Storia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Turna su Il bel Santein https://www.carmillaonline.com/2024/08/09/turna-su-il-bel-santein/ Fri, 09 Aug 2024 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83552 (Ancora su Sante Pollastri)

di Giorgio Bona

Tira vento a ottobre tra queste colline. La nebbia dà un senso di gelo e bagna i vestiti. Se si alza, torna la visuale di un cielo grigio, muto, quasi trasparente.

A Sante piaceva molto quel paesaggio nei dintorni di Novi. Gli ricordava lunghi tratti della campagna toscana: lo stesso odore di terra vergine, lo stesso sfocato tramonto che si schianta sul profilo frastagliato delle colline. Rimane diversa la tonalità dei colori, più tenue, più delicata.

In pieno pomeriggio, sempre che possa esserci pomeriggio a ottobre.

Umido che viene dallo Scrivia.

Foschia.

Fiato di [...]]]> (Ancora su Sante Pollastri)

di Giorgio Bona

Tira vento a ottobre tra queste colline. La nebbia dà un senso di gelo e bagna i vestiti. Se si alza, torna la visuale di un cielo grigio, muto, quasi trasparente.

A Sante piaceva molto quel paesaggio nei dintorni di Novi. Gli ricordava lunghi tratti della campagna toscana: lo stesso odore di terra vergine, lo stesso sfocato tramonto che si schianta sul profilo frastagliato delle colline. Rimane diversa la tonalità dei colori, più tenue, più delicata.

In pieno pomeriggio, sempre che possa esserci pomeriggio a ottobre.

Umido che viene dallo Scrivia.

Foschia.

Fiato di tabacco.

Il mondo da via Cavanna sembrava un puntino oscuro. Sante stava tornando a casa. Qui era nato e qui voleva morire, mondo brigante.

Un ratto passò vicino ai suoi piedi per andare a nascondersi sotto un cumulo di rifiuti.

Guardò intorno.

Deserto.

L’umidità gli diede uno schiaffo sul viso costringendolo ad inspirare. Si voltò a guardare la strada che aveva percorso. Era come distaccare il passato che soffiava sul collo. Ebbe la sensazione di soffocare, come andare in apnea.

 

(l’uomo nero)

(A un certo punto si girò ed era lì che lo osservando, la sua figura scarsamente illuminata, le braccia abbandonate, il volto in ombra).

(Parlò a se stesso Costante mentre pedalava, parlò del suo passato che si allontanava come il gruppo in fuga. C’era da recuperare, raggiungerlo).

 

Il suo stradinom era Pollastro, ma mica è così semplice, lũ, gram fiò, se le zecche si fanno strada pisciando nel sangue, perché di notte desiderava dormire sotto la rosa, sentendosi sicuro soltanto in braccio a so ma’.

Quando so pa’ gli mise in mano la vanga per la prima volta provò quanto era bassa la terra e bisognava piegare la schiena.

A scuola il maestro faceva vedere le lettere dell’alfabeto, la A, la B… alla C Sante aveva capito che era inutile tanta istruzione: ognuno deve aggiustarsi da sé, deve fare quello che vuole e il mondo intorno è tutto una finta.

 

A Sante sarebbe piaciuto diventare corridore professionista come il suo amico Costante. Lo guardava ammirato staccare il gruppo in volata per correre verso il traguardo.

È così. La vita va presa nel momento stesso in cui gli altri vogliono portartela via. Lui non ha voluto piegare la schiena su quella zappa perché la terra è bassa e non risparmia nessuno. Nessun diritto a questo mondo. Lo stato è il vero nemico. Borghese, fascista o comunista che sia.

 

(L’uomo nero)

(Era lì, sette litri d’aria dentro ai polmoni, con gli occhi che lacrimavano per il freddo e per la fatica. Guardò quell’ombra sfilarsi la maglia stropicciata e sudata e quando gliela porse non era più. Un leggero gemito lo colse e una specie di sorriso sulle labbra).

 

Oe, fascisti! Brutti e cattivi, sempre a dargli la caccia, a braccarlo. Lui correva più forte di Costante, sentiva di essere il vero campione. Lui che non volle piegare la schiena. Meglio bere Cortese di Gavi che chinarsi alla terra mangiando polenta e verza. Alla piola della salute si vendeva cancarone ai paisan che erano come le bestie, che alzavano il gomito cercando di fottere la morte giocando a cirulla e alla morra.

Bestie. Sì, bestie, animali domestici, can da pajè, abituati alla catena. Avevano paura della loro ombra. S’inciuccavano e ringraziavano la Madonna e tutta la fila di santi. Ruscavano e sgobbavano, dicendo sempre sì. Per questo si sono meritati la miseria.

 

Sante avvertì dei passi alle sue spalle. Si sentiva una lepre al fiuto del bracco. Deviò dalla strada di casa, cercò rifugio dalla Zena. Lo seguivano, aveva la loro banfa sul collo. Si appoggiò al banco, chiese da bere. Due degli inseguitori si misero al suo fianco, il terzo occupò posto da solo, ad un tavolo libero.

Sante ordinò alla Zena di versare un altro giro. I tre si mossero. Un colpo andò a conficcarsi sulle assi del pavimento. Fu un attimo di panico, quanto bastava per darsi alla fuga. Si buttò contro la finestra, spaccò i vetri e via.

In quel momento sentì il freddo pulsargli le tempie. Lo sparò gli sibilò accanto, gli fece fischiare le orecchie. Subito dopo le facce sgranate dei carabinieri lo immobilizzarono, insaccandolo come un maiale. Era una collisione di corpi, uno scambio molecolare che avvenne a forza di colpi. Sentì sangue nella saliva mentre deglutiva e i colpi non si arrestavano.

I carabinieri gli sentirono dire a denti stretti: bravi, siete stati bravi, ma non è ancora finita.

 

Sante prese la bicicletta e senza una meta precisa imboccò la strada per la Liguria. Verso Ovada il sole sembrava bucare la nebbia e accompagnarlo per qualche tratto.

Aveva il volto di Costante, la stessa smorfia di Costante quando la strada diventa liquida e il catrame sotto le ruote cuoce anche il sangue. Doveva provare a staccarlo e lui era lì, sempre al suo fianco.

Capì tante cose in quell’attimo. Ecco cosa indispone chi corre: vedere qualcuno al tuo fianco, che ti guarda negli occhi, che non ti fa capire cosa vuole fare ed essere consapevoli che al primo tornante ti lascia lì, a mangiare la polvere.

Dov’è quel demonio? Urlò. Mentre il sole era di nuovo nascosto dietro la nebbia e la pace dei campi sul ciglio della strada sembrava uno sberleffo, una risata.

Poi la nebbia si dissolse definitivamente. Il sole era davanti a lui e lo invitava ad andare avanti.

Potrei superarlo, disse. Restò un attimo a pensarci, tra le parole pronunciate a denti stretti e i pedali che divoravano l’asfalto. In quel momento colse l’ultimo raggio di luce che lo colpì in pieno volto e Costante pedalava formando un vortice nell’aria, fuggiva e colorava le invisibili traiettorie della vita.

]]>
Roberto Bellarmino, il (santo) martello degli eretici https://www.carmillaonline.com/2022/05/31/roberto-bellarmino-il-santo-martello-degli-eretici/ Tue, 31 May 2022 21:55:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72209 di Francisco Soriano

Per molti studiosi, critici e soprattutto timorati di dio, Roberto Bellarmino (1542-1621, gesuita, cardinale, direttore della biblioteca Vaticana, capo dell’inquisizione e, infine, santo, è passato alla storia per i suoi interventi nel processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei) fu “un intellettuale aperto ed equilibrato, capace di esercitare il proprio compito con spirito critico e autorevolezza, con rigore e fermezza, ma anche attento alle esigenze della tradizione della Chiesa e della cultura contemporanea”.

Il periodo che va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento rappresentò, per la [...]]]> di Francisco Soriano

Per molti studiosi, critici e soprattutto timorati di dio, Roberto Bellarmino (1542-1621, gesuita, cardinale, direttore della biblioteca Vaticana, capo dell’inquisizione e, infine, santo, è passato alla storia per i suoi interventi nel processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei) fu “un intellettuale aperto ed equilibrato, capace di esercitare il proprio compito con spirito critico e autorevolezza, con rigore e fermezza, ma anche attento alle esigenze della tradizione della Chiesa e della cultura contemporanea”.

Il periodo che va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento rappresentò, per la dialettica fra la Chiesa cattolica e la scienza (quest’ultima intesa soprattutto come progresso umano e affrancamento dai lacciuoli della magia e delle false credenze religiose), un momento drammatico caratterizzatosi per una lotta strenua e dolorosa compiuta da molti protagonisti della storia umana. La maggior parte delle vittime dell’Inquisizione furono sacrificati sull’altare dell’ipocrisia e del potere e pagarono la coerenza delle idee con la propria vita. Bellarmino fu giudice, inquisitore e carnefice.

Tra il Cinque e il Seicento, Roberto Bellarmino fu uno dei teologi più celebri della Compagnia di Gesù e della Chiesa. Clemente VIII durante il concistoro per i nuovi cardinali, gli fece un elogio senza precedenti: “Scegliamo colui che non ha eguali nella Chiesa di Dio quanto a dottrina; inoltre è nipote dell’eccellente e santissimo pontefice Marcello II”. Bellarmino entrò nella Compagnia di Gesù nel 1560 e presto mostrò doti spiccatissime di predicatore, prima a Lovania, proponendosi come interprete e diffusore della fede cattolica nell’intento di “convertire l’eretico dalla sua malafede”, senza disdegnare di confutare le verità divine ai protestanti e, in un secondo momento, scrisse le “Controversie”, “un capolavoro di ricerca storica e insieme un modello di argomentazione, che da un lato si ispirava alla carità e al rispetto, dall’altro era totalmente privo di rancore e di espressioni ingiuriose, usuali nelle relazioni tra le diverse confessioni”. Fu talvolta amato, ma anche molto detestato nell’intera Europa per la sua nota inflessibilità nei giudizi contro coloro i quali riteneva eterodossi alla “regola”: non a caso venne definito come il “martello degli eretici”. Fu un acuto studioso che cercò contraddizioni e, soprattutto, argomentazioni per contestare le più lucide e lineari speculazioni teologiche e scientifiche. I valori fondamentali che andava propugnando riguardavano soprattutto la Riforma, la Scrittura, la tradizione, il primato del Papa e, infine, il dogma dell’infallibilità del Vaticano. Tuttavia (quasi sorprendentemente), Bellarmino sosterrà la teoria del potere indiretto del papa sul potere politico che, alla stregua di quanto lo stesso autore affermava, era già stata elaborata da Tommaso d’Aquino nel Medioevo. La novità era l’accento del Bellarmino nel sostenere la completa autonomia del potere politico, tanto da costargli per mano di Sisto V (che riteneva il potere papale assolutamente sovrano sul mondo), la messa al bando delle sue Confessioni, relegandole fra i libri interdetti e proibiti.

Le spigolosità caratteriali si evincevano anche nei confronti dei papi, come nel caso che riguardò una disputa con Clemente VIII che lo nominò cardinale, ma non esitò a spedirlo lontano da Roma, emarginandolo a Capua con la funzione di arcivescovo dal 1602 al 1605. Proprio Bellarmino era stato accusato di aver affermato che il papa era semplicemente un servitore della Chiesa e non un padrone. Neppure in quel frangente egli tradì la sua propensione e abnegazione all’attività pastorale, intensissima, nemmeno quando dopo essere stato “confinato” fu richiamato a Roma per il conclave. Il teologo fu protagonista, soprattutto, nel processo contro Giordano Bruno, che spedì al rogo il 17 febbraio del 1600 in Campo de’ Fiori. Molti critici delimitano le responsabilità di Bellarmino, ma risulta davvero difficile ridurre la sua azione incisiva e determinante nel processo contro Bruno. Molto documentato anche il suo attivismo nei confronti di Galileo. Bellarmino studiò la teoria copernicana e incontrò Galileo nel 1606. Inviò una lettera allo scienziato consigliandogli di non pubblicizzare la teoria del Copernico anche perché, a suo dire, non era stata dimostrata: il timore consisteva nella possibilità che le nuove idee astronomiche potessero con la loro scientificità contraddire il “dettato” delle Sacre scritture. Infatti, proprio il Vaticano sostiene oggi che Galileo fosse stato salvato da Bellarmino, suo principale accusatore, che scrisse personalmente un documento in cui definiva Galileo come non eretico, anche se le sue idee tendevano pericolosamente in quella direzione. Il processo fu celebrato nel Sant’uffizio dal 1616 al 1633. Non bisogna tuttavia dimenticare che Galileo non salvò la vita per le citazioni morbide del Bellarmino o per la “flessibilità” dei giudici che comunque lo condannarono, bensì per la famosa abiura, imperdonabile atto di costrizione che il clero aveva preteso sotto la minaccia delle torture e dell’esecuzione capitale. Capitolo triste e vergognoso per la Chiesa che ricorda, con una certa ipocrisia, che Galileo venne condannato “soltanto” al carcere domiciliare e i suoi scritti inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Nel tempo molti papi tentarono di analizzare gli archivi che contenevano la documentazione del processo a Galileo, ma fu con Giovanni Paolo II e con l’aiuto dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il merito di aver riabilitato la figura dello scienziato con un mea culpa nell’anno 2000.

La figura di Roberto Bellarmino, santo, è legata alle questioni inquisitoriali ma è frutto anche di una vicenda politica specifica oltre che religiosa. Perché? Ricordiamo che la canonizzazione-santificazione del prelato fu dichiarata da Pio XI nel 1931, anche per stabilire e tentare politicamente e religiosamente, in quel particolare contesto storico, quella sintesi di un sistema in difficoltà che invece aveva bisogno di rigenerarsi dal punto di vista dell’identità nazionale come valore portante di un popolo. Infatti, come si sostiene in un articolo di Martìn Maria Morales, in quei tempi (“San Roberto Bellarmino e la cancel culture”, dall’Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana, 17 settembre 2020) “un vento di persecuzione e di lotta soffiava da popoli e nazioni diverse contro la Chiesa e il suo Capo visibile, il Papa, contro di Dio e il suo Cristo: soffiava, in questi giorni stessi, più impetuoso dalla terra finora celebrata per la più cattolica, anzi la nazione cattolica per eccellenza; e imperversava già con tanta feroce violenza e inattesa brutalità che ne vanno stupiti e sgomenti molti di quelli stessi, che ne avevano favorito il primo scoppio e promossone, senza antivederlo, l’impeto sovvertitore della società”. Quella nazione “più cattolica” era la Spagna, dove furono bruciati conventi e statue sacre e la casa professa dei gesuiti a Madrid, nel 1931. Sempre nel suddetto studio si citano le parole di Gramsci a cui non era passato inosservato il gesto della santificazione del Bellarmino, così apostrofandolo nei suoi “Quaderni dal carcere” (1934 – 1935): Santificazione di Roberto Bellarmino, segno dei tempi e del creduto impulso di nuova potenza della Chiesa cattolica; rafforzamento dei gesuiti, ecc. Il Bellarmino condusse il processo contro Galileo e redasse gli otto motivi che portarono Giordano Bruno al rogo [Q.6, § 151]. E ancora più avanti ancora nel suo scritto così ritornava sull’argomento: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Roberto Bellarmino. Pio XI il 13 maggio 1923 dette al Bellarmino il titolo di beato, più tardi (nel 50° anniversario del suo sacerdozio, quindi in una data specialmente segnalata) lo inscrisse nell’albo dei Santi, insieme coi gesuiti missionari morti nell’America settentrionale; nel settembre 1931 infine lo dichiarò Dottore della Chiesa Universale. Queste particolari attenzioni alla massima autorità gesuitica dopo Ignazio di Loyola, permettono di dire che Pio XI, il quale è stato chiamato il papa delle Missioni e il papa dell’Azione Cattolica, deve specialmente essere chiamato il papa dei gesuiti (le Missioni e l’Azione Cattolica, del resto, sono le due pupille degli occhi della Compagnia di Gesù) [Q.7, § 88].

La storia ci racconta anche un altro aneddoto riguardante, a distanza di secoli, la contrapposizione fra Bellarmino e il grande Giordano Bruno. In occasione dei Patti Lateranensi nel 1929, i cattolici si fecero portatori di una richiesta fatta recapitare a Benito Mussolini, quella di: “rimuovere la statua di Giordano Bruno e di rigirare quella di Garibaldi che puntava, sempre minaccioso, col suo cavallo verso San Pietro”. In quella occasione, Mussolini si districò diplomaticamente, non dando peso alle richieste con una risposta piuttosto ambigua: “Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è … . Naturalmente non è nemmeno a pensare che il monumento di Garibaldi sul Gianicolo possa avere un’ubicazione diversa, nemmeno dal punto di vista del collo del cavallo”. Lo stesso papa Leone XIII nel concistoro del 1889 ebbe a dire che la statua di Bruno era un monumento che “glorificava presso i posteri lo spirito di rivolta verso la Chiesa (…) e che si profondono onoranze a un uomo doppiamente apostata, convinto eretico (…)”. Dunque i cattolici più intransigenti e ortodossi non fecero altro che sostenere, a più riprese, che quella piazza dove si ergeva la figura ombrosa dell’eretico poteva meglio definirsi come “Campo maledetto”, nel tentativo di rimuoverla in un processo di “cancel culture” ante litteram. A Roberto Bellarminio fu, invece, dedicata la chiesa di San Roberto in piazza Ungheria, quartiere Parioli, proprio perché il papa volle reagire al gran rifiuto attuato da Mussolini:  proclamò pertanto “il grande inquisitore”, cardinale Roberto Bellarmino, prima santo (1930) e, successivamente, dottore della Chiesa universale nonchè patrono dei catechisti (1931).

Nel non lontano 1885, dunque, qualche anno prima della proclamazione a santo di Bellarmino, si era formato un comitato per la costruzione di un monumento a Giordano Bruno, in piazza Campo dei Fiori, “lì dove il rogo arse”. Aderirono all’iniziativa straordinari intellettuali e politici del tempo come Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio, Herbert Spencer e tanti altri. Non fecero mancare la loro voce gli studenti universitari romani che, coraggiosamente, si palesarono con numerose manifestazioni, in scontri con la polizia, arresti e feriti. Nel 1889 la statua fu eretta.

A noi non resta che distinguere, oggi, di questi protagonisti della nostra storia, carnefici e vittime. A nostro modo di vedere Bellarmino era uomo troppo dotto e consapevole per non aver inteso le ragioni di Galileo, alle quali fornì una opposizione sicuramente più blanda a quelle del magnifico nolano. Bruno era un uomo esuberante, profondissimo e irraggiungibile, un vero demone-filosofo del pensiero, vorticoso e inebriante, che si era permesso la critica e la demolizione dialettica del potere clericale fondato sull’ipocrisia, la corruzione e la violenza anche militare. Il “santo” ne intuì il pericolo e la grandezza.

Oggi il “soave e dolce” Bellarmino deve essere ricordato come il carnefice di uomini e, soprattutto, come lo strenuo nemico delle idee di progresso.  Egli si distinse, in questa sua azione di salvaguardia di una Chiesa assurda e da sempre antistorica, antiscientifica e regressiva sul tema dei diritti umani, come colui il quale attuò con tutti i suoi mezzi a disposizione la persecuzione degli oppositori della Chiesa.

