chiara. Poi stanotte è stato di nuovo male. Si lamentava mentre dormiva… si svegliava di soprassalto… pregava un po’… piangeva… aveva dei dolori, con tutta quella morfina in corpo. Adesso qua sono le nove e la situazione è quella che è. Nessuno ha più speranze. Il vecchio stavolta ci sta proprio lasciando. Stanno arrivando anche i giornalisti…
– Arrivano i giornalisti prima del figlio maggiore, che vergogna… dovevo partire ieri… adesso sarei già lì. Comunque ora attivo subito la segretaria dello studio, è una ragazza sveglia, ci metterà poco a trovarmi un biglietto… Prendo il primo volo per Istanbul, all’arrivo mi mandi tuo figlio all’aeroporto o qualcun altro… ci metterò una giornata, maledizione… dovevate avvisarmi prima.
– Ma è successo stanotte… un po’ alla volta… adesso la situazione sta precipitando e ti ho chiamato subito. Che altro dovevo fare?
– Vado a casa a preparare una valigia.
– Aspetta… aspetta un attimo… devo dirti un’altra cosa… è meglio che lo sai prima.
– Cioè? Cosa devo sapere prima?
– Qualche giorno fa nostro padre ti ha scritto una lettera.
– A me? Una lettera?
– Sì, l’aveva chiusa in una busta senza farla leggere a nessuno e la teneva sul comodino. Era indirizzata a te ma non l’aveva fatta ancora spedire.
– E allora?
– L’altro ieri, l’ultimo giorno che era stato lucido, ha preso la lettera e ha chiesto a Fatima di spedirtela con un corriere espresso, lì da te, al tuo indirizzo di casa a Miami.
– …
– Omar, sei lì?
– Sì… sono… qui.
– Ascolta fratello, io non so che cosa abbia scritto là dentro; non lo sa Fatima né zio Abdullah… nessuno l’ha letta. Però è meglio che ti prepari. Psicologicamente dico… perché sai cosa poterebbe essere…
– …
– Omar, mi senti? Hai capito quello che sto dicendo?
– Ho capito… ma se nessuno l’ha letta… come fai a dire quello che stai dicendo? Forse era una lettera d’addio. Un saluto. Si sentiva mancare le forze. Lui non era tipo da telefonate, lo sai.
– Appunto. Non era tipo da telefonarti o da mandarti una mail per dirti quello che penso ci sia scritto là dentro. Lui faceva le cose sempre nel vecchio stile. E ci voleva un pezzo di carta firmato. Lo sai come funziona.
– Mashallah…
– Intendiamoci… è una mia supposizione… però credo sia plausibile, anzi probabile.
– Non… non è possibile. Sarebbe una pazzia. Il vecchio aveva una testa eccelsa. Come avrebbe mai potuto fare una scelta del genere? Lui non amava le improvvisazioni o le eccentricità.
– Non sarebbe né l’una né l’altra cosa, lo sai. Anzi, sarebbe il naturale svolgimento delle cose…
– Ma che svolgimento? Io sono a Miami da dieci anni. Faccio il chirurgo. Come si può pensare che…? Sono sposato con un’americana.
– Lo so. Ma sei il fratello maggiore.
– Io avevo pensato che sarebbe toccato a te, a zio Abdullah, a Sheik Kurban… ce ne sono di figure degne, adeguate, ben più del sottoscritto.
– Adesso non esagerare. Hai studiato 15 anni nelle migliori madrasse della Turchia, non sei mica uno di passaggio.
– Io faccio il chirurgo! Lo capite o no?
– E allora, che ci sarebbe di male?
– Io non ho mai neanche spiegato bene a nostro padre il mio mestiere qual è…
– Certo. E’ un mestiere nobile. Sei un chirurgo plastico.
– Sai cosa significa vero?
– Svolgi un lavoro utilissimo. Non operi mica le attrici. Tu aiuti i bambini ustionati a rimarginare le loro…
– Anche le attrici. Lavoro in uno studio. Faccio tutto quello che mi dicono.
– Astaghfirullah. Non lo sapevo. Comunque non c’entra nulla, il lavoro che uno faceva prima…
– Ma prima di che? Insomma, la mia vita è qua. Adesso fammi andare, devo preparare la valigia, avvisare mia moglie… però attenzione… tu sei sicuro che nessuno di voi abbia letto quella lettera?
– Si, sono sicuro.
– Aspetta, però. Ma se io vengo là e la lettera arriva qua, io non saprò neanche cosa c’è scritto. A meno che non abbia lasciato istruzioni orali a qualcuno…
– No. Le avrebbe lasciate a me.
– E io mentre sono in volo per Istanbul, come faccio a sapere quello che c’è nella lettera?
– Non lo puoi sapere.
– Ma non è mica un dettaglio.
– Magari il corriere arriva che tu sei ancora lì.
– Non credo. Vedrai che arriverà mentre sarò in viaggio o magari già in Turchia.
– Comunque è facile: quando arriva la lettera a casa tua, chiedi a tua moglie di aprirla, fa una foto e te la gira.
– No… no. Se c’è scritto quello che pensi tu, non voglio che lo impari così… devo gestirla io la faccenda.
– Ma tua moglie è di Miami, mica legge il turco? No?
– Lei no, ma la bambinaia si.
– Hai una bambinaia?
– Certo mia moglie è una dottoressa anche lei, chi le seguirebbe le bambine?
– E la bambinaia legge e capisce il turco?
– Si è una ragazza turca che era senza lavoro e l’abbiamo presa a casa. Ora: se la lettera arriva a mio nome, mia moglie non l’aprirebbe mai; ma se le chiedo di aprirla e di fotografarla, ci sono molte possibilità che chieda alla bambinaia di leggergliela. Intuirebbe che è qualcosa di importante. Qualcosa che riguarda la famiglia. Aspetta fratello… bussano alla porta… ti richiamo tra poco, dimmi se ci sono aggiornamenti… sulla salute del vecchio… sulla lettera… su tutto… adesso attacco, a dopo. Chi è?… avanti…
– Caro Omar, buongiorno, si può? Stai lavorando? Ti disturbo?
– Dottor Murray, prego, si accomodi, venga, venga dentro, stavo ricevendo proprio ora brutte notizie da mio padre… penso ci sia un aggravamento… credo che dovrò scappare… ma stia tranquillo, non avevo interventi in calendario per questa settimana, ho controllato l’agenda. Solo qualche appuntamento che posso spostare.
– Ma caro Omar, non stare a preoccuparti. Mi dispiace tanto per il tuo papà, so che gli eri molto affezionato. So anche che è una persona importante dalle vostre parti, è giusto che tu corra subito da lui. La famiglia viene prima di tutto, lo sai quali sono i nostri valori. Puoi tranquillamente staccare, per una settimana. E speriamo che tutto si aggiusti per il meglio. Sarà anche l’occasione per riflettere su una proposta che adesso ti anticipo brevemente. Mi rendo conto che non è il momento migliore, ma magari stare lontano ti aiuterà a valutarla meglio.
– Che… che proposta?
– Ne ho parlato anche con Levinsky e con gli altri. E sono tutti d’accordo. Omar, noi ti vogliamo dentro.
– Come dentro?
– Dentro la società, con noi. Anche se sei qui da soli tre anni, valutando il tuo curriculum, la tua professionalità e soprattutto la persona che abbiamo avuto modo di apprezzare, ti chiediamo di diventare socio.
– Ma io non so… se…
– No, non devi rispondere adesso. Mi rendo conto della tua sorpresa e capisco che è una responsabilità importante. Ma secondo noi tu sei pronto per assumerla. Non stare a preoccuparti della parte finanziaria, quello è l’ultimo problema e lo gestiremo con le banche. A noi, che stiamo invecchiando, interessa avere un giovane di valore che porti avanti la storia di questo studio medico quando noi non ci saremo più o quando saremo semplicemente pronti per uscire di scena. Tu sei il profilo giusto, non abbiamo dubbi. E’ un onere certo, ma anche (mi permetto di dirtelo) un grande onore. Sai che siamo tra i primi in Florida, conosci il giro d’affari, sai tutto. Tu hai l’età giusta per fare questo passo, l’età della maturità. Ti vedo perplesso, lo capisco bene. Sarà anche per via delle brutte notizie che arrivano dalla Turchia. Non ti preoccupare. Parti, pure, va dal tuo vecchio padre, speriamo che vada tutto per il meglio e poi tra una settimana, al tuo ritorno, ci sediamo al tavolo con gli altri soci e ne parliamo con calma. Va bene?
– Va… bene… grazie… adesso sono un po’ confuso… mi scusi…
– Torno al mio lavoro, ciao Omar, auguri per il tuo papà.

Omar si accasciò sulla scrivania che odorava di disinfettante, come tutto il resto del suo studio. Le donne delle pulizie esageravano sempre con i prodotti detergenti. Avvertiva un prurito fortissimo alla base dei capelli ma resisteva e non si grattava, perché sentiva che avrebbe peggiorato le cose. Il dott. Murray, dopo solo due anni di impiego nel loro studio, lo aveva appena invitato a diventarne socio. Non riusciva a crederci. Una cosa addirittura inconcepibile, fino a pochi giorni prima. Ma anche la preannunciata lettera di suo padre, sarebbe stata da considerare nel novero delle cose inconcepibili. Forse era solo lui che in tutti questi anni aveva rimosso il problema, facendo finta di ignorare quella che era una possibilità concreta che era sempre stata nel suo futuro. Cominciava una leggera emicrania. Doveva scuotersi da questo eccesso di emozioni che lo paralizzava. Chiamò la segretaria e le chiese di prenotare il primo volo per Istanbul disponibile. Non aveva però ancora risolto il problema della delicata missiva in arrivo. Come fare a leggerne il contenuto mentre era in viaggio? Voleva richiamare la moglie, ma mentre stava componendo il numero, suo fratello ritelefonò.

– Omar… eccoci… si, ti confermo che la situazione è irreversibile, adesso è stabilizzato e respira senza ossigeno, ma non si sa quanto durerà.
– E l’altra cosa?
– Quale?
– La lettera.
– Ti ho detto che non ne sa nulla nessuno. Lo sai che su queste cose il vecchio non si consultava con nessuno. Prendeva le decisioni e via. Ascolta, adesso devo andare, c’è già la folla dei murid e stanno arrivando i giornalisti, la televisione… è un manicomio e devo gestire tutto io… Fatima e zio Abdullah piangono sempre, che Dio li perdoni. Sai già a che ora arriverai a Istanbul?
– No… sto aspettando notizie sui voli disponibili. Non ti preoccupare. Ti mando un messaggio appena so qualcosa. Volevo chiederti l’ultima cosa… ma aspetta… vedo il numero di mia moglie… meglio che risponda… scusa metto giù e poi ti richiamo..
– Pronto Omar. E’ un po’ che chiamo non mi rispondi mai.
– Scusa ero in linea con mio fratello. Devo correre a Istanbul. Le cose stanno precipitando.
– Lo so. Me lo ha detto la baby sitter, ha detto che ha sentito la notizia su Al Jazeera turca.
– Eh si, è pieno di giornalisti. Vorresti venire anche tu, vuoi che prenoto un posto anche per te?
– Scherzi? Come farei col mio studio? E le bambine? Mica posso lasciarle a questa qui che non parla neanche bene inglese.
– Non insisto, lo so. Dico a tutti che sei indisposta…
– Non c’è bisogno. Di la verità, che avevo dei lavori in sospeso che non potevo piantare lì. Non sono una casalinga. Sono un’oncologa. Non faccio lifting.
– Adesso passo da casa a prendere un po’ di roba e vado.
– Ascolta, so che non è il momento ma tu lo sai io come sono fatta, non riesco a procrastinare come fai tu… Questa mania che avete voi orientali di girarci intorno, ai problemi. Quando torni da Istanbul bisogna che parliamo.
– Di cosa, Debbie? Di cosa dobbiamo parlare? Ti sembra questo…
– Dobbiamo parlare di un matrimonio che è finito da un pezzo. E della responsabilità che finalmente devi assumerti, rispetto a due bambine che stanno crescendo con un padre assente. Noi due dobbiamo prenderci un periodo di pausa e riflettere sul da farsi; ma nel frattempo tu dovrai stare con le tue figlie di più. Se ci separiamo, il tempo e l’attenzione per le bambine si divide tutto a metà, sia chiaro. Adesso il fatto che stai partendo magari ti aiuta a riflettere meglio sulla situazione. Non voglio assillarti, ma comincia a pensare a come riorganizzare la nostra vita… soprattutto metti al centro di tutti i tuoi ragionamenti le bimbe…
– Possiamo riparlarne al mio ritorno? Io non sono in condizione di pensare serenamente a niente… stamattina c’è una confusione tremenda nella mia testa. Anche il dott. Murray, prima, è venuto a farmi una proposta…
– Che proposta?
– Di diventare socio.
– Mi congratulo con te per i tuoi successi professionali. Ma quelli sono affari tuoi. Quello che a me preme è che tu ti assuma più responsabilità con le tue figlie. E che possibilmente non mandi a puttane la mia, di carriera professionale.
– Fammi andare. Ne riparleremo presto. Devo scappare. Tu dove sei adesso, al lavoro? Io passo un attimo per casa, preparo la valigia e parto. Ciao.

Omar guardava il cielo sereno dalla finestra grigia. Ma il telefono era implacabile: era Murray che lo richiamava:

– Omar, scusami, non voglio assillarti con i problemi del lavoro. Hai detto che la prossima settimana avevi degli appuntamenti che potevi spostare. Va bene, però fai attenzione al piccolo Ortega, quello dell’incidente. Sono profughi, il sindaco ci ha messo la faccia, ci tiene molto, per tutte le loro benemerite campagne. Mi raccomando, appena rientri convoca subito la famiglia e programma l’intervento. E’ una cosa facile, lo hai già visitato, no?
– Certo, mi ricordo. Stia tranquillo. Grazie dott. Murray. Ci sentiamo al mio ritorno.

Neanche il tempo di posare il cordless, che squillò il suo cellulare.

– Dott. Omar, sono Nancy. Buon giorno, la disturbo?
– No… dica Nancy… sto partendo ma le posso dedicare qualche minuto prima di uscire…
– La trattengo poco, non si preoccupi. Non voglio rubarle tempo. Anzi, non la chiamerei affatto, se non avessimo quel problema in comune, io e lei.
Nancy… guardi… tutto si può affrontare… ne abbiamo già parlato, sono un chirurgo e sono abituato ai contrattempi. Non voglio assolutamente evitare la discussione. Se abbiamo fatto degli errori, siamo pronti ad assumercene la responsabilità e porvi rimedio…
– Se avete fatto errori? Se avete fatto? Ci mette anche il se, davanti? Ma con un orecchio ridotto in questo stato, lei pensa ancora di assumere un tono dubitativo? Lo sa che questo maledetto orecchio mi sta marcendo?
– Stia calma Nancy, le ho già spiegato diverse volte, che quella situazione è interamente addebitabile a problemi post-operatori, che significa gestione ambulatoriale della ferita…
– Inutile girarci intorno…io i soldi li ho dati a voi. E da voi esigo piena soddisfazione…
– Ma la cura antibiotica la sta facendo?
– Lasci stare l’antibiotico, dottore… glielo anticipo verbalmente poi ci penseranno gli avvocati: io ho intenzione di chiedere 500.000 dollari di danni a lei e allo studio. Ho già perso due scritture, per questo dannato orecchio, chiaro?
– Mi scusi Nancy… ma proprio non riesco a trattenermi oltre. Se lei ha già deciso di procedere, la questione passa ad avvocati e assicuratori.
– Vada al diavolo. Avrei dovuto esigere un chirurgo americano fin dall’inizio…
– Arrivederci, Nancy… mi scusi ma devo proprio mettere giù.

Mentre parlava un gabbiano si era fermato per qualche secondo sul davanzale e lui gli aveva sorriso. Com’era fortunato quel pennuto; nessuno voleva niente da lui. Si strofinò la faccia, come a spremere via la stanchezza e la confusione dalla sua testa. Chiamò la segretaria e chiese se avesse prenotato il volo, poi uscì senza salutare nessuno, scese nel grande garage interrato, in cui ancora gli capitava di smarrirsi, montò sulla sua Toyota e corse verso Spring Garden, il sobborgo dove abitava, a circa un’ora da lì. Durante il viaggio non riusciva a focalizzare nessun pensiero, tutti gli sfuggivano davanti come gli svincoli, le sopraelevate e i quartieri che si lasciava alla spalle. Arrivò e parcheggiò l’auto nel suo curatissimo vialetto. La casa era vuota, fortunatamente. La bambinaia era andata a recuperare le piccole a scuola, mentre la moglie era nel suo prezioso ambulatorio, da cui non sarebbe tornata prima delle 20. Si guardava intorno stranito, continuando a stringere le chiavi di casa nel pugno; le foto di tutti i familiari ammiccavano dalle mensole e lungo le pareti bianche, come una finzione di felicità. Tra poco avrebbe dovuto essere in aeroporto, non c’era il tempo di rimuginare, ma i dubbi lo maceravano impietosamente.

– Cosa ci sarà in quella lettera? Cosa voleva il vecchio cheick da questo chirurgo plastico imbolsito, da questo figlio in eterna fuga? Forse lo imparerò al ritorno. Forse non è quello che crede mio fratello. Nessuno vuole quell’eredità. Tutti sperano che tocchi a qualcun altro. E mia moglie? Cosa devo fare con mia moglie? E Murray, col suo maledetto studio? Dio mi aiuti. La testa mi scoppia.

Aveva già tirato fuori la valigia e l’aveva appoggiata sul letto, quando sentì suonare al citofono. Non stette troppo a pensarci e scese veloce ad aprire. Un presentimento vertiginoso lo fece traballare lungo le scale. Appena aperto il cancelletto, la prima cosa che vide fu la scritta sul giubbino arancione dell’uomo: FedEx. Il corriere era davanti alla sua porta. La lettera da Istanbul era finalmente arrivata. Firmò, con la mano un po’ tremante e la prese in consegna. Riconobbe persino la calligrafia ordinatissima di sua sorella Fatima, che aveva personalmente compilato il talloncino del pacco. I brividi gli correvano su e giù lungo la schiena. Avrebbe potuto rifiutarla, quella lettera. O farla in mille pezzi. Si, sarebbe stata una soluzione possibile; se nessuno aveva letto quella lettera, eliminandola si sarebbe semplicemente fatta sparire ogni traccia di quell’eredità. Del resto è legittimo rifiutare un’eredità. Conosceva anche qualcuno che lo aveva fatto, magari per ragioni fiscali. Perché non poteva anche lui sottrarsi a quel lascito non richiesto? Se avesse fatto a pezzettini quella lettera, chi avrebbe potuto reclamarne il contenuto? La teneva in mano e la soppesava, senza decidersi ad aprirla. Forse là dentro c’era il suo destino, leggerissimo, appoggiato sul palmo della sua mano.

Rientrò nella villetta, appoggiò delicatamente la busta sul tavolinetto, slacciò la cravatta e si accasciò sul divano. Non ci fu bisogno di aprirlo, quel messaggio. Sapeva perfettamente cosa fosse. Guardò di nuovo le foto delle bimbe e della sua bella moglie americana, che troneggiavano intorno a lui; e i mille piccoli segni dell’eccellenza, di quei dieci anni di insediamento americano – quadri, mobili bianchi, attestati professionali. Tutto sembrava vacuo, trasparente, inconsistente, fatto della stessa materia dei sogni. Quella vita era stata una parentesi sognata – né brutta né bella, solo passata e ormai lontana.

Accettava l’eredità. Non sarebbe stato neanche possibile immaginare il contrario. Toccava a lui. Sarebbe stato il ventisettesimo successore del venerato lignaggio Saiddya. Il dott. Omar Beloglu, stimato chirurgo americano, era morto esattamente nel momento in cui un anonimo fattorino FedEx aveva suonato a quel citofono. Il lignaggio era salvo. Della casa, della moglie, persino delle bambine, non era il momento di occuparsi. Il nuovo cheik doveva correre al capezzale del suo predecessore, onorarlo e raccogliere il suo bastone. L’aereo sarebbe partito fra quattro ore.

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Alterazioni del paesaggio https://www.carmillaonline.com/2024/02/03/alterazioni-del-paesaggio/ Fri, 02 Feb 2024 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80821 Un vecchio racconto scritto ai tempi della Seconda Intifada e poi disperso in qualche dimenticata antologia di fantascienza. Purtroppo oggi sembra tornare attuale ed è il solo motivo per cui lo ripropongo.

 

di Walter Catalano

 

(alla memoria di Rachel  Corrie)

 

“Due occhi per un occhio,una mascella per un dente”

(Vladimir Zeev Jabotinsky – teorico sionista)

 

“A chi ci caverà un occhio taglieremo la testa, a chi ci romperà un dente spaccheremo la mandibola”

(Hermann Goering – Maresciallo del Reich)

 

Soprattutto la notte il rumore intermittente dei cingoli sull’asfalto risvegliava un sapore acido di lacrime [...]]]> Un vecchio racconto scritto ai tempi della Seconda Intifada e poi disperso in qualche dimenticata antologia di fantascienza. Purtroppo oggi sembra tornare attuale ed è il solo motivo per cui lo ripropongo.

 

di Walter Catalano

 

(alla memoria di Rachel  Corrie)

 

“Due occhi per un occhio,una mascella per un dente”

(Vladimir Zeev Jabotinsky – teorico sionista)

 

“A chi ci caverà un occhio taglieremo la testa, a chi ci romperà un dente spaccheremo la mandibola”

(Hermann Goering – Maresciallo del Reich)

 

Soprattutto la notte il rumore intermittente dei cingoli sull’asfalto risvegliava un sapore acido di lacrime e ferite. I tank di ronda intorno al campo sovrintendevano al riposo, orchestrando il succedersi di sonno e di veglia, così come di giorno arbitravano l’accesso all’acqua e alle strade.Nabil si riscosse sulla branda fra le lenzuola sudate: gli avevano interrotto un bel sogno. Con mano sicura lanciava una molotov contro il carro armato che gli veniva incontro mitragliando, mentre il carrista appollaiato sulla torretta si immergeva nell’abitacolo cercando di chiudere la botola in tempo. L’ordigno centrava lo spiraglio e rimbalzava all’interno. Uno scoppio e le fiamme erompevano dalle feritoie d’areazione con le urla roche degli arrostiti.Il rombo del tank si perse nella notte ma Nabil era ormai sveglio. Tornò a pensare agli olivi centenari nell’orto della casa della sua infanzia e a come il bulldozer li aveva sradicati uno dopo l’altro. Non volevano essere strappati via quegli olivi e resistevano con le radici secolari abbarbicate alla terra: dovettero schiantarli a fatica e coprirono con cicatrici di zolle le ferite profonde e nere che sfiguravano il suolo. Lui aveva sette anni ma non pianse. Anche se c’era rimasta solo una spianata di cemento laggiù al posto dell’orto e della casa, il nonno continuava a tornarci spesso prima che arrivassero i coloni. Si sedevano sul cemento, lui e il nonno, e pensavano agli olivi senza dire una parola, per ore. Poi eressero reticolati di filo spinato e sentinelle coi fucili sparavano a chiunque si avvicinasse e molte altre spianate di cemento pavimentarono i nuovi insediamenti. Ma oltre il filo spinato, sotto il cemento e sotto le zolle – nella polvere di alberi, case e uomini cancellati – quelle ferite restavano spalancate in eterno come bocche urlanti.In lontananza si udì un suono lontano di raffiche, grida, pianti, ancora raffiche. Non era stato un drone: i droni non facevano rumore. Nabil fremette ricordando altre identiche raffiche, pensando a come la pietra, inutile e patetica, era scivolata di mano a suo fratello, a come anche lui era caduto, sradicato come un olivo giovane, al cingolo del tank che gli era passato sopra per cancellarlo a sua volta, per ridurlo a quella stessa poltiglia di alberi, case e uomini, facile da nascondere e dimenticare sotto il cemento e le zolle, oltre il filo spinato.Si alzò dalla branda, dette un’ultima occhiata al nonno e alla sorella ancora addormentati, poi uscì a cercare delle bottiglie e una tanica di benzina.

 

“Il memoriale di Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, è stato costruito sulle rovine di un villaggio palestinese raso al suolo. Lo sapeva ?” – chiese con voce stanca la ragazza bruna cercando di reggere il passo veloce dell’uomo brizzolato e impeccabile mentre attraversavano la piazza assolata.

“No, non lo sapevo “– rispose con educazione ma scarso interesse l’uomo che valendosi di una falcata ben più ampia, stava avendo ragione della tenace ma troppo minuta inseguitrice. I suoi occhi grigi percorsero di nuovo la fragile anatomia della ragazza: un rapido excursus dalle caviglie sottili ai lisci capelli corvini che il vento le cacciava continuamente negli occhi. L’esame dovette dare un esito abbastanza positivo perché l’inseguito rallentò considerevolmente il passo.

“Non lo trova mostruoso ? “– insistette la giovane riprendendo fiato. L’uomo trattenne un gesto spazientito.

“Stia attenta signorina. Come ha detto di chiamarsi ? Flavia Berti. Stia attenta Flavia o chi la sente, me compreso, potrebbe accusarla di antisemitismo ! Non è il posto adatto questo per dire cose del genere.”

”Antisemitismo ? Anche lei non può cadere in questi equivoci “– Flavia si fermò in mezzo alla strada con i pugni sui fianchi, assunse un cipiglio da battaglia – “Essere contro il sionismo non vuol dire essere antisemiti: questa parola viene usata come un’arma per diffamare e zittire chiunque osi denunciare i crimini del colonialismo e del razzismo sionista. E poi io difendo gli arabi: non sono anche loro semiti ?”

L’uomo abbozzò un mezzo sorriso.

“Parliamoci chiaramente Flavia. Io non voglio grane, intesi ? Lei mi ha chiesto di partecipare all’attività della nostra organizzazione non governativa in aiuto delle comunità palestinesi in transito…”

”Transito ? Dica pure deportate !”

” Ah, ci risiamo ! Se non mi stesse simpatica la discussione sarebbe già terminata. Per sua fortuna mi piace la gente decisa. Capisce bene che la sua partecipazione alla nostra attività – le liste dei collaboratori erano già state chiuse due settimane fa a Roma – è assolutamente fuori dalle regole, ma in qualità di responsabile del progetto ho la facoltà di fare delle eccezioni. Le pongo solo due condizioni.”

”Quali ?”

”La prima è di darsi una regolata, tenere per sé le sue idee e non crearmi grane con le autorità.”

”E la seconda ?”

”La seconda è di venire a cena con me stasera. D’accordo ? “

Flavia restò un attimo perplessa, poi sorrise. Remo Ippoliti andava ormai per la cinquantina ma non era affatto male dopo tutto. E poi Gerusalemme poteva valere una messa. “D’accordo” – rispose.

”D’accordo su tutte e due le condizioni ?”

”Su tutte e due.”

”Bene. Ci vediamo qui alle sette. Intanto si presenti alla nostra sede – sa bene dov’è – e compili i formulari di prammatica.”

Pronto a riattivare la sua falcata da fondista Remo Ippoliti si lasciò la ragazza alle spalle inoltrandosi nel viale alberato. Prima si voltò però ancora una volta.

”Mi tolga una curiosità. Non ha avuto problemi alle frontiere ?”

”Non più di altri. Ho anch’io i miei appoggi.”

”Se li tenga cari e non si faccia sbattere fuori da Israele fino a stasera !”

Si scambiarono un ultimo cenno con la mano.

“Israele, dice lui. Io la chiamo Palestina” – mormorò Flavia arricciando graziosamente il naso mentre osservava la figura ancora atletica di Remo perdersi in lontananza.

 

Ismar Evron sussultò, spalancò gli occhi, annaspò nel buio ansimando. Aveva sognato di nuovo la piscina di Mamilla. O meglio, aveva sognato il parcheggio sotterraneo che ormai ricopriva da anni le vestigia dell’antica cappella bizantina, i suoi mosaici e l’ossario ricavato in una cisterna scavata – diceva la leggenda non confermata dagli archeologi – da Ponzio Pilato. La storia che gli avevano raccontato era questa: nel 614 d.C. gli ebrei di Palestina alleati ai babilonesi avevano aiutato i persiani a conquistare la Terra Santa. Dopo la vittoria sui Bizantini, la facoltosa comunità ebraica aveva riscattato a caro prezzo dalle mani dei soldati persiani i prigionieri cristiani per il gusto di poterli massacrare nella piscina di Mamilla. Ne avevano uccisi più di 60.000 prima che l’esercito persiano intervenisse a fermarli. Ismar Evron si ricordava di aver visto centinaia e centinaia di teschi e scheletri quando ci avevano spianato sopra il cemento: aveva visitato diversi operai vittime di incidenti là dentro a causa della distrazione o di un collasso nervoso. Gli archeologi storcevano la bocca ma alla fine tutti acconsentirono a edificare sulle ossa dei goim.Cancellare la memoria di Amalek. “Quando dunque il Signore tuo Dio ti avrà assicurato tranquillità, liberandoti da tutti i tuoi nemici all’intorno nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità, cancellerai la memoria di Amalek sotto al cielo: non dimenticare” (Deuteronomio 25:17). Curioso precetto: non dimenticare di impedire ad altri il ricordo. Curioso precetto poi proprio da parte di chi ha imposto all’Occidente l’obbligo perenne della memoria. Non tutti i ricordi hanno gli stessi diritti, è evidente. Ne conveniva anche Ismar Evron che pure aveva contribuito a suo modo a cancellare la memoria di Amalek e forse aveva fatto anche di peggio. Ma i figli di Amalek, i figli di Ismaele, i figli dei goim morti, i loro fantasmi – talvolta insieme a quelli dei suoi nonni, mai conosciuti, assassinati a Sobibor – lo visitavano frequentemente la notte porgendogli, con movimenti lenti e ieratici, incomprensibili messaggi .Il sogno iniziava sempre nel parcheggio sotterraneo: non si vedeva che cemento, niente di macabro all’inizio, solo cemento. Ma quel cemento, che lui sapeva impastato con ossa e crani invisibili, rendeva già l’atmosfera intollerabile: talvolta si udivano grida lontane, talvolta un silenzio peggiore delle grida. Talvolta c’erano auto solitarie parcheggiate in lunghe file, talvolta figure remote ma riconoscibili si muovevano circospette dentro le automobili boccheggiando dietro ai vetri come pallidi anfibi di grotta. Di solito a questo punto si svegliava urlando.Ma non di rado si aggiungevano lunghe sequenze al rallentatore: in fondo ad un corridoio tortuoso si apriva uno slargo che dava accesso ad una piattaforma di cemento; obliqua sulla piattaforma, sotto una cataratta fosforescente spalancata su un cielo gelido e vuoto, svettava un’astronave minacciosa e immensa; file interminabili di profughi palestinesi venivano scaricati da grandi camion, gli stessi che avrebbe controllato e scortato ogni settimana sulla via del Sinai: i soldati li spintonavano con i mitra puntati verso la piattaforma cromata che conduceva alle fauci spalancate dell’ampio portale dell’astronave. I palestinesi avevano tutti qualcosa appuntato al braccio, qualcosa che ricordava la stella gialla con cui i nazisti avevano marchiato gli ebrei: però questa non era una stella gialla ma una swastika. Un cartello stradale, posto di sbieco su un angolo, puntava verso l’interno del razzo indicando la destinazione di arrivo: Sheol. Lo Sheol era l’immondezzaio di Gerusalemme e la parte più tenebrosa della Gehenna, l’Ade ebraico, riservata ai dannati.Ismar Evron restò a fissare il buio e a ricordare a lungo, aspettando che i brividi cessassero e il battito cardiaco tornasse normale. Poi si alzò dal letto tossendo e maledicendo il barbeque (rigorosamente kasher) che sarebbe stato sontuosamente offerto tra due sere dalla filiale gerosolimitana della A-Shem Corporate per festeggiare la liberazione definitiva di Gerusalemme. Avrebbe mangiato e bevuto smodatamente, già lo sapeva, e sarebbe tornato a casa col mal di fegato. Gli incubi e il mal di fegato accompagnavano quei giorni di collera, paura e gelosia.Bevve un sorso d’acqua mugugnando, ripensando alla moglie scappata – ormai era definitivo – a Tel Aviv, per tornarsene poi nella nativa Ucraina: l’immagine di lei gli saettò per un attimo di fronte, il colore viola del suo sguardo severo e della sua valigia. “Fegato” – si sentì bisbigliare – “kavod , vuol dire anche pesantezza, gravità, abbondanza, potenza: la somma gematrica delle lettere ha valore 20+2+4=26. Il numero sacro di JHVH: A-Shem , il Nome, il Signore. Ancora lui.”La voce gutturale di un muezzin ruppe il silenzio chiamando i fedeli alla preghiera mattutina. Ismar ascoltò incuriosito: ogni manifestazione di fede islamica era ormai proibita a Gerusalemme, ma con dischi e altoparlanti i palestinesi avevano infranto per mesi, quasi quotidianamente, il divieto a prezzo di gravi rischi. Ormai, secondo le autorità, non avrebbero dovuto essercene più; ma qualcuno evidentemente si era saputo nascondere bene. Quasi a confermare il suo pensiero una vibrazione sussultoria percorse l’edificio, come un improvviso trasalimento, facendo crollare al suolo la cornice con la foto dei figli che stava da anni in bella mostra sul comodino. Un drone aveva appena colpito il suo bersaglio a pochi isolati di distanza. Il muezzin ora taceva. Raccogliendo da terra i frammenti di vetro Ismar si impose la calma.

 

“Dunque è la A-Shem Corporate che paga” – disse Flavia Berti inghiottendo lo stupore con una generosa sorsata di vino rosso. – “Come può pensare che una ONG possa svolgere liberamente il suo compito se è sovvenzionata dalle stesse multinazionali che in teoria dovrebbe contrastare ?”

“Cara mia“– il piede di  Remo Ippoliti sotto il tavolo si fece audacemente strada verso quello di Flavia, andando ad incontrare però solo il suo mocassino: la ragazza si era tolta infatti le scarpe ripiegando le gambe sotto la sedia – “non faccia l’ingenua. Le ONG hanno sempre svolto più o meno diligentemente la loro funzione all’interno del sistema che le ha partorite. Non si è mai trattato di contrastare alcunchè: al massimo di mitigare. Tutto qui. E lei lo sa benissimo.”

“E a lei questo basta ?” – Flavia inchiodò con la pupilla il grigio negli occhi di Remo.

“Lo sa che è proprio un bel tipo lei ? – sembrava sbellicarsi dal ridere – Non credevo  che ce ne fossero più così. Davvero. Da un lato mi fa piacere che la specie non sia estinta. Dall’altro ho sempre temuto i rompicoglioni anche se sono simpatici.”

Il cameriere li interruppe portando via i piatti. Il ristorante era quasi lussuoso, rinomato per le specialità ebraiche. Dalla terrazza si aveva un’ottima vista sul quartiere greco e oltre si intravedeva la cupola della moschea di Omar intorno alla quale, nel loro volo silenzioso e micidiale, incrociavano tre droni. Un quartiere relativamente tranquillo e ormai ripulito: ci si poteva risiedere senza grossi rischi.

Flavia riprese il discorso accentuando l’increspatura di disgusto sulle labbra sottili.

“Insomma il nostro compito sarebbe quello di consolare i palestinesi deportati da Gerusalemme…”

“…In transito. I profughi in transito.”

“Già. In transito. Noi dobbiamo facilitare il transito. Renderlo scorrevole. Smussare gli spigoli e calmare gli animi evitando, tra l’altro, che elementi estremisti compiano azioni irreparabili rovinando le infrastrutture messe generosamente a disposizione dalla A-Shem Corporate. Insomma le forze speciali della Sayeret Mat’Kal li fanno marciare con gli schiaffi, noi con le carezze. L’importante è che marcino comunque.”

“Marciare e non marcire, diceva il Vate. Comunque è una visione piuttosto semplicistica la sua.”

“Le cose semplici sono le meno lontane dalla verità.”

“E qual è la verità ? Diceva Pilato…”

“Non faccia l’idiota.”

Accompagnando il gesto con un sorrisetto rabbioso di intesa Remo, abbandonata l’infruttuosa manovra di agganciamento pedestre, passò all’azione diretta andando ad appoggiare senza complimenti la mano sulla coscia di Flavia. La ragazza represse la voglia irrefrenabile di allungargli un destro ai coglioni. Conveniva aspettare. Restò immobile.

“Parliamo di questo transito, allora.”

“Se non ha argomenti più interessanti”. La mano di Remo non si mosse.

“Dove finisce il – come dice lei – il transito ?”

“Nel Sinai, lo sa benissimo.”

“Questo lo sostiene la stampa occidentale ma…”

“Nel Sinai. Centri di raccolta e accoglienza gestiti dagli Egiziani”

“Gli Egiziani non esistono più”

“Non dica sciocchezze”

“Perché non si possono visitare ?”

“Chi l’ha detto ? Io li ho visitati. Le fotografie di Spiegelmann sono state pubblicate su tutti i giornali”

“Spiegelmann è un agente del Mossad

“Certo, anch’io sono un agente del Mossad. Se indaghiamo per bene magari salta fuori che anche lei è un agente del Mossad

“Li ha visitati davvero ?”

Remo ritirò la mano.

“Ne ho visitato uno. Un centro di smistamento. Tutto regolare, pulito. Niente a che vedere con i campi profughi”

“Che sta succedendo veramente ?”

“Vogliono chiudere la questione. Definitivamente”.

“La soluzione finale del problema palestinese”

“Scherza o dice sul serio ?”

“L’ha detto lei. Io ho usato solo un’espressione diversa”

“Non era l’espressione adatta”

“Hanno evacuato Gaza e il West Bank. Hanno rastrellato il Golan e la Transgiordania. Ora svuotano Gerusalemme…”

“Possono farlo. Hanno la forza militare, hanno gli appoggi internazionali. Israele ormai è a tutti gli effetti membro della Comunità Europea e governa di fatto Libano, Siria e Giordania. La Russia non avrà mai niente da ridire finchè le viene lasciata la sua quota maggioritaria nella cogestione euro-americana dei pozzi petroliferi iraniani: con l’alibi del progetto di decontaminazione atomica dei territori colpiti dai bombardamenti Nato hanno ormai campo libero. Gli Usa intanto si tengono mezzo Iraq, l’Egitto e l’Arabia Saudita: la Confederazione Sunnita, come dicono loro, più il Nuovo Kurdistan. E tutti sono contenti. Chi dovrebbe sollevare obiezioni ? Dopo la morte di Arafat, poi, i suoi amici non ne hanno imbroccata una giusta. L’ipotesi dei due stati, d’altra parte, non è mai stata sostenibile: era utile, ora non lo è più.”

“Quindi resta il Sinai. Il deserto”

“Per il momento questa è la soluzione”

“La soluzione finale”

“La smetta. Quello che dice è reato. Lo sa ? Possono arrestarla, estradarla in Israele e processarla per aver detto molto meno di quello cui sta alludendo”

“Sono già in Israele”

“Mi chiedo se è bene che ci resti ancora molto”

“Dipende da lei”

“Come ?”  – la faccia di Ippoliti si immobilizzò in un’espressione stupita, quasi comica. Flavia sorrise, vide la smorfia di un clown a cui fosse scivolato via il naso finto.