Vale la pena ricordare, sempre e costantemente, che a Giordano Bruno l’otto febbraio del 1600 venne letta la sentenza che lo condannò come eretico impenitente, pertinace e ostinato. Nove giorni dopo fu condotto a Campo de’ Fiori, a Roma, dove venne spogliato, legato a un palo e arso vivo, mentre tutti i suoi scritti furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti, un elenco emanato dalla Chiesa cattolica contenente libri vietati da leggere e possedere.

Giordano Bruno. La sentenza dell’inquisizione.

Roma 8 febbraio 1600. Palazzo del Sant’Uffizio.

NOI chiamati dalla misericordia di Dio e invocato il nome di nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre vergine Maria:

DICHIARIAMO

Te, frate Giordano Bruno eretico impenitente, pertinace ed ostinato e perciò incorso in tutte le censure ecclesiastiche per aver sostenuto l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni.

NOI condanniamo i tuoi libri come eretici ed erronei. Siano essi bruciati avanti le scale di san Pietro.

Tu, frate Giordano Bruno eretico ostinatissimo sarai spogliato nudo e con lingua inchiodata, legato ad un palo e arso vivo.

In ginocchio ascoltò Giordano Bruno il verdetto e a lettura finita si alzò in piedi e rivolto ai giudici inquisitori esclamò:

“Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza di quanto ne provi io nel riceverla.”

All’alba del 17 febbraio del 1600 un mesto corteo composto dai seguaci di san Giovanni decollato conduce Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, luogo dell’esecuzione, intonando canti liturgici.

Il condannato ha bocca e lingua immobili nel ferro della mordacchia perché non potesse esprimere neppure l’ultima parola, ordine del soave, dolce cardinale Roberto Bellarmino, gesuita e santo.

]]>
Alamo, la vera storia https://www.carmillaonline.com/2022/05/15/alamo-la-vera-storia/ Sun, 15 May 2022 20:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71885 di Giorgio Bona

Per gli Stati Uniti la battaglia di Alamo, avvenuta nel 1836 tra i messicani e duecento coloni texani per l’indipendenza del Texas, costituisce uno dei miti fondanti del paese.

Alamo era una missione coloniale spagnola sorta per opera dei francescani che si avvalsero della mano d’opera degli indios per costruirla a poche centinaia di metri dai primi insediamenti da San Antonio. Diventò poi Fort Alamo soltanto in seguito agli scontri tra messicani e statunitensi.

Fu un elemento chiave della rivoluzione per l’indipendenza del Texas e racconta di un assedio di [...]]]> di Giorgio Bona

Per gli Stati Uniti la battaglia di Alamo, avvenuta nel 1836 tra i messicani e duecento coloni texani per l’indipendenza del Texas, costituisce uno dei miti fondanti del paese.

Alamo era una missione coloniale spagnola sorta per opera dei francescani che si avvalsero della mano d’opera degli indios per costruirla a poche centinaia di metri dai primi insediamenti da San Antonio. Diventò poi Fort Alamo soltanto in seguito agli scontri tra messicani e statunitensi.

Fu un elemento chiave della rivoluzione per l’indipendenza del Texas e racconta di un assedio di ben 13 giorni cui le truppe messicane guidate dal Presidente e Generale Antonio Lopez De Santa Ana sottoposero la missione.
La storiografia americana riporta nella sua epopea leggendaria la crudeltà di Santa Ana, fonte ispiratrice dei coloni texani e avventurieri che partirono per unirsi ai volontari in difesa della missione.

Qui si fonda uno dei grandi miti americani, un grande vessillo sventolato in onore della libertà che vuol nascondere la politica imperialista già in atto da lungo tempo e che aveva bisogno di creare quei falsi miti per innalzare la sua bandiera. È nei morti di quella battaglia, morti considerati eroi, che gli Stati Uniti individuano l’essenza della nazione.

Ma cosa è successo veramente ad Alamo da giustificare quelle morti?

La storia va avanti a raccontare che senza il sacrificio di Alamo non ci sarebbe stata la battaglia di San Jacinto che segnò la vittoria contro i messicani e senza quella vittoria il Texas non avrebbe raggiunto l’indipendenza, conquistato la sua libertà e addirittura non sarebbe mai esistito.

Considerando che nella battaglia nessuno sembra sopravvissuto, per cui non esistono testimonianze dirette che potessero essere tramandate, si è potuto facilmente uscire da quella che poteva essere la storia reale e assoggettarla alle esigenze che il potere chiedeva. Certo non mancarono voci discordanti e proprio all’interno del bel paese, da far passare la vicenda di Alamo non come un sacrificio eroico e un’impresa di straordinaria grandezza.

Servì a questo scopo per giustificare il sentimento di odio e il razzismo nei confronti del popolo messicano e per giustificare il genocidio nei confronti di quella popolazione, tanto che, come riporta Pino Cacucci nel suo Quelli del San Patricio, il presidentissimo Abramo Lincoln tenne un durissimo discorso al Congresso affermando che gli Stati Uniti avevano condotto una guerra innecessaria e incostituzionale, contraria ai principi fondatori della nazione.

Ma ecco come si mutò tutto per creare quei falsi ideali dentro un mito che innesca la morale di quei grandi valori sociali partendo dal un fatto reale e poi demistificandolo.

Una battaglia che si è conclusa con una sconfitta che ha esaltato il sentimento patriottico e il valore della libertà, e dove sono stati scritti migliaia di libri e la filmografia di Hollywood non si è certo tirata indietro a ricostruire secondo la sua visione quella vicenda che per la storiografia messicana fu soltanto un episodio, una vittoria senza seguito.

Sulla battaglia di Alamo, Hollywood ha fatto una produzione molto ampia. Si cominciò con The immortal Alamo di William F. Haddok, un film prodotto in Texas da Georges Melies ed era un cortometraggio muto del 1911 conosciuto anche con il titolo Fall of the Alamo.

Seguì esattamente quattro anni dopo, nel 1915, Sotto l’unghia dei tiranni diretto da Christy Cabanne, film muto di 71 minuti che raccontò la disperata resistenza di 183 volontari contro un esercito formato da 6500 messicani guidati dallo spietato dittatore Santa Ana.

L’ultimo risale al 2004 con Alamo – gli ultimi eroi e prova a descrivere in modo dettagliato la guerra fino alla resa di Santa Ana. Ma anche in questa versione le ragioni della ribellione texana non vengono spiegate e non sono molto chiare.

Il film sicuramente più celebre fu La battaglia di Alamo diretto e prodotto dall’eroe della filmografia americana John Wayne, che interpretò la parte dell’eroe più conosciuto di quella battaglia, Davy Crockett. Qui il più sfacciato rappresentante del grande mito americano, quello della conquista e dell’espansione nell’ovest selvaggio a portare la civiltà, con il lungo e costosissimo film propagandò in modo spettacolare i valori eroici che avevano portato alla costruzione del grande paese. Un’altra incredibile versione dove in primo piano si rispecchiavano le grandi tradizioni della storia americana che raccontava la volontà dei texani di liberarsi dalla dittatura di Santa Ana.

E come è possibile raccontare o demistificare la realtà storica quando la storia diventa lo strumento con cui le classi dominanti tengono il potere senza rappresentarla attraverso eroi o miti le cui figure reali sono raccontate all’opposto di quello che furono nella realtà? La storia americana ne è piena.

John Wayne nel suo film scelse la figura di Davy Crockett, sicuramente il personaggio più famoso, già protagonista di film e di libri che ne decantavano gesta straordinarie. Credo sia stata una scelta fortemente voluta perché Davy Crockett, rispetto agli altri due eroi protagonisti, Jim Bowie e William Travis, esalta maggiormente il prototipo dell’eroe americano, generoso, temerario, senza macchia e senza paura con un senso della giustizia e del valore della libertà moralista fino all’estremo.

John Wayne rappresentò un uomo perfettamente allineato e si prestò in soccorso del mito appoggiato da alcuni padroni texani che contribuirono a finanziare il film, a patto che fosse girato nel Texas, terra di forte immigrazione dove i messicani che attraversano il Rio Grande in cerca di miglior vita nel Bel Paese non sono certamente trattati meglio dei loro predecessori di quasi duecento anni fa.

Che dire degli eroi conclamati di questo fatto storico così importante? Davy Crockett fu certamente il più famoso: la leggenda narra che all’età di tre anni avrebbe ucciso un orso, che all’età di nove anni scappò di casa vagabondando di villaggio in villaggio. Di lui è sicuro che a 27 si arruolò nella frontiera per combattere gli indiani creek. Ecco un eroe della frontiera con la sua carabina che si chiamava “Betsy”, fedelissima compagna, in testa il cappello in pelle di procione con coda penzolante, alla guida dei “Volontari a cavallo del Tennessee” calato già nei panni del personaggio famoso a combattere per l’indipendenza del Texas.

Meno celebre ma in egual misura vittima del suo mito fu Jim Bowe, la cui famiglia, originaria del Kentucky, era nota per il maggior numero di schiavi posseduti. Ma cosa si dice di questo eroe per farlo entrare nel mito? Qualcuno racconta che il giovane Jim, quando la famiglia si trasferì in Louisiana, prendeva al lazo i coccodrilli, domava cavalli selvaggi e cacciava orsi. La sua fama crebbe mostrando una straordinaria abilità nell’usare il coltello, un coltellaccio da macellaio, un mezzo machete, una lama affilata e seghettata lunga circa con cui sfidava banditi armati fino ai denti.

E non poteva mancare la figura di un aristocratico come William Barret Travis, nato in Carolina del Sud e con la famiglia emigrato in Alabama. La sua famiglia si dedicava alle piantagioni di cotone che coltivavano gli schiavi presi a noleggio o in prestito. Cominciò a gestire pratiche improvvisandosi come avvocato e si occupava di un giornale che editava lui stesso. Collezionò fallimenti su fallimenti finchè abbandonò la moglie incinta di cinque mesi per trasferirsi in Texas.

Invece la storiografia messicana fu ridotta ai minimi termini, mentre sarebbe stato interessante raccogliere le testimonianze dei contadini messicani rimasti nel Texas dopo l’indipendenza, e sentire una loro versione probabilmente differente.

Nel suo libro El Alamo, costato sei anni di meticolose ricerche d’archivio, lo scrittore Paco Ignacio Taibo II riporta la frase di una canzone del film di John Wayne: “lottarono per darci la libertà e questo è tutto quello che abbiamo bisogno di sapere”.

Niente di più lontano dalla verità, e dalla realtà. Molto di più.

]]>
Dare a Cesare. Martin Lutero sul rapporto tra autorità spirituale e spada secolare 1/3 https://www.carmillaonline.com/2022/02/24/dare-a-cesare-martin-lutero-sul-rapporto-tra-autorita-spirituale-e-spada-secolare-1-3/ Thu, 24 Feb 2022 01:52:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70647 di Filippo Luti

“Ma un teleologo tedesco è sempre cosa che fa tutti arricciare i peli per la paura.”   Paolo Mantegazza-

Premessa

Martin Lutero è considerato a ragione un imprescindibile elemento di quella trasformazione sociale conosciuta come la Riforma che, assieme ad altri fattori, ha traghettato la realtà europea e l’intera tradizione culturale europea verso la cosiddetta Modernità.

Osservando le azioni e i pensieri della figura storica si può rimanere interdetti non solo di fronte alla complessità, ma anche all’apparente discontinuità del personaggio e della sua esperienza.

Questo lavoro vuole parlare dela [...]]]> di Filippo Luti

“Ma un teleologo tedesco è sempre cosa che fa tutti arricciare i peli per la paura.”   Paolo Mantegazza-

Premessa

Martin Lutero è considerato a ragione un imprescindibile elemento di quella trasformazione sociale conosciuta come la Riforma che, assieme ad altri fattori, ha traghettato la realtà europea e l’intera tradizione culturale europea verso la cosiddetta Modernità.

Osservando le azioni e i pensieri della figura storica si può rimanere interdetti non solo di fronte alla complessità, ma anche all’apparente discontinuità del personaggio e della sua esperienza.

Questo lavoro vuole parlare dela visione di Martin Lutero sulle responsabilità del potere temporale in relazione alle materie di fede concentrandosi in parte su un evento particolare, la condanna dei moti contadini: il Lutero precedente dal 1925 è coerente con quello successivo?

È plausibile l’accusa di essere il grande maestro della “Libertà di coscienza” ed il nonno dell’illuminismo, oppure il suo lascito culturale è stato diverso rispetto a quanto certe semplificazioni vorrebbero suggerire?

Alcuni precedenti: l’interpretazione della Bibbia ed esempi di  trattazione dell’Eresia dall’epoca patristica al medioevo

Il punto di riferimento per ogni trattazione cristiana è la Bibbia, divisa in due componenti dai diversi ruoli storici: L’antico Testamento, la Legge, ed il Nuovo, la Lieta Novella.

I due aspetti hanno goduto di alterne fortune nella tradizione teologica, nonchè di diversi utilizzi: naturalmente, il Vangelo è stato impiegato fin dal cristianesimo delle origini per esporre e giustificare i valori della mansuetudine della misericordia, caricati di una valenza morale rivoluzionaria per l’epoca, mentre l’originale testo sacro degli Ebrei aveva perso parte della sua importanza, uscito dalla particolare ottica  di quest’ultimi.

La Torah era l’incarnazione di uno spirito nazionale “ante-litteram“, che presentava figure di chiara matrice orientale dove la regalità si prendeva direttamente la responsabilità di gestire gli affari religiosi e di garantirli, a costo naturalmente di ricorrere ad una violenza esecrata  volte solo come “atto impuro”, di cui si sono macchiati persino canuti profeti come Elia; il filologo che può spulciare la nozione di “Cuore” come riferimento all’interiorità dei personaggi, può solo intravederci un abbozzo di quella secoli a venire sarà chiamata la Coscienza[1].

La sorgente maggiore di materiale fresco per la teologia sarà costituita dalla vicenda del Cristo: episodi come la parabola della zizzania o la cacciata dei mercanti dal tempio avranno enorme fortuna; nel primo caso, si assisterà ad un curioso fenomeno di trasformazione, poichè la perdurante ed iniziale interpretazione che precettava la tolleranza terrena contro i disturbatori dell’unità cristiana, lasciando il giudizio all’Altissimo, subirà delle trasformazioni ed obiezioni.

La questione dell’eresia si presenta nel mondo cristiano dopo i primi secoli, costringendo i padri della chiesa ad affrontarla con un approccio che cambia con l’ascesa sociale del cristianesimo.

Il cristianesimo prende le distanze dall’atteggiamento persecutorio di cui era vittima; la concezione della “forza” del cristianesimo, in antitesi con la repressione subita per conto delle istituzioni imperiali, si avvalora della nozione di centralità della realtà spirituale per esemplificare la necessità di ricorrere ad armi alternative alle lame terrene per difendere la fede o fare proselitismo, quali la mitezza e la forza della propria superiorità morale, nonché l’ostracizzante della scomunica come estremo rimedio contro  “pertinaci”, “anticristi” o “maghi”, che mettano in pericolo con le loro sregolatezze il successo dell’unanime missione del consorzio cristiano; nessun predicatore o legislatore si deve permettere di alzare le mani contro chiunque.

Una novità costituita dal cristianesimo è la prorompente divisione in due spazi della comunità/legalità: la comunità del cristiano, realizzazione in terra della comunità spirituale, la cui partecipazione viene scelta in virtù della propria coscienza in risposta alla rivelazione, si sommava alla comunità civile, la cui autorità temporale doveva giustamente far rispettare le norme del diritto puibblico, ma non farsi carico della vita spirituale dei cittadini[2].

Dopo le macchinazioni di Costantino, la crescente fortuna politica del Cristianesimo cambiano le carte in tavola: mentre il Cristianesimo diventa il nuovo instrumentum regni di un ordine imperiale necessitante un rinvigorimento intellettuale, gli imperatori si trasformano da persecutori a garanti e successivamente difensori di questa fede monoteista e perciò salutare per la tenuta del dominio politico, cosicché° il potere temporale si risolse infine in protettore ed impositore della fede cristiana e del suo dogmatismo, in contrasto con le minacce rappresentate dal rinnegato paganesimo e da correnti eretiche e scissioniste; il rifiuto della novella divenne reato di lesa maestà come lo era stato il rifiuto del culto dell’autorità imperiale.

Anziché creare da subito una connivenza di poteri, il cesaropapismo scatenò un putiferio intellettuale per tutto il periodo della tarda antichità, con numerosi teologi ed ecclesiastici che sconsigliavano non solo l’eccessivo coinvolgimento del braccio secolare, adducendo l’abolizione della regalità ierofora dell’antico Testamento e i discorsi di Cristo sui due regni, ma addirittura il ricorso a misure temporali eccesivamente crude e sanguinarie nella persecuzione persino dei più tracotanti eretici; e non mancarono neanche parole favorevoli all”intervento statale”.

Nel caso di Agostino d’Ippona(che avrà una sua influenza pesante su Lutero) si assiste ad un processo di mutamento: il padre si mostrò dapprima favorevole ad un atteggiamento clemente contro i disturbi donatisti nel nord africa, ma col tempo, arrivò a giustificare l’intervento dell’autorità contro gli eretici elaborandolo anche grazie ad una rilettura della parabola della zizzania, in nome dell’ordine sociale e della sicurezza della cittadinanza, scongiurando certamente i rimedi più sanguinari, ma offrendoci un esempio calzante di questo atteggiamento ambivalente[3].

Diversi secoli dopo,  il vecchio mondo in lento declino della romanità ormai traviato e sublimato da un’apocalisse civile inaudita, in Europa sorge una nuova civiltà, che come succede abitualmente rielabora gli spunti dei predecessori ridotti in polvere: la nuova grande autorità civile è un imperium basato su una realtà feudale che tenta di combinare la cultura del diritto a principi politici nordici, e accanto a lui sorge un’autorità spirituale ormai radicata e potentissima, dotata di un monopolio culturale inedito che ha relegato il paganesimo a vestigia di ceti umili, o ad enclavi poste ai confini dell’oikumene, destinate ad essere assimilate nella grammatica con il proselitismo mansueto e nella pratica con episodi di conversione forzate, o alle alterità minacciose in agguato al di fuori di esso.

Questo mondo non vanta più due civitas separate: di fatto il sacro romano impero assomiglia ad un mostro bicefalo, un guerriero che impugna le due spade, quella dell’autorità celestiale e temporale, e sull’utilizzo delle quali i due cervelli continuano a litigare tranne quando le coordinano contro i nemici da schiacciare, ammettendo inconsciamente o esplicitamente di condividere però gli stessi visceri.

I rapporti con ciò che sta oltre la Cristianità sono apparentemente contraddittori e differenziati da pareri diversi e contingenze: il contatto con la diversità interna degli Ebrei o con quella esterna come può essere dei mori è tollerabile quando non mini l’integrità della fede del cittadino cristiano, e che esso porti un buon esempio di morale al pagano è sempre cosa dolcissima e desiderabile; si può persino ammettere la bontà della coscienza di un infedele, o non ricorrere sempre a brutali conversioni forzate(sulle quale la maggior azienda concorrente, la mezzaluna, non calcava per furbizia fiscale)qualora, come diceva Bernardo di Chiaravalle, si preferisse il momentaneo quieto vivere.

All’interno le cose vanno in maniera diversa: oramai la  nozione del contrasto alla fede come violazione della sovranità è conclamata ed attuata con rigore immensamente superiore anche a quello della tarda antichità, poiché sebbene per motivi combacianti, la cura d’anime e la cura dello stato possono utilizzare metodi diversi, attraverso l’istituzione dell’inquisizione e gli ordini restrittivi del potere imperiale; esemplificazione lampante del funzionamento di questo meccanismo diventa la crociata contro gli albigesi, dove si ricorse ad un vero e proprio genocidio contro personaggi noti per il comportamento lodevole,  ma pericolosissimi per la minaccia che il loro redivivo manicheismo costituiva per il dogma cristiano cattolico.