“Dipende da lei. Farò parte di una delle colonne di profughi dirette verso il Sinai”

“Impossibile. Siamo in pochissimi ad avere i permessi”

“Lei ed i suoi collaboratori più stretti li avete. Vi hanno persino invitati al party della A-Shem Corporate, domani serasono pochi i goim con questo onore”

“Brava. Sa tutto lei vero ? No, non se ne parla. Potrebbe essere pericoloso”

“Pericoloso per chi ? La aiuterò a facilitare il transito. Nient’altro, lo prometto. E’ questo il nostro compito, l’ha detto lei. Chiedo solo di fare il mio dovere” – Flavia sorrise ancora. Ippoliti notò che quando sorrideva le si formavano due fossette molto carine ai lati del mento. Il naso si riappiccicò come per miracolo alla faccia da clown ma non era una faccia allegra.

“Perché vuole venire ?”

“Voglio vedere. Sono un tipo curioso. Le do la mia parola d’onore che guarderò soltanto”

Embedded” – Bofonchiò Ippoliti annuendo. La sua mano le accarezzò la coscia e poi si posò con delicatezza su quella della ragazza stringendole leggermente le falangi, quasi si complimentasse. Flavia tacque ricambiando la stretta.

Embedded. E’ un letto accogliente, vedrà.”

 

La testa del bambino palestinese si spappolò come un melone maturo lasciando sulla polvere rossastra del viale sterrato una stella più rossa, fatta di sangue, materia cerebrale e frammenti ossei.

“Tombola !” – esclamò il cecchino ridendo. “Te l’avevo detto che lo pigliavo al primo colpo. Passami una birra Uri.”

Uri non si fece pregare. Ruttando passò la lattina e imbracciò a sua volta il fucile di precisione.

“Ora tocca a me.” Soppesò l’arma poi si arrestò, come riflettendo. “Siamo proprio sicuri però che il tenente non avrà da ridire ? In fondo quello non si era mica avvicinato alla recinzione. Dobbiamo sparare solo se sono a meno di dieci metri dalla recinzione. Lo stronzetto passava solo in mezzo alla strada”

“Quando è caduto in terra però è ruzzolato a meno di dieci metri ! “ – il cecchino si strozzò dalle risate spruzzando birra in tutte le direzioni. “Te lo dico io, il tenente è contento. Più ne facciamo fuori di quelli là, più è contento. L’altro giorno si è fatto fare anche la fotografia con la cacciagione, così la chiama lui, per la sua ragazza a Tel Aviv. Ne avevamo beccati quattro e non erano mica vicini al recinto. Gli ordini sono impliciti: meno ne lasciamo in giro, meglio è. Quando hai dubbi spara comunque, così non rischi niente.”

Rinfrancato Uri scrutò attraverso il cannocchiale di precisione. Vide solo polvere e macerie nel riverbero abbagliante del sole.

A meno di duecento metri dal posto di avvistamento invece Nabil strisciava come un serpente fra le macerie. Più indietro si ergeva la torretta di controllo dove un solo ufficiale comandava almeno una decina di droni. Aveva superato con fortuna insperata la rete elettrica di protezione sfuggendo alla vista dei due cecchini appostati oltre il terrapieno ed ora procedeva lento ma determinato sudando e ansimando piano.L’immagine del kamikaze non si addiceva a Nabil e, tutto sommato, neanche quella dei suoi padri fedayn. Non voleva essere un martire ma un guerriero che colpisce e salva la pelle per poter colpire ancora. Un partigiano, così gli piaceva pensarsi. Si era costruito due molotov molto artigianali con cui era riuscito ad incendiare una jeep. L’aveva fatta franca già una volta trovando poi dei compagni che gli avevano passato un kalashnikov con diversi caricatori e un pugnale. Ora ci riprovava: gli avevano detto di eliminare i cecchini e tirar giù più droni possibile. Solo due cecchini e un ufficiale: ce la poteva anche fare. Aveva appena visto il bambino stramazzare colpito senza poter intervenire per salvarlo e fremeva di rabbia e di odio. Sentiva che la rabbia e l’odio lo aiutavano.Ebbe fortuna e non dovette attendere a lungo. Uri uscì dal piccolo bunker e si accucciò dietro un muretto di mattoni dove resti evidenti e maleodoranti sul breve spazio sabbioso denunciavano il suo uso improprio come improvvisata toilette da campo.Nabil aspettò che l’israeliano fosse nel bel mezzo della delicata funzione poi, pugnale alla mano, pensò forte al bambino appena ucciso, a tutti i bambini uccisi, e scattò.Morire non è mai dignitoso ma la morte di Uri non fu meno dignitosa della sua vita. Rotolò sulla sabbia a contemplare sangue e escrementi che si mescolavano. L’ultima cosa che vide fu un mucchietto di merda rossastra e la ruach – avrebbe detto un cabalista, il soffio vitale – non gli uscì in un sospiro né in un singulto ma in un lungo, estenuato peto.Preoccupato per l’assenza prolungata del compagno anche l’altro cecchino oltrepassò il terrapieno ma non fece in tempo a vedere il corpo riverso: la lama di Nabil lo colse proprio alla base della nuca trapassandogli il cervelletto.Gettati i cadaveri nella latrina, il palestinese si impossessò del fucile di precisione – al campo ce n’erano un paio, rubati, e aveva imparato ad usarli – e si portò furtivamente in un punto da cui potesse vedere l’ufficiale arroccato nella sua bassa torretta. Ora lo inquadrava in pieno nel cannocchiale, assorto a scrutare i monitor di controllo dei droni, quasi fosse a due passi da lui. Non c’era modo di sbagliare. Trattenne il respiro e, con calma, premette il grilletto.La raffica improvvisa tagliò il tenente praticamente in due facendo esplodere monitor e consolle. Una ragazza a Tel Aviv avrebbe presto pianto contemplando le foto ricordo di un povero, vecchio fidanzato con “cacciagione”: gli incidenti di caccia sono una questione triste.Nabil invece non apprezzava i souvenir e non aveva fidanzate nè tempo. Gli restavano circa dieci minuti prima che i droni o una pattuglia corazzata piombassero sul posto. Ora poteva anche correre e corse. C’erano molti compagni che lo aspettavano lungo le strade verso il Sinai nel disperato tentativo di bloccare le colonne di deportati e salvare i  prigionieri.

 

La carne arrostita sui barbeque diffondeva un odore pungente di sangue e di brace. Grassi funzionari governativi si ingozzavano a fianco di mogli obese, succhiavano il midollo dalle ossa, si leccavano le dita e si lubrificavano l’esofago con generose bicchierate di vino rosso o di birra. L’ambasciatore statunitense si nascondeva dietro un enorme cous-cous di verdure, mentre la moglie – come una Barbie mummificata – esibiva con munifica sovrabbondanza la dentiera candida agli attacheè europei.Un tripudio di torce nella notte disegnava un’enorme stella di David sull’erba mentre l’incrociare dei droni nel cielo buio rispecchiava il disegno su un piano più alto. Tende e braceri a profusione conferivano all’ampio giardino l’immaginaria suggestione di un’oasi di nomadi nel deserto .

“E’ meraviglioso” – trillò una giovane giornalista dall’aria e dall’accento anglosassone – “non le fa pensare alla corte di Re David o di Salomone ?”

Flavia ricambiò il trillo un’ottava più in basso: “No, mi fa pensare piuttosto a Leni Riefenstahl”. Né la giornalista, né Ippoliti, occupato a spolpare una costoletta, sembrarono afferrare la battuta.

Flavia seppe cogliere al volo l’attimo di pausa per allontanarsi in direzione dei due rappresentanti del presidente della A-Shem Corporate che ruzzavano intorno ad un gruppetto di procaci ufficialesse dell’esercito in alta uniforme. Ippoliti, ancora masticando il boccone, la tallonava dappresso cercando di recuperare lo svantaggio della partenza a sorpresa.

“Non cercare di scapparmi, piccola peste !” – proruppe deglutendo.

“Ma allora non ti fidi di me? Hai paura che combini qualche guaio ? Un incidente diplomatico ?  Credevo che avessimo fatto patti precisi”

“Hai ragione. Scusami, ma – sai – è una situazione particolarmente delicata. Sono un po’ teso”.

“L’appetito non ti manca però”. Flavia scoppiò a ridere impossessandosi con gesto principesco di un calice di vino rosso.

“Pensavo non avresti toccato cibo. Per coerenza, insomma…” – La stuzzicò Ippoliti strizzandole l’occhio.

“Tutt’altro. Sono un’osservatrice partecipante. Voglio rischiare e bere al tavolo degli ospiti arabi: chissà se c’è anche qui uno come Abba Kovner, che nel ’45 voleva vendicarsi uccidendo sei milioni di tedeschi. Si fece procurare dal futuro presidente israeliano Efraim Katzir un bel po’ di veleno da versare nelle condutture idriche delle città più grandi in Germania. Gli inglesi riuscirono però a bloccare la nave in un porto europeo prima che riuscisse a mettere in pratica il progetto” .

“E gli inglesi ci hanno fatto un gran favore, signorina, sarebbe stato un evento estremamente sgradevole. Ma li avevamo avvertiti noi…”. L’uomo massiccio e dall’aria bonaria che l’aveva interrotta, in un italiano quasi perfetto, protendeva verso di lei il suo bicchiere di vino rosso sorridendo. “I nostri ospiti arabi non corrono comunque alcun pericolo. Si rassicuri”.

“Ti presento il dottor Ismar Evron” – farfugliò Ippoliti imbarazzato – “ispettore medico del governo. Lo incontreremo spesso lungo la via del Sinai”

“Mi perdoni se la corrego, caro Ippoliti. Non dipendo direttamente dal governo. Sono un semplice consulente, proprio come lei” – Evron sorrise ancora rivolgendosi a Flavia – “Sarà dei nostri signorina ? La presenza di osservatori stranieri imparziali è quanto mai auspicabile in queste circostanze”.

“Mi auguro di sì, dottore. Non posso però garantirle la mia assoluta imparzialità” – Flavia ricambiò il sorriso.

“Apprezzo la sua franchezza. Spero che avremo modo di farle cambiare idea.”

Sempre più imbarazzato Ippoliti tentò di cambiare discorso, ma temeva di essersi ormai inoltrato su un campo minato. – “Splendida coreografia non le pare dottore ?” – azzardò con voce incerta.

“Non amo i folklorismi. Mettono troppo in risalto la nostra natura tribale e questo mi spaventa” – Evron rise di gusto – “Mi ha fatto lo stesso effetto anche la cerimonia di fondazione del Terzo Tempio ad Haram al-Sharif”.

“Mi stupisce che usi il nome arabo” – lo interruppe Flavia.

“Abitudine. E poi è un nome che suona bene. Ma tutta quella messa in scena in stile kolossal biblico hollywoodiano mi ha depresso profondamente”

“L’intenzione era quella di risvegliare il senso religioso tradizionale. – ritentò Ippoliti – La A-Shem Corporate, che ha finanziato la cerimonia, non è certo un’organizzazione religiosa ma è interessata a perpetuare le radici religiose del suo popolo.”

Evrom lo guardò sornione  – “La A-Shem sa quel che fa e non si è scelta un nome a caso: è il Nome. Quanto a me, pur essendo nella pratica un collaboratore fedele, la penso piuttosto come William Blake”.

“Vale a dire ?” – chiese Flavia, visibilmente incuriosita.

“L’unico nome del boss per me è Nobodaddy, Paparino  Nessuno….con tutto il rispetto. Bevo alla sua salute.”  Evron alzò il calice e tracannò il vino rosso vuotandolo d’un fiato.

In un improvviso passo di danza, improbabile e leggero come Nijinsky, Evron sospinse dolcemente i suoi due interlocutori in un punto più appartato del parco, un triclinio incuneato fra due colonne di una scenografia in stile Nabucco. Ridacchiando estrasse dalla tasca del panciotto un piccolo chillum di terracotta indiano e con gesto rapido ed esperto lo riempì d’erba.

“Volete favorire ? E’ ottima. La coltivo nel giardino di casa mia.”

Un po’ attonita ma divertita Flavia accettò la pipa facendo il primo tiro.

“Prende in gola !” – tossì.

“E’ pura, senza tabacco – spiegò Evron – il modo migliore per gustarla” – Soffiò il fumo verso Ippoliti che contemplava la scena muto. “Non le piace collega ? Io dico che lei ha la pressione oculare troppo alta: la cannabis è un toccasana in questi casi. Non si preoccupi: gliela prescrive un medico.”

Ippoliti si attaccò al chillum e tirò fino alla congestione.

“Così si ragiona ! – riprese Evron soddisfatto – Dicevamo del vecchio Nobodaddy. Sarà contento di noi. Uno di questi giorni ci manderà finalmente il Messia. Che ne dite ? Torneranno a farci visita i vecchi: Abramo, Isacco, Giacobbe…”

“Giosuè – lo interruppe Flavia – soprattutto Giosuè…”

Evrom scoppiò in una sonora risata – “Touché Mademoiselle !  Sarà il benvenuto anche Giosi, ma questa volta Gerico è caduta senza bisogno di trombe ! “

“Io piango  per Gerico”  – disse Flavia.

“Io no. Ma piango per Asherah. Sa chi era Asherah ?”

Evron contemplò le facce mute dei suoi interlocutori, fece un altro tiro e continuò. “Nobodaddy aveva una moglie una volta, si chiamava Asherah. La sua paredra, la sua controparte femminile. Quando decise di fare fuori i Ba’al di Canaan, i suoi colleghi dei, quando volle restare solo e li sbattè tutti all’inferno, eliminò anche sua moglie, Asherah, la dea nutrice dai molti seni: Ishtar come la chiamavano a Babilonia. Noi ebrei – e anche voi cristiani – adoriamo un uxoricida. Jishra-el : Dio è il capo, Dio domina. Lui si manifestò ai Patriarchi come El Shaddai – “El della montagna”, “l’Autosufficiente” – e a Mosè come Jhvh, con i suoi giochi di prestigio a base di roveti ardenti, bastoni e serpenti, i suoi scherzetti con la lebbra…”Io sono colui che sono”. Vale a dire zitto e mosca !” – Evron rise e per la prima volta apparve a Flavia, sovrapposta all’espressione bonaria che l’aveva per un momento sedotta, una maschera tormentata, un teschio di cristallo.

Un’improvvisa esplosione interruppe la conversazione. Una pioggia di minute schegge di vetro ricadde su di loro in un’eco di grida e di spari.

“Kamikaze…sono arrivati fin qui !” – balbettò Ippoliti asciugandosi col dorso della mano il sottile rivolo di sangue che stillava da un lungo taglio sulla tempia.

Nel caos imperante Flavia si aggrappava, terrorizzata e affascinata insieme, al sorriso selvaggio di Evron, al rictus irrefrenabile che gli contraeva il labbro superiore. La sua voce, tagliente come una spada, sembrava salmodiare, un po’ in italiano e un po’ in ebraico, frammenti scollegati del Cantico dei Cantici. Ripeteva soprattutto un verso: “Perché forte come la Morte è l’amore; feroce come gli Inferi è la passione”.

 

Il convoglio si mosse di nuovo sollevando cortine quasi solide di polvere sulla strada assolata. Si erano lasciati alle spalle almeno da un’ora il riverbero d’argento lebbroso del Mar Morto e procedevano lentamente verso l’interno, inoltrandosi nel deserto in una prospettiva labirintica di pinnacoli rocciosi.In testa e in coda solo due jeep con mitragliatrice montata, dieci camion di profughi – circa duecento persone, in prevalenza donne, vecchi e bambini, le cui condizioni generali erano discrete, aveva concordato Flavia con Evron dopo aver dato una sommaria occhiata al carico –  e due di osservatori, giornalisti e soldati.Flavia occupava con Ippoliti, una corrispondente del Frankfurter Zeitung, un misterioso americano e sette soldati, una vettura nella parte centrale della colonna. Avevano perso di vista da tempo Evron disperso da qualche parte e si erano fatti solo un’idea vaga di chi e di dove fossero gli altri ospiti embedded.La tedesca stava flirtando con l’americano che le mostrava tatuaggi multicolori sulle braccia muscolose mentre uno stereo diffondeva a ripetizione, mandando in estasi gli autisti, un vecchissimo pezzo dei Rolling Stones che Flavia aveva sempre detestato: Angie. Ippoliti ronfava rannicchiato sul sedile sobbalzando con un leggero grugnito ad ogni scossone sulla strada dissestata. Gli autisti dopo un’animata contrattazione cambiarono finalmente brano passando, senza troppa fantasia, a Sister Morphine.La destinazione del viaggio non era affatto chiara: Evron aveva parlato di un campo di lavoro all’estremo sud della penisola e l’ufficiale che guidava il convoglio – un capitano col cranio rasato e l’abbronzatura perfetta che faceva il verso a Moshe Dayan, con tanto di benda sull’occhio (Flavia era sicura che ci vedesse benissimo e la tenesse solo per aumentare il suo carisma guerriero) – di un altro, distante parecchie centinaia di chilometri dal primo.  Di certo il vero luogo di raccolta non era né questo né quello e gli israeliani non ci tenevano a divulgarlo: la presenza dei giornalisti era puramente rappresentativa.Flavia, sveglia dalle prime ore del mattino, aveva riempito i tempi morti del viaggio stando in silenzio e ripensando ai giorni appena trascorsi: la cicatrice sulla fronte di Ippoliti, addormentato come un Lucignolo deluso dal Paese dei balocchi, ne era una sottile porta d’accesso. L’esplosione durante il party della A-Shem non aveva fatto vittime se non lo stesso kamikaze: una studentessa di medicina di ventun’anni, al terzo mese di gravidanza, che aveva pagato un prezzo molto alto per interrompere una festa.Nel turbine di ambulanze e volanti della polizia Flavia e Ippoliti si erano attardati insieme ad Evron, che aveva medicato personalmente il ferito, ripercorrendo poi a passi lenti le stazioni della Passione verso il Golgota. Durante la passeggiata notturna avevano fumato tutta l’erba rimasta e si erano scolati un’intera bottiglia di Bowmore, sottratta ad un barman consenziente.

“Non sta bene dirlo in questo momento – aveva puntualizzato Evron – ma se fossi un palestinese farei esattamente quello che fanno loro. Invece sono un ebreo e un cittadino israeliano e faccio il mio dovere”.

“E quale sarebbe il suo dovere ?” – aveva sottilizzato Flavia.

Evron era scoppiato a ridere. “Io sto con gli angeli”. Aveva detto alzando uno sguardo rassegnato verso l’incombere minaccioso dei droni nel cielo buio. “Questi sono gli unici angeli che ci sia dato conoscere”.

Ippoliti aveva vomitato in un angolo, proprio dalle parti del Calvario. “Non mi piace il futuro. – aveva farfugliato – Voi ebrei siete dei feticisti del futuro. Io amo il passato, invece, se è bello. O il presente. Se penso al futuro vedo solo la mia morte”.

“La morte è la soluzione, la vita il problema. Si beva pure l’ultimo sorso di Scotch” – aveva tagliato corto Evron.

Flavia interruppe le sue reminescenze. Il convoglio si era bruscamente fermato. La tedesca e l’americano si alzarono cercando di scendere ma i soldati israeliani, con un gesto esplicito, fecero loro intendere che non era il caso. Ippoliti si riscosse dal suo sonno comatoso.

“Che succede ?” – chiese a Flavia con voce impastata.

“Non so. Si sono fermati.”

“Strano. Dove siamo ?”

“E chi lo sa. In mezzo al deserto. Evron direbbe che stiamo raccogliendo la manna come Mosè”:

“Che vada a farsi fottere pure Mosè” – imprecò Ippoliti: evidentemente non si era svegliato di buon umore.

Per una quarantina di minuti i quattro osservatori si scambiarono in varie lingue le loro improbabili ipotesi sulle ragioni della sosta e cercarono di estorcere ai soldati qualche notizia: ma questi tacevano, giocavano a carte o fingevano di dormire. Gli autisti avevano alzato il volume dello stereo: le note di Shelter from the Storm di Bob Dylan ora invadevano l’abitacolo. Finalmente l’emulo di Moshe Dayan cacciò la sua faccia da pirata oltre il telo grigioverde del furgone, facendo cenno di scendere.

Raggruppati ai lati dei camion in un ampio spazio sassoso, gli ospiti stranieri cercavano di sporgersi oltre la fila schierata di soldati per osservare le insolite procedure in corso. Tutti i deportati erano stati tirati giù dai camion e si trovavano accalcati in un ampio spazio sabbioso: si distinguevano facce esangui di bambini, donne fiere, uomini scarni. Una coppia di soldati stava scortando Evron in mezzo ai palestinesi: il dottore li esaminava uno per uno, faceva loro aprire la bocca guardando i denti, li auscultava brevemente con lo stetoscopio; poi diceva qualcosa ad un assistente che prendeva nota su un taccuino e controllava il numero marchiato con inchiostro indelebile sul braccio destro di ogni profugo.

“Che diavolo fa ?” – chiese Flavia.

“Non so. Li visita, mi pare” – rispose Ippoliti torvo.

Uomini, donne e ragazzi più grandi venivano incolonnati su una lunga fila, mentre vecchi, bambini piccoli, uomini e donne in condizioni di salute palesemente più precarie erano subito ricondotti sui camion. Il sole picchiava  ferocemente e il sudore imperlava le fronti di guardiani e prigionieri: era l’ora delle febbri, l’ora in cui appaiono i demoni meridiani.

La lunga fila degli uomini validi marciò verso i camion di testa, furono caricati a bordo con esasperante lentezza, poi si avviarono i motori. La colonna ora si era divisa in due tronconi: una jeep e sette camion da una parte e una jeep e cinque camion dall’altra. Evron si diresse verso il gruppo più numeroso: Flavia, oltre la barriera dei soldati, cercò di fargli un timido cenno con la mano ma il dottore la ignorò salendo in fretta sul retro della jeep che apriva la colonna. Moshe Dayan impartì l’ordine di rompere i ranghi ed i soldati si ridistribuirono ordinatamente lungo i due tronconi del convoglio sospingendo tutti gli osservatori stranieri verso quello guidato da Evron. Flavia capì che era solo questione di minuti e che, se i militari li obbligavano ad andare da una parte, lei avrebbe dovuto precipitarsi dalla parte opposta, cercando di imboscarsi in una vettura dell’altro gruppo. Ippoliti per fortuna non era un problema: poco socievole dopo il brusco risveglio, stava già montando sul camion più vicino insieme a tre altri giornalisti. Flavia gli gettò un rapido bacio facendogli capire a gesti che sarebbe salita sul furgone seguente insieme ai due vecchi compagni, la tedesca e l’americano, che già si stavano inerpicando sul predellino posteriore. Invece, approfittando della distrazione dei soldati circostanti, sgattaiolò sotto il furgone e, passata dall’altra parte, percorse al riparo di una ripida parete rocciosa il breve tratto fino all’ultimo camion della seconda colonna. Sperando che nessun guardiano fosse salito a controllare gli occupanti dell’auto, saltò dentro trattenendo il respiro. C’erano solo pochi vecchi, un paio di donne dall’aria sofferente e dei bambini molto piccoli che la fissavano con aria stupita.

“Salam” – salutò Flavia con un mesto sorriso.

 

Nabil consultò l’orologio. Il convoglio ritardava ma, se le informazioni erano esatte, avrebbe dovuto passare sicuramente prima del crepuscolo.

Inerpicato sulla cresta rocciosa guardò verso la vallata lontana: in fondo, nella caligine infuocata, si distinguevano confusamente gli edifici del campo: torrette, ciminiere, comignoli, baracche. Impossibile sferrare un attacco diretto, ma, fermando la colonna e liberando i prigionieri si sarebbe potuto tentare un’infiltrazione a sorpresa scatenando una rivolta all’interno ed un’evasione collettiva. Non c’erano droni laggiù e solo il rincalzo di una squadriglia di elicotteri Apache avrebbe potuto sventare la minaccia di un assalto; ma l’aereoporto si trovava a varie centinaia di chilometri e, se l’attacco fosse stato fulmineo, il nemico non avrebbe avuto il tempo materiale per mobilitare i rinforzi. Una  scommessa  probabilmente persa, ma qualcuno di loro alla fine sarebbe forse riuscito a scoprire cosa c’era laggiù, oltre il filo spinato.Gli otto ragazzi che erano con lui, sparpagliati fra le rocce come i guerrieri di Geronimo, apparivano tesi ma decisi. Abdul, il tiratore scelto del gruppo, imbracciava spavaldo il vecchio panzerfaust che doveva mettere fuori combattimento la jeep di testa.Il suo volto affilato era la sintesi fisiognomica di una tipologia umana che il progresso del mondo voleva sopprimere. In lui si riassumevano i tratti dimenticati di milioni di perdenti indomabili: come Cambronne avevano urlato “Merde !” alla storia e la storia reclamava vendetta. La piega ribalda delle labbra ripercorreva le disgrazie di un’originaria rivolta.Inclinato sull’arma sorrise fra sé e si protese oltre il pinnacolo roccioso alzando una mano verso i compagni. In un turbine di polvere lungo la strada sottostante qualcosa si avvicinava.

 

Un brusco stridio di freni ruppe la breve pausa di silenzio dopo l’esplosione. Il convoglio ora era fermo e gli automezzi di coda sgommavano fra le urla e le raffiche di mitra cercando di fare marcia indietro sulla ghiaia e portarsi al riparo. I soldati stavano saltando giù dai camion, incerti se prima  rispondere al fuoco degli attaccanti o sparare sui prigionieri che si davano alla fuga correndo fra le rocce. Flavia piroettò istintivamente fuori dal furgone, rotolando dolorante sulla sabbia fino ad un costone roccioso dietro il quale cercò di nascondersi.Anche le donne palestinesi gridando scendevano precipitosamente dal mezzo: due giovani con i bambini più piccoli le si rifugiarono accanto e lei fece loro posto dietro la roccia. Il soldato più vicino dette una sventagliata di mitra abbattendo due vecchie troppo lente per mettersi in salvo, ma un singolo colpo sparato dall’alto di una collina di pietraglia lo colse a sua volta dritto in mezzo ai rayban: Flavia ringraziò in cuor suo lo sconosciuto tiratore. L’eliminazione di quel pericolo dava loro un attimo di tregua: gli altri soldati erano troppo lontani e troppo occupati per notarle.La figura lontana di un ragazzo palestinese che imbracciava un fucile sull’orlo di uno sperone roccioso, fece loro un cenno con la mano indicando il percorso per allontanarsi dal centro della battaglia. Tirandosi dietro i bambini Flavia dette il via al piccolo gruppo: di corsa si inerpicarono fra le pietraie inoltrandosi in una stretta gola coperta. Si voltò di sfuggita dall’apice dell’altura facendo in tempo a notare in lontananza la jeep in fiamme e le sagome carbonizzate degli occupanti: il vento trascinava nella polvere una benda nera da pirata guercio.

 

Nabil aveva fatto raccogliere i fuggiaschi in un specie di conca al riparo delle colline, i pochi uomini in grado di maneggiare le armi si erano uniti agli aggressori e tenevano a bada i soldati che si stavano ormai riorganizzando.

“Lei non è palestinese. Che ci fa qui ?” – chiese in ottimo inglese notando Flavia.

“Ero con gli osservatori stranieri del convoglio grande. Quando hanno staccato questo gruppo più piccolo sono riuscita a nascondermi: volevano dirottare tutti sull’altro e allora io…”

“Ha fatto bene. Non vogliono testimoni laggiù” – indicò la vallata e i profili indistinti di lontane costruzioni .

“Un campo ?” – chiese Flavia.

“Uno dei nuovi campi. Campi di destinazione, li chiamano”

“Sembra un programma davvero speciale. Avevo sentito delle voci in proposito ma nessuno ne vuole parlare. Lei ne sa qualcosa ?”

“Niente di preciso per ora. Ormai non ci resta che andare a vedere e cercare di tornare indietro per poterlo raccontare”.

“Come spera di riuscirci ?”

Nabil alzò lo sguardo al cielo sorridendo. “Allah è grande” – disse.

Ancora Nobodaddy pensò Flavia aggrottando la fronte: il vecchio demone della montagna, il delirio  di  Abramo.

“Non metto in dubbio la grandezza di Allah, ma voi siete pochi e, a quanto ho visto, male armati: avete già fatto tanto riuscendo a fermare il convoglio. Laggiù ci saranno soldati a centinaia”.

“No. Non sono molti. Li osserviamo da giorni. Solo guardiani e poliziotti e molti prigionieri che noi faremo fuggire. Non ci sono troppi soldati: se hanno problemi chiamano gli elicotteri “.

“Dici nulla. Bastano due elicotteri e siete fregati”

“Non faranno in tempo a chiamarli”

“Non faranno in tempo ? Crede che non abbiano una radio o dei computers? Li avranno già avvertiti appena avete attaccato”

“No. Abbiamo fatto saltare la jeep. La radio di solito è nella jeep”

“Già. Di solito. E poi dove fuggirete ? In fondo al deserto, senza mezzi di trasporto…”

“Li ruberemo al campo”.

“Lei è matto. Mi scusi. – Flavia esitò. Il sorriso del ragazzo la invitò a continuare – “ E’ proprio matto”

Nabil le porse due borracce.

“Faccia bere queste persone e beva un po’ d’acqua anche lei”

“Grazie. Io ho la mia” – rispose Flavia passando le borracce ai bambini.

Estrasse il piccolo termos che teneva alla cintura.

“Ne vuole ? E’ ancora passabilmente fresca”

Il giovane fece un cortese cenno di diniego.

“Torno dai miei compagni” – disse – “Voglio…”

Un improvviso spostamento d’aria lo interruppe facendolo vacillare. La piccola moltitudine quasi all’unisono alzò gli occhi spauriti verso il cielo.

“Droni ! “ – esclamò Nabil esterrefatto – “Ma come possono attraversare il deserto !”

Tutti si lanciarono in una fuga disperata. Anche i combattenti sugli spalti rocciosi abbandonarono la battaglia cercando un inutile rifugio fra le gole. Intanto la squadriglia di droni – nell’orribile, caratteristico silenzio che permetteva loro di giungere sempre a sorpresa come l’Angelo Sterminatore – scendeva a bassa quota disponendosi in formazione a delta.

Nascosto da qualche parte, un oscuro ufficiale davanti ad una consolle, teleguidava i velivoli robot sull’obbiettivo: i volti terrorizzati dei fuggiaschi  baluginavano sfarfallanti sui monitor; le zoomate sulla loro morte saturavano l’obbiettivo delle telecamere installate sulle ali accanto ai lanciamissili; un regista al quartier generale avrebbe in seguito rimontato la scena al rallentatore simulando immaginari dolly e carrelli per un audiovisivo didattico da mostrare alle reclute delle squadre scelte.

 

Flavia si ritrovò a correre all’impazzata insieme a Nabil nell’uragano di polvere sollevata dal volo silenzioso della formazione e dall’onda d’urto delle esplosioni. Istintivamente si erano presi per mano come in un ultimo gesto di fragile umanità: il soldatino di piombo e la ballerina fra le fiamme della fiaba di Andersen. Avevano perso le donne e i bambini dietro di loro, avevano perso Abdul che cercava invano di colpire un drone col suo panzerfaust, avevano perso il senso e il significato delle loro stesse esistenze: resistere significava solo prolungare un’agonia.Correvano per inerzia, sospinti dal vento e da un cieco istinto di sopravvivenza, incuranti di concetti come tempo, direzione o distanza. Un reticolo di filo spinato arrestò la loro corsa.Stranamente non erano stanchi, non avvertivano la sete o il caldo, i battiti del cuore recuperavano la frequenza ordinaria ed il respiro ansimante lentamente si acquietava.Avevano raggiunto il perimetro esterno del primo ordine di recinzione del campo.A poche centinaia di metri di distanza vedevano le torrette d’avvistamento montate su colonne metalliche; le baracche rettangolari più simili, da vicino, a bunker di cemento e l’ampio spazio di raccolta prospiciente ad una piccola caserma in mattoni rossi sul tetto della quale garriva la bandiera azzurra e bianca con la stella di David.Tutto appariva deserto e abbandonato, pietrificato in un’animazione sospesa, nell’eco di un’attività interrotta. Dov’erano i prigionieri ? Nabil era sicuro di averne visti molti nei giorni precedenti, aggirarsi in lunghe file sull’area di raccolta. Dov’erano i guardiani ? Stavano aspettando un convoglio di nuovi arrivati e avrebbero dovuto essere in pieni preparativi per l’accoglienza. Gravava invece un’immobilità e un silenzio innaturale. Perché poi le torri di guardia non li avevano avvistati ? Perché nessuna pattuglia era venuta loro incontro per fermarli ? Perché i droni non li avevano inseguiti ?Le domande si affollavano nella mente di Flavia e di Nabil, ma nessuno dei due parlava: anche i loro visi muti erano parte di quel grande silenzio, dell’inutile attesa di una risposta negata. Lo scatto di un percussore alle loro spalle non era una risposta. Fra lo scatto e la raffica fu come se il tempo si fosse dilatato. Non si voltarono aspettando l’impatto e sembrò che l’eternità avesse spalancato in anticipo i suoi portali. Flavia poteva osservare la scena dall’esterno, con obbiettività, senza fretta e senza rabbia. Fluttuava nel tempo e nello spazio: era una scheggia di vetro nella Notte dei Cristalli, era un fiocco di brina a Varsavia. Considerava, seguendo una trama tortuosa, come la stella delle vittime fosse gialla: la stella azzura, nel ghetto e altrove, la portavano invece le squadre dei collaborazionisti e dei kapò che avevano salvato la pelle.In qualche oscuro modo ebbe coscienza che tutte le vittime sono uguali e tutti i carnefici sono uguali e sentì una certa gioia e quasi l’orgoglio di essere vittima e non carnefice. Ora distingueva le ciminiere in lontananza; la soldataglia che oziava inerte sull’ampio portale; l’eco dei canti patriottici e delle risate, dei colpi di bastone; il cupo viavai presso i grandi camini che svettavano vertiginosi vomitando pinnacoli di un fumo denso e greve.

Gli arcangeli di Nobodaddy volteggiavano in ampie spire su di loro, come avvoltoi nel cielo azzurro: lettere indecifrabili di un alfabeto ostile ordito per celare innominabili segreti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Tutto quello che avreste voluto sapere sullo Struthionidae e non avete mai osato chiedere https://www.carmillaonline.com/2024/01/14/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sullo-struthionidae-e-non-avete-mai-osato-chiedere/ Sun, 14 Jan 2024 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80692 di Giovanni Iozzoli

Proviamo oggi ad occuparci di una legittima curiosità che interessa molti lettori di Carmilla: come può essere gestita concretamente la convivenza tra l’essere umano e lo struzzo? E segnatamente: cosa comporta allevare lo struzzo? Attenzione, non stiamo evocando lo struzzo come figura metaforica – quello che nasconde la testa sotto la sabbia, etc etc – ma parliamo proprio dello struzzo comune, il simpatico pennuto che a molti è capitato di ammirare al circo o al giardino zoologico.

Sfatiamo subito un equivoco assai comune che molti di noi si portano dietro sin dall’infanzia. L’antagonista di Willi Coyote non è [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Proviamo oggi ad occuparci di una legittima curiosità che interessa molti lettori di Carmilla: come può essere gestita concretamente la convivenza tra l’essere umano e lo struzzo? E segnatamente: cosa comporta allevare lo struzzo? Attenzione, non stiamo evocando lo struzzo come figura metaforica – quello che nasconde la testa sotto la sabbia, etc etc – ma parliamo proprio dello struzzo comune, il simpatico pennuto che a molti è capitato di ammirare al circo o al giardino zoologico.

Sfatiamo subito un equivoco assai comune che molti di noi si portano dietro sin dall’infanzia. L’antagonista di Willi Coyote non è “uno struzzo” ma un Geococcyx californianus, un piccolo velocissimo bipede della famiglia dei Cuculiformi . Ci chiarisce questo punto essenziale il signor L.L. (per ragioni di riservatezza preferisce l’anonimato), il quale può essere considerato un autentico esperto di struzzi. Infatti, per circa un decennio ha gestito un allevamento di questi superbi animali e ne conosce a menadito virtù e difetti.

D. Allora signor L., come è nata questa sua intrigante passione per lo struzzo?

R. Boh… non è che c’avessi una grande passione. E’ mio padre che si era incaponito, è partito lui con questa cosa dell’allevamento e ha coinvolto anche me. Io non è che mi fossi mai interessato agli struzzi. Mai, prima.

D. Allevamento, va bene. Ma perché proprio di struzzi, ci domandiamo.

R. Mio padre era così, non ce la faceva a stare fermo, aveva gestito bar, macellerie, ristorazione, si inventava di tutto. Un giorno aveva visto un suo amico, su nel rovigotto, mi pare, che c’aveva due struzzi in campagna e si invaghì di ‘ste beste. Gli dissero che l’affare era buono e lui ci si buttò a capofitto.

D: Che anno era?

R. Mi pare il ’97. Giravano soldi, lavoro, era prima dell’euro, altri tempi. Comprammo un bel pezzo di terra in campagna, tra Modena e Bologna, cinque ettari, che dovevamo farci i gabbiozzi in cemento, tutto un bel progettino. Poi, non mi ricordo bene, arrivò una stracciacazzi di un’associazione… boh… insomma ci bloccò i lavori, perché eravamo proprio al confine col parco naturalistico, una cosa del genere. Così ci siamo limitati alle strutture in legno, perché comunque c’è bisogno di un bel recinto alto e tosto, di ambienti coperti per la riproduzione; insomma, un investimento della Madonna.

D. Ma guardiamo l’aspetto umano: quando suo padre le disse che voleva cominciare ad allevare struzzi, lei che reazione ha avuto?

R. Boh. Niente di particolare. Noi siamo di campagna. Struzzi o altro, allevi quello che c’è. Mi fidavo di mio padre, perché lui c’aveva il pallino per queste cose.

D. All’epoca lei dove lavorava?

R: Ma non facevo niente, ero tornato da poco dalla Thailandia, dove ero stato ospite di amici, perché cinque o sei mesi prima mi ero ribaltato con il muletto e mi ero rotto una gamba, ero andato in causa con la Cooperativa dove lavoravo e così mi ero preso una vacanza lunga, tanto all’epoca di lavoro ce n’era in abbondanza. Quando sono tornato non avevo niente di definito per le mani e allora mi sono messo ad aiutare mio padre nell’allevamento.

D. Quindi, preparato il terreno e le strutture, suo padre ha fatto arrivare i primi esemplari?

R. Si, prima sono arrivati 20 pulcinotti.

D. Sono come i pulcini normali?

R. Teniamo presente che nascono da uova che pesano anche un chilo e mezzo. Sono già grossi come gallinelle. In un anno diventano 100 kg.

D. Azz… e che gli davate da mangiare?

R. Erba medica, fieno, certi mangimi speciali che comprava mio padre. Ma crescono che è uno spettacolo. Che poi sono meravigliosi, hanno tutto un piumaggio tipo ghepardato multicolore. E beccano in continuazione. Come il cane annusa, lo struzzo becca, fin da pulcino. Sono fatti così.