Nei secoli bui si discusse pure del tema seccante della coscienza erronea, il quale ovviamente creava un certo fastidio nella discussione su come affrontare l’eresia; sorsero due grandi scuole di pensiero, una, introdotta da Abelardo, giustificante il valore morale a prescindere, ed un altra, di maggior successo, intransigente nei confronti dell’ignoranza sulla Legge divina fino a livelli paradossali; ma un esponente di quest’ultimo gruppo, l’Aquinate, arrivò a a fare delle aperture per quei casi eccezionali di contingente ignoranza della dottrina o della volontà divina, con conseguenze non banali[4].

Un ulteriore salto nel tempo: alle soglie del cosiddetto Rinascimento, i conflitti interni al Sacro Romano Impero tra i sue due cervelli(risolti alle volte con sconfitte clamorose della corona sacra, come nel caso delle gesta francesi) e l’innegabile prepotenza mondana dell’istituzione papale portano assieme ad altre cause a sempre maggiori richieste di una riforma che risani la Chiesa dalla bancarotta morale che gli viene attribuita, in special modo al papato; nelle visioni di innumerevoli riformatori e proto-riformatori, e dei devoti moderni, esiste in realtà ancora la comunità spirituale, la Chiesa, solo però che stavolta il corpo marcio, l’eresia, viene identificata con le storture metodologiche e morali del vertice, la curia romana interessata ai giochi politici e ai lazzi della cultura e del lusso, e supportata da improbabili ordini monastici e da una fitta rete di possidenze e traffici più o meno ombrose; se tale organo decide di effettuare una repressione, più che per colpire l’eresia si sospetta che lo faccia per colpire minacce ai suoi interessi.

Questa emergenza morale porta alla ribalta personaggi come Jon Wycliff e Jon Hus, le cui avventure prendono spesso pieghe sfortunate qualora i risvolti teologici delle loro speculazioni riformistiche li facciano cadere in pasto alla repressione anti-eretica; anche questi incidenti riportano in voga la discussione sui metodi da usare per identificare ed affrontare l’eresia; d’altro canto, l’incapacità del sistema curiale di staccarsi da quelle forzature e cadute tipiche del tardo medioevo non faceva che esasperare l’impressione della sua bancarotta morale, contribuendo al fiorire di movimenti di contestazione interessati a cercarsi da soli quella riforma tanto ambita, con lo scopo di ricostruire il valore della religiosità cristiana, in risposta alle angosce e alle preoccupazioni di un’epoca di cambiamenti[5].

Nel dibattito entra dirompente una nuova forza  culturale, l’Umanesimo, il cui apporto scompagina e rivoluziona non solo il dibattito teologico, ma l’intera vita culturale europea;  la rivalutazione del mondo antico e la creazione di un senso della storia sono di enorme impulso per la discussione sulla tolleranza religiosa e civile, accanto alle nuove sensazionali scoperte geografiche e scientifiche, ma spesso l’interesse di questi intellettuali si rivolge non tanto verso qualcosa di ravvicinabile alla nozione contemporanea di tolleranza, bensì ad un desiderio irenista ed universalista atto a scongiurare conflitti e che restituisca unità e qualità alla grande comunità cristiana, purgandola dai mali dell’ignoranza e dell’inutilità scolastica; tale atteggiamento sarà disperso ed avrà declinazioni personali e contraddittorie: un Tommaso Moro può scrivere l’Utopia canzonando le storture di un sistema corrotto e superstizioso, ma ciò non gli impedirà di mantenersi inorridito e risoluto nei confronti dei più tumultuosi stimoli rivoluzionari a lui contemporanei, fino a morire per aver contestato il particolarismo del proprio sovrano[6]; un Nicola Cusano può riproporre la visione di uno pseudosincretismo che veda le varie religioni come vulgate della rivelazione di qualità differente, destinate un giorno forse a qualcosa di meglio[7].

Eppure le speranze universaliste dovranno essere disattese, nonostante anche i più ostinati riformatori, i serafici mistici o visionari anabattisti pensassero alla grande “comunità spirituale”; tra questi protagonisti, si affacciò pure Martin Lutero, ed il suo messaggio sarà espressione di una vera “via moderna”: non uguale ai discorsi del medioevo, ma incline a qualcosa di molto differente dai miti dell’umanesimo.

Fortuna e dottrina sociale del barbaro  Lutero

Un personaggio come Martin Lutero non può essere compreso senza avere conoscenze delle sue personali idiosincrasie, delle sue esperienze di vita e dei suoi studi particolari; rimuovendo questo individuo per molti versi eccezionale, per caratterestiche e prestazioni, è impossibile razionalizzare gli esiti dei movimenti riformisti.

Di estrazione umile, Lutero rinunciò alle aspirazioni avvocatizie preferite dalla famiglia per andare incontro alla propria natura, diventanto un monaco agostiniano estremamente zelante nella condotta e rigoroso nella teologia; una crescente frustrazione interiore dovuta all’insoddisfazione per le proprie prestazioni religiose e curiose esperienze epifaniche sul senso del peccato e sulla potenza della divinità[8].

Questa tensione verrà sfogata in un lavoro intellettuale volto a contestare gli aspetti più ambigui e corrotti del potere cattolico e le ricadute a carattere economico; in particolare, a portarlo definitivamente alla ribalta è la lotta contro le indulgenze, contrastate su base teologica in base a spunti su cui il monaco affinerà la propria particolare teologia della salvezza.

Il punto centrale del disegno salvifico della divinità per Martin Lutero risiede nell’azione del Cristo, che tramite il sacrificio devastante della croce ha permesso da solo la possibile salvezza spirituale del genere umano dal potere pernicioso e micidiale del peccato, che trova la sua forma più intrinseca e pertinace nell’incarnazione del tradimento originale di Adamo; il cristiano deve partire dalla fede assoluta in questo atto compiuto per lui, ed attraverso l’esperienza spirituale e le scritture, rendersi sempre più conscio di questo disegno e se esso fosse aperto anche a lui.

Il ruolo delle opere viene ribaltato nella moralità Luterana, e  le azioni pie non sono più un tramite per la salvezza, ma diventano invece una conseguenza di essa, poichè il fedele che si rende conto di essere stato salvato tramite la fede è portato a seguire i precetti cristiani e quindi a tutelare il prossimo; voti e buoni azioni compiute per attirare la divinità era giudicabili come peccati.

Questo ragionamento, rivoluzionario, ha una sua utilità nell’opera di delegittimazione di pratiche religiose da Lutero ritenute esteriori e deleterie, quali la vita monastica, o i lati più idolatri dei sacramenti e delle cerimonie; oltretutto, Lutero esaltava l’importanza della scoperta individuale della propria salvezza, che poteva avvenire tramite un cammino spirituale interiore; questo richiamo ad una “libertà di coscienza” teologica riscuoteva un fascino non indifferente, nonostante si concatenasse con altre delle più tetre e conservatrici posizioni luterane, quali i risvolti della predestinazione delle anime[9].

Sotto una certa luce, Lutero non sembrava neanche uno dei più accaniti e distruttivi riformatori, ma pareva anzi uno dei più conservatori, e la sua predicazione mostra sfaccettature: egli credeva nel valore della comunità cristiana e da giovane era più vicino alla posizione di chi auspicava una “guarigione” della chiesa; la sua teoria del sacerdozio universale sembrò spesso incorrere in ambiguità e contraddizioni; in alcuni momenti volle tollerare la messa cattolica ed in altri proibirla; di estrazione agostiniana, finì per esortare gli ex colleghi ad abbandonare conventi e monasteri, equiparando la vita monacale quasi alla superstizione; sil suo atteggiamento verso la questione ebraica rassomiglia l’atteggiamento psicotico di un innamorato pentito.

Essenzialmente, l’apparente oscillare delle posizioni luterane se studiato minimamente rivela una parabola mutante, in cui i punti di riferimento e gli spunti iniziali permangono continuamente, ma che si evolvette nel tempo; non bisogna dimenticare l’opera di consiglieri e collaboratori come Filippo Melantone, che limarono le rozzezze dell’opera e della persona.

Il coraggio che egli dimostrò (o mostrò?) fin dall’inizio lo avrebbe portato la sua parabola ad un epilogo brutale se, oltre alle sue personali specialità, non fossero intervenute circostanze speciali, esterne a lui, di cui seppe approffttare.

Perché quando alle critiche e alle repressione della Chiesa si unì anche la presenza dell’autorità imperiale, Lutero si salvò perchè era riuscito a portare dalla sua parte innumerevoli persone delle terre di nazione tedesca, e da esse trasse esplicitamente la propria forza.

Forse Lutero non dava veramente peso all’eleganza delle sue argomentazioni, ma non doveva neanche farlo, poichè la predicazione luterana ottenne il suo scopo: rivolgersi al numero più vasto di persone e come conseguenza riscuotere, in un modo o nell’altro, il consenso più ampio possibile.

Nonostante l’innegabile e sopraffina formazione teologica, lo stesso Lutero ammise varie volte di possedere diverse lacune culturali, e queste erano collegate al suo fondamentale anti-umanesimo: qualora non mostrasse indifferenza, egli veicolò un disprezzo risentito verso la scolastica e la filosofia generale pari a quello che nutriva per le metastasi della gerarchia ecclesiastica; il non plus ultra di ogni discussione doveva essere la scrittura, imprescindibile strumento d’educazione e di intuizione della volontà divina; badasi bene, intuizione epifanica, preferibile ai voli più superbi ed ambiziosi della ragione umana basilare.

La sacra scrittura, appunto, doveva essere aperta a tutti, e così egli curò una pioneristica edizione preparata in un tedesco popolare, una traduzione non solo del linguaggio ma dei concetti che era nelle intenzioni del curatore, sia prodotto che proposta per la brava gente; Martin Lutero sostenne l’importanza di un’educazione di stampo moderno diffusa, inclusiva anche di materie tecniche, progressista quanto quella degli Erasmiani e dotata di un ancor maggiore pragmatismo politico, nel senso di un’istruzione come fucina di bravi cristiani equivalenti a bravi cittadini[10].

Per tutta la vita Lutero  curò una vasta e prolifica produzione di prediche, opuscoli, tra cui i “discorsi a tavola” e i catechismi piccolo e grande, redatti in uno stile che combinava immediate citazioni di passi danzanti dall’antico al nuovo testamento ad un eloquio trascinante, oratorio, ricco di cambi di tono, effetti teatrali quali metafore, paradossi e persino motti di spirito, retto in un vocabolario di non difficile comprensione; una combinazione che catturò una moltitudine di cuori anche perché in essa vi si trovavano espliciti richiami morali che svicolavano nelle orecchie dei tedeschi fino a solleticarle l’orgoglio, facendoli riflettere sulle innumerevoli angherie inflitte dall’autorità remota e corrotta della curia, sulla impossibilità loro e dei loro principi di avere voce in capitolo per i capitoli ed altre cariche ecclesiastiche, nonchè sulla mortificazione della libertà della propria coscienza, in quel senso particolare che Lutero in realtà intendeva, smpre però uno spazio in cui nessuno altro poteva entrare.

Il senso di responsabilità paradossale che la dottrina della salvezza di Lutero implicava poteva forse avere un enorme fascino nell’industriosa società germanica dell’epoca, dove la superstizione e la marcescenza teologica dell’ortodossia avevano dato un’impressione fatalista, contribuendo ad accendere le risposte riformiste.

Sopra il popolo, Lutero lusingava in egual modo i principi: il potere temporale veniva riconosciuto come protagonista imprescindibile; nel famoso appello ai principi, definiti come di nazionalità tedesca, essi vengono chiamati a difendere i cittadini tedeschi dalle trame e dalle tassazioni imposte dal clero romano, nonché a lavorare per creare un’indipendenza salutare dalle decisioni papaline che permetta la quieta libertà spirituale delle coscienze ed una migliore gestione dello stato, anche attraverso la tutela dei cittadini più bisognosi[11].

è nel suo trattato sull’autorità secolare che però si manifesta in maniera compiuta la dottrina di Lutero sulla giustificazione delle possibilità del potere: per il predicatore, il ragionamento parte dall’ammissione della duplicità dei regni dell’uomo, la coesistenza del regno spirituale formato dalla comunione delle anime, ed il regno materiale del mondo, con le sue contingenze e le sue limitazioni.

Se il mondo fosse abitato solo da cristiani, certamente, sarebbe possibile realizzare la chiesa celeste in terra; ma nella realtà dei fatti, Lutero ammette l’esistenza al mondo di un enorme quantità di anime irredimibili e malvagie, che imperversano nei loro peccati contro il resto del genere umano.

A questo punto, per tutelare la sopravvivenza degli innocenti e dei fedeli su questa terra, la presenza dell’autorità secolare si rendeva necessaria, e purtroppo che essa ricorresse alla spada temporale era un male necessario; male però giustificato dalla divinità stessa, che richiedeva il mantenimento di un ordine nel mondo terreno subordinato all’ordine maggiore del mondo spirituale.

Per Lutero naturalmente, il compito del principe rischia di scadere disastrosamente se esso non è un buon cristiano o almeno una persone capace, e non c’è niente di più riprovevole di un tiranno; il predicatore espone una serie di situazioni richiamata da scenari biblici per esortare a non fidarsi troppo dei consiglieri, a non scadere nel lusso, a non dimenticarsi il senso del potere come missione per conto della divinità, in una sorta di versione da osteria universitaria del principe di Machiavelli, dove il richiamo ai re antichi è più narrativo-teologico che filologico.

Crimine per Lutero imperdonabile è l’intromissione del principe nella vita interiore del fedele, contro la quale i fedeli devono portare avanti una resistenza non violenta ostinata fino alla stolidità di farsi prendere di peso e trattenere la scrittura fra le mani[12].

Le energie che Lutero aveva scatenato gli permisero di bruciare le scomuniche papaline e poi balzarono contro la traballante istituzione imperiale, che finì umiliata ed offesa dallo scontro tramutato in incontro con la protesta luterana a Worms, e Carlo V non potè che mostrare accondiscendenza, passando dalle marce ai colloqui, vedendosi l’eresiarca tutelato al di fuori delle proprie possibilità d’azione, quando quelli che dovevano essere suoi alleati nella conservazione di un determinato status quo erano di fatto suoi rivali nella spartizione egemonica di un dominio su cui non tramontava certo ma il Sole, ma su cui stava per farlo l’astro dell’Impero universale.

(Continua)

[1]    Joseph Lecler, Storia della tolleranza nell’età della Riforma, Brescia, Morcelliana, 1967, vol. 1,  pp. 23-26

 [2]    Ivi, pp. 27-47

[3]    Ivi, pp. 48-84

[4]    Ivi, pp. 84-128

[5]    Bernard Reardon, Il pensiero religiosa della riforma, Bari, Laterza, 1984, pp. 1-30

[6]    Joseph Lecler, Storia della Tolleranza nel secolo della Riforma, cit, pp. 159-167

[7]    Ivi, pp. 129-132

[8]    Bernard Reardou, Il pensiero religioso della riforma, cit, pp. 58-65

[9]    Joseph Lecler, Storia della tolleranza nel secolo della riforma, cit, pp. 66-106

[10]  Fiorella de Michelis Pintacurd, Tra Erasmo e Lutero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp.131-145

[11]  Vedasi l’opera “Appello ai principi cristiani di nazione Tedesca“per osservare l’elaborazione di questo populismo sciovinista

[12]  Vedasi l’opera “Trattato sul’autorità secolare” per vedere come Lutero non riesca a rinnegare l’importanza di istituzioni terrene

]]>
L’Orchestra Rossa https://www.carmillaonline.com/2022/02/18/lorchestra-rossa/ Fri, 18 Feb 2022 01:25:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70560 di Giorgio Bona

Tutto cominciò con un baule.

La storia dello spionaggio sovietico in Germania ebbe inizio così.

All’ottobre del 1918  il primo caso in territorio tedesco, anche se non si chiamava ancora spionaggio, come del resto non esisteva un servizio segreto sovietico.

Un baule che apparteneva all’ambasciata sovietica era stato scoperto a Berlino e si trovava su un carrello portabagagli della stazione della Fiedrichstrasse. Un urto lo fece cadere. Rovesciandosi, si sfasciò. Migliaia di volantini contenenti proclami rivoluzionari invasero il marciapiede.

Un buon viatico.

Mentre la Germania nazista occupava parte dell’Europa, le grandi capitali, da Parigi a Amsterdam, la [...]]]> di Giorgio Bona

Tutto cominciò con un baule.

La storia dello spionaggio sovietico in Germania ebbe inizio così.

All’ottobre del 1918  il primo caso in territorio tedesco, anche se non si chiamava ancora spionaggio, come del resto non esisteva un servizio segreto sovietico.

Un baule che apparteneva all’ambasciata sovietica era stato scoperto a Berlino e si trovava su un carrello portabagagli della stazione della Fiedrichstrasse. Un urto lo fece cadere. Rovesciandosi, si sfasciò. Migliaia di volantini contenenti proclami rivoluzionari invasero il marciapiede.

Un buon viatico.

Mentre la Germania nazista occupava parte dell’Europa, le grandi capitali, da Parigi a Amsterdam, la stessa Berlino, erano unite da un sottile filo rosso che terminava nelle mani di Leopold Trepper, direttore di quella rete di spionaggio che la Gestapo aveva definito l’Orchestra Rossa. Era nel cuore della Germania nazista che muoveva con grande abilità le file di questa grandissima organizzazione, nonostante i duri colpi che ricevette. Decine dei suoi membri vennero decapitati, fucilati, impiccati.

Leopold Trepper nacque in Polonia da una famiglia di origini ebree. Fece l’operaio in un’industria metallurgica della Slesia e divenne membro della cellula comunista della sua fabbrica. Culminò il suo percorso militante diventando il capo dell’Orchestra Rossa.

Una biografia di questo personaggio, che con la sua rete diede filo da torcere ai nazisti, la si può trovare nel “Il grande gioco – le memorie del capo dell’Orchestra Rossa” edito in Italia da Mondadori nel 1976.

Nel suo libro Terra Bruciata, uscito per Longanesi nel 1966 e successivamente da Rizzoli nel 2000, l’autore, Paul Carrel, invece entrò di più in un fatto specifico, raccontando della guerra sul fronte orientale. Riferendosi a fatti realmente accaduti mise in luce  il tradimento per opera di Orchestra Rossa che permise di vincere la battaglia di Kursker Bogen nel 1943.

L’Orchestra Rossa diventò un film con la regia di Jacques Rouffio, con Claude Brasseur nella parte di Leopold Trepper, film ispirato a una storia vera, ambientato nella seconda guerra mondiale. Una storia incredibile, una fonte di verità, che ricostruisce come un gruppo di audaci non professionisti di diverse nazionalità, senza alcuna esperienza sul campo, riuscendo a tenere  in scacco i nazisti e sottraendo informazioni riservatissime persino durante le riunioni di Hitler con i suoi generali. La grande abilità di intercettare gli ordini dei comandi tedeschi e di anticipare gli spostamenti delle truppe resero possibile la vittoria di Stalingrado e cambiarono il corso della storia.

Il film ricostruisce vicende che furono per lungo tempo aperte dal segreto di questa rete di spie che costrinse Himmler a costituire un commando speciale per reprimere questa organizzazione.