D. Quindi un adulto diventa 100 Kg?

R. Si, sono bestie che possono superare i 2 metri di altezza e pesare 100 anche 150 kg, però da vivi. La carne utile è circa il 35%. Perché non bisogna considerare il piumaggio. Si usano coscia, sottocoscia, tutta quella zona lì; il petto poco, lì hanno poca carne. Ma in generale lo struzzo è utile perché non si butta via niente, anche meglio del maiale: la pelle è pregiata, perché quando lo spiumi e restano i peduncoli dove prima c’erano le piume, viene fuori un specie di decorazione naturale già pronta per farci borsette, portafogli etc; le piume le usi per tutto, quelle belle bianche, sotto le ali, ci fai i cappelli delle majorettes; persino i gusci delle uova non fecondate le vendevamo agli artigiani a 7/8 mila lire: li svuotavamo, li pulivamo e loro li pitturavano o ci facevano dell’oggettistica.

D. Questa parte un po’ truce, che può urtare la sensibilità del lettore di Carmilla, che generalmente è di condizione urbana e di inclinazione raffinata, credo che non la riporteremo. Non vorrei urtare sensibilità diffuse.

R. Vabbé, che lo facevamo a fare l’allevamento, per tenerli come animali da compagnia? Chiaro che li vendevamo ai macellatori. Qualcuno lo macellavamo anche noi, per uso interno. Ma è come l’agnello, la gallina o tutte le altre bestie. Non è che lo struzzo sia diverso. Il contadino come ammazza il maiale, ammazza anche lo struzzo. Se gli dai la giraffa, per dire, ammazza pure quella.

D. Torniamo al principio. Il primo impatto con la nobile bestia, come fu?

R. E chi l’aveva mai visto uno struzzo adulto? I pulcini erano carini etc, ma poi arrivarono gli adulti per la riproduzione, quattro femmine e un maschio. Cazzo che bestie. Rimasi un po’ a bocca aperta. Erano razza Afrikan Black. In corsa potevano arrivare anche a 2 metri e mezzo di altezza. Ce li scaricarono nel recinto e da quel momento si doveva iniziare a gestirli.

D. Il trasporto fu facile, sono docili?

R. Si, abbastanza, perché gli infilano una calza sulla testa e loro si mettono tranquilli. Perché non sono mica bestie da scherzarci. Di cervello è come una gallina, solo che è una gallina che il suo garrese ti arriva al petto. Sai com’è, un bestione così se ti si fionda di corsa addosso, con i suoi 100 / 120 kg, facendo 50 mt in 5 secondi, è come andare sotto a un camion. Ti possono accoppare.

D. Ti ammazzano a colpi di becco?

R. No, non è il becco la parte pericolosa; sono le zampe, che se ti danno un calcio, hanno due unghioni grossi come una mano umana che ti sventrano.

D. E lei all’inizio era preoccupato, suppongo.

R. Sempre, bisognava starci attento. Il primo giorno gli abbiamo tolto la calza e hanno cominciato a correre di qua e di là, per sfogarsi. Avevano un recinto lungo 50 metri a disposizione. Il momento pericoloso era quando andavi a prendergli le uova, là si incazzavano; io giravo sempre con un bastone lungo due metri, li tenevo lontani. Raccolte le uova si vedeva se erano fecondate oppure no. Quelle fecondate le mettevamo in incubatrice e facevamo nascere il pulcino e con le altre ci facevi una frittatina, che con un uovo solo ci potevano mangiare quindici persone. Non sono animali aggressivi. Fino ai 10 mesi sono innocui; poi dopo bisogna cominciare a stare attenti. Sono anche animali ingenui; sono attratti dalle cose lucenti, orologi, braccialetti, vanno subito a beccarli, per provare a prenderli…

D. Come le gazze!

R. Boh. Si, una specie. Ma hanno meno malizia.

D. Com’è considerata la carne di struzzo?

R. E’ magnifica. Secondo me la migliore in giro. Perché a bassissimo contenuto di grassi. In Svizzera la danno ai vecchi nelle case di riposo, per il colesterolo e quelle cose lì. Veramente una bella carne rossa pregiata. Solo che qua faceva fatica ad attecchire. All’epoca finì anche in qualche punto vendita Coop. Però costava troppo, anche 18.000 lire al Kg. Ci potevi fare di tutto, il filetto con l’aceto buonissimo; lo spezzatino, il ragù. Pero qui abbiamo dei limiti mentali, parliamoci chiaro: questa è la terra del maiale, la gente è fissata. Qua neanche il tacchino ha mai veramente messo radici. C’è molto conservatorismo, non li smuovi, gli proponi una cosa nuova, anche migliore, ma loro sono fissati col prosciutto, la coppa e il cotechino. Pensa che noi alla carne di struzzo aggiungevamo il grasso di maiale e ci facevamo anche il salame artigianale, perché la gente è abituata a quella pesantezza lì, una carne con lo 0,2% dei grassi non dava soddisfazione.

D. Bisognerebbe denunciare, queste attitudini conservatrici e retrograde. Bisogna lottare più efficacemente contro il colesterolo. Ma mi spieghi bene come avviene la macellazione, evitando per favore descrizioni crude o termini truci.

R. Mah, bisogna darci una bella botta in testa col cricco. O anche con un martelletto. Perché loro sulla testina (che hanno una testina così piccola piccola, come certe persone) hanno una roba molliccia, tipo una membrana. Se li becchi là, con un colpo li accoppi. Noi di solito non macellavamo, li vendevamo vivi ai macellatori. Qualcuno ogni tanto lo ammazzavamo noi, internamente, così, per uso domestico.

D. E loro grandi e grossi si facevano ammazzare così facilmente?

R. Mica era facile. Io avevo un bastone a uncino. Dovevi prendere la bestia per il collo, atterrarla, avere già la calza pronta in mano. Poi appena morta gli facevi un taglio sulla orta e sotto al collo, per far uscire il…

D. Va bene, va bene, sorvoliamo sui dettagli macabri. Piuttosto, Amore e Morte: parliamo dell’accoppiamento. Anche qui, magari, privilegiando gli aspetti meno volgari…

R. Ah, quello è uno spettacolo. Perché il maschio c’ha un bagaglio di 30, 35 centimetri, tutto viscido, che sembra un serpentone. E’ entroflesso, cioè è nascosto da qualche parte là sotto, nell’addome, e viene fuori solo quando serve. Come il gallo, per dire, e tutti i pennuti.

D. Ah, anche il Buddha, si legge nelle antiche scritture, avesse questa caratteristica fisica. Che poi a che serve? Sarà pure fastidioso. Lei è stato in Thailandia, aveva sentito questa cosa del Buddha?

R. No. Comunque il maschio quando è pronto monta la femmina da dietro e in pochi secondi la feconda. Ne può sistemare anche quattro o cinque. Zac zac. Fa presto.

D. Certo questa è la meccanica (che magari al lettore di Carmilla non interessa), ma io pensavo a qualcosa di più curioso o aneddotico, un rituale di accoppiamento, tipo il pavone e la pavonessa.

R. Ah si c’è anche quello. Lo fanno. Quando il maschio è pronto, che ha voglia, comincia una specie di corteggiamento, non so come dire, cioè si mette a fare un balletto assurdo, si abbassa con tutte le ali aperte, poi gonfia il collo che sembra stia per scoppiare ed emette un suono tipo: UUUUHH, cioè proprio come il suono di una nave, ma forte, proprio tipo sirena. Io la prima volta che l’ho visto ho pensato: oddio, questo sta per scoppiare, perché il collo gli era diventato tipo il doppio di diametro e poi oscillava tutto con le ali aperte. Quello è il corteggiamento. Poi si buttano uno addosso all’altro e diventa una bella massa da 200 Kg e passa.

D. Poi com’è andata con l’allevamento?

R. Mah… la resa non era granché… siamo arrivati ad avere 120 esemplari, ma il mercato non tirava. Poi si è ammalato mio padre e abbiamo venduto le bestie e tutto.

D. Tutto qua?

R. Tutto qua.

D. Ma non è che sia venuto fuori tutto questo materiale interessante, sugli struzzi. Alla fine è un normale allevamento, come avere i polli; solo che sono polli giganti.

R. Eh… questo è… che ti aspettavi?

D. L’accoppiamento l’abbiamo detto…le piume…le uova…basta? Speravo in qualche dettaglio pittoresco, letterario.

R. Letterario? Quelli sono struzzi. Che letterario?

D. Va bé. Tu che fai adesso?

R. Lavoro in fabbrica. Una multinazionale francese. Macchine di movimentazione e sollevamento, autogru. Roba grossa. Due stabilimenti. Brevetti internazionali.

D. Quanti siete?

R. 600 persone, metà produzione, metà area tecnica commerciale.

D. Tu che fai?

R. Sto sulla linea di montaggio, coordino le postazioni perché ormai sono vecchio del mestiere. Io, modestamente, se mi dai la scocca nuda, ti saprei montare da solo tutta l’autogru, dalla parte idraulica fino ai collegamenti elettrici. Poi non ho fatto una gran carriera perché sono un delegato cacacazzi, ho sempre da dire la mia e non mi faccio comandare, specie sulla sicurezza.

D. Com’è il rapporto con la proprietà?

R. Mah, dipende. Va a periodi. Noi come RSU facciamo sempre il nostro dovere, con la contrattazione e tutto. Poi la provincia italiana si sa com’è: sei dentro una multinazionale ma magari ti trovi il direttore dello stabilimento la sera in compagnia nello stesso bar e quindi ci sono anche i rapporti personali e quelle cose lì.

D. E’ cambiato il clima in fabbrica?

R. Cazzo se è cambiato. E’ peggiorato tutto. Adesso c’è una frammentazione che fa schifo. Fino al 2008 eravamo più uniti; quando si scioperava uscivano fuori anche i capetti. Tieni presente che ormai c’è un 40% di interinali, poi ci sono quelli in staff leasing, la cooperativa che ha in appalto la logistica, i tirocinanti. Siamo tutti frammentati. Anche con trattamenti individuali, premialità ai singoli, avanzamenti di carriera basati sulla fedeltà, più che sul merito. Dentro questa divisione noi delegati facciamo quello che possiamo, teniamo i collegamenti, ma sotto gli stessi capannoni ci sono cinque o sei situazioni contrattuali diverse. Adesso stiamo cercando di far avere l’accesso alla mensa interna anche a quelli della cooperativa dei facchini che ha in appalto il magazzino, così almeno mangiamo insieme. Ma è complicato. Poi l’anno sta cominciando male. Ci sono esuberi sulle linee. Parecchi interinali non verranno confermati.

D. Devo trovare una conclusione, che per coerenza del pezzo, dentro bisogna metterci sto cazzo di struzzo: che scrivo? Una cosa tipo: “in fabbrica molti lavoratori sono come gli struzzi che infilano la testa sotto la sabbia” – così, tanto per fare un finale carino?

R. No, non è vera quella cosa.

D. Dei lavoratori, dici?

R. No degli struzzi, non è vero che infilano la testa sotto terra e stanno col culo in aria. Mai visti in 10 anni, fare una cosa simile.

D. A posto. Chiudiamo così, che è meglio.

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Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove https://www.carmillaonline.com/2023/12/22/sacco-e-vanzetti-la-salvezza-e-altrove/ Fri, 22 Dec 2023 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80416 di Paolo Pasi

Paolo Pasi, Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove, ill. di Fabio Santin, elèuthera, Milano 2023, pp. 256, € 18,00.

[«Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla Storia. Un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro gli stranieri, contro i radicali, e ci sembra – anzi, siamo sicuri – che abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare i pregiudizi dei giurati contro di noi. Non abbiamo alcuna fiducia nella legge e nei suoi verdetti. La salvezza è altrove». In questo nuovo saggio narrativo, che completa la sua personale quadrilogia [...]]]> di Paolo Pasi

Paolo Pasi, Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove, ill. di Fabio Santin, elèuthera, Milano 2023, pp. 256, € 18,00.

[«Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla Storia. Un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro gli stranieri, contro i radicali, e ci sembra – anzi, siamo sicuri – che abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare i pregiudizi dei giurati contro di noi. Non abbiamo alcuna fiducia nella legge e nei suoi verdetti. La salvezza è altrove».
In questo nuovo saggio narrativo, che completa la sua personale quadrilogia del Novecento, Paolo Pasi ripercorre la vicenda dei due anarchici Sacco e Vanzetti nella cornice della più ampia epopea delle migrazioni e dei conflitti sociali durante i primi decenni del secolo scorso. Ringraziando la casa editrice elèuthera per la gentile concessione, di seguito si pubblicano le prime pagine del libro – ght]

***

Il palco

C’è una sedia al centro del palco. L’allestimento scenografico è pallido, il biancore lattiginoso evoca la sospensione della vita. Fuori, c’è tutto un mondo ad aspettare che qualcosa accada. Innanzitutto, il pubblico dei giudici e dei giurati, di coloro che hanno confermato il verdetto, con parole gonfie di vendetta o con il silenzio della paura. L’America castigata e benpensante del proibizionismo assiste.

Mezzanotte si avvicina. Tra qualche ora Jack si sveglierà e tornerà alla sua vita di contabile, un ufficio stretto su una scrivania e il ticchettio della macchina per scrivere della segretaria a scandire ore, giorni, anni. Oppure un meccanico di nome Simon ricomincerà a bere stanotte, le mani unte di grasso e l’odore dell’officina addosso. Hanno incrociato la storia dei due protagonisti, ma hanno potuto uscirne fuori, mentre loro – gli attori – si sono consumati per anni pensando a questo momento, e nessuna prova è mai stata sufficiente a rassicurarli.

Sul palco ci sono per ora i personaggi minori: il direttore del teatro carcerario e il suo assistente, il medico, il prete che dispensa una consolazione non richiesta. Hanno preso posizione due elettricisti che hanno appena controllato la sicurezza dell’impianto, e l’uomo che darà il via alla rappresentazione.

Tra poco le luci si abbasseranno, una corrente attraverserà la sala, varcherà i muri e arriverà a toccare migliaia di persone che sono rimaste fuori, escluse, sorvegliate a mano armata dalla polizia. Da giorni marciano e cantano per incitare i protagonisti. La loro voce arriva attenuata, qui dentro.

Hanno sfidato le ore e le condizioni del tempo, e perfino le distanze. Milioni di persone come loro, a centinaia o migliaia di chilometri, stanno partecipando a una protesta planetaria. Operai e minatori, fonditori e braccianti. Vorrebbero entrare in sala per fermare lo spettacolo. Tenere le luci accese per evitare che sul palco osceno cali il buio. Reggono in mano fiaccole e cartelli. A differenza di Jack e Simon, dei tanti giudici o giurati d’America, non possiedono nulla, nemmeno l’effimera sicurezza di uno stile di vita da difendere. Parlano lingue diverse, attratti da un miraggio in costruzione da cui sono stati estromessi fin dal loro arrivo. Proletari senza patria, nati in paesi che probabilmente non rivedranno più.

C’è sempre una sedia al centro del palcoscenico. Nulla si muove, per il momento. Tra il pubblico della prima fila c’è William Playfair, cronista dell’agenzia Associated Press. È l’unico giornalista accreditato per lo spettacolo. Ai colleghi ha promesso il maggior numero di dettagli, l’ha fatto per tenerli buoni, l’invidia è feroce e può arrivare a uccidere, ma lui non se ne fa una colpa. Assiste da una posizione privilegiata per una scelta del caso. Il suo nome è stato sorteggiato da una rosa di candidati. Ha promesso un resoconto ricco e articolato per soddisfare ogni sfumatura di testata. Sarà lui a riportare le dichiarazioni dei protagonisti, a descriverne il passo, le espressioni, il modo con cui entreranno e usciranno di scena.

Un addetto alla sicurezza imbocca il lungo corridoio che dà sulle quinte, simile a una bocca dell’inferno. Tra poco sbucherà il volto del primo attore, un comprimario che si è ritagliato una parte fuori misura, con il risultato che sarà anche il primo a uscire. È ai margini della scena, nessuno urlerà il suo nome, o invocherà il suo riscatto. Nessuna ribalta per Celestino.

Poi, a distanza di pochi minuti, si apriranno le porte ai protagonisti. Prima l’uno, poi l’altro. Arriveranno sotto scorta. Forse cammineranno a fatica, con passi strascicati e deboli, forse la loro sarà un’entrata in scena a testa alta, forse saliranno sul palco disegnando ombre, trame di storie mai vissute, ma che sarebbero potute accadere. Prima di quest’ultimo tratto, ci sono milioni di altri passi che li hanno fatti incontrare, portandoli fino a qui. Per sette anni sono stati chiusi in un camerino con le sbarre. Una lunga attesa per arrivare alla sedia.

Le luci si stanno già abbassando. Lo spettacolo sta per cominciare, William Playfair è pronto sul suo taccuino, il respiro sospeso. Ripassa l’ordine di apparizione degli attori, l’occhio gli cade su un nome, sull’ultimo che calcherà il palco. Si chiama Bartolomeo, e ne ha di cose da raccontare.

Non c’è fretta per il finale.

La sua storia inizia ora.

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Paolo Pasi ha pubblicato con elèuthera: Ho ucciso un principio (2017 n.e.), Antifascisti senza patria (2018) e Pinelli, una storia (2019).

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L’amico Pedro https://www.carmillaonline.com/2023/08/11/lamico-pedro/ Fri, 11 Aug 2023 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78305 di Giovanni Iozzoli

Tutto è cominciato con la carbonara. Benedetta carbonata. Mia moglie dice: voglio fare una bella carbonara ma non ho la pancetta a cubetti, vai al Conad a comprarla per favore. E io lo so che quando si fissa su una cosa non molla. E’ inutile resistere. Allora mi sono vestito e sono andato al Conad, senza fare troppe discussioni. Sono arrivato al passaggio pedonale sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia. Stavo attraversando, poi non mi ricordo più niente.

Adesso eccomi qua. Il pezzo di sopra me lo sento come vaporoso, inconsistente. Quello di sotto, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Tutto è cominciato con la carbonara. Benedetta carbonata. Mia moglie dice: voglio fare una bella carbonara ma non ho la pancetta a cubetti, vai al Conad a comprarla per favore. E io lo so che quando si fissa su una cosa non molla. E’ inutile resistere. Allora mi sono vestito e sono andato al Conad, senza fare troppe discussioni. Sono arrivato al passaggio pedonale sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia. Stavo attraversando, poi non mi ricordo più niente.

Adesso eccomi qua. Il pezzo di sopra me lo sento come vaporoso, inconsistente. Quello di sotto, diciamo dalla vita in giù, piuttosto gelatinoso. Sensazione strana. E poi c’è questa nebbiolina, che non ti fa vedere nulla; e non si capisce bene neanche la profondità, la destra, la sinistra, il sotto, il sopra. E non c’è freddo e non c’è caldo. Un po’ angosciante. Anzi: molto angosciante.

Mi guardo intorno e non vedo anima viva. Non so se devo restare qui o muovermi (ma in che direzione?). Non ci sono indicazioni o percorsi. Che faccio? Sono stranito. E atterrito. Ti senti per la prima volta in vita tua davvero solo. Di una solitudine che non hai mai provato prima: solo nell’universo. E provi un bisogno fortissimo di incontrare qualcuno. Vorresti una guida, o comunque un compagno di strada, chiunque andrebbe bene. Ma senti anche che è impossibile incontrare qualcuno che ti conosce in un posto così. Vorresti urlare, ma come in certi sogni, sai che la voce non uscirà. Essere soli in mezzo al nulla, girare su se stessi, stringere gli occhi, cercare di penetrare la nebbia con lo sguardo. Dove sono, chi mi aiuterà? Chi?

E’ mentre sono all’apice del mio sconforto, sento una voce calda, rassicurante:
– buongiorno Antonio!
Mi volto pieno di speranza, qualcuno mi ha individuato, qualcuno è venuto finalmente a prendermi. Ma non vedo nessuno, in mezzo alla caligine. Sto sognando?
– Qui, qui sotto Antonio, abbassa la testa.
E finalmente lo vedo. Il mio Pedro è lì. E’ venuto a farmi compagnia, il mio Pedro. L’aspetto fiero del mezzo pastore tedesco che fu. Lo sguardo leale, sincero, il mio Pedro. E parla. Sta parlando, Pedro. E ha proprio la voce che uno avrebbe potuto immaginare.
– Pedro amico mio… ma sei proprio tu… ma tu parli?
– Si Antonio. Qui anche noi parliamo.
– Gesù, meno male, che gioia averti trovato. Pedro, Pedro mio, mi sentivo tanto solo, ma adesso che ci sei tu sto meglio. Il mio cagnolone. Amico mio. Com’è strano sentirti parlare. Ma anche bello. Hai una voce che dà sicurezza. Pedro, Pedro. Ma sono finito nel paradiso dei cani?
– No Antonio.
– Ma posso stare tranquillo? Con te mi sento tranquillo.
– Si certo, fino a che ci sono io con te, puoi stare tranquillo.
– Meno male. Che angoscia.  Questo posto è così strano. Non ho capito cosa ci faccio qui. Che bell’aspetto che hai. Hai una fierezza, un pelo nero, lucido. Io invece mi sento come una medusa, tutto sciolto, vago.
– Si, è l’effetto iniziale del non avere un corpo.
– Pedro caro… sapessi come abbiamo pianto, quando sei morto.
– Si lo so. Luisa ha molto sofferto. Mi voleva bene.
– Certo, Pedro. Ti volevamo bene. Anche io, no?
– Hmm…
– Anche io, te ne volevo. Ma… hai dei dubbi?
– No, no. Lo so che mi volevi bene. Però…
– Però che?
– Parliamoci chiaro, per te ero un po’ una scocciatura.  Portarmi giù, e poi le spese del veterinario, e i peli da tutte le parti, che ti lamentavi sempre…
– Ma no, no, Pedro, amico mio. Ma che dici? Ma credi che non ti amassi anche io? Mi fai dispiacere, se dici così. Ti ho sempre trattato più che bene… Ti facevo anche le coccole, non ricordi?
– Lo so, lo so tranquillo. Però…
– Però cosa?
– Ecco, parliamo delle coccole.
– Poche?
– No, non è la quantità. Parliamo della modalità. Ti ricordi che mi accarezzavi sempre le orecchie?
– Si, ti accarezzavo la testa, tutto.
– No, segnatamente le orecchie.
– Non mi ricordo… boh… ti toccavo.
– Si ma avevi una preferenza per le orecchie
– Non lo so… avevi delle belle orecchie….
– Allora, chiariamolo: ai cani non piace assolutamente che qualcuno tocchi loro le orecchie.  Non lo hai mai sentito dire? Non fare quella faccia innocente.
– Ma… io non mi ricordo… ma che ne so, che non ti piaceva?
– NO! Non a me. A nessun cane piace che si tocchino le orecchie.
– Si, ma non ti agitare Pedro… amico mio…
– Non piace assolutamente ai cani che qualcuno tocchi loro le orecchie! N-O-N P-I-A-C-E, capito?
– Si, si… ma non ti arrabbiare… Pedro, ti prego… come facevo a sapere che non ti piace farti toccare le orecchie?
–  Non fare lo gnorri. Lo sapevi benissimo. C’era scritto sul libro dei cani che avevi regalato a tuo figlio.
– Ma… ma io.. .non mi ricordo..
– Allora, coglione, due sono le cose: o non lo hai mai letto o lo avevi letto e te ne sei fregato. E non so cosa sia peggio, per Dio!
– Ma, Pedro… mi meravigli… sei veramente… ingeneroso… perchè fai così?
– E sai perchè mi toccavi le orecchie? Te lo dico, coglione? Perchè così non ti dovevi abbassare troppo. Perchè il libro parlava della pancia! Ai cani piace se gli tocchi la pancia. Capito? Conosci la differenza tra la pancia e le orecchie? Per non piegare la tua bella schienina ho dovuto sopportare le tue manacce sulle mie orecchie per 16 anni.
– Pedro, mi dispiace… mi dispiace tanto… ti prego perdonami…
– Sei in panico, vero? Stai pensando: ma come, trovo il mio cane qui, che mi dovrebbe fare da guida e adesso quello si incazza per la storia delle orecchie…  eh eh… ma dai, sto scherzando… su Antonio… sembri un ragazzino… di che hai paura, cosa può succederti di peggio? Ormai sei morto.
– Stavi scherzando?
– Ma certo. Ti voglio bene. Non ti abbandono mica.  Non preoccuparti.
– Meno male.
– Per quanto…
– Oddio, che cosa vuoi tirare fuori ancora?
– Vogliamo parlare della castrazione, stronzo? Pensavi che fosse una cosa carina, tagliarmi i coglioni?
– Madonna, anche quella storia. Ma l’abbiamo fatto per te. Ti evitavi dei problemi di salute. Eri soggetto non mi ricordo a cosa… Ce l’aveva detto il veterinario… E’ stata Luisa a insistere. Io avrei evitato, credimi. E’ stata Luisa.
– Va bè, va bè… lasciamo perdere. Non rivanghiamo.

A un certo punto, si sente come una brezza; che poi diventa una folata di vento; e una luce via via sempre più intensa fende la nebbiolina collosa. E davanti a me, ad una distanza indefinita, improvvisamente si materializza un incredibile corteo. Non so come definirlo: sembra una scena mitologica. Si vede una torma di cani bianchi, nordici, bellissimi, che sembrano correre ma senza muovere le zampe; e sopra al nobile branco troneggia una figura di donna piena di fulgore, con gli occhi sbarrati, fanatici, e un po’ di veli svolazzanti in dosso; e lei pare guidare il branco, indicando la direzione di marcia, protesa in avanti; e sembra fluttuare in piedi sulle schiene dei cani che la trasportano ululando; è bellissima (anche piuttosto spogliata). Io sono a bocca aperta. Il corteo passa oltre e si perde nella nebbia. Pedro si è tutto irrigidito, come sull’attenti e sembra sorridere compiaciuto. La faccia della donna-dea-cane, mi ricordava qualcuno. Minchia, no, non può essere. Ho un sospetto.
– Scusa Pedro, ma… hai visto… quella tipa, sulla schiena dei cani… ma non assomigliava…
– No, non “assomigliava” a tua moglie Luisa. Lei è Luisa. La nostra cara Luisa.
– Noo… Oddio… mia moglie… ma che ci fa qui?
– Quello che ci fai tu.
– Mia moglie è morta… Dio, no… no… Lo sapevo che non avrebbe retto… quando ha saputo di me è morta anche lei… forse anche il senso di colpa, poverina, mi aveva mandato lei a prendere la pancetta a cubetti…
– E’ morta oggi. Ma non è morta per te. Non ti preoccupare. Tu sei morto già da un anno.
– Come da un anno?
– Si sei rimasto in uno stato sospeso. Capita ai soggetti un po’ ottenebrati. Ti sei svegliato adesso, ma è un anno terrestre che sei morto…
– E lei?
-Lei è morta per un incidente stradale la scorsa notte. Non ha sofferto. E’ stato un attimo. Si era anche trovata un altro, se ti interessa. Appena morta, sta veleggiando verso il Paradiso della Beatitudine Estatica. Il suo amore per i cani la sta conducendo lì. Quello è il suo livello. Il suo era un amore sublime, purissimo. E’ in quel paradiso che vanno quelli come lei.
– Oddio… starà bene?
– Non preoccuparti di lei. Pensa a te.
– Ma la rivedrò mai?
– Non credo, francamente. Conoscendoti. Sei poco estatico, direi, a occhio e croce. Solo con la Champions andavi in estasi. Ma converrai che è un po’ poco per meritare il paradiso, non credi? Quando ti interrogheranno e ti chiederanno: cosa hai fatto della tua vita? Tu risponderai: ho visto molta Champions.  Chissà se esiste un paradiso della Champions. Devi informarti.
– Ma perché, qui interrogano?! Comunque, Pedro, sono basito. Hai un astio… quasi un odio…
– Lascia stare. Tanto me ne sto andando.
– Dove vai? Mi lasci qui? Pedro?  Ma allora questo non è il paradiso?
– No, Antonio. E’ una specie di sala d’attesa. Io non posso restare. Ho la mia strada, la mia collocazione. Volevo solo vederti. Ciao e buona fortuna, ne hai bisogno. Vado a salutare Luisa
– Ma ci rivedremo?
– Non credo. No.

Se n’è andato. Si è infilato nella nebbia e via: scomparso. Forse me lo sono solo sognato. Ma io che faccio qua? Una sala d’attesa? Se fosse una sala d’attesa mi siederei. Ma non c’è neanche una panca. Anzi, a pensarci non ho neanche più un culo. E anche mia moglie me la sono sognata? Ma era davvero lei, mezza spogliata, in mezzo a tutti quei cani? Forse questo è solo un luogo di illusioni, dove i cani parlano e le mogli rompicoglioni diventano dee. Boh. Qualcuno verrà a prendermi. Un bello stronzetto, il nostro Pedro. Cosa significa che non sono estatico? Sono una persona normale. Che dovevo fare, andare in estasi ogni due minuti? Ma io lo so cosa voleva dire. La verità la conosco, purtroppo. Ma non è colpa mia. Mia moglie buonanima me lo diceva sempre, che io non sono capace di pensieri profondi, o di slanci. Sono un mediano. Non sono buono nè per il paradiso nè per l’inferno. Forse per quello mi hanno messo in sala d’attesa. Forse è come diceva mia cognata, la buddista: ci reincarniamo. Mah. Non si capisce niente. Certo, quel Pedro, non me l’aspettavo. Quando gli dai da mangiare scodinzolano tutti contenti. Non sai mai cosa pensano, quelle bestie; ti leccano le mani ma guardano tutto, ti spiano, ti giudicano. Vai a capire. Ma poi chi è che me lo ha messo contro? E’ stata Luisa? Luisa gli parlava di me? Era lei che gli diceva che io non avevo slanci? Mi consideravano un cretino, un superficiale, un mediocre? E perché? Perché avevo una vita ordinaria? Lo so. Non sono mica Sandokan. A 55 anni che dovevo fare? Diceva che non leggevo mai niente; lei, cassiera alla Coop, era tutta orgogliosa perché leggeva Recalcati. Capirai, Recalcati… Ma perché mia moglie mi ha sempre sottovalutato? Perché pensava che fossi un’animuccia? Io non mi sento un mediocre. Forse un tiepido? Ma chi è che può leggere davvero dentro le persone? Chi è che ha il diritto di giudicarle? Cosa sapeva mia moglie di ciò che mi si agitava dentro, della mia vita interiore, di quello che avrei voluto essere o vivere, e adesso è tardi, tardi per tutto tranne che per i rimpianti? E del resto dei mediocri cosa dovremmo farci? Bruciarli? Farli scomparire? Perchè attaccano queste etichette alla nostra vita? Tanto: profondi o superficiali, sensibili o cinici, tutti qua finiamo, in sala d’attesa. Eppure vorrei tornare indietro, ridare un senso diverso ai miei giorni, dare valore a ogni istante… leggere di più…e riflettere, riflettere, scavare nella mia coscienza, e aprirmi nuove prospettive. I rimpianti: si, i maledetti rimpianti. Chi l’ha detto che io non sono capace di pensieri profondi? Chi l’ha detto? Chi? Chi?!
Comunque se torno a nascere, basta cani.

– Chi c’è? Chi è là in fondo? Una figura umana. Non pare minacciosa, sembra piccola, fragile. Una signora, sembra. Un’anziana, con la borsetta. No, non può essere. Sembra… sembra lei… la mia povera mamma. Mamma, mamma sei tu? Sei venuta a salvare il tuo bambino? Che tenerezza, è vestita come quando andava a messa. Mammà! Voglio correre a buttarmi ai suoi piedi, sono quarant’anni che non la vedo. Mamma. Mamma. Però ha una faccia… Ha la faccia che aveva quando era incazzata. Era spesso incazzata. Del resto ce l’aveva sempre con me: mia sorella era perfetta, ero io il caprone della famiglia. E’ stata arrabbiata con me fino in punto di morte. Sembra non mi abbia ancora visto. Che brutta espressione che ha. Pare proprio stia cercando me. Avrà qualche filippica in serbo da quarant’anni. Sai cosa? Io non chiamo nessuno, mi faccio i fatti miei, me ne sto qui in sala d’attesa, mi acquatto nella nebbia e aspetto. Oddio, chi è quello… è spuntato pure mio padre. Giù, giù… stiamo giù.

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Prigioni https://www.carmillaonline.com/2023/02/04/prigioni/ Sat, 04 Feb 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75946 di Serena Penni

Quando ero bambina mi volevi un bene immenso. Ritrovo tutto quel bene in una serie di immagini: tu che mi compri un gelato al cioccolato, tu che mi asciughi le lacrime dopo una caduta dalla bicicletta, tu che mi stringi la mano mentre mi trascini sicura in mezzo a una folla di sconosciuti. La domenica andavamo sempre a trovare i nonni. A me quelle giornate lunghe, fatte di film per bambini, giochi da tavolo, torte margherita e baci sulla guancia non dispiacevano. Mi dispiaceva però sentirti parlare con [...]]]> di Serena Penni

Quando ero bambina mi volevi un bene immenso. Ritrovo tutto quel bene in una serie di immagini: tu che mi compri un gelato al cioccolato, tu che mi asciughi le lacrime dopo una caduta dalla bicicletta, tu che mi stringi la mano mentre mi trascini sicura in mezzo a una folla di sconosciuti. La domenica andavamo sempre a trovare i nonni. A me quelle giornate lunghe, fatte di film per bambini, giochi da tavolo, torte margherita e baci sulla guancia non dispiacevano. Mi dispiaceva però sentirti parlare con tono alterato, vedere i lineamenti del tuo viso tendersi, il tuo sguardo inquieto cercare invano un appiglio tra volti annoiati e sospiri di impazienza. Il mio mondo era ancora altrove. Coccolavo la cugina piccola, ammiravo la grande. A quei tempi non capivo che cosa ogni domenica ti portasse nella villa sontuosa i cui abitanti ti facevano stare così male. Mi sembravi un mulo ottuso e testardo, un cane che si è autocondannato a inseguire un padrone crudele. Oggi invece mi fai compassione se ti rivedo nei tuoi gesti di stizza, nelle tue porte sbattute, nel tuo tornare ancora e ancora dove avresti trovato solo dolore.

A sera rientravamo a casa nostra, e tu eri quella di prima. Ero felice con te, poi un giorno tutto è cambiato. Deve essere successo in maniera lenta, graduale, ma io me ne sono accorta all’improvviso. Avevo dieci anni, ero seduta sul tappeto della mia camera a vestire e svestire la mia unica barbie. Avevo visto, attraverso la grande finestra, il pomeriggio farsi sera e la sera farsi notte. A un certo punto ti eri affacciata alla porta e mi avevi dato la buonanotte con aria distante. Indossavi una vestaglia a fiori. Ebbi un tuffo al cuore: ti eri dimenticata di prepararmi la cena. Fui sul punto di dirtelo, ma mi accorsi che non avevo più fame. Mi accorsi anche che i miei capelli, i miei bellissimi capelli biondi, così simili ai tuoi, di cui eri andata tanto fiera e che un tempo mi spazzolavi per ore, erano acciocchettati e unti: da quanto non mi dicevi di lavarli? Mi spogliai, piegai con cura i vestiti e mi infilai sotto la doccia. Mentre lasciavo che l’acqua mi scorresse addosso, piangevo. Da quella sera ho iniziato a sentirmi sola e non ho più smesso.

Fare l’attrice era sempre stato il tuo sogno; un brutto giorno qualcuno ti aveva detto che forse era possibile, aveva acceso in te la luce ingannatrice della speranza. Allora ti eri buttata anima e corpo nella recitazione, vi avevi riposto tutte le tue aspirazioni, tutte le tue velleità puerili di donna fallita. Recitare ti era sembrata una buona cura per le tue frustrazioni. La rivincita su una famiglia che non ti aveva mai capito, su un fidanzato che ti aveva lasciato ancora prima che io nascessi, su una bellezza e una grazia inutili. E così io mi ritrovavo una madre che aveva deciso di dedicarsi al culto ossessivo della propria realizzazione, della propria rivalsa. Era durissimo starti accanto, dal momento che ero diventata invisibile; ormai non potevo fare altro che contare gli anni, i mesi, le settimane, i giorni che mi separavano dal momento in cui me ne sarei potuta andare.

Quando poco fa ti ho vista qui in aeroporto in fila per il check in, mi sono detta che la chirurgia estetica fa miracoli. Sono passati vent’anni e mi sembri uguale a un tempo. Hai solo preso qualche chilo. Hai ancora gli occhi e la bocca molto truccati. Ti osservo per qualche istante, poi mi giro dall’altra parte. Ti ho abbandonato una mattina fredda, d’inverno. Quando mi sono ritrovata per strada tirava forte la tramontana e io non sapevo dove andare. Mentre uscivo ti ho detto: non cercarmi, non tornerò. Ho urtato per sbaglio un bicchiere di vetro arancione che si trovava sul tavolo vicino alla porta. I pezzi di quel bicchiere, sul pavimento di marmo chiaro, sono l’ultimo ricordo che ho della casa dove sono cresciuta.

Ti ho abbandonato a te stessa e non so se hai provato rabbia, dispiacere o indifferenza. Avevi all’incirca la mia età di adesso. Eri bella, però non ti bastava. Non ti rassegnavi alla tua mediocrità. Non avevi talento, lo sapevi ma non lo accettavi. Ed era penoso per me, diciottenne magra e sgraziata, essere l’unica spettatrice del tuo quotidiano, squallido spettacolo. Anche se avessi voluto, non ci sarebbe stato modo di mettermi al riparo dalle tue esibizioni, perché abitavamo in un monolocale. La tua voce impostata mi rimbalzava continuamente nelle orecchie, la tua faccia trasformata da espressioni grottesche mi osservava da ogni angolo, si rifletteva in ogni specchio possibile.

Quando ti ho lasciato, la tramontana per me sapeva di libertà. Tu eri chiusa nella tua gabbia, intenta a leccarti ferite per me inesistenti. Ero maggiorenne da quattro giorni. Ti ritrovo solo adesso, mentre aspetti il tuo turno per imbarcarti per Parigi. Non posso fare a meno di chiedermi se la borsa rossa che stringi nella mano destra sia il tuo unico bagaglio. Non hai avuto fortuna nel teatro: la tua espressione non dà adito ad alcun dubbio.

Quando me ne sono andata di casa, ho capito subito che non avevo molte possibilità. Ero bruttina, non sapevo fare niente e non avevo amici. Ho chiesto aiuto ai nonni; le persone che tu alla fine eri riuscita a lasciarti alle spalle, le comparse scialbe delle domeniche della mia infanzia. Ho rivisto il lusso, le tende pesanti, i mobili antichi, le tovaglie ricamate, le posate d’argento e i piatti di porcellana. Qualche volta ho sentito la tua mancanza, in quel vuoto senza luce, senza conforto. Eppure sapevo che no, da te non potevo tornare.

Una mattina sono scappata anche da lì. Nessun bicchiere si è rotto, non tirava vento e anzi il tempo era primaverile. Non c’è stato bisogno di dire di non cercarmi perché tanto sapevo che a nessun abitante di quel mondo morbido e setoso sarebbe venuto in mente. In pochi mesi ero cresciuta. Avevo imparato che nessuno avrebbe potuto salvarmi. La notte prima di andarmene ho fatto un sogno. Indossavo un tutù bianco e delle scarpette rosa. Ballavo su un palcoscenico illuminato. A un tratto sentivo un applauso fragoroso e, nello stesso momento, una tromba d’aria mi avvolgeva; mi sollevava da terra e mi scaraventava con una violenza inaudita su uno scoglio in riva al mare.