Il partito comunista tedesco con i suoi 250.000 iscritti, i suoi 27 giornali e le sue 87 organizzazioni assistenziali, ma soprattutto per i suoi apparati e servizi clandestini, si trasformò in una semplice e pura sezione estera del partito sovietico, dove ogni comunista tedesco si vide chiamato alla lotta clandestina in favore dell’URSS.

In Germania ebbe origine il fenomeno dello spionaggio di massa. Ogni anno scoppiavano nuovi casi di spionaggio industriale.

Ottobre 1930: nello stabilimento della Gruson, una sussidiaria della Krupp di Magdeburgo emerge una cellula di agenti comunisti diretta dal costruttore Kallembach.

Dicembre 1930: alla Siemens e Halske vengono arrestati l’ingegnere russo Volodicev e dei suoi collaboratori.

Gennaio 1931: nel cementificio Polysius di Dessau la polizia di fabbrica accusa l’ingegnere Richter di avere sottratto documenti segreti su richiesta dell’Unione Sovietica.

Berlino era diventata una seconda sede dello spionaggio sovietico internazionale, la capitale tedesca era il quartier generale dell’Internazionale Comunista.

I maggiori sforzi dello spionaggio russo si concentrarono nel campo industriale. Il codice penale tedesco contemplava solo i casi di spionaggio militare, ma nel 1932 un decreto per la protezione dell’economia nazionale decise di infliggere pene molto severe.

Il caso dell’Orchestra Rossa non deve essere visto soltanto come raccontano gli storici un effetto spionistico.. Gli estremisti di destra e non solo, fiutavano un tradimento dei valori nazionali di cui vorrebbero accusare ogni gruppo di resistenza tedesca a Hitler.

I capi della polizia, appartenenti alle SS non si stancavano di inculcare nei loro uomini un odio spietato per i nemici e per le spie. Il peggiore di questi nemici era il comunista, che nella terminologia nazista venne definito il bolscevico.

Una circolare interna della Gestapo definiva il comunista un nemico del popolo. Himmler cercò di far leva inculcando idee violente e repressive dove nella lotta contro il comunismo non ci poteva essere una soluzione pacifica, ma soltanto vincitori o vinti.

Una legge definita per la protezione del popolo e dello stato del 3 maggio 1933 era diretta in primo luogo contro i comunisti, allargata anche chi con i comunisti collaborava o ne appoggiava i piani definiti criminosi.

I nuovi padroni della Germania in pochi mesi istituirono un apparato poliziesco come non si era mai visto nella storia tedesca, una polizia politica con un servizio di controspionaggio che venne sottratta alla giurisdizione dell’amministrazione ordinaria e unificata sotto un’autorità centrale con poteri straordinari. Nacque la Geheime Staatspolizei meglio conosciuta come Gestapo. Un corpo speciale di frontiera che aveva il compito di dare la caccia ai traditori e controllare minuziosamente chi entrava. Il potere di istituire dei campi di concentramento dava a loro un’arma supplementare: gli stranieri indesiderati, prima della loro espulsione, venivano rinchiusi.

Un servizio che aveva una sua volontà e doveva soltanto obbedire e servire il regime dittatoriale di Hitler.

Gli apparati spionistici del partito comunista tedesco rimanevano così invisibili che i nazisti al potere cominciarono ad inventarsi organizzazioni segrete prendendosela con persone innocenti, soprattutto con quelli che ritenevano simpatizzanti.

Himmler alimentò questa spietata repressione finchè non si accorse che le presunte organizzazioni segrete erano una montatura. Poco a poco la Gestapo scoprì di aver colpito a vuoto nella lotta contro gli apparati spionistici di Mosca e dovette ammettere, in un rapporto confidenziale, che sull’apparato clandestino del partito comunista, la polizia politica non aveva informazioni di nessun tipo.

Ai confini tra romanzo e documentario, mentre il cinema si trova ad attingere alla letteratura, dove molte volte i registi si sono ispirati a testi letterari, qui si passa ad un’operazione inversa dove è la letteratura che attinge dal cinema e lo fa approfondendone la storia e gli aspetti più insoliti.

Piacevole sicuramente il film, ma entusiasmante è la storia perché, pur documentaristica come deve essere, ti porta dentro un’avventura entusiasmante.

]]>
USA: la rivincita del precariato https://www.carmillaonline.com/2022/02/16/usa-la-rivincita-del-precariato/ Wed, 16 Feb 2022 01:20:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70554 di Valerio Evangelisti

Dire che gli Stati Uniti sono uno dei paesi al cui interno è più acuta la conflittualità sociale può sembrare un paradosso, oppure un’affermazione scherzosa. Invece è proprio così. Ciò significa che i sindacati americani, in maggioranza conservatori ma combattivi, stiano riconquistando l’antica potenza? Niente affatto, è vero il contrario. La colossale AFL-CIO somiglia all’ombra di ciò che era stata.

Riassumo una storia complessa e, per tanti versi, gloriosa. La prima organizzazione dei lavoratori americani, a fine Ottocento, si chiama Knights of Labor, è una società segreta [...]]]> di Valerio Evangelisti

Dire che gli Stati Uniti sono uno dei paesi al cui interno è più acuta la conflittualità sociale può sembrare un paradosso, oppure un’affermazione scherzosa. Invece è proprio così. Ciò significa che i sindacati americani, in maggioranza conservatori ma combattivi, stiano riconquistando l’antica potenza? Niente affatto, è vero il contrario. La colossale AFL-CIO somiglia all’ombra di ciò che era stata.

Riassumo una storia complessa e, per tanti versi, gloriosa. La prima organizzazione dei lavoratori americani, a fine Ottocento, si chiama Knights of Labor, è una società segreta molto vasta (e non troppo segreta). I suoi dirigenti, però, si sentono attratti più dalle sirene della politica che dai conflitti di lavoro. Perdono credibilità. Sono sostituiti ed emarginati, fino a estinguersi, da una forza più agile e forte: la AFL, Federazione americana del lavoro. Il suo fondatore, l’ex sigaraio Samuel Gompers, allora di idee socialdemocratiche, raggruppa i lavoratori più qualificati per categoria, gelosi della propria abilità e delle proprie prerogative salariali.

È una scelta infelice, perché all’interno di uno stesso ramo industriale, o addirittura entro una stessa azienda, sorgono sindacati quasi artigianali in perenne concorrenza reciproca. Gompers è categorico: vanno tenuti alla larga i lavoratori non qualificati e precari, visti come minaccia allo status acquisito dagli operai professionali. La AFL impone quindi costose quote d’iscrizione, capaci di allontanare i paria, e in cambio garantisce ai suoi paghe sempre migliori e un embrione di assistenza sociale.

Di opinione assolutamente opposta è la IWW, Industrial Workers of the World, organizzazione fondata nel 1905 che si richiama al sindacalismo rivoluzionario. I lavoratori vanno organizzati non per mestiere ma per settore industriale, anche perché è lì che prende forma una società socialista futura; gli operai meno stabili, più deboli, meno qualificati hanno diritto al primo posto, dato che rappresentano le trasformazioni in corso della società statunitense e sono numericamente maggioritari.

L’intuizione è giusta, ma la sua messa in atto è terribilmente difficoltosa. Appunto perché non legati a un mestiere, gli operai unskilled passano facilmente da un lavoro a un altro, si muovono per il territorio americano, svuotano in un momento sezioni faticosamente costruite. Gli wobblies (nomignolo dato ai militanti degli IWW) li inseguono viaggiando da clandestini sui treni, creano organizzazione a ogni meta. Coinvolgono i lavoratori di recente immigrazione, diffondono volantini multilingue. Qualche vittoria la ottengono.

Si scontrano con un tratto caratteristico della situazione sociale statunitense: l’uso illimitato della violenza da parte del capitalismo americano e delle autorità che lo proteggono. Sono centinaia gli wobblies uccisi dall’esercito, dalla guardia nazionale, dagli sceriffi. Vi è chi è linciato nelle forme più atroci, chi è trascinato nel deserto e lasciato morire di sete. Ciò diventa frequentissimo durante e dopo la Prima guerra mondiale. Gli wobblies, anarco-sindacalisti in maggioranza (la minoranza è composta da comunisti), sono ovviamente neutralisti. Classificati come traditori, hanno i vertici imprigionati o deportati. L’avventura sindacale libertaria degli IWW si chiude negli anni Venti, e il bilancio è tragico. Poche vittorie pagate caro, molte vittime.

Ha dunque libero campo la AFL di Gompers, che appoggia a fondo la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra mondiale, e combatte gli IWW anche con l’uso della forza. Però non tutto il sindacato di Gombers è moderato. Già nel 1910 gli Iron Workers, potente organizzazione affiliata all’AFL, avevano attentato al giornale antisindacale “Los Angeles Times”, lasciando sul terreno ventuno morti e moltissimi feriti. In quel periodo e in quelli successivi, gli attacchi alla dinamite organizzati da sezioni dell’AFL furono un paio di migliaia.

Peggio. Per resistere alla violenza padronale, dispiegata su scala spaventosa (restò nella memoria il massacro di Chicago Sud, il 30 maggio 1937), i militanti del sindacato di Gompers presero a chiedere l’aiuto della malavita organizzata. Questa si prestò volentieri, mettendo mano, in cambio, ai fondi pensione a gestione sindacale. In un secondo tempo, durante la guerra fredda, i gangster diventarono un’efficace forza d’urto contro i sindacalisti comunisti.

Negli anni Trenta, dal cuore stesso dell’AFL, nacque un secondo grande sindacato, la CIO (Comitato, poi Congresso delle organizzazioni industriali). A differenza della sigla madre, da cui si separò nel 1936, era favorevole a coalizzare i lavoratori per area d’industria. Il suo massimo leader, l’ex minatore John L. Lewis, seppe farne un organismo possente, molto radicato in particolare nel settore dell’auto. Se i risultati salariali furono discutibili, poté quanto meno fare riconoscere i sindacati dell’automobile da Henry Ford, che fino a quel momento li aveva rifiutati e repressi con una propria polizia privata.

I sindacati, inclusa la CIO, assecondarono le politiche di F. D. Roosvelt per superare la crisi del 1929 e l’ecatombe di posti di lavoro che ne conseguì. Più controversa fu la partecipazione alla Seconda guerra mondiale, in cui John L. Lewis si contrappose al presidente e alla stessa CIO, passata in altre mani, sulla base di una scelta neutralista a oltranza. Scatenò in pieno conflitto scioperi micidiali di minatori, metalmeccanici e ferrovieri.

Il secondo dopoguerra fu caratterizzato da forti richieste di aumenti di salario per tutte le categorie, accompagnati da un blocco dei prezzi. Il successore di Roosvelt, Harry Truman, non vi si oppose. Unì però alla concessione, con la legge Taft-Hartley, la condizione che le organizzazioni sindacali si dichiarassero estranee all’ideologia comunista. Era l’anticamera del maccartismo. Gompers e Lewis erano morti, i loro successori – prossimi all’unificazione, avvenuta nel 1955 – avevano abbandonato il vago orientamento a sinistra dei loro padri. Nella nuova leva spiccava il nome di Walter Reuther, leader indiscusso dell’UAW, Unione dei lavoratori dell’automobile. Progressista sì, ma in riferimento all’ala sinistra del Partito democratico, fortemente anticomunista.

La AFL e la CIO non ebbero difficoltà a conformarsi alla legge Taft-Hartley. Reuther, ora capo del CIO, depurò la UAW dei militanti troppo a sinistra. Due soli sindacati importanti, diversissimi tra loro, resistettero: la ILWU, Unione internazionale degli scaricatori e dei magazzinieri, che attraverso il suo leader Harry Bridges era molto vicina al partito comunista (la ILWU dominava la Costa Ovest, mentre i portuali della Est erano vittime delle famiglie mafiose di New York); e la IBT, Fratellanza internazionale dei trasportatori, che aveva a presidente l’ambiguo Jimmy Hoffa.

Hoffa lasciava alla malavita la gestione dei contributi degli iscritti, usava la violenza (forse fino all’omicidio) contro i promotori di scioperi spontanei, professava ideali reazionari. Ciò malgrado era un mito per i suoi camionisti e per i trasportatori in generale, compresi i lattai. Al tavolo delle trattative non faceva sconti, batteva i pugni, riusciva a strappare il massimo degli aumenti salariali. Fece degli iscritti alla IBT il settore operaio meglio pagato d’America in assoluto, mafia o no. La sua scomparsa nel luglio 1975, sicuramente per mano dei suoi complici di Cosa Nostra, non ne offuscò la fama. Tanto è vero che a sostituirlo, dopo un lungo interregno, i camionisti chiamarono suo figlio, James Phillip Hoffa, in carica fino a poche settimane fa.

A ben guardare, sia la ILWU che l’IBT comprendevano quote rilevanti di manodopera precaria e saltuaria; per cui la solidarietà Hoffa-Bridges, che a molti parve scandalosa, aveva una robusta base strutturale. Un mondo distante da quello di Walter Reuther e di George Meany, nuovo presidente dell’AFL. Quando nel 1955 AFL e CIO si unificarono, dopo tante controversie e ostilità reciproche, i sindacati eretici rimasero fuori dalla nuova confederazione. La IBT lo è tuttora, e attorno a essa gravita una piccola ma non trascurabile coalizione di organizzazioni dissidenti, denominata oggi Change to Win, Cambiare per vincere.

La nascita nel 1955 della potentissima AFL-CIO modificò radicalmente il peso del sindacato negli Stati Uniti. Pur rimanendo fermamente anticomunista, Reuther strinse legami sempre più stretti con il Partito democratico, intavolò dialoghi con il padronato, ottenne buoni aumenti per molte categorie affiliate, contribuì all’elezione a presidente di John F. Kennedy. Inoltre, cancellando una tara da cui l’AFL, più che la CIO, era stata gravata fin dalle origini, combatté il razzismo e affiancò la lotta liberatrice di Martin Luther King. Il sindacato entrò in qualche modo nel sistema, ne divenne asse portante. Una componente, benevola e umanitaria, del capitalismo americano.

Seguì un ventennio di espansione apparentemente costante. La AFL-CIO quasi raddoppiò gli iscritti, intrecciò buoni rapporti con l’ala meno retriva del capitale, appoggiò le scelte governative in politica estera, avviò forme di compartecipazione agli utili. Il trionfo di Water Reuther? Sembrava, ma non fu così. Chi trionfava davvero, silenziosamente, fu il reazionario George Meany, presidente della confederazione unificata. Fece del sindacato un pilastro del sistema e una forza economica temibile. Moderò le richieste salariali, ignorò le pulsioni irrequiete della base, allontanò, assieme ai mafiosi, le componenti sindacali maggiormente combattive. La via era quella della concertazione con il capitale, in vista di presunti interessi comuni tra capitale e lavoro. Reuther tollerò a lungo, ma finì col dimettersi dall’AFL-CIO, portando con sé i segmenti di sindacato a lui fedeli, soprattutto nella UAW e tra i minatori. Animò lotte di ampio respiro.

Troppo tardi. Con la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il mondo industriale subiva profondi, rapidi e radicali processi di ristrutturazione. Erano entrati in fabbrica l’informatica, la robotica, il toyotismo. Nessuna ala del movimento sindacale fu tanto lungimirante da prevedere fino in fondo questi sviluppi. Se la burocrazia si crogiolava nel potere politico acquisito, e i minoritari rami militanti aspiravano a una ripresa di attivismo, entrambi non prestavano sufficiente attenzione allo sgretolarsi della loro base materiale,

Interi distretti industriali si svuotavano, il settore dei servizi minori si gonfiava in maniera ipertrofica, false tipologie di lavoro autonomo sostituivano quello salariato. Paghe basse, occupazione temporanea, assenza di servizi sociali. Era questo il destino di gran parte della manodopera immigrata di recente, e non solo di quella. L’AFL-CIO copriva appena i settori di classe operaia più maturi e, per non perdere anche questo legame, si vide costretta a far chiedere agli iscritti non aumenti, bensì decurtazioni di salario. Le alte retribuzioni conquistate negli anni Sessanta e Settanta diventarono appannaggio di quote esigue di “privilegiati”, in aree produttive prive di valore strategico.

La concorrenza estera, dovuta alla progressiva fusione dei mercati mondiali e a un decentramento sfrenato di plastica ed elettronica, isolò i vertici sindacali dal mercato vero della forza lavoro, così da farne dimenticare la vocazione originaria. Un dirigente dell’AFL-CIO, trasformata in macchina elettorale e in gestore di fondi di investimento, aveva poco da dire a un commesso Walmart o McDonald’s, a una domestica d’albergo, a un bracciante malpagato, a una donna delle pulizie, a un disoccupato, persino a un insegnante con lo stipendio all’osso. Né viene visto da costoro come un difensore naturale, come l’esponente di una coalizione a cui unirsi per reclamare condizioni decenti di vita e lavoro. Rischia anzi di essere considerato, se non un nemico, come rappresentante di un universo separato dal proprio.

La reazione più insidiosa delle classi subalterne si è manifestata in anni recenti, e consiste nella propria “autocancellazione”.  A fronte dei salari miseri, nemmeno sufficienti alla sopravvivenza, offerti dal padronato, centinaia di migliaia di lavoratori rinunciano a dichiararsi disoccupati e a richiedere il relativo sussidio, a sua volta esiguo. Preferiscono attività sotterranee e saltuarie, non sempre legali, alla certezza della miseria alla metà del mese, e all’instabilità abitativa. Lamentano le organizzazioni padronali una presunta scarsa voglia di lavorare, alimentata da sussidi di disoccupazione a loro dire eccessivi e incitanti all’ozio.

Malgrado ciò, non esitano a portare a livelli favolosi i compensi dei loro dirigenti e quadri, creando un abisso tra i loro proventi e quanto percepito dalla forza lavoro. Questa è ritenuta suscettibile di mille blandizie, eccetto una: un cospicuo incremento salariale. E gli operai reagiscono in forma individuale, negandosi quale cibo nel banchetto altrui, rifugiandosi nel rifiuto e nell’anonimato. Con un prezzo da pagare: termina, con simile diserzione individuale, un’antica tradizione di solidarietà, che induceva alla coalizione. Aveva consentito di resistere a decenni di violenza dispiegata, a omicidi commessi e rivendicati alla luce del sole.

Finisce con ciò la lotta di classe negli Stati Uniti? Per nulla. Frammenti sindacali esterni all’AFL-CIO, o marginali in essa, raccolgono i più sfruttati degli sfruttati. All’inizio degli anni Duemila fanno una effimera ma sorprendente ricomparsa gli IWW, che guidano a buone vittorie i dipendenti della catena Starbuck Coffee Company negli Stati Uniti e nel Canada. Più numerosi sono tuttavia i collettivi auto-organizzati di strati dall’estrema subalternità, compresi insegnanti, pompieri, manovali dei grandi magazzini, addetti alla logistica e alla distribuzione dei colossi informatici.

Riusciranno costoro a ricostruire una forza sindacale analoga a quella del passato? Difficile, le forze avverse sono troppo forti e compatte. Eppure, una notizia di questi ultimi giorni del 2021 pare indicare scenari divergenti e ottimistici. L’ala sinistra della Fratellanza dei trasportatori, approfittando della fine del mandato di James Phillip Hoffa, ha conquistato lo scorso 15 novembre la direzione della potente IBT. Ha fatto leva sui camionisti che lavorano per Amazon, delle più disparate nazionalità.

La rivista che ha guidato questa piccola rivoluzione si chiama “Labor Notes”, e si propone di coordinare gli attivisti dei sindacati storici con quelli dei collettivi spontanei. Chiama scherzosamente il prodotto di tale ipotetica fusione Troublemakers Union. Difficile prevedere l’esito del progetto, ma certo, fin dalle origini del movimento operaio americano, questo ha conosciuto i suoi momenti salienti quando è stato sensibile alle istanze dei “piantagrane” usciti da una composizione di classe instabile, precaria, multietnica e in continua trasformazione.

 

 

]]>
1984: sciopero! https://www.carmillaonline.com/2021/12/23/1984-sciopero/ Thu, 23 Dec 2021 01:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69734 di Giorgio Bona

1984. U.K. miners’ strike rappresentò la lotta dell’Unione Nazionale dei Minatori di Arthur Scargill, una lotta che voleva impedire la chiusura di venti giacimenti carboniferi del Regno Unito e che avrebbe portato il licenziamento di circa 20000 lavoratori.

Lo sciopero ebbe inizio il 6 marzo 1984. Durò oltre un anno in seguito all’annuncio della chiusura della miniera di carbone di Cortonwood nello Yorkshire per contrastare il disegno del Primo Ministro Margareth Thatcher di diminuire il numero e la produzione dei pozzi di estrazione del carbone.

Nell’ambito della sua [...]]]> di Giorgio Bona

1984. U.K. miners’ strike rappresentò la lotta dell’Unione Nazionale dei Minatori di Arthur Scargill, una lotta che voleva impedire la chiusura di venti giacimenti carboniferi del Regno Unito e che avrebbe portato il licenziamento di circa 20000 lavoratori.

Lo sciopero ebbe inizio il 6 marzo 1984. Durò oltre un anno in seguito all’annuncio della chiusura della miniera di carbone di Cortonwood nello Yorkshire per contrastare il disegno del Primo Ministro Margareth Thatcher di diminuire il numero e la produzione dei pozzi di estrazione del carbone.

Nell’ambito della sua politica industriale e sindacale la Thatcher mise all’opera un programma ben definito: 1) un piano energetico nazionale per diminuire l’uso del carbone, troppo costoso da estrarre e fuori mercato. 2) adozione di norme per limitare il diritto di sciopero, soprattutto riguardo alla pratica “illegale” dei picchetti.

Il 18 giugno 1984, nello Yorkshire scozzese, ebbe luogo quella che passerà alla storia come “la battaglia di Olgreave” l’evento più drammatico del lungo sciopero in corso. Quel giorno l’immagine che gli inglesi avevano dei loro governanti cambiò improvvisamente. Fu una battaglia, una guerra mossa dal governo contro il suo stesso popolo.

Un sacco di uomini si erano tolti le magliette e le avevano messe nelle loro tasche. E certamente questo non è il genere di cose che faresti quando stai organizzando un attacco alle forze di polizia seriamente equipaggiata con caschi, scudi e manganelli. Non affronti una polizia come quella con null’altro che un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Perciò categoricamente affermo che non ci fu la minima intenzione da parte dei minatori di attaccare la polizia. Io stessa, con molti altri, fui costretta a scappare e a cercare riparo.

      Da una testimonianza di Lesley Boulton (attivista e partecipante della manifestazione)

Circa 5000 minatori erano giunti fin lì con lo scopo di interrompere la fornitura di carbone raffinato alla cockerie, quando migliaia di poliziotti confluirono da ogni parte della nazione. La cavalleria fu spedita al galoppo e fece irruzione nel luogo del raduno. Una macelleria umana. In pieno assetto militare picchiò selvaggiamente i minatori e proseguì l’opera devastando case e villaggi.

Naturalmente la TV nazionale mandò in onda le immagini dei lavoratori impegnati a difendersi e non la carica della polizia, invertendo i violenti della situazione.

Una grande catena di solidarietà alla lotta dei minatori inglesi giunse all’inizio dai dirigenti dei sindacati ferrovieri, trasportatori, scaricatori, siderurgici, fino a estendersi a sindacati di altri paesi  tra cui Francia, Belgio, Svizzera, Germania e Polonia, a quello dei giovani del movimento operaio e a diverse organizzazioni che collegarono le loro battaglie a quelle dei minatori.

Le donne svolsero un ruolo molto importante perché non si adoperarono soltanto per organizzare la raccolta fondi e la distribuzione di viveri, ma convinsero molti indecisi a partecipare alla lotta.

E quando Scargill ordinò di marciare verso le miniere lo fecero tutti, o quasi. Per l’ultima volta. Il governo dei conservatori voleva la loro resa. Negli occhi di ognuno di loro il dramma di un addio, di un mondo che sarebbe finito per sempre.

E l’immagine del padre di Billy Elliot, personaggio di un film di Stephen Daldry, in cui Billy, ragazzino di undici anni sogna di diventare ballerino classico. Questo suo grande sogno è in contrasto con la fatidica realtà, quando si rivolge al padre, minatore in sciopero. manifestando la sua paura in quell’ultima marcia e la risposta rivela tutta l’amarezza di una sconfitta sindacale e politica, ma soprattutto perché quei fatti cambieranno il cammino del paese. “non ti preoccupare, non sei il solo, siamo tutti spaventati.”

Il sindacato dei minatori inglesi guidato da King Arthur Scargill, capo carismatico e di ispirazione marxista, decise la fine di uno sciopero durato un anno, con 98 voti contro 91.

Quando la Thatcher mise mano alla parte del suo programma che riguardava la lotta ai sindacati nominò il manager americano di origini scozzesi McGregor che aveva già guidato la società britannica per l’acciaio, una garanzia per guidare il piano energetico nazionale che riducesse l’utilizzo del carbone con conseguente taglio occupazionale.

Fu proprio McGregor ad annunciare in quel fatidico mese di marzo 1984 la chiusura dei primi venti pozzi con il taglio di 20000 unità lavorative.

La reazione dei lavoratori fu immediata e compatta. Da una parte 165000 lavoratori contro 60000 unità di forze di polizia in assetto di guerra.

Tutto questo lo troviamo nel libro GB 1984 di David Peace che racconta queste cinquantatré settimane di guerra civile con picchetti, arresti, violenze e intimidazioni, famiglie disperate, crumiri, corruttori e corrotti.

A combattere questa battaglia che dilaniava interamente il paese, ci furono uomini come Terry Winters, braccio destro del dispotico leader del sindacato che doveva farsi carico del destino di migliaia di lavoratori, come l’ebreo, un mediatore senza scrupoli deciso a spezzare lo sciopero con ogni mezzo e che reclutava neonazisti da sguinzagliare contro i picchettatori, che manipolava gli organi di informazione e faceva in modo che i cameramen della televisione inquadrassero soltanto il lancio di sassi da parte dei minatori e non le cariche violente e le manganellate della polizia.

La volontà di vincere ad ogni costo della classe dominante, la violenza delle forze dell’ordine, l’incapacità degli uomini del sindacato sempre più apparato. Una vera e cruda rappresentazione della realtà dove Margareth Thatcher comparve una sola volta con nome e cognome è sempre con attributi: “La Lady di ferro” o “La Troia di Ferro” per i minatori. Una rappresentazione dove non c’era il tempo di tirare il fiato perché tra le due parti, come nella realtà, c’erano delatori, ruffiani, spie che stavano dentro questo ingranaggio dove si rischiava di rimanere stritolati.

il libro di David Peace affonda i tentacoli nella realtà di un paese che sta pagando le conseguenze di quei fatti ancora adesso e la visione di quelle famiglie costrette a vivere con gli spiccioli distribuiti dal sindacato mentre il Ministero della Sanità aveva tagliato i sussidi e allora ecco che la fiction fococopia il vero quando si racconta di famiglie rimaste senza un mobile in casa a causa del pignoramento, di bambini che muoiono sotto le scorie mentre setacciano un po’ di carbone per ricavare qualcosa, donne che litigano per un pezzo di salsiccia o che rovistano tra i cumuli di vestiti usati.

E sono realtà, pagina dopo pagina, le violenze della polizia a cavallo, manganellate, calci e pugni, arresti immotivati, lavoratori barbaramente feriti e lasciati a terra senza nessun soccorso.

La terza guerra civile della Gran Bretagna. Una sconfitta che sa di fiele. Una pagina nera nel mondo del lavoro con una nazione che volta le spalle. Un grosso focolaio per l’Europa intera sotto la brutalizzazione del neoliberismo.  Segnali terribili di un tempo che cominciò a cambiare in peggio.

 

 

]]>
Pietro Verri, osservazioni sulla tortura, fra pestilenze di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2021/03/19/pietro-verri-osservazioni-sulla-tortura-fra-pestilenze-di-ieri-e-di-oggi/ Fri, 19 Mar 2021 00:53:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65414 di Francisco Soriano

Pietro Verri fu un personaggio unico nel panorama storico e politico della vita culturale milanese. Visse durante i formidabili anni Sessanta del diciottesimo secolo: un periodo proficuo in cui vennero scritti testi divenuti pietre miliari della nostra civiltà giuridica. Le varie esperienze professionali vissute anche al di fuori del contesto lombardo e gli incontri con insigni personaggi del tempo fecero dell’uomo un appassionato propugnatore di idee innovative. Verri fondò l’Accademia dei Pugni, composta da un gruppo di giovani aristocratici illuminati su cui si stagliava forte la figura di Cesare [...]]]> di Francisco Soriano

Pietro Verri fu un personaggio unico nel panorama storico e politico della vita culturale milanese. Visse durante i formidabili anni Sessanta del diciottesimo secolo: un periodo proficuo in cui vennero scritti testi divenuti pietre miliari della nostra civiltà giuridica. Le varie esperienze professionali vissute anche al di fuori del contesto lombardo e gli incontri con insigni personaggi del tempo fecero dell’uomo un appassionato propugnatore di idee innovative. Verri fondò l’Accademia dei Pugni, composta da un gruppo di giovani aristocratici illuminati su cui si stagliava forte la figura di Cesare Beccaria. I componenti della vivace accademia si concentrarono, in particolar modo nelle loro acute analisi, sulle questioni che riguardavano la necessità di una ineluttabile riforma del diritto civile e penale, consapevoli che uno Stato davvero moderno avesse come obiettivo prioritario quello di attuare i dettami della nuova filosofia politica e sociale che le società del tempo esigevano. È curioso però ricordare quanto lo stesso Pietro Verri avesse nutrito insofferenza viscerale verso il diritto, soprattutto durante i suoi primi approcci con la giurisprudenza imposti dal padre, che lo sottopose senza tregua fin dalla giovane età a una pedante quanto sistematica disciplina nello studio di testi giuridici. La reazione fu quella di un giovane che, oltre a desiderare la fuga dall’ambiente familiare, vagheggiò e nutrì sempre una tendenza al superamento di logiche e visioni conservatrici del mondo a lui contemporaneo.

Insieme alle attività polemiche e satiriche dell’Accademia, il Verri progettò un periodico con una spiccata vocazione cosmopolita, dal nome emblematico: Il Caffè. Fu in questo periodo che, grazie alle attività di un manipolo di innovatori, la città di Milano sembrò sollevarsi dal mediocre e inattivo mondo della provincia asburgica. Il centro lombardo assunse la dignità di un rilevante avamposto di diffusione culturale nel quadro dell’Illuminismo europeo. Per Verri la strada era quella solcata da una nuova sensibilità giuridica: vi era una mutazione valoriale che imponeva e posizionava la persona al centro di maggiori tutele. Il fine era quello di stabilire un nuovo equilibrio sociale e umano che fosse il risultato di una sintesi fra utilitarismo ed egualitarismo. Lo strumento principale per il raggiungimento di questo obiettivo era il diritto, ma necessitava di fondamentali interventi “ristrutturanti” da chi legiferava.

C’era bisogno soprattutto della collaborazione fra studiosi illuminati che avrebbero dovuto porre al centro della loro azione riformatrice il raggiungimento di un obiettivo irrinunciabile: la garanzia di una condizione in cui il diritto venisse considerato un bene comune accessibile e a tutela di tutti. In questa ottica riformatrice la politica avrebbe dovuto dare un impulso decisivo, un cambio di marcia che superasse antiche regole ormai vuote di significato per le mutate dinamiche sociali. Verri e gli accademici si ponevano nella posizione tipica di una élite di pensatori che avrebbe dovuto educare le masse proprio attraverso la legge. Un’idea che non vantava in Verri un precursore e che poteva comunque mostrare punti di debolezza, ma l’intento era quello di mandare in pensione i propugnatori di una giurisprudenza che si basava ancora sulle fondamenta di leggi romane desuete per i tempi e per le astruse congetture su cui si reggevano. Le dinamiche rigide ed enfatiche del diritto esistevano ormai solo come una scorza formale senza contenuti.

Infatti proprio in questo ambiente così pregno di vivaci intuizioni nacque il progetto-manifesto di quell’illuminismo giuridico penale in gran parte, ancor oggi, attuale: Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764 con l’uscita del primo numero de Il Caffè. Dagli studi, dalle discussioni e soprattutto negli scritti, si produsse un trittico di fondamentali lavori giuridici: l’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763), Sulla interpretazione delle leggi (1765), e quello più interessante di tutti, le Osservazioni sulla tortura del 1776: il testo rimarrà inedito fino all’Ottocento per volontà dello stesso Verri, perché timoroso delle inimicizie e delle reazioni che avrebbe provocato per i suoi “pensieri pericolosi a dirsi”.

Le Osservazioni contro la tortura sono un’opera strepitosa. L’incipit del libro consisteva nel racconto di una storia ambientata nel 1630 e aveva come riferimento proprio un processo nei confronti del Commissario di Sanità, Guglielmo Piazza e del suo barbiere Gian Giacomo Mora. Ambedue furono torturati barbaramente e, quest’ultimo, finito fra raccapriccianti pene nella spirale di una condanna a morte insieme ad altri presunti complici. I malcapitati erano accusati di aver somministrato il morbo fra la popolazione e di aver provocato migliaia di morti. Verri venne in possesso dei verbali del processo grazie a un amico di famiglia e ne rimase scosso: da questo disagio nacque l’idea di scrivere un pamphlet sull’ignominia della tortura.

Il 2 gennaio del 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Austria abolì la tortura e ridusse massicciamente l’utilizzo della pena di morte, consigliando vivamente alle province austriache e boeme di adeguarsi a tale indirizzo. All’invito della sovrana rispose il senato milanese che diede mandato proprio a Gabriele Verri, padre di Pietro, dell’onere della risposta: nella consulta, l’ultraconservatore giurista, redasse una celebrazione della tortura come strumento utile e inesorabile contro la criminalità e, soprattutto, come irrinunciabile metodo per il mantenimento della pace sociale. Fu a questo punto che Pietro Verri strappò definitivamente con il padre e si dedicò ai suoi scritti che mettevano in discussione tutto l’impianto penale della tortura e dei suoi abietti risultati. Il lungo e antico saggio ben articolato di atti processuali e brillanti intuizioni dovrebbe essere imposto a molti esponenti della politica di oggi, assolutori e addirittura alleati di capi di stato e principi mandanti di assassinii, favorevoli alla recrudescenza della pena di morte soprattutto per reati ideologici. Scrisse il Verri nell’introduzione all’opera: Sono già più anni dacché il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò a voler esaminare la materia nei suoi autori, la crudeltà e assurdità dei quali sempre più mi confermò nella opinione di riguardare come una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Una tirannia che ancor oggi, alla luce del sole, tormenta e sottopone alla tortura schiere di giovani studenti e dissidenti, donne e intellettuali in balia di atroci sofferenze per le loro idee. Pietro Verri in qualche modo volle accordare una minore responsabilità ai giudici che, in realtà, non solo erano figli dei tempi ma erano tenuti ad applicare le leggi: Anche i giudici, che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato, credevano di purgare la terra dai più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia. Quanto di vero si ritrova in queste parole lo si deduce dalle gogne mediatiche e dai frequenti linciaggi che si susseguono oggi in più moderne modalità. L’autore del mirabile testo sulla tortura partì dunque dalla narrazione della pestilenza che colpì Milano nel 1630 e della Colonna infame, feticcio-monumento a memoria perenne del processo all’untore per antonomasia: Gian Giacomo Mora. Le parole del Verri risuonano ancor più emblematiche, laddove definisce la pestilenza con sublime lucidità: La crudelissima pestilenza fu una delle più spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò; niente era più in salvo, né le sostanze, né la vita, né l’onestà delle mogli; tutto era esposto alla inumanità e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel senso della misera lor patria spirante, come appena un popolo selvaggio farebbe del paese nemico. Nel sottolineare la nostra dissociazione nei confronti dell’espressione che il Verri riportava circa l’onestà delle donne fra gli effetti negativi dell’epidemia, l’analisi della ferocia della pandemia sugli spiriti fragili degli umani non lascia dubbi di sorta. Ancor di più se si legge quanto, nei disastri pubblici, l’umana debolezza inclina sempre a sospettare cagioni stravaganti, anzi che a crederli effetti del corso naturale delle leggi fisiche. Quanto di attuale ritroviamo in queste parole ci deve far riflettere sui ricorsi storici degli accadimenti, purtroppo sempre più spesso rilevanti negli aspetti sconvolgenti e negativi.

Pietro Verri citava le crudelissime circostanze in cui avvenivano le torture, narrando l’esempio di quelle subite dal Commissario Piazza. I giudici ordinarono di ricondurlo in prigione con le ossa slogate, fra spasimi indicibili e con la promessa che egli avrebbe confessato i suoi complici. Al fine di non subire ulteriori dolori e pene, l’uomo fece il nome del suo barbiere, tal Mora, che fu subito prelevato dalla sua abitazione e sottoposto a una barbarie senza senso: lo colsero in sua casa fra la moglie e i figli, in quella casa che venne distrutta per piantarvi la colonna infame. Altri umili personaggi furono sottoposti all’infamia della tortura, calunniati dal delatore Piazza che non ce la faceva più a subire dagli aguzzini pene inimmaginabili: oltre a Gian Giacomo Mora furono condotti su un carro anche gli altri dove furono tenagliati in più parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano, poi, rotte le ossa delle braccia e delle gambe, s’intralciarono vivi sulle ruote e ivi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono per fine del carnefice scannati, indi bruciati, e le ceneri gettate nel fiume. Verri si interrogava dunque sulla pratica della tortura e sui risultati che produceva: infatti non poteva essere considerata neanche come pena data a un reo per sentenza, bensì veniva pensata con la pretesa ricerca della verità coi tormenti.

L’amara constatazione del Verri si evince, sempre più pregnante, nei suoi scritti: tale è la natura dell’uomo che, superato il ribrezzo dei mali altrui e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce e giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di che ne serve d’esempio anche il furore de’ Romani per i gladiatori. Lo stesso autore si chiedeva quanto fossero pericolose quelle leggi che, non solo erano rimaste in vita, ma lasciavano addirittura che la tortura venisse considerata ancora strumento adeguato alla confessione di chi fosse ritenuto semplicemente reo di un crimine da dimostrare. Mettendo in dubbio l’idea che nel corso degli anni la tortura avesse subito una certa mitigazione nella sua brutalità, l’autore passava a enumerare le ragioni che non consentivano di accettare la teoria, in base alla quale, solo attraverso questa pratica disumana fosse possibile dedurre la verità di un fatto criminoso: a) i tormenti non potevano essere un mezzo per scoprire la verità; b) la legge e la pratica stessa criminale non consideravano i tormenti come un mezzo per scoprire la verità; c) quand’anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto. Nel paragrafo finale, nelle obiezioni sull’uso della tortura, ben si puntualizzava: La nostra pratica criminale è veramente il labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo che si sospetta reo di un delitto. Quest’uomo cessa in quel momento di avere una esistenza personale.