Dopo aver lasciato la villa dei nonni, ho iniziato a girare, a farmi ospitare da qualche conoscente, a chiedere asilo nelle case di accoglienza, ma finivo sempre per sentirmi fuori posto. La mia storia è triste a banale, e se potessi raccontartela forse ti annoierei. Magari invece saresti curiosa, e allora ti direi: Proprio non riesci a indovinare? E poi: Scusa, prova a riflettere. Cosa sapevo fare? Niente. Cosa avevo di speciale? Niente. Possedevo solo un corpo, che a quei tempi non era né bello né brutto, ma era il corpo di una donna giovane. E gli uomini erano disposti a pagare per fare l’amore con me.

Rivedo appartamenti bui, sordidi, con troppa roba accatastata. Materassi consumati, angoli umidi, macchine che puzzano di sigaretta e di gomme da masticare alla menta, foglie secche sull’asfalto bagnato, grandi pozze d’acqua in cui si riflette il cielo plumbeo. Non ricordo più le mani, le bocche, i corpi; non sento le risate, i sospiri che pure devono esserci stati. Non ricordo i soldi con cui sono stata pagata. Le parole cattive, o ironiche, o di commiserazione che mi sono state dette. Non ricordo la faccia della persona che mi ha colpito, tranne i suoi occhi nerissimi e fissi nei miei. Ricordo invece la botta che ho preso alla testa contro lo spigolo del marciapiede; lo smarrimento, la paura e il pensiero rassicurante, venuto subito dopo, che se non c’era sangue, se non provavo dolore, non potevo essermi fatta davvero male.

Adesso che ti guardo stanca e annoiata fare la fila al check in, mi sembra strano averti tanto disprezzata, dopo tutto la mia vita non è stata migliore della tua. Almeno tu avevi un sogno, per quanto sciocco. Chissà quanto vivrai. La mia esistenza terrena si è fermata contro un marciapiede all’ora del crepuscolo, un venerdì sera. La mia anima vaga ancora, ma presto troverà pace, lo so, lo sento. Avevo solo bisogno di vederti un’ultima volta, di dirti addio.

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La visita a zio Gerardo https://www.carmillaonline.com/2023/01/28/la-visita-a-zio-gerardo/ Sat, 28 Jan 2023 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75763 di Giovanni Iozzoli

Ero arrivato davanti alla Residenza Socio Assistenziale T. Meliconi, in un tardo pomeriggio di marzo, quando viene fresco e buio verso le 6. Stavano finendo gli anni 90. Stavano finendo molte cose. Ero di passaggio a Rimini, potevo trattenermi giusto un’oretta e poi continuare il mio giro – Ancona, Ascoli e tutta la via crucis. E’ che io avevo sempre promesso alla buonanima di mia madre che sarei venuto a trovare zio Gerardo, prima o dopo. E adesso che lei era morta, mi sembrava buona creanza ottemperare. Non che ne [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Ero arrivato davanti alla Residenza Socio Assistenziale T. Meliconi, in un tardo pomeriggio di marzo, quando viene fresco e buio verso le 6. Stavano finendo gli anni 90. Stavano finendo molte cose. Ero di passaggio a Rimini, potevo trattenermi giusto un’oretta e poi continuare il mio giro – Ancona, Ascoli e tutta la via crucis. E’ che io avevo sempre promesso alla buonanima di mia madre che sarei venuto a trovare zio Gerardo, prima o dopo. E adesso che lei era morta, mi sembrava buona creanza ottemperare. Non che ne avessi voglia, si capisce. Quei posti lì mi mettono sempre un po’ di depressione, di angoscia. Ospizi e ospedali. Quando devo entrarci mi tornano in mente quello che vidi da ragazzino nella cripta di una chiesa a Roma, non ricordo quale; c’era una teca piena di ossa e di teschi e sopra la scritta: Hoc sumus. QUESTO, SIAMO.

Adesso però, nel salire le scale, cercavo di farmi forza. Non stavo andando in un ossario, questo era un posto ancora pieno di vita, dove si facevano tante cose buone per gli anziani. Tenerli occupati, socializzare, quelle cose così. E poi c’erano i medici, il personale e magari anche qualche bella infermiera sorridente ad accogliermi. Insomma, non dovevo farmi affliggere dall’ambiente. E soprattutto non pensarci, al fatto che dentro una struttura così, a suo tempo, potremmo finirci tutti. Ospizi, ospedali e anche cimiteri: questi sono i posti che mi impressionano un po’. Anche le chiese antiche con le cripte: se posso le evito.

Entro dentro e alla reception, invece, della bella infermiera trovo un tizio tarchiato, con i baffi e gli occhiali. Mi dice il piano e il numero di stanza e mi fa segno di salire. Sono un po’ interdetto. Pensavo che qualcuno mi accompagnasse. Che faccio, mi presento io a zio Gerardo, così, di punto in bianco, dopo 30 anni che non ci vediamo? Sicuro non mi riconosce. Io speravo nella bella infermiera che mi facesse strada e dicesse: “signor Espositooo, guardi che bella sorpresa è venuto suo nipote a trovarlaaa…”.

Comunque zio Gerardo si era scelto un bel posto, per venire a morire, a 500 metri dal mare. Forse ormai si guadagnava più coi vecchi che con i turisti. I vecchi duravano tanto, non cambiavano sede una volta stabiliti e spesso avevano delle belle pensioni da spremere. I turisti invece erano fugaci falene che danzavano al sole per qualche settimana e poi sparivano, inafferrabili e traditori. Era per quello che il villone a tre piani dell’ospizio non era mai diventato un albergo per bagnanti.

La vita epica di zio Gerardo era stata una specie di leggenda, in famiglia. Lo si citava spesso come esempio di indomita capacità di adattamento. Era un fratello di mia nonna e mentre tutta la sua famiglia, come i suoi antenati, erano rimasti eternamente inchiodati alla terra e alla zappa, lui aveva girovagato per paesi e città come uno zingaro, trovando sempre una soddisfacente collocazione, ovunque andasse. Era scappato via dal paese giovanissimo, prima che arrivasse la cartolina che lo avrebbe mandato a morire in Africa Orientale. Era stato in Svizzera e in Francia. Era rientrato a guerra finita, da orgoglioso disertore, e si era rimesso subito in cammino – un paio d’anni da un cugino in America. Era tornato in Europa per andare a fare il minatore in Belgio, dove pare pagassero molto bene. A Marcinelle, per un fortunato cambio turno, salvò la pelle – e la raccontava sempre, quella storia, a noi nipoti piccoli, per farci capire le cose della vita. Girò ancora per fabbriche e cantieri d’Europa e in età ormai avanzata si spostò sulla riviera romagnola, in pieno boom turistico, e siccome sapeva far tutto, era laborioso, simpatico e impavido, gli stabilimenti se lo litigavano come factotum. In famiglia si diceva che non si fosse mai sposato perchè era un po’ donnaiolo.

Da qualche anno la sua salute da 85enne era peggiorata e una qualche demenza oscura e silenziosa gli aveva fatto smarrire lo sguardo nel vuoto, a farfugliare preghiere misteriose e inconcludenti. Il cervello dello zio era diventato in poco tempo una cittadella abbandonata, riconquistata dalla natura del deliquio, del sogno, dell’immaginazione, del caos da cui tutti proveniamo.

Al secondo piano mi si para davanti una suora dall’aria indaffarata. E’ piccola, bianca immacolata, con lo sguardo metallico dietro le lenti spesse. Le dico chi cerco e lei mi fa segno di seguirla; mi inchino rispettoso, le suore mi mettono sempre soggezione.
Lei arriva davanti ad una porta in fondo al corridoio e senza troppi complimenti, senza nemmeno bussare, apre. Mi infilo nella stanza. Là dentro tutti gli odori si mescolano, con le finestre e le tapparelle serrate: canfora, medicinali, urina, i resti della cena su un vassoietto. La suora è andata. Non so che fare. Dico: buonasera e piano piano striscio dentro, col mio pacco di Ferrero Rocher in mano, che ho comprato all’autogrill. Già mi manca l’aria.

Mio zio stava dormendo su una poltroncina, in un angolo. Si faceva fatica a riconoscerlo. La pelle del viso cadeva da tutte le parti, il mento era come rigonfio per la lingua arrotolata, rilassata dal sonno profondo. Il suo vigore ottimista e buono era come scomparso. Rimanevano a marcarne la fisionomia solo gli zigomi e l’arcata sopraccigliare, ancora duri, da uomo forte qual’era stato. Non so se svegliarlo o no. Rimango in piedi come un fesso in mezzo alla stanzetta, alla disperata ricerca di un filo d’aria. Non dovevo venire, lo sapevo. Sono troppo sensibile a queste cose, mi impressiono e poi sto male.

L’altro occupante della stanza è seduto di spalle sul suo lettino. Sembra basso ma molto robusto. Tutto piegato in avanti. Pare non essersi accorto di me. Ripeto: buonaseraa.. a voce un po’ più alta. L’uomo si gira, e mi fissa a bocca aperta, senza rispondere. Faccio segno col dito verso mio zio: come a dire, sono venuto per lui. Continua a fissarmi, si volta meglio verso di me, con una espressione indagatrice. Mi avvicino a lui, nella penombra e mi accorgo dei suoi occhi: due strani bulbi lattuginosi, biancastri e azzurrognoli, le porte misteriose di una cataratta finale. L’uomo deve essere quasi cieco e mi sta fissando per cercare di mettere a fuoco la mia figura. Ha i capelli bianchissimi, radi e una barbetta mal curata. Dopo qualche secondo mi dice compito: – suo zio sta dormendo; dorme sempre a quest’ora.
Ha una dizione impeccabile, da persona colta.

Annuisco ma sono perplesso: come faceva a sapere che sono suo nipote? Nessuno sapeva della mia visita. Forse i ciechi sviluppano un qualche tipo di intuito particolare, come si legge nei fumetti? Il vecchio si assesta meglio sul letto, per girarsi del tutto dalla mia parte; con una voce flebile e premurosa, come se stesse continuando un discorso cominciato da tempo, mi fa: – sa, io ho aperto diversi ospedali in Africa…ero un medico…un primario…anche piccoli, ambulatori, più che altro…ma servono anche quelli…non c’è bisogno di grandi cose…

Vorrei dirgli: bravo, essere condiscendente. Poi penso che magari se la sta sognando, questa cosa dell’Africa, o l’ha vista in televisione ieri sera, o magari è la morfina che lo fa straparlare. Sembra andato di testa anche lui.
– adesso arriva la negra… – mi dice.
Io annuisco sempre. Intanto mio zio ha cominciato ad emettere un lungo lamento sommesso ad ogni respiro, come una lacrimazione interiore. Io sono sempre piantato in mezzo alla stanzetta.
Il vecchio cieco mi dice: – sarebbe così cortese da aiutarmi ad andare alla toilette?

Non so che fare. Lo aiuto volentieri. Ma forse sarebbe meglio chiamare l’assistenza o la monaca. Mi sposto dalla sua parte. Lo sguardo perso nella profondissima cataratta azzurrognola, le mani già protese verso di me, per farsi sollevare. Le gambe del pigiama sono rialzate sulle tibie: i piedi sono spaventosamente gonfi, come due oscene zampogne; e uno dei due se lo sta mangiando il diabete. Io queste cose non riesco a vederle, mi impressiono.

– Grazie… lei non sa com’è difficile tirare avanti con una malattia invalidante… sono medico, io… ho il diabete… ho tante patologie… la vita che ho fatto.

Lo tiro su piano piano, sembra fatto di porcellana, o di carta velina. Si attacca al mio braccio e si trascina verso la porta del bagnetto. Dal rigonfiamento sotto al pigiama mi sembra indossi il pannolone, forse se ne è scordato; dovrei dirglielo: guarda che hai il pannolone. Intanto ha aperto la porta del bagno e si è infilato dentro richiudendosela alle spalle – spero non a chiave. Non sapevo che fare. Forse avrei dovuto entrare in bagno con lui, controllare che non si facesse male; però sono un estraneo, magari mi diceva: che vuoi, nel cesso con me? Che ne so se lui è abituato ad andare in bagno da solo? Adesso mi agito. Se succede qualcosa, là dentro? La suora mi sgriderebbe, direbbe: ma chi l’ha autorizzata a lei, ad accompagnare in bagno il paziente? Quando vogliono le suore sanno essere spietate.

Intanto mio zio continua a dormire, ma il lamento sembra diventato più un rantolo, come uno che non riesce a respirare. Mi avvicino a lui, lo guardo da vicino, sa di borotalco. Si, effettivamente sembra non ce la faccia a respirare, fa lunghe apnee. Anche qui, non è che devo avvisare qualcuno? Perchè lasciano i visitatori da soli?Forse lo zio va svegliato, deve cambiare posizione. Io ho ancora i Ferrero Rocher in mano e li appoggio sul tavolino. Non dovevo venire.

Torno alla porta del bagno, appoggio l’orecchio e dentro non si sente niente. Busso piano: – mi scusi, tutto bene là dentro? Dieci secondi di silenzio. Poi all’improvviso un brutto rumore di oggetti che cadono e si frantumano. Lo sapevo. Questo è cascato, si è rotto il femore e adesso la suora chi la sente? Entro e trovo il tipo appoggiato penosamente al lavandino, come un orso precario e barcollante; il pannolone mezzo giù, come le braghe del pigiama; ha l’affanno. Tra il lavandino e il pavimento i resti della mensola che stava sotto allo specchio. Si vede che si è aggrappato e l’ha sfondata, facendo cadere per terra tutto quello che c’era sopra – saponi, rasoi, un bicchiere.

Entro in bagno, lo faccio appoggiare a me e gli sistemo alla meglio il pannolone e i pantaloni del pigiama. Per fortuna non sembra essersi fatto male. Però è imbarazzato. E’ in balia della sua invalidità, del suo buio, di un estraneo che lo deve riportare a letto. Scosto i pezzi di vetro del bicchiere con il piede e lo faccio uscire dal bagno. Si risiede al suo posto, sospirando, come se avesse fatto una fatica immane. Mi sta di nuovo dando le spalle, sembra assorto; forse si è anche dimenticato della mia presenza. Da dietro, visto cosi’, curvo e silenzoso, fa ancora più pena. La nuda vita che contempla se stessa. Intanto mio zio è lì sulla sua poltroncina che continua a dormire e rantolare. Ho già visto abbastanza. Non ho nessuna voglia di svegliarlo. Come farei a spiegargli chi sono e cosa sono venuto a fare? Se non capisce più niente, non capisce e amen. Nel viaggio mi ero persino immaginato un finale a sorpresa: lui che mi abbraccia e mi dice, nipote mio sei l’unico in famiglia che è venuto a trovarmi e lascio tutto a te!

Intanto il sedicente dottore ha cominciato a tossire, prima piano e poi più forte. E tra un colpo e l’altro mi ripete, come a tranquillizzarmi: adesso arriva la negra. Chissà che ricordi va impastando. Ma era vera la storia degli ospedali in Africa? Chissà se esistevano davvero. Magari c’era davvero qualche sperduto ambulatorio tropicale, da qualche parte, dentro cui una targa e una vecchia foto ricordavano che quel povero cieco sulla via della demenza, era stato un uomo importante, un punto di riferimento per qualcuno, un benefattore. Ma come facciamo a ridurci così pateticamente in vecchiaia? E perchè uno come me, sempre sull’orlo della depressione, era venuto a vedere questo triste spettacolo? Davvero speravo in qualche eredità da raccogliere? Davvero sono così meschino? E’ che sono sempre senza soldi. Sempre. E mi attacco alle speranze più ingenue, come qualcun altro, magari, si attacca alla bottiglia.

Sono tornato davanti alla poltroncina di mio zio. I pensieri ormai roteavano impazziti senza né capo né coda. Mi facevo domande mai fatte prima. Perchè quest’uomo in gamba, tanto stimato, che sapeva cadere sempre in piedi, non si era mai sposato, non aveva mai messo su famiglia? Donnaiolo? E se invece fosse stato semplicemente omosessuale? Anche questo suo continuo sradicarsi, cercare nuovi mondi, non poteva essere quella la ragione? E qualcuno magari in famiglia lo sapeva – magari anche mia madre, penso con stupore. E tutti i soldi che aveva guadagnato dove li teneva? Sfioro il dorso della mano di mio zio, rugoso come la zampa di una tartaruga. E’ pulito, sbarbato e ordinato, come l’ho sempre visto. Lo saluto piano, tra i denti, e mi tornano a galla i ricordi di bambino, di quando eravamo una grande famiglia felice, prima che tutto deflagrasse e impazzisse e ognuno andasse per i fatti suoi. Non ci rivedremo mai più in questa vita, zio. Tra l’altro adesso non rantola più e sembra che non respiri neanche. Ci mancherebbe anche che morisse adesso, mentre sono qui.

Saluto anche l’altro degente. Vado davanti al suo lettino e faccio una specie di inchino anche a lui. Ma non mi vede, non mi guarda nemmeno. E’ perso nel suo mondo. I suoi occhi liquidi, con quei lampi di un azzurro indefinibile, mi ipnotizzano come lo sguardo di un serpente. In quegli occhi è annegata una storia, forse epica quanto quella di mio zio. Cerco di cogliere il segreto di quelle due vecchie vite alla deriva. Sono uomini di un’altra pasta, di un altro stampo. Passati come salamandre nel fuoco di guerre e disastri, sempre ricostruendo indomiti, il senso del loro stare al mondo. E se penso alla mia vita? Con i miei debiti cronici, una moglie separata che mi odia, due figli che mi sono indifferenti? E il mio saltellare da una città all’altro, col campionario in valigia. Altro che Africa. Esco dalla stanza e mi richiudo la porta alle spalle, come fosse una bara. Mentre mi avvio lungo il corridoio a testa bassa, incrocio una signora di colore, sulla sessantina, con una sportina di plastica al braccio; ha i capelli tutti grigi e un’aria stanca, cammina strascinando i piedi. Allora il tipo stava davvero aspettando “la negra”? E chi è? Una badante? O un suo vecchio devoto amore africano che l’ha seguito per accompagnarlo alla fine?

Esco dalla RSA T. Meliconi che è già buio. Il fresco frizzante di marzo non mi dà ristoro. L’aria continua a mancarmi, come quando ero dentro. Non avrei dovuto andarci, a trovare zio Gerardo. Ho anche lasciato i Ferrero Rocher sul tavolinetto, a portata di mano del diabetico, che ci si può ammazzare. Che testa di cazzo: come si fa a portare i cioccolatini a dei vecchi malati? Adesso senti la suora, se li vede. Ormai sono fuori, bisogna rimettersi in macchina e correre ad Ancona. Devo arrivare per le 19 da Galeazzi Ferramenta. Ritornano le preoccupazioni: il campionario di utensileria per macchine industriali nella valigetta, l’elenco dei clienti da visitare, un paio di spie sul quadro che si accendono e si spengono infide. L’odore di borotalco e urina che sembra avermi impregnato i vestiti. Accolgo tutti i pensieri, vanno bene tutti, se riesco a tenere lontano quello più terribile: questo, siamo!