Verri utilizzava questa narrazione per esaltare la settecentesca idea che contrapponeva il lume della ragione alle tenebre della superstizione e dell’ignoranza. La sua introspezione è lucida e vigorosa quando pone l’accento sul fanatismo, sulle condizioni sociali che creano dinamiche di emergenzialità e di inasprimento delle pene e delle restrizioni. In questi casi il sistema giudiziario e alcune dottrine del diritto non fanno altro che legalizzare l’impiego di metodi che si pongono al di fuori di ogni dimensione umana. Inoltre con questo scritto l’autore pone l’accento sulla natura stessa del diritto penale che viene capovolta laddove cambia la prospettiva del suo operare: dalle pratiche inquisitorie a quelle che fanno invece riferimento a un senso più alto del diritto che si fonda sulla presunzione di non colpevolezza. La condanna di Pietro Verri si concentrò sull’operato dei giuristi, ma indusse anche a una dialettica sulle questioni della tortura e della pena di morte negli anni successivi. Fu così per Alessandro Manzoni che innestandosi sul filone critico e riformista, con la sua indole comunque moralista, si distanziò da una certa retorica illuministica che perorava una felicità e un ottimismo tipicamente riconducibili al secolo dei lumi. Le Osservazioni sulla tortura furono edite solo nel 1804. Manzoni nel 1840 capovolgerà l’idea del Verri attribuendo la responsabilità dei metodi criminali, nel tentativo di conoscere la verità, non nei tempi e per l’operare della legge voluta dai giuristi, bensì nello spirito umano e nei giudici colpevoli della loro condotta disumana. La Storia della Colonna infame fu infatti un testo di implacabile critica contro le responsabilità dei giudici nelle corti giudicanti, frutto e risultato della mancanza di una pedagogia morale degli uomini all’interno delle società.

Una dialettica che sopravvive nei giorni convulsi del nostro tempo, fra terrorismi di stato e pestilenze da Sars-19.

]]>
Giuseppina Cattani, internazionalista e scienziata (2/2) https://www.carmillaonline.com/2021/01/31/giuseppina-cattani-internazionalista-e-scienziata-2-2/ Sun, 31 Jan 2021 01:10:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64753 di Giuliana Zanelli

Qui la prima parte.

«Vivi, lavora, ed ama»

Giuseppina godeva dunque di un certo prestigio intellettuale, e quando nella primavera del 1879 si ebbe notizia di un manifesto rivolto alle operaie d’Italia dalle sezioni femminili di Napoli e di Romagna della Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, fu sospettata di esserne l’autrice. Il 4 maggio il prefetto di Bologna aveva infatti ricevuto dal collega di Napoli un dispaccio in cui si leggeva tra l’altro: «Mi è stato riferito che detto manifesto sarebbe stato compilato da una giovane Romagnola [...]]]> di Giuliana Zanelli

Qui la prima parte.

  1. «Vivi, lavora, ed ama»

Giuseppina godeva dunque di un certo prestigio intellettuale, e quando nella primavera del 1879 si ebbe notizia di un manifesto rivolto alle operaie d’Italia dalle sezioni femminili di Napoli e di Romagna della Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, fu sospettata di esserne l’autrice. Il 4 maggio il prefetto di Bologna aveva infatti ricevuto dal collega di Napoli un dispaccio in cui si leggeva tra l’altro: «Mi è stato riferito che detto manifesto sarebbe stato compilato da una giovane Romagnola che studia medicina costà, la quale avrebbe anche sborsato il danaro occorrente per la stampa, ed anche ne avrebbe già ricevuta una grossa quantità per la diffusione in codesto e in altri luoghi delle Romagne». Il Ministero dell’Interno in una sua al prefetto bolognese incalza: «pare che una giovane romagnola che studia medicina presso codesta università, abbia commessa in Napoli la stampa di 1000 copie di un proclama socialista […]. Richiamo su di tale notizia l’attenzione della S.V., pregandola di disporre siano fatte le più accurate investigazioni eziandio presso cotesta stazione ferroviaria per scoprirne il destinatario, e accertarne l’esistenza, la prego di procedere con tutta l’energia».

Le perquisizioni che seguirono in Bologna nelle case di alcune internazionaliste ben note quali Violetta Dall’Alpi e Adele Gabutti portarono al sequestro di alcune decine di manifesti e a qualche arresto, ma «Quanto all’autrice del manifesto non si è ancora potuta stabilire con certezza chi sia». Come scrive infatti il prefetto al Ministero dell’Interno, «cadde naturalmente il sospetto sulla Cattani Giuseppina che appunto è studente presso questa Facoltà medica ed è compresa nell’Elenco degli internazionalisti […] ma non si ha nessun dato che sussidii questa supposizione».

Se i funzionari della polizia avessero avuto alle mani il numero 16 ottobre 1876 de “La Plebe” di Milano, “rivista socialista ebdomadaria”, avrebbero appreso che già la Federazione Internazionale di Firenze aveva indirizzato alle operaie italiane analogo appello. Il settimanale milanese lo riportava, non si sa se integralmente o con tagli. Certo è che il manifesto sequestrato nel maggio 1879 in Bologna e stampato a Napoli ne riprendeva alcuni passi, ma appare al confronto di quello fiorentino più caldo nei toni e più prolisso. Quelle che la sezione femminile di Firenze chiama «Compagne» nel nostro manifesto venivano chiamate «Sorelle», e la perorazione appare appassionata:

Sorelle

Prestate orecchio e fede alle nostre parole. Non possiamo né vogliamo ingannarvi noi, che siamo come voi, vittime dei previlegi e dei pregiudizi sociali. Seguite il nostro esempio. levatevi una volta contro la schiavitù alla quale ci condanna la società: unitevi, associatevi per scuotere il giogo di miseria e di vergogna che ci opprime. […] Al presente la società invece di un compagno ci dà un padrone, invece dell’amore la soggezione. Come se non bastasse un’altra maggior vergogna è imposta ora alla donna, la prostituzione. Così è: centinaia e centinaia delle nostre sorelle sono costrette a vendersi perché o non trovano lavoro, o se lo trovano non ne ritraggono tanto che basti a sfamarle. Centinaia e centinaia delle nostre sorelle trascinano la vita nei postriboli.

Tra i mali della società che ricadono sulle donne c’è l’impossibilità degli operai malpagati di farsi una famiglia, non potendo mantenere moglie e figliuoli:

Centinaia e centinaia delle nostre sorelle sono dannate all’infamia perché ci sono alcuni pochi privilegiati che comprano e disonorano le figlie del popolo […] coi danari accumulati sfruttando i lavoratori…

Rispetto a quello fiorentino, il manifesto napoletano-romagnolo dedica più ampio spazio al problema della prostituzione. In entrambi i documenti si dichiara di respingere la proposta borghese di emancipazione femminile, ovvero – come esplicita il manifesto stampato a Napoli – di concedere alle donne il diritto di voto e di sedere in parlamento. Per dare alla donna la dignità che le compete non c’è che una strada, retribuire giustamente il suo lavoro: è «la soluzione della questione sociale», ovvero «l’emancipazione del lavoro e dal Capitale». Efficace e breve, l’esortazione con cui si chiudono i due documenti:

 Compagne/Sorelle, unitevi a noi. La società del presente ci ha detto: O soffri la fame o venditi. La società dell’avvenire ci dirà: «Vivi, lavora, ed ama». 

  1. Studentessa universitaria e attivista

Lungo i sei anni del corso universitario, Giuseppina Cattani, pur dedicandosi allo studio, non smise di impegnarsi per quelle idee che aveva cominciato a professare nella sua adolescenza. Per questo continuò ad essere oggetto di attenzione da parte sia della polizia sia della stampa democratica.

Nel giugno del 1879 “La Patria” (cui fa eco “La Stampa” di Torino) e il ricordato periodico bolognese “La Donna” segnalano il suo successo nella prima sessione di esami universitari, in cui ottenne la pienezza dei voti e in più la lode negli esami di fisica, chimica e botanica. Nei medesimi giorni venivano sequestrati diversi numeri de “Le Revolté” a lei diretti nella sua abitazione di Bologna. Del resto, scrive il questore al Ministero degli Interni nell’agosto dell’anno medesimo, «in passato qualcuno anche dei più noti capi socialisti dimoranti all’Estero si sarebbe servito dell’indirizzo della Cattani per far pervenire alla sua vera destinazione corrispondenza settaria, ma da qualche tempo nessuno avrebbe più inviato corrispondenze alla Cattani medesima perché ormai conosciuta».

Sono diverse le modalità con le quali Giuseppina manifesta il suo attivismo: quando collabora con la “ Rivista Internazionale del Socialismo”; quando (settembre 1880) pronuncia parole di compianto al funerale di una giovane compagnia forlivese, Ersilia Matteucci; quando assieme alla madre Teresa Boratti e a diversi esponenti repubblicani e socialisti di Imola, va ad incontrare in una casa fuori porta Appia Andrea Costa da poco sceso dal treno alla stazione cittadina (ottobre 1880) Particolare curioso: il poliziotto che lo aspettava non se ne avvide. Come riferì il sottoprefetto al prefetto, «Andrea Costa la sera del suo arrivo in questa città smontò dalla vettura ferroviaria in cui trovavasi dal lato opposto a quello dal quale smontarono gli altri viaggiatori e passando per la coda del convoglio dal locale delle merci si avviò verso casa sua; ed ecco come passò inosservato all’agente incaricato di sorvegliarne alla ferrovia l’arrivo».

Nel febbraio del 1882 Giuseppina si mise poi in luce nelle agitazioni degli universitari bolognesi che protestavano per l’arresto e la condanna degli studenti pisani: secondo la notizia comparsa sull’“Avanti!” (il settimanale voluto dal Costa) avrebbe infatti caldeggiato con successo la costituzione di un Circolo anticlericale. Nell’aprile, ci segnala un documento di polizia, sarà Giuseppina ad accompagnare la madre che viene a Bologna a cambiare in moneta corrente presso un cambiavalute una nota bancaria russa di cento rubli: Anna Kuliscioff è in procinto di abbandonare Imola per la Svizzera con la sua bambina. Nel maggio dell’anno dopo partecipa ad un banchetto per il Congresso democratico di cui riferisce il periodico “Don Chisciotte” di Bologna: «Nell’antica chiesa di Santa Lucia, nella Palestra Ginnastica si trovarono pertanto membri del congresso e cittadini bolognesi alle 7 di ieri sera per pranzare. I presenti erano oltre a cento cinquanta fra i quali Felice Cavallotti, Aurelio Saffi, l’on. Severino Sani, l’on. Aporti, l’on. Rodolfo Rossi. A metà del lieto e affettuoso convegno entrò Giosuè Carducci che innumerevoli applausi salutarono. Due buone e valenti donne confortavano della loro cortesia l’adunanza: Giorgina Saffi e Giuseppina Cattani. […] La signorina Cattani augurò al giorno in cui, come oggi si festeggiava l’unione delle forze democratiche, si possa festeggiare l’unione di tutte le forze umane nel trionfo del buono, del bello e del vero. Dopo questo fioccarono altri brindisi del Sani, del Carducci, del Barbanti, del Rossi, del Ratti, del Cavallotti. In tutti fioriva la gentilezza e il pensiero dell’emancipazione della donna, nota elevata che la presenza della signora Saffi e un nuovo splendido discorso della signorina Cattani avevano in tutti trasfusa. […]. Al di fuori parecchi delegati di P. S. e molte guardie invigilavano l’eclissi che avveniva in cielo…».

Si avvicinava intanto per Giuseppina il momento della laurea. 

  1. Giuseppina Cattani: medico, docente e scienziata di livello internazionale

Ancora nell’anno in cui Giuseppina concludeva il suo percorso di studi, la sottoprefettura imolese, redigendo per il quarto trimestre il registro degli internazionalisti, annotava: «Cattani Giuseppina di Tullio di Imola res. Imola, dottoressa, statura bassa, corporatura esile, occhi scuri, colorito pallido, porta occhiali». Ma la giovane donna era ormai completamente assorbita dallo studio e dalla ricerca scientifica. La sua battaglia politica si trasformava e si portava su di un diverso fronte. Del resto erano in corso altri cambiamenti. Dopo la Lettera ai miei amici di Romagna di Andrea Costa (luglio 1879) anche l’internazionalismo aveva cercato nuove strade per portare avanti i suoi ideali, e anzi nel 1882 Costa era entrato primo, e per il momento unico, deputato socialista alla Camera.

La tesi di laurea fu discussa il 7 luglio 1884. Intitolata Ricerca intorno alla normale tessitura e altre alterazioni sperimentali nei corpuscoli pacinici degli uccelli (corpuscoli dell’Herbst), meritò la lode. A Bologna fu la prima laurea in medicina ottenuta da una donna, (se escludiamo quella riconosciuta a Matilde Dessalles), non però la prima in Italia, dove già c’era stata Ernestina Paper, ebrea e russa di origine, che dopo un anno di studi a Zurigo, si era poi laureata nel 1877 all’Università di Firenze, seguita nel 1878 da Maria Farnè Velleda laureatasi a Torino.

Nello stato unitario l’orientamento delle studentesse verso la Facoltà di medicina a preferenza di altri corsi aveva motivazioni che si connettevano con una visione tradizionale dei ruoli di genere: la professione medica veniva vista come un prolungamento dei compiti di cura assegnati alle donne, in particolare in campo ginecologico e pediatrico, e perciò le resistenze e le critiche maschili verso la presenza femminile in questi ambiti erano meno forti. Interessante il fatto che Anna Kuliscioff, che nel 1887 si sarebbe laureata in medicina all’Università di Napoli, pochi anni prima, nel 1883, in una lettera ad Andrea Costa, riferendosi alle ricerche della Cattani, aveva commentato: «Il lavoro della Peppina è troppo speciale e non avrà gran valore scientifico. Vedremo il lavoro stesso, quando sarà fatto. Io non l’avrei fatto, mi sarei occupata d’altra cosa più reale e che abbia più importanza. Del resto vedremo; non dirle nulla, perché aspetto il lavoro completo per scriverle io stessa». Non sappiamo di preciso che cosa non la convincesse circa la ricerca dell’amica. Nei primi mesi del 1886 la Kuliscioff, ormai alle soglie della propria laurea, si applicò ad approfondire le cause della febbre puerperale di cui tante donne morivano dopo il parto, e compiendo importanti  esperimenti presso il Gabinetto di Patologia generale dell’Università di Pavia diretto da Camillo Golgi, futuro premio Nobel per la medicina,  ne evidenziò l’origine batterica. Tale campo di ricerca appariva forse alla Kuliscioff cosa più reale e di maggiore importanza per la salute femminile rispetto agli studi che la “Peppina” faceva in vista della sua tesi. Ma di altre ricerche della Kuliscioff non si ha però notizia: a Milano, divenuta compagna di Filippo Turati, fu, finché la salute glielo permise, la «dottora dei poveri».

Anche Giuseppina non mancò di avere pazienti cui prestare la sua opera, come testimoniano di tanto in tanto i ringraziamenti apparsi sulla stampa locale, ma riuscì più lungo a resistere nell’ambito della ricerca, sua primaria passione. Lo attestano i ricordati soggiorni all’estero e le numerose pubblicazioni da cui si ricava che dopo i primi interessi di tipo neurologico, si dedicò allo studio dei batteri, occupando così quella che era una vera e propria nuova frontiera della medicina. Era l’epoca in cui gli studi di Pasteur e di Koch identificavano i batteri quali cause delle diverse malattie infettive. Era una vera rivoluzione.

I batteri portavano malattie e diffondevano epidemie, soprattutto tra le classi popolari, capire come contrastarne la diffusione, cercare rimedi, aveva un’indubbia valenza sociale. E fu così che la dottoressa Cattani si trovò a studiare in collaborazione col professor Tizzoni l’agente patogeno del colera, quel vibrione che, provenendo dall’India, aveva dato origine nell’Europa dell’Ottocento e nella stessa Italia a più di un’ondata epidemica. Il morbo interessò più volte la città di Bologna facendo non poche vittime, e si affacciò anche nel territorio imolese alla fine dell’estate 1886, provocando diversi morti. Nel 1886 studi ed esperimenti condotti da Giuseppina in collaborazione col Tizzoni ne indagarono le modalità di trasmissione anche attraverso il sangue degli infetti, come si legge in diverse pubblicazioni che furono tradotte in tedesco e in francese. Poi, dopo gli studi sul colera fu la volta del tetano, ed è qui che la ricerca pervenne al suo maggior risultato, la messa a punto di una terapia.

Riconosciutale nel maggio 1887 la Libera docenza in Patologia generale dapprima a Torino  poi a Bologna, tenne in questa sede un corso di Batteriologia di cui ci sono non solo documenti burocratici nell’archivio universitario, bensì echi sulla stampa locale come “L’Università” e “La Lega democratica”. Dobbiamo poi al corrispondente bolognese de “Il Piccolo della Sera” di Trieste nel numero della domenica 31 marzo 1889 una vivace ed entusiasta testimonianza sotto il titolo di Una professoressa d’Università – Giuseppina Cattani, ove si coglie l’occasione di stigmatizzare la misoginia ancora diffusa di fronte alla presenza femminile nei livelli più alti degli studi e dell’impegno sociale:

«Le maestrine elementari o degli asili infantili, le telegrafiste e le dottoresse sono degli esempi assai comuni di emancipazione muliebre nel nostro paese ormai accettati senza discussione; spesso, molto spesso anzi, ammirati per gli ottimi frutti che hanno dato. L’esempio invece di una dottoressa giovanissima, che dopo lunghi e pazienti studi, dando prova di un coraggio certamente non comune nel sesso femminino, e di un ingegno vigoroso e sano, sale la cattedra di una cospicua scienza nella più antica Università d’Italia, merita senza dubbio più che encomio l’ammirazione sincera e illimitata degli spettatori spesso indifferenti e ingiusti del nostro paese. […] L’esempio dunque di questa gentile, bella e colta signora che sale la cattedra dell’antico studio bolognese, che diventa collega di Pasquale Villari, Giosuè Carducci, Aurelio Saffi, Pietro Gandino, non può non essere accolto da un vivo sentimento di giubilo da quanti sentono non a chiacchere, ma a fatti la forza della dignità femminile. […] Ieri [25 marzo 1889], infatti, la dottoressa Giuseppina Cattani, docente con effetti legali in patologia generale, con una splendida prolusione elegante per l’ordine perfetto di esposizione, per la somma chiarezza dei concetti, per la lucida analisi delle leggi e dei fenomeni, inaugurava nel nostro ateneo il corso di batteriologia a una folla di studenti curiosi di vedere una signora giovane, bella, modesta e sapiente che, unica nel nostro paese e nel nostro tempo, ha raggiunto l’onore di salire sulla cattedra e che ha il valore scientifico per sapervi egregiamente rimanere. Io ho assistito alla dotta lezione, e ho applaudito calorosamente cogli altri, quando ella ha posto termine al suo dire. E mi sono convinto che gli applausi calorosi di tutta quella folla non erano un omaggio alla grazia, di cui ella pure è degna rappresentante; ma alla dottrina chiara, alla parola facile e persuasiva, alla convinzione che dalle sue parole si fa strada spontanea nell’uditorio».