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Rachele e il Minotauro (parte 2) https://www.carmillaonline.com/2023/01/23/rachele-e-il-minotauro-parte-2/ Mon, 23 Jan 2023 06:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75675 di Marco Codebò

Il primo è tornato il giorno di Santo Stefano. Tranquillo, ben rasato, ha aperto la porta di casa, appeso all’attaccapanni il loden verde oliva che indossava il giorno del rapimento e una volta in cucina, tirati fuori dalla credenza la moka e il barattolo della miscela Lavazza, si è preparato una tazzina di caffè come Dio comandava. Due ore dopo lo travolgevano gli abbracci della moglie e delle figlie, rientrate a casa dopo un pranzo dagli zii non si aspettavano di trovarlo lì, in un’onda piena di emozione saggiamente mantenuta [...]]]> di Marco Codebò

Il primo è tornato il giorno di Santo Stefano. Tranquillo, ben rasato, ha aperto la porta di casa, appeso all’attaccapanni il loden verde oliva che indossava il giorno del rapimento e una volta in cucina, tirati fuori dalla credenza la moka e il barattolo della miscela Lavazza, si è preparato una tazzina di caffè come Dio comandava. Due ore dopo lo travolgevano gli abbracci della moglie e delle figlie, rientrate a casa dopo un pranzo dagli zii non si aspettavano di trovarlo lì, in un’onda piena di emozione saggiamente mantenuta all’interno delle mura domestiche. Come se nessuna brutale violenza l’avesse mai interrotta, la vita ha ripreso il suo trantran il giorno dopo: lavoro, pausa pranzo, lavoro, ritorno a casa, cena, televisione, riposo notturno, sveglia. Una discretissima azione di polizia ha ridotto le indagini all’espletamento di una serie di pratiche burocratiche, mentre dal canto loro sia i vicini che i colleghi, e persino i compagni di scuola delle ragazze, riducevano al minimo le domande come in un tacito accordo a tenere basso il profilo di quel ritorno. O forse perché non c’era proprio niente da chiedere e tutti lo sapevano e basta cos’era successo.

Pian piano anche gli altri sono tornati. Seguendo lo stile del primo tutti si sono comportati con grande sobrietà, in questo seguiti dalle famiglie e dagli amici. Nessuna gioia esagerata, ridotto al minimo il contatto coi media, peraltro essi stessi alquanto misurati nel dare risalto alla vicenda, del tutto assente, soprattutto, il desiderio di indagare, e nel caso rivendicare e ottenere giustizia. Sia come sia dopo due anni da quand’era cominciata, con il ritorno a casa degli ultimi sequestrati qualche giorno prima di Natale, quella tragica storia poteva dirsi se non risolta, perché troppi misteri rimanevano insoluti, per lo meno conclusa.

Ma non per tutti. Verso la metà di febbraio tre redattori di quegli stessi quotidiani di Centralia che tanto si erano battuti per l’accertamento della verità e avevano pagato un certo prezzo, no di sangue no, ma certo di angoscia e paura, hanno ricevuto la lettera di una certa Rachele, che è un nome d’arte che ho scelto per garantire l’anonimato dell’autrice della missiva. Scriveva Rachele che suo fratello mancava da casa da un anno e mezzo, era al lavoro, l’officina comunale per lo smaltimento dei rifiuti tossici, e lì erano venuti a prelevarlo tre tipacci mal rasati in giacca di pelle e guanti neri. Lei si era subito data da fare. Aveva chiesto aiuto in parrocchia, al sindacato dei dipendenti comunali, ad un noto avvocato da sempre impegnato in coraggiose battaglie civili, e aveva anche iniziato discrete indagini ascoltando i discorsi per strada e in autobus o leggendo le incontrollabili teorie dei bloggers sul web. E non ci aveva messo molto a capire che non c’era nulla da fare, alle prese con una forza muta tanto più potente di lei, non le rimaneva che tenere in ordine la camera del fratello, spolverare i mobili, spazzolargli i vestiti, spazzare il pavimento, qualche volta persino rifargli il letto, ed aspettare. E il tempo se n’era andato così, con lei che teneva orecchie e occhi sempre ben aperti finché come tutti si era resa conto che qualcuno degli assenti era di nuovo al suo posto, che certe facce tese che prima incontrava in metro si aprivano ora in larghi sorrisi, che insomma era questione di far passare qualche settimana, un mese forse o al massimo due e avrebbe sentito la chiave del fratello girare nella serratura della porta di casa. Di tempo ne era passato molto di più, scriveva, e qualcosa non tornava. Non poteva esserne certa perché lei le sue notizie le raccoglieva, come aveva detto, o per strada o su internet, ma sospettava che la pratica dei sequestri fosse finita da tempo e la gran parte dei prigionieri fosse ormai rientrata in famiglia. Questa appunto era la ragione della sua lettera, concludeva Rachele, voi che per mestiere diffondete informazione per favore confermate o smentite quel che sto per dirvi, no non desidero conoscere nessun dettaglio che possa compromettere la vostra sicurezza o quella delle vostre fonti, cerco solo uno cenno d’assenso o di smentita, ma è vero che i sequestrati sono stati in gran maggioranza, o addirittura tutti come si sente dire liberati? Uno dei giornalisti interpellati da Rachele era proprio quel giovane redattore della Gazzetta di Centralia che una volta si era posto tutte quelle domande etiche e aveva deciso che se non si metteva alla tastiera a comporre un pezzo di prudente denuncia, allora l’idea  che si era fatta del giornalismo e in fondo anche un po’ di sé stesso non avrebbe avuto più senso. Non ha risposto naturalmente, come non l’hanno fatto i suoi due colleghi dei giornali concorrenti, e Rachele che se lo aspettava ha deciso di uscire allo scoperto.

La piazza principale di Centralia è un rettangolo lungo circa duecento metri con in mezzo una grandiosa fontana circolare che la notte è illuminata dai fasci di luce convergenti di quattro riflettori. Il lato nord è dominato dall’imponente palazzo del Governo, un compatto parallelepipedo di quattro piani sulla cui facciata in marmo bianco si aprono due serie di sei finestroni, poste ai lati di un triplice portone protetto da guardie armate fino ai denti. Sul lato opposto si slancia verso il cielo la cattedrale, con i suoi tre portali gotici sovrastati da una facciata romanica a strisce orizzontali in marmo e ardesia; al centro spicca un gran rosone con vetrata istoriata raffigurante il Battista, mentre al di sopra della porta di destra, per chi guardi dalla piazza, svetta l’unica torre campanaria. Per una lunga tradizione i cittadini di Centralia al momento di darsi una appuntamento dicevano ci vediamo dal Governo o dalla Chiesa, con questo volendo indicare il lato della piazza dove si sarebbero incontrati.

Rachele ha deciso che per saperne di più di quel fratello che continuava a mancarle da casa la cosa più opportuna era andare dalla Chiesa verso le sei di sera, era già aprile e le giornate si erano intiepidite, e percorrere più volte, pensava di metterci in tutto più o meno un’oretta, come un gran triangolo isoscele i cui due vertici di base sarebbero stati i portali laterali della cattedrale e quello in alto il bordo del marciapiede circolare che faceva da corona alla fontana centrale. Giorno dopo giorno, questo era il progetto, avrebbe spostato in avanti la punta del triangolo, fino ad oltrepassare la fontana ed avvicinarsi così pian piano al Governo. Alla fine ne sarebbe venuta fuori come una freccia che partendo dalla zona più popolata della piazza, gelatai, mangiafuoco, bambini in bicicletta di istinto si piazzavano dal lato Chiesa così che l’altra metà rimaneva di solito deserta, avrebbe puntato dritta verso le soglie del potere. Avrebbe portato bene in vista una foto del fratello, no non vi avrebbe scritto sotto nessun sottotitolo del tipo scomparso o chi l’ha visto, tanto la gente l’avrebbe capito subito di cosa si trattava. Non aveva ancora terminato il primo triangolo e sarà stata ad una decina di metri dalla cattedrale, quando un sacerdote in clergyman appena fuori dal portale di destra con grandi segni della mano l’ha invitata ad avvicinarsi, le ha chiesto di riporre la foto e l’ha pregata di seguirla all’interno. L’ha guidata lungo la navata laterale fino alla porta della sacrestia da dove, prima attraverso un usciolino a fianco della sala dei paramenti e poi per uno stretto corridoio, le ha fatto strada fino ad una specie di cella arredata con un minuscolo scrittoio, due sedie ed un inginocchiatoio sormontato da un’immagine della Madonna dell’Assunta. Vede cara sorella, ha cominciato, la chiesa comprende il motivo della sua sofferenza, ma la supplica di non coinvolgerla in una protesta che è estranea alla sua missione. Sì è vero che nessuna delle sue azioni di oggi sembra comprometterci direttamente ma la prego di considerare da dove è iniziata la sua dimostrazione, dai gradini che portano alla casa di Dio, un luogo sacro da cui non si lanciano campagne che le ripeto non hanno niente a che fare con i compiti della Chiesa nel mondo. Il suo dolore? certo che ci appartiene come quello di tutti i nostri fratelli e sorelle, ma vede noi siamo impegnati in una partita più difficile, non lenire le sofferenze individuali che sono connaturate alla condizione umana, ma la salvezza delle anime, di tutte, è la posta a cui puntiamo. A volte ci sono tragedie immani che vanno accettate perché sono parte di un disegno più vasto, sia Lassù che quaggiù. No, non dica rassegnarsi con quel tono, la rassegnazione è un dovere che abbiamo verso noi stessi, ci insegna ad attendere la vera felicità, quella che è estranea a questo mondo, e poi mi ascolti, quando è il caso, il cristiano sa assumersi con coraggio la propria individuale sofferenza se questo serve a far sì che la coesione sociale resti integra. Cosa può fare allora? non permetta a nessuno di strumentalizzare il suo personale cammino di dolore e se camminare in compagnia della foto di suo fratello la fa sentire, come dire, prossima al suo congiunto, continui a farlo, niente glielo impedisce, purché non comprometta la santità del luogo che ci ospita in questo momento, e sì ha capito benissimo quel che intendo dire, c’è tutto un enorme spazio, metà della piazza almeno, ma certo che è quella al di là della fontana, che si presta per questo genere di manifestazioni, perché se ho  ben capito non è alla Chiesa che lei imputa la sua disgrazia, non è vero?

No di certo Padre, ah bene mi fa piacere che lo riconosca e che in fondo, anche se di soppiatto, si sia rivolta a noi nell’ora del dolore, ma certo che la decisione di aspettare è per lei la più saggia in questo frangente, e pregare naturalmente, si affidi a chi sta più in alto di tutti noi, non si faccia ingannare dalla maestà dei palazzi, tutti si muteranno prima o poi in rovine, sapere almeno, lei dice, se è un vivo o un morto che dovrà attendere, sì potremmo, accertare con sicurezza no quello no, ma esplorare, spendere una parola giusta nel momento opportuno con chi forse è a conoscenza del destino di suo fratello questo sì, non posso impegnarmi sull’esito naturalmente, ma un passo nella giusta direzione le garantisco che lo farò personalmente, no non mi chieda una data, mi metterò io in contatto con lei al momento giusto, e continui pure la sue manifestazioni la prego, solo non qui, questo non è il palazzo di Cesare mi permetto di ricordarglielo, sì sono uno dei canonici del Capitolo ma non è il caso che venga a cercarmi, gliel’ho detto che mi farò vivo io, ora devo andare, sono atteso per il Vespro, ma lei sappia pazientare, rinunci all’orgoglio e mi raccomando stia serena.

E aspettare è quello che Rachele ha fatto, fedele ai consigli del canonico, almeno in parte, perché marciare solitaria dal Governo, abbandonare l’abbraccio, no non esageriamo e nemmeno la compagnia è chiaro, ma almeno la vicinanza quella sì della gente che oziava dalla Chiesa e affrontare tutta sola la lunga distesa di mattonelle bianche che dalla fontana portava al triplice portone del Palazzo, no quell’idea non l’attraeva proprio e infatti se n’è rimasta a casa a guardare la TV. Più o meno dopo una settimana una mail del canonico l’aveva informata che c’erano novità, così si è presentata la sera in sacrestia e dopo il solito rituale della porticina e del corridoio si è ritrovata nella stessa cella dell’altro giorno davanti all’inginocchiatoio con la Madonna dell’Assunta. La persona a cui lei tanto tiene sta bene, ha attaccato il prete, e anzi vuole che lei non si preoccupi, che rimanga fiduciosa…vede che le cose stanno andando come avevo previsto io? Accogliere con serenità il proprio carico di dolore quasi sempre conduce l’uomo se non a quella felicità che non ci spetta quaggiù per lo meno a una visione meno angosciata della vita, e badi che spesso quando lo sguardo si fa più tranquillo riesce ad afferrare particolari, a intravvedere soluzioni, che nell’ora del turbamento non aveva colto, preso com’era dall’affanno e dalla disperazione. Ma mi consenta però di dirle che lei ha scambiato l’accettazione del suo posto nel mondo con la passività, mi aspettavo di vederla apparire sul lato nord della piazza, se ho controllato? sì tutti i giorni, certo che lei mi sta a cuore, è una creatura che il Signore mi ha affidato, è vero che lo ha fatto senza che io né lei lo sapessimo, ma Lui fa così sa? non deve mica avvisarci, spetta a noi capire la strada che ci indica e la mia adesso è al suo fianco, ma tocca a lei lasciarsi guidare, avere fiducia anche per le questioni terrene, se sono un uomo di Dio? certo da più di trent’anni ma vede noi sacerdoti è la storia che ci ha costretto ad apprendere anche le vie del mondo, cosa vuol dire? ma come fa a non capire, se a noi due è stato dato di incontrarci è perché lei ha bisogno di una guida, quel suo andare in cerchio, no guardi veramente era un triangolo, non sottilizzi la prego non si affidi ad un razionalismo capzioso, quel suo camminare senza una meta, le dicevo, non era già testimonianza di confusione?

Mettiamola pure così se proprio ci tiene, ha fatto la Rachele, ma mi sembra che ci sia qualcosa che lei mi vuol dire col suo discorso lacrimoso proprio da prete, che sembra sempre che facciate le cose per forza, perché una chiamata dall’alto ve lo ordina se no vi dedichereste a dell’altro, e insomma lasci stare tutti questi giri di parole e me lo dica cosa dovrei fare nelle vie del mondo come le chiamate voi. Tornare là fuori con la foto di mio fratello? e perché mai, so che è vivo ed è già tanto, non vorrà mica farmi credere che me lo restituiranno solo perché batto il marciapiede, non usi questo linguaggio nella casa del Signore e solo mi ascolti per un attimo, non sia presuntuosa e stia a sentire chi ha più esperienza di lei, se solo uscendo allo scoperto per pochi minuti ha già ottenuto di sapere che suo fratello è vivo perché non continuare, ma con più audacia, non solo la foto esibisca del suo caro, aggiunga un messaggio esplicito, dica che lo vuole libero subito e lo scriva che chi lo tiene prigioniero deve stare in quel palazzo là, ha detto il canonico un po’ agitato adesso col dito puntato verso la sede del governo, ma era una cosa di immaginazione perché in quella cella non c’erano finestre e così sembrava che l’indice dell’uomo di Dio ce l’avesse con la Madonna dell’Assunta. Lo ha guardato dal basso all’alto la Rachele e se proprio ne è così sicuro io posso anche provarci, ma solo per un paio di sere e senza impegno gli ha detto, perché non è che ci creda molto sa a quello che lei mi propone, e non capisco nemmeno poi perché questa storia sia tanto importante per lei, si va bene ho capito che la sua missione le impone di camminare a fianco degli oppressi però guardi io ora devo andare al Policlinico, no sto benissimo non si preoccupi solo che faccio l’infermiera e fra un po’ inizia il mio turno e anche quello è un dovere sa, non sarà importante come il suo ma ha i suoi obblighi, l’orologio, il cartellino, l’uniforme, comunque le farò sapere la mia decisione fra qualche giorno, anzi non c’è nemmeno bisogno che la chiami se mi vede in piazza vuol dire che avrò seguito suoi consigli se no sarà il contrario.

Si guardò bene naturalmente la Rachele dal mettere in pratica i suggerimenti del canonico che glielo avevano mandato tra i piedi apposta appena si era arrischiata a uscire fuori dal gregge, altro che le imperscrutabili vie del Signore, gliel’avevano detto che era vivo questo sì, ma intanto non c’era modo di sapere se la notizia era vera e poi è chiaro che quel prete ha giocato sporco, prima si è fatto bello dell’informazione segretissima che la sapevano solo lui e la divina provvidenza e poi ha cercato di montarmi addosso, per modo di dire anche se con quelli lì non si sa mai, e fare il boss,  ma chissà poi perché vogliono che torni sulla piazza e che lo dica chiaro che è il Governo che l’ha preso mio fratello, che lo sappiamo tutti da quando è cominciata questa storia chi è che li ha fatti sparire e se li è tenuti per un bel po’ prima di mollarli, anche se uno di loro manca ancora e se solo capissi perché è proprio Ismaele, un altro nome d’arte devo aggiungere io che scrivo questa storia, uno che non glien’è importato mai nient’altro che di farsi qualche canna, vedere la partita con gli amici, mettersi i soldi da parte per le vacanze e d’estate andarsene a Ibiza o Mykonos, insomma in quei posti là dove si rifaceva la vista dopo un anno di rifiuti tossici. Ma proprio perché vogliono che io mi esibisca con foto, nome, cognome e indignata denuncia dei responsabili, allora è meglio tapparsi in casa e uscire solo per andare in ospedale e al supermercato, per il resto internet e TV, ho da vedere tutta la serie della Nouvelle Vague cominciamo dai 400 colpi quando sarò a metà di Truffaut vedrai che il canonico mi manda un sms, vie signore infinite venga ke parliamo.

È successo due giorni dopo quando ha finito di vedere Jules et Jim che si erano già fatte le sette e ha pensato bene di dare un’occhiata al telegiornale intanto che si preparava un’insalata. Era la prima notizia della serata, subito un campo lungo sulla piazza principale di Centralia poi la ripresa ravvicinata di un capannello di gente, un nucleo, ma vorticoso, di individui che si spingevano roteavano sembravano sul punto di fare a cazzotti poi la telecamera si avvicinava ancora di più e allora si vedeva che quella specie di polipo non era fatto di tentacoli ma di braccia tese verso un punto centrale che doveva essere importantissimo perché le mani dove quelle braccia terminavano stringevano microfoni, registratorini, cellulari, videocamere, iPhones, tutti puntati verso un’indistinta figura che  ora di colpo appariva nitida perché la piovra lasciava all’improvviso la presa per permettere a quelli del telegiornale di farsi avanti e inquadrarla in primo piano quella donna sulla trentina vestita esattamente come lei una settimana prima, ballerine, jeans, felpa blu di UCLA e un cartello da uomo-sandwich al collo con su una foto di  Ismaele ad Ibiza, ora chiarissima per via della zumata che permetteva anche di leggere una scritta in stampatello, deve aver usato un pennarello ha pensato, liberate Ismaele da quasi due anni nelle mani del governo, poi la ripresa si allontanava bruscamente e tornava al campo lungo della piazza con la voice over del giornalista che ripeteva praticamente parola per parola la storia che lei aveva raccontato al Canonico, sì diceva proprio così, che quella donna lì Rachele XX, cioè io si è detta la vera Rachele quella che aveva appena visto Jules et Jim e non stava in piazza ma a casa sua, reclamava la libertà di Ismaele sequestrato com’è noto quasi due anni fa da agenti del governo.

Ci è rimasta proprio di sale la Rachele a fissare la foto del fratello che non avrebbe rivisto mai più, perché adesso lo capiva che tutta quella specie di gioco a rapire e liberare serviva a inchiodargli ad ognuno in testa chi è che era il più forte e quanto lo era, e che alla fine c’era bisogno di qualcuno che facesse praticamente  come da ostaggio, sì uno che se lo tenevano solo per ricordare, ma allora non era più un’operazione segreta che guai a parlarne anzi diventava una cosa sfacciata che bisognava farla vedere in televisione con nome e cognome, per ricordare a tutti quanti, dicevo, che quello ch’era accaduto una volta sarebbe successo ancora.

 

La prima parte del racconto è stata pubblicata il giorno 23 gennaio 2023

 

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