  1. Isolamento e cultura del batterio del tetano, e sieroterapia antitetanica

Alla fine del 1888 la dott.ssa Cattani era rientrata a Bologna, forte dell’esperienza acquisita presso il Prof. Klebs all’Università di Zurigo. L’anno successivo la ricerca sua e del prof. Tizzoni prese a focalizzarsi sul bacillo del tetano che provocava, negli uomini e negli animali infettati attraverso una ferita, forti contratture muscolari, insufficienza respiratoria, crisi di asfissia, fino all’arresto cardiaco, risultando mortale in gran parte dei casi. Solo da pochi anni era stato dimostrato che il tetano era una malattia infettiva e ne era stata identificata la causa nel batterio Clostridium tetani, chiamato così per la sua forma simile a una clava (in latino clostridium). Non si era invece ancora riusciti a isolare e coltivare il batterio del tetano, passo che si era rivelato molto complesso. Ma già nell’aprile 1889 Tizzoni e Cattani annunciano all’Accademia medica di Torino di aver ideato una procedura per realizzare colture pure del tetano. Hanno raggiunto questo risultato indipendentemente da Kitasato, a Berlino, cui generalmente è attribuito. Nel 1890 Cattani e Tizzoni, contemporaneamente a Faber in Danimarca, scoprono la tossina proteica prodotta dal batterio del tetano e la identificano come sola e unica causa della malattia. Rendono pubbliche le loro ricerche con una serie di comunicazioni sulla rivista “La Riforma Medica” riassumendole in una lunga memoria in tedesco Bakteriologische Untersuchungen über den Tetanus redatta nel 1890 in collaborazione col dott. Elia Baquis, assistente nel laboratorio bolognese di Patologia, completa di tavole fotografiche e microfotografie. La possibilità di isolare e coltivare il bacillo del tetano era stata la premessa a studi e ricerche per conoscere le caratteristiche biologiche del microrganismo, la cui importanza doveva poi manifestarsi nella pratica medica.

Il secondo passo fu quello di cercare possibili antidoti, e dunque possibili terapie, e venne imboccata la strada di utilizzare gli anticorpi, ovvero le difese, che gli animali infettati avevano prodotto e sperimentarne l’efficacia inoculandoli su altri animali infetti. Individuati alcuni animali che avevano resistito al tetano, i ricercatori bolognesi verificarono con successo che il siero del loro sangue aveva il potere di contrastare in altri animali la tossicità degli agenti patogeni del tetano.

Fu in una seduta del 5 aprile 1891 alla Reale Accademia dei Lincei che venne letto un lavoro dal titolo Sulle proprietà dell’antitossina del tetano, ove i ricercatori bolognesi specificavano che quella chiamata da loro antitossina del tetano era una sostanza «a cui il sangue degli animali resi immuni contro questa malattia deve il suo potere di rendere innocuo il virus [ = batterio] ed il veleno tetanico». Il siero in realtà non distruggeva la tossina prodotta dal bacillo, ma aumentava la resistenza dell’organismo colpito, ne potenziava cioè la reazione immunitaria. Occorreva ora trasferire i risultati dagli animali all’uomo, operazione che andava fatta con tutte le cautele del caso.

Ci furono critiche, ci furono successi, ci furono inciampi. A criticare i risultati presentati dai due ricercatori fu tra gli altri il fisiologo prof. Pietro Albertoni, lo stesso che, in passato, all’atto dell’ammissione della dott.ssa Cattani alla Società Medico Chirurgica, aveva espresso apprezzamento per le sue capacità di ricercatrice. Ora invece sosteneva che le ricerche sul tetano condotte da Tizzoni e Cattani non erano conclusive e soprattutto che non si doveva passare a sperimentazioni sull’uomo. Giuseppina allora si dimise dalla Società, e si impegnò con varie pubblicazioni a difendere i risultati delle sue ricerche. Intanto però si registravano i primi successi nell’uso del siero antitetanico in campo umano: a Padova nel 1891 un uomo venne guarito dal tetano con siero proveniente dal laboratorio bolognese; a Molinella nello stesso anno il dott. Domenico Gagliardi, medico, filantropo, e combattivo socialista, trattava e guariva con lo stesso siero un caso di tetano traumatico.

Non sempre però le cose filavano lisce, come accadde nell’agosto del 1894 per un caso di tetano in ospedale a Faenza, quando non fu possibile inviare il siero per l’assenza sia del Tizzoni sia della Cattani. Ne nacque una polemica sul settimanale “Il Lamone” a cui Giuseppina, con la franchezza tipica del suo carattere, rispose in modo assai circostanziato: «Noi non possiamo, in nostra assenza, lasciare ad altri l’incarico di spedire antitossina; perché, come abbiamo reso noto in una Memoria pubblicata nei Giornali Medici, da qualche tempo e per qualche tempo ancora, non concediamo la nostra antitossina se non dopo avere noi stessi esaminato l’infermo per cui ci è chiesta. È questa una dolorosa necessità (dolorosa non solo per chi chiede ma anche per noi) impostaci da un cumulo di difficoltà di varia natura che peraltro speriamo di riuscire a vincere fra non molto. Ma anche nelle condizioni presenti, se io fossi stata a Bologna, il malato di Faenza avrebbe potuto esser curato colla nostra antitossina. Perché, in vista della poca distanza, sarei accorsa subito a visitarlo e non aver mancato di concedere il siero antitetanico per la sua cura, qualora non l’avessi trovato già moribondo…».

Dalla tesi di dottorato in Oncologia e Patologia sperimentale (a.a. 2005- 2006) di Carla Cardano concernente la ricerca sulle tossine in Bologna a fine Ottocento, apprendiamo quanto laboriose furono le indagini condotte da Tizzoni e Cattani, con quali esperimenti sugli animali, fino alla messa a punto del siero antitetanico. Ricavato in un primo momento dal sangue del cane e del coniglio, cui più tardi si aggiunse, quale produttore, il cavallo, il siero fu impiegato sempre più, basti pensare al largo uso che se ne fece sui feriti della prima guerra mondiale.

  1. Giuseppina Cattani torna a Imola

Che cosa inducesse Giuseppina Cattani ad abbandonare nel 1897 Bologna e l’Università, proprio mentre la terapia alla cui invenzione aveva dato un contributo fondamentale si affermava, non sappiamo. Sui motivi del suo ritorno a Imola gli storici non concordano: Raffaele Gurrieri riferisce genericamente di «interessi di famiglia»; Nazario Galassi la dice «costretta per motivi di salute e familiari» e fa riferimento alla malattia che la dottoressa avrebbe già contratto; Annacarla Morandi invece ritiene che la malattia la colpisse più tardi: una malattia che le deturpava il volto e ne accentuava il carattere schivo.

Ma vanno considerati anche altri motivi. Il ruolo proposto a Giuseppina Cattani dalle autorità imolesi di dirigere il Gabinetto di radiologia e la sezione di anatomia patologica e batteriologia dell’Ospedale civile di Imola era prestigioso. In quel torno di tempo l’istituzione sotto l’impulso del repubblicano collettivista Luigi Sassi conosceva una felice fase di rinnovamento e di progresso tanto da diventare uno dei principali centri sanitari del Paese. Come scrive Annacarla Morandi, «gli stimoli derivanti dalla realtà innovativa di avanguardia dell’ospedale di Imola sono probabilmente le principali motivazioni che indussero Giuseppina Cattani a lasciare la carriera accademica. Inoltre, data l’impossibilità di avere una propria Cattedra, la Dottoressa sarebbe stata destinata ad essere sempre subalterna al prof. Tizzoni».

Tra Ottocento e Novecento tutto il quadro cittadino era in movimento, e il nuovo secolo imprimeva ottimismo e slancio all’opera dell’amministrazione. Imola diveniva quasi un modello. In omaggio alla modernità e all’igiene tra il 1905 e il 1906 a Imola venivano abbattute le mura che ormai, anziché proteggere la città, rendevano più buie e umide le povere abitazioni dei cosiddetti terragli; l’elettricità sia per l’illuminazione sia come forza motrice sostituiva l’uso del gas; le principali vie cittadine, polverose e fangose, venivano selciate, e infine era avviato alla soluzione il problema dell’acqua potabile. Quando tra il 1911 e il 1912 si arrivò al capolinea dell’annoso problema di dotare la città di Imola di un acquedotto, fu proprio Giuseppina Cattani a compiere l’analisi batteriologica dell’acqua di falda che avrebbe dovuto dissetare i suoi concittadini. Gli imolesi fino ad allora avevano fatto ricorso a pozzi talora inquinati dai liquami, data la carenza o l’insufficienza della rete fognaria.

In quegli anni la malattia che faceva soffrire la nostra dottoressa si era aggravata. All’origine del male, il suo stesso impegno di ricerca, forse per l’uso senza precauzioni di sostanze radioattive di cui, come medico patologo, studiava l’azione sulle cellule. Sugli ultimi tempi della sua attività professionale c’è la commossa testimonianza di quello che era stato un suo giovane collega, il medico ed intellettuale imolese Giuseppe Cita Mazzini (1873-1953): «La ricordo benissimo – scrisse attorno al 1945 – quando veniva puntualmente, ogni mattina, verso le dieci, in ospedale e il suo passo secco e duro si sentiva risuonar da lontano sotto gli archi dei portici e su per le scale. Veniva, sola, in silenzio e si metteva subito al lavoro nell’una o nell’altra di quelle cinque o sei camerette che lei stessa aveva fatto arredare e fornire di mobili e di apparecchi in modo da formare una piccola ma completa sezione per studi e ricerche. Benché l’ospedale non contasse allora tanti letti come adesso, pure ne aveva del materiale da studiare e degli esami da fare. Quando era di buon umore, e cioè quando si sentiva un po’ meglio in salute, fra un preparato o un’indagine e l’altra, amava intrattenersi con noi e, nella sua conversazione, al particolar interesse scientifico, si accompagnava sempre il riflesso della sua coltura umanistica che era vasta e profonda. In caso contrario, avevi del bello e del buono a cavarle una parola di bocca. E dire che, sempre franca ed aperta, era stata anche gaia ed allegra, amante della buona compagnia fino a essere parte attiva di una nostra Società Filodrammatica che diede rappresentazioni a scopo benefico ed ebbe vita più o meno continuativa ma ricca di operosità e di propositi. […] Era stata colpita da un male che non perdona, che la mortificava, che la faceva soffrire e le deturpava il viso che teneva più che poteva coperto di una fitta veletta». E ancora: «Da giovane fu internazionalista […]. A quel gruppo di malfattori – così erano chiamati allora gli internazionalisti – appartenne anche la studentessa Giuseppina Cattani. La quale, più ancora che di Costa, fu amica, direi quasi sorella, della giovane e bionda Anna Kulisciof [sic]quando fioriva, qui, in Imola, il suo idillio col nostro Andrea. E qui dopo tant’anni entrambe si rividero. Fu in occasione del settimo Congresso nazionale del Partito Socialista tenutosi, in teatro, nel settembre del 1902. La Kulisciof, in quei giorni, fu ospite della stessa casa della Cattani (la ca d’la Nigota) dove tante volte aveva dovuto nascondersi un tempo, per sottrarsi alle ricerche della polizia che andava sulle sue traccie».

Il 13 dicembre 1914 il settimanale socialista di Imola “la Lotta” diede brevemente notizia della morte di Giuseppina, per riportare la settimana dopo la bella memoria del suo compagno internazionalista Giovan Battista Lolli. L’anno successivo fu il professor Raffaele Gurrieri (1862-1944), docente universitario di medicina legale e uomo di sentimenti socialisti, a comporne un’agile biografia arricchita di una ricca bibliografia pubblicata nel Bollettino delle Scienze Mediche a cura della Società Medica Chirurgica di Bologna. Il Gurrieri era di poco più giovane di lei e doveva averla conosciuta di persona: «Essa era di un’energia e franchezza eccezionali nella vita e di una intelligenza veramente superiore, ma nello stesso tempo di una modestia sconfinata. Per queste sue doti e per la simpatia naturale che ispirava, essa ebbe l’amicizia tenace e perseverante delle più elevate personalità di quegli anni…».

In quello stesso torno di tempo, il 27 marzo 1915, sul The British Medical Journal compariva un necrologio:  Wie regret to annonce the death  of  Dr. GIUSEPPINA CATTANI… Ne diamo la traduzione integrale: «Siamo spiacenti di annunciare la morte della Dott.ssa Giuseppina Cattani, docente di patologia generale, prima all’Università di Torino, poi in quella di Bologna. Il suo nome è associato a quello di Tizzoni per gli studi sul tetano. Ella è stata anche autrice di numerosi saggi che contengono risultati di ricerche indipendenti. Il suo stato di salute le rese impossibile continuare la sua attività come docente universitaria, tuttavia continuò a dirigere i laboratori degli Ospedali Civili e l’istituto clinico della sua città natale, Imola».

Sulla figura di questa donna calò poi un lungo silenzio: la guerra, i mutamenti politici, il regime…  La salma della dottoressa venne addirittura traslata dal cimitero imolese a quello di Bagnara, cittadina in cui viveva la sorella. L’interesse verso la scienziata rinacque solo nel secondo Novecento per merito dello storico Nazario Galassi, studioso in particolare (ma non solo) delle istituzioni ospitaliere imolesi. Con l’inizio del nuovo secolo altri studi soprattutto di storiche attente all’universo femminile come Annacarla Morandi e Carla Cardano hanno indagato con ricchezza di dettagli la vicenda della Cattani. In questo risveglio di interesse, momento topico è l’anno 2002, quando venne dedicato a lei il Centro prelievi dell’AUSL di Imola e, per iniziativa dello stesso Galassi, le sue spoglie fecero ritorno solenne a Imola per essere tumulate nel famedio cittadino, dove è possibile ora portare quell’omaggio di fiori che l’antico compagno sollecitava per lei.

Nota bibliografica essenziale – Giovan Battista Lolli, La Professoressa Giuseppina Cattani e l’Internazionale, “La Lotta”, 20 dicembre 1914;  Raffaele Gurrieri, La dott.ssa Giuseppina Cattani, Società Medica Chirurgica di Bologna, Bollettino delle Scienze Mediche, Bologna 1915; Cita Mazzini, Imola d’una volta [1942-46], a cura di Carla Cacciari e Giuliana Zanelli, Imola 2003, Editrice La Mandragora, pp.429-435; Nazario Galassi, Figure e vicende di una città. vol II, pp.378-393, Imola 1986, Editrice Coop. Marabini;  Nazario Galassi, Giuseppina Cattani una vita per la scienza e l’umanità, Imola 2002; Nazario Galassi, La dedicazione a Giuseppina Cattani del Centro prelievi dell’AUSL di Imola, Imola 2002; Annacarla Morandi, Medichesse a Bologna: il caso di Giuseppina Cattani (1859-1914), «Pagine di vita e storia imolesi» n. 9, Imola 2003; Carla Cardano, Le ricerche sulle tossine svolte nella Patologia generale di Bologna dalla fine del XIX secolo a oggi, dottorato di ricerca Università degli studi di Bologna,  a.a. 2005/6, cfr. ivi  Le ricerche sul Clostridium tetani e sulla tossina tetanica, pp. 20-50.

 

]]>
Giuseppina Cattani, internazionalista e scienziata (1/2) https://www.carmillaonline.com/2021/01/23/giuseppina-cattani-internazionalista-e-scienziata-1-2/ Sat, 23 Jan 2021 00:28:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64619 di Giuliana Zanelli

Premessa – Giuseppina Cattani (1859-1914), internazionalista, scienziata e docente ha sempre destato interesse e passione in chi cura l’Archivio Storico Popolare di Medicina. Abbiamo così raccolto nel tempo la documentazione che via via ci parlava di lei, in particolare i documenti relativi al periodo in cui Cattani ha partecipato alla Prima Internazionale antiautoritaria, afferente ai principi espressi dal Congresso internazionale riunitosi a Saint-Imier in Svizzera nel settembre 1872. Fonti principali sono state quelle prodotte dagli organi repressivi del potere (questure, prefetture …) conservate nell’Archivio di Stato di Bologna, e [...]]]> di Giuliana Zanelli

Premessa – Giuseppina Cattani (1859-1914), internazionalista, scienziata e docente ha sempre destato interesse e passione in chi cura l’Archivio Storico Popolare di Medicina. Abbiamo così raccolto nel tempo la documentazione che via via ci parlava di lei, in particolare i documenti relativi al periodo in cui Cattani ha partecipato alla Prima Internazionale antiautoritaria, afferente ai principi espressi dal Congresso internazionale riunitosi a Saint-Imier in Svizzera nel settembre 1872. Fonti principali sono state quelle prodotte dagli organi repressivi del potere (questure, prefetture …) conservate nell’Archivio di Stato di Bologna, e la pubblicistica dell’epoca.

In questo anomalo e difficile periodo di pandemia, non abbiamo potuto evitare di ripensare al ruolo di Cattani scienziata contro le malattie infettive che colpivano più intensamente le classi economicamente e socialmente più povere. Con la volontà di valorizzarne ulteriormente la figura, abbiamo quindi contattato e trovato necessaria complice Giuliana Zanelli che ha elaborato e narrato la storia di Giuseppina, con sapienza e sensibilità, meglio di quanto avremmo potuto fare noi.

Alessia Bruni Cavallazzi e Tomaso Marabini dell’Archivio Storico Popolare di Medicina

____________________

  1. Per “una grande figura di donna”

Operaio! Chiunque tu sia se passerai da Imola, ricorda che nel Cimitero del Piratello accanto all’urna di Andrea Costa fu sepolta una modesta, ma grande figura di donna. Se non hai teco garofani rossi, raccogli fiori di campo, e portali ad entrambi.

 Questo invito gentile, che univa in un unico omaggio chi negli anni più generosi della propria vita aveva sognato l’Internazionale come strumento di giustizia sociale, fu possibile leggerlo il 20 dicembre 1914 sia su “La Folla” di Milano, sia sul settimanale socialista imolese “La Lotta”, in calce a un’ampia nota biografica dedicata a Giuseppina Cattani. L’aveva redatta un suo vecchio compagno di ideali, Giovan Battista Lolli già testimone del fervore che la Cattani, ancora ragazza, aveva manifestato per la causa internazionalista, un’esperienza da altri pressoché dimenticata che lui invece aveva voluto ricordare. Il 9 dicembre 1914, all’età di 55 anni, Giuseppina era morta nella sua casa di Imola.

Dottoressa in medicina,  anzi scienziata e autrice di numerose pubblicazioni, nonché docente, la Cattani aveva abbandonato nel 1897, a solo 38 anni, l’insegnamento e la ricerca all’Università di Bologna per dirigere il servizio di anatomia e istologia patologica, radiologia ed esami batteriologici dell’Ospedale civile della sua città, ruolo propostole dall’amministrazione democratica e socialista che allora era alla guida della Congregazione di Carità. Dal 1884, anno della sua laurea conseguita con lode sotto la guida del prof. Guido Tizzoni, ordinario di Patologia generale, aveva compiuto ricerche al suo fianco e ottenuto assieme a lui importanti risultati, il più celebre dei quali sarebbe stato la messa punto del siero antitetanico. Aveva goduto di una borsa di studio per il perfezionamento all’estero, potendo frequentare per due semestri l’Istituto patologico dell’Università di Zurigo diretto dal prof. Klebs, tra i protagonisti della moderna microbiologia.

Oltre che nella ricerca si era impegnata nell’insegnamento come assistente del Tizzoni, e nel 1887 le era stata riconosciuta la Libera docenza in Patologia generale dove espresse il suo spirito innovativo ideando un corso di Batteriologia patologica secondo gli indirizzi che, sulla scia di Koch e di Pasteur, si affermavano in altri Paesi d’Europa. Nel 1889 era stata la prima donna accolta quale socia nella Società Medica Chirurgica di Bologna, ma la sua aspirazione a salire in cattedra quale professore ordinario non riuscì a realizzarla: pur avendo concorso presso diverse Università italiane, nonostante i formali elogi, e nonostante fosse stata giudicata eleggibile al ruolo di professore ordinario per il suo profilo di studiosa documentato dalle numerose pubblicazioni, le erano stati preferiti altri concorrenti.

Giuseppina Cattani era nata a Imola il 29 marzo 1859. Nel giugno di quell’anno i territori delle legazioni pontificie di Romagna venivano abbandonati dai papalini, e di lì a poco, nel marzo 1860, i plebisciti ne avrebbero sancito l’unione ai territori sabaudi, quindi, nel 1861, al Regno d’Italia. Erano tempi di mutamenti politici e culturali importanti che avrebbero avuto qualche riflesso anche sull’accesso femminile alle scuole pubbliche. Tuttavia per concedere alle ragazze la frequenza a livelli superiori come quelli del liceo, sarebbero occorsi ancora diversi anni e coraggiose battaglie individuali. E proprio al liceo puntava Giuseppina con grande necessaria determinazione: aveva ben chiara in testa l’idea di studiare medicina, e la strada maestra era dunque il conseguimento della licenza liceale.

Veniva da una famiglia modesta, ma di spirito aperto e già sensibile agli aspetti della pratica medica, essendo la madre, Teresa Buratti (o Boratta), detta la Nigòta, una delle più stimate levatrici di Imola.

Intelligenza, passione e diligenza nello studio emersero in Giuseppina fin dalle elementari che frequentò nella propria città ottenendo la licenza nel luglio 1870, al termine del quarto anno, con il punteggio di 27/30. Ma se nelle scuole primarie erano già da tempo aperte classi femminili, non così nei gradi scolastici successivi, ginnasio e liceo, cui accedevano soltanto i maschi. In realtà non vigeva nessun formale divieto, tanto la consuetudine e la mentalità facevano da sole una “naturale”, invisibile, invalicabile barriera. La figlia della Nigòta non era tuttavia ragazza da fermarsi, tanto più che negli anni della sua adolescenza correva per le strade della sua città e della sua regione uno spirito di rivolta, un’aspirazione alla giustizia sociale che, per le donne, significava innanzitutto bisogno di rispondere in libertà alla propria vocazione di studio e di lavoro. E così Giuseppina si accostò ai gruppi dell’internazionalismo orientato, anche per influenza di Andrea Costa, all’anarchismo. In questo senso il clima che Giuseppina respirava in casa era certamente favorevole. Proprio la Nigòta – che un documento di polizia indica come «levatrice internazionalista» – nel 1881 avrebbe accolto, ovvero nascosto, nella propria abitazione la compagna di Andrea Costa, Anna Kuliscioff sulla quale pesava un decreto di espulsione dall’Italia.

La polizia immaginava che la Kuliscioff, il cui nome nei rapporti è regolarmente storpiato, fosse venuta a rifugiarsi clandestinamente in Imola per ricongiungersi con il Costa, e la ricercava, ma con scarsa fortuna. Nel clima della confusione carnevalesca, tra maschere e travestimenti qualcuno credette di riconoscerla. Fatto sta che il 18 marzo 1881 il sottoprefetto imolese scriveva al suo superiore in Bologna: «Ritornando alla possibile venuta della Koulikoff in questa città debbo ancora avvertire ad ogni buon fine che agli ultimi giorni dello scorso carnevale si spargeva la voce che dessa era qui ed avea preso parte ad una festa di ballo di una Società privata. Io non mancai di appurare la cosa e venni a constatare in modo certo che la pretesa Koulikoff era la figlia della levatrice Cattani studentessa di medicina in codesta Università, che conoscendo la lingua tedesca e la francese avea tratto in inganno quanti nella festa eransi secolei trattenuti in colloquio». Scambio curioso, se si pensa che qualche tempo dopo, Anna Kuliscioff, prossima a partorire, si rifugiava proprio in casa della mamma di Giuseppina. Da lei Anna fu protetta nel corso della sua gravidanza e assistita nel parto. Nel dicembre fu poi il Costa a denunciare all’anagrafe imolese la piccola «Andreana» come figlia propria e di «madre ignota». Tutti, le autorità in primo luogo, sapevano che era della Kuliscioff che poi, qualche tempo dopo, stanca della sua situazione illegale, desiderosa di accudire più serenamente la sua bambina e fors’anche di evitare di trasformarsi in una specie di moglie romagnola del Costa, abbandonò l’Italia per la Svizzera con la piccola Ninuccia di pochi mesi in braccio.

  1. Una ragazza determinata

La prima volta che troviamo la figlia della Buratti in rapporto con l’Internazionale è nel dicembre 1876, quando una lettera del Ministero dell’Interno segnala alla prefettura di Bologna tra gli altri imolesi affiliati e corrispondenti dell’Associazione, tale «Cattani Giuseppe»: il maschile nasce probabilmente da un equivoco, dissolto il quale il nome di Giuseppina appare a chiare lettere nella successiva documentazione poliziesca. Qui troviamo diverse tracce di questa sua appartenenza politica, mentre parallelamente si moltiplicano le testimonianze della sua tenacia nel perseguire la propria emancipazione intellettuale.

Per dare corpo ai suoi progetti, Giuseppina aveva compiuto come privatista gli studi ginnasiali, e nel 1876 si era presentata al relativo esame di licenza. Con lei c’era un’altra ragazza imolese, Giulia Cavallari, maggiore di qualche anno: le due fecero notizia. «Quest’anno – riportò La Patria di Bologna – si sono presentate alli esami di licenza ginnasiale due giovinette, che un dì sperano di poter conseguire alla Università la laurea in medicina. Esse hanno dato il loro esame, ed hanno conseguito punti notevolissimi: 90 e 93 sopra 100. Le due coraggiose giovinette sono le signorine Giuseppina Cattani e Giulietta Cavallari di Imola. La sig. Cattani non ha che 16 anni, è di ingegno svegliatissimo, di forme graziose. Rispose così bene all’esame che, ottenuti 93 punti sopra 100, i professori esaminanti e gli alunni presenti nella sala la applaudirono clamorosamente. Fra nove anni, se perseverano nello studio, come non vi è luogo a dubitare, le due giovinette saranno insignite all’Università dalla laurea in medicina, e saranno delle prime in Italia a dare l’esempio alle compagne di esercitare una professione che non può essere che di grande vantaggio a loro ed al sesso a cui appartengono». Così rilevante era il passo compiuto dalle ragazze imolesi che il fatto venne registrato dall’Annuario Istorico Italiano 1876.

Va detto che un anno prima, nel 1875, un decreto del ministro della Pubblica Istruzione Ruggero Bonghi era intervenuto a specificare che le donne, se fornite dei necessari titoli di studio, potevano iscriversi all’Università con le stesse modalità degli studenti maschi. Fu così che, dopo il ginnasio, prima Giulia, poi Giuseppina, chiesero e ottennero di sedersi sui banchi del Galvani di Bologna, da dove uscirono con esito brillante al termine dell’anno scolastico 1877/78. E dovrà passare un decennio prima di trovare un’altra giovane tra i licenziati di quel Liceo.

Nella sua vicenda scolastica, Giuseppina aveva sempre riportato ottime votazioni nelle materie scientifiche e di studio. Non così nelle discipline letterarie, in particolare nella lingua italiana, dove forse pesava la provenienza da un ambiente famigliare sostanzialmente dialettofono. La ragazza volle allora curare questo aspetto della sua preparazione, e con la mediazione del farmacista di Dozza, Epaminonda Farini, uomo di spiriti risorgimentali e mazziniani, si rivolse addirittura al Carducci, docente all’Ateneo bolognese. Chiedeva al celebre professore di indicarle un insegnante che potesse guidarla a ottenere migliori risultati in quel campo. Lo apprendiamo da una lettera autografa datata Imola, 5 gennaio 1875, con la quale una quindicenne Giuseppina, senza timidezza pur nel formalismo d’epoca, comunicava al già celebre poeta l’esito del suo interessamento. Lo testimonia il documento conservato nell’Archivio di Casa Carducci: “Chiarissimo signor Professore, La ringrazio, quanto a parole non so, della bontà colla quale ha esaudita la preghiera, che ardii rivolgerle[…] gliene rinnovo i più sinceri ringraziamenti e pregandola a conservarmi la Sua benevolenza, che ho per cosa cara, e preziosa, colla più viva gratitudine mi dico di Lei, Pregiatissimo Signor Professore Devotissima ed Obbligatissima serva Cattani Giuseppina. Forse anche per questo nel primo anno universitario alla Facoltà di medicina, tra i corsi liberi seguiti dalla Cattani, ci fu anche quello del Carducci, ove certamente ritrovò Giulia Cavallari, che alla fine aveva scelto una facoltà umanistica.

Nella Bologna di quegli anni, dove Giuseppina spesso risiedeva per i suoi studi, era particolarmente attento ai progressi femminili il quindicinale “La Donna”. Diretto da Gualberta Alaide Beccari, portava il sottotitolo Periodico di Educazione. Sulle pagine di questa rivista interamente scritta da donne, la Cattani e la Cavallari furono unitamente oggetto più volte di affettuosa attenzione. Veniva esaltata la loro «forza d’animo non comune, dimostrata col frequentare quelle scuole, che fin a ieri erano per legge e per consuetudine, luoghi proibiti al nostra sesso», se ne registravano i passi compiuti come l’iscrizione all’Università. Di Giuseppina non si mancava di sottolineare anche il fascino femminile: «È tutta grazia e leggiadria, temprata però di una severità che impone […]. Nonostante gli oppositori, le donne scienziate vanno crescendo di numero e la società per questo non n’è sconvolta; ma noi del partito avanzato, dobbiamo molta gratitudine a queste brave nostre sorelle, che prime sforzarono inveterate consuetudini, conservando tutta la celestiale grazia propria delle donne…». Bisogna pur dire, ridimensionando l’entusiasmo della Beccari, che l’Università italiana rimase a lungo una roccaforte maschile e cedette con molta lentezza ad ingressi dell’altro sesso. Nell’autunno di quel 1878 le giovani a entrare all’Università di Bologna furono due in tutto, Giulia e Giuseppina, né va troppo considerato il fatto che la sorella di Giuseppina, Augusta («bellissima fanciulla», annotava la Beccari) si fosse data allo studio dell’ostetricia, entrando nella scuola fondata all’inizio dell’Ottocento da Maria Dalle Donne, un percorso tradizionalmente inferiore alla vera e propria pratica della medicina.

Sospese così tra aperture limitate e volontà di progresso, alcune donne di Bologna, con l’appoggio di importanti personalità – avvocati, professori, giornalisti, politici di spirito democratico-risorgimentale – costituirono nel 1890 un Comitato di propaganda per il miglioramento delle condizioni della donna. Oltre alla Beccari ne faceva parte anche Elisa Norsa, allora al primo anno di Università nella Facoltà di Scienze Naturali, dove nel 1894 avrebbe conseguito la laurea con lode.

  1. La giovane internazionalista

Quando nel dicembre del 1914 Giuseppina morì, della sua giovinezza internazionalista era rimasto un ricordo piuttosto debole. Nel profilo La Professoressa Giuseppina Cattani e l’Internazionale, pubblicato sul settimanale socialista “La Lotta” di Imola e sul settimanale milanese “La Folla”, lo aveva sottolineato il Lolli: «Di lei non fu fatto cenno nemmeno al ritrovo, del Settembre scorso [1913], fra i vecchi Internazionalisti a Imola, né nelle pubblicazioni di quei giorni». E aggiungeva, come se fosse un’attenuante: «Fu forse dimenticanza, non oblio».

I tempi degli entusiasmi erano lontani forse più degli stessi anni trascorsi, e tuttavia nel vecchio compagno di ideali della giovane Giuseppina rimaneva viva, tra le altre, l’emozione di un incontro di operai indetto in un’osteria fuori porta allo scopo di propagare le idee dell’Internazionale. «A Bologna – rievoca il Lolli – erano iniziati i lavori per la riattivazione del vecchio Acquedotto Romano e si cercava di organizzare fra quei lavoratori un nucleo di nuove reclute […]. Fu fissato una sera di Sabato un ritrovo alla Locanda del Chiù fuori Porta Saffi (in allora S. Felice) e intervennero in circa trecento […]. Gli oratori erano scarsi, in allora, e il designato per quella sera era Giovanni Pascoli, il quale dovette assentarsi, credo, per recarsi a Savignano di Romagna. Come fare? Si pensò alla buona Peppina, che subito accettò, e l’accompagnammo colla sorella. L’effetto su quella folla di operai abbrutiti da un orario estenuante, mal vestiti, taluni scalzi, fu esteticamente impressionante. La bellezza di quelle due giovani donne li rese estatici, e quando la parola dolce di Giuseppina Cattani disse, per la prima volta a quegli uomini del lavoro di avere fiducia in un avvenire migliore, molti di essi, che forse, dalla madre in poi, mai udirono una parola di speranza, piansero, e quella sera fu propaganda d’amore, non di odio».

Di una «Riunione degli affigliati [sic] alla Federazione Internazionale Bolognese» nella locanda del Chiù esiste anche un documento di polizia: una relazione del questore al prefetto ove si parla di ottanta partecipanti e si riferisce di un applaudito intervento della Cattani volto a sollecitare l’iscrizione all’Internazionale delle compagne e delle sorelle degli intervenuti, né è possibile stabilire se si tratti della medesima circostanza. Era il gennaio del 1879 (il 26 dice il documento della polizia), un momento difficile per gli internazionalisti dopo i processi per i tentati moti del 1874 in Bologna e del 1877 nel Matese, e mentre era in corso un ulteriore processo a un gruppo di anarchici che, dopo il fallito attentato di Passannante al re Umberto I (novembre 1878), erano stati oggetto di numerose retate in tutta la penisola, a Imola e altri luoghi della Romagna. Tra quanti si impegnarono a riorganizzare il movimento non era mancata Giuseppina Cattani.

Nelle carte di polizia le tracce della sua adesione internazionalista risalgono a qualche anno prima, all’epoca dei suoi studi liceali, e sono piuttosto significative. S’è vista alla fine del ’76 la prima segnalazione sotto il nome di Giuseppe. Un anno dopo, nel novembre del ’77, a Imola, nel corso di una perquisizione venivano sequestrate 48 copie del giornale L’Anarchia, e tra quelle già poste sotto fascia una ve n’era indirizzata proprio a Giuseppina. Nel ’78, in agosto, lo stesso Ministero dell’Interno richiamava il prefetto di Bologna a una speciale attenzione nei riguardi della Cattani e di altre donne quali Flavia Dall’Alpi (madre di Violetta, un tempo compagna di Costa) e di una dottoressa in medicina, il cui nome, pur storpiato, ci porta a Matilde Zamboni Eitner Dessalles.

Nata a Odessa da padre bolognese, è questa una figura straordinaria che si accompagnò più volte con Giuseppina in iniziative di sostegno al movimento internazionalista. Particolarmente interessante il fatto che nel luglio 1877 l’Università di Bologna le avesse convalidato con apposito esame la laurea in medicina conseguita all’Università di Berna. Come sappiamo anche dalla vicenda di Anna Kuliscioff, nelle Università russe le ragazze non potevano iscrivesi a nessuna facoltà e per questo non poche emigravano in Svizzera, dove anche la Kuliscioff si recò allo scopo di proseguire gli studi, e là conobbe Andrea Costa.

Nell’Ottocento ci fu un momento in cui la Confederazione Elvetica divenne rifugio di intellettuali russi, spesso di estrazione aristocratica, che si ribellavano all’autocrazia zarista. Spinti dall’aspirazione a libertà e giustizia sociale, diventavano rivoluzionari, attentatori persino, finendo sul patibolo o ai lavori forzati. Quelli che sulla scia di Herzen e di Bakunin vennero in esilio in Occidente, vi disseminarono le loro idee, contagiarono uomini e gruppi, si incontrarono con idee analoghe e analoghe passioni: un’onda che, pur sfrangiata dall’emergere di pensieri e progetti diversi, si levava contro sfruttamento e miseria, diseguaglianza e repressione, nel desiderio di realizzare una società ideale, la terra che con suggestiva metafora il drammaturgo Tom Stoppard ha chiamato «La sponda dell’utopia». A ciò aspirava anche Matilde, il cui primo marito, Michael Eitner, di probabile famiglia ebraica, era stato condannato ai lavori forzati per cospirazione ai danni del governo e dello zar, mentre Matilde cercava prima a Zurigo poi a Berna di studiare e laurearsi. Con questa donna, solo di qualche anno maggiore di lei e così carica di esperienze (dal primo matrimonio russo aveva avuto anche due figli), Giuseppina collaborò nel portare aiuto ai compagni. È ancora Giovan Battista Lolli a raccontarlo dandoci un quadro delle operazioni di soccorso a cui le donne si dedicavano: «Colla Dottoressa Matilde Desalles [Giuseppina] accorreva di casa in casa ove i compagni avevano bisogno di un medico, e molte volte, oltre a provvedere ai più poveri, i medicinali, lasciavano anche i soldi per il sostentamento indispensabile ai malati. Nel ’79 cominciò la seconda persecuzione contro gl’Internazionalisti, e Imola fu come al solito la più provata. Le buone mamme che avevano figli in carcere si rivolgevano alla sua casa, in Bologna in via Giuseppe Petroni, e ivi mandavano i vestiti e la biancheria di ricambio e i pochi soccorsi in denaro. La sua buona Nonnina portava tutto, a tutti. Giuseppina pensava ancora [= anche] al pane della mente, e mandava, e portava, cataste di libri alla porta delle Carceri di S. Giovanni in Monte».

Per tali processi ci furono proteste a cui partecipò anche il Pascoli che venne perciò arrestato, processato sua volta, infine prosciolto non prima di avere trascorso alcuni mesi in prigione.

La Cattani conosceva certamente di persona i carcerati sotto processo. Una breve lettera datata Bologna 29 aprile 1878 a firma G.C. venne trovata tra le carte dell’imputato Antonio Borghesi. Fu lui stesso a dire che era di Giuseppina. Era priva di riferimenti al destinatario (prudenza di cospiratori?), e il Borghesi ebbe buon gioco a indicarlo in un certo Antonio Bianconi, probabilmente già deceduto. Lo scritto, a tema puramente politico, conteneva accenni a fatti recenti, abbastanza oscuri per noi. Chiarissimo invece emerge l’entusiasmo della giovane mittente, che a un certo punto esclama: «O nostra rossa bandiera se tu fossi vittoriosa!». Assai personale, libero e franco, il congedo: «Una stretta di mano dall’amica G.C.». In queste parole c’è l’impronta dello stile energico, cordiale, garbato che assieme alla profonda intelligenza tanti riconobbero in Giuseppina. Nelle stesse carte di polizia ne troviamo un preciso riflesso, come in una relazione del questore al prefetto dell’agosto 1878, dove si parla di lei in questi termini: «tratterebbesi di una giovane bolognese d’anni 18, che percorre con successo la carriera degli studi e conta nel venturo anno scolastico farsi inscrivere nella facoltà di Medicina in questo Patrio Ateneo, avendo già conseguita la patente Liceale. Dell’ingegno svegliato e pronto di costei parlarono i periodici bolognesi tessendone l’elogio anche per la squisitezza dei modi e per la specchiata condotta sua». In altro documento del ’79 la Cattani viene detta «temibile per la sua coltura, per le sue opinioni e per l’influenza che esercita».

(continua)

]]>