Recensioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 15 Apr 2025 03:58:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La trappola https://www.carmillaonline.com/2025/04/14/la-trappola/ Mon, 14 Apr 2025 21:55:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87937 di Edoardo Todaro

John Wainwright, La trappola, edizioni Paginauno, 2024; pp 209, € 20

Qualche mese fa avevo scritto, proprio qui, a proposito di Stato di fermo del medesimo autore. In continuità con le righe di allora, scrivo, avendolo letto, di La trappola, come ebbi modo di scrivere allora, quanto Wainwright scrive lo deve, in particolare, al suo essere stato in polizia per ben 19 anni.

Conosce avendo sperimentato direttamente: “vita, morte e miracoli” di metodi, usi ed abusi delle forze dell’ordine. Nelle pagine che ho letto, abbiamo a che fare con il capro espiatorio di turno, perché [...]]]> di Edoardo Todaro

John Wainwright, La trappola, edizioni Paginauno, 2024; pp 209, € 20

Qualche mese fa avevo scritto, proprio qui, a proposito di Stato di fermo del medesimo autore. In continuità con le righe di allora, scrivo, avendolo letto, di La trappola, come ebbi modo di scrivere allora, quanto Wainwright scrive lo deve, in particolare, al suo essere stato in polizia per ben 19 anni.

Conosce avendo sperimentato direttamente: “vita, morte e miracoli” di metodi, usi ed abusi delle forze dell’ordine. Nelle pagine che ho letto, abbiamo a che fare con il capro espiatorio di turno, perché un colpevole ci deve essere, ma soprattutto ci vuole: stando alle modalità previste dai tutori dell’ordine e per far questo viene predisposta  una “sala omicidi” apposita, perché non avverrà un normale interrogatorio, ma una vera e propria intimidazione, unica arma a disposizione degli investigatori.

Interrogatorio che si svolge, prima, nella  macchina di servizio, con tutte le pressioni del caso e psicologicamente sfavorevole per il presunto colpevole, che attorno a sé non può che sentirsi in trappola essendo circondato da dei veri e propri nemici. Interrogatorio nei confronti di un indiziato che avendo precedenti, diviene in automatico un assassino.

Oltre al volere a tutti i costi un colpevole, “creare il vestito”, visto che i poliziotti quando arrestano qualcuno lo terrorizzano, Wainwright evidenzia anche i pregiudizi esistenti, tra le forze dell’ordine, verso gli omosessuali, la cui comunità, e le rimostranze del presidente della comunità non servono a niente,  un presidente che dà una lezione di vita spiegando non solo, cos’è l’amore ma le difficoltà nel dichiarare il proprio orientamento sessuale, è messa sotto pressione.

Visto che c’è un omicidio di mezzo, è legittima la domanda: l’omicidio di uno sconosciuto omosessuale a chi può interessare, visto che la comunità del luogo costruisce una falsa unità su luoghi comuni, sull’asserzione che l’omosessuale, Richardson è stato ucciso da qualcuno della sua specie. Omosessualità che sarà elemento importante nel contesto di queste 209 pagine.

Quindi pregiudizi ed arroganza che danno vita ad un sistema di sopraffazione. La montatura che predispone la trappola: avere un colpevole comunque in fin dei conti non è niente di illegale, solo un po’ insolito. Si parlava  di arroganza verso i presunti colpevoli, ma l’arroganza, la sopraffazione è un qualcosa che si rivolge anche verso i propri colleghi, un detective  deve incutere timore anche tra loro.

Wainwright mette in evidenza anche il ruolo positivo , in quel contesto, del poliziotto di zona che mantiene rapporti cordiali con gli abitanti della zona a cui deve soprintendere (il poliziotto buono). Ciò che unisce il poliziotto buono e quello cattivo è l’usare il trucco più vecchio del mondo nel campo investigativo: non solo lasciare tutto il tempo necessario affinché nell’indagato subentri un senso di preoccupazione rispetto a ciò che potrebbe accadere, condurre un interrogatorio con ampi spazi di silenzio nei quali far logorare il presunto colpevole, ma soprattutto l’assillo di un quesito che gira nella testa degli uomini in divisa, lasciare un assassino a piede libero o arrestarlo con prove insufficienti?

Perché l’essere sicuri al 99% della colpevolezza dell’indiziato non è sufficiente: basta l’1% ed un omicida si ritrova libero. Ma tanto, chi è colpevole alla fine crolla.

Nel manuale del bravo poliziotto ma soprattutto esperto trovi sicuramente che è sufficiente ottenere reazioni alle proprie domande visto che ad esse le risposte non sono necessarie. Questi metodi sono parte del mestiere, dell’arte dell’essere detective, la cui abilità risiede nel mettere l’interrogato, di turno, in condizioni sfavorevoli, perché i detective non costruiscono, bensì demoliscono, distruggono.

In questo caso ci troviamo di fronte a un indagato che ostinatamente continua a negare per dirigersi piano piano verso una quasi ammissione. Il punto di domanda si riferisce esclusivamente al quando questo momento arriverà. L’ammissione arriverà, chissà, ma solo grazie ad una vera  propria tortura, certamente non fisica, ma mentale e psicologica, nascosta, metodica, al di là di ogni strategia e tecnica pervasiva di polizia.

Il risultato deve essere uno ed uno soltanto: la trappola ha funzionato ed il caso è risolto. Quante volte abbiamo assistito, anche in Italia, a situazioni di questo tipo: montature, “teoremi”, colpevolezze definite in base a prove costruite a tavolino. In Italia è ancora in vigore il Codice Rocco, per non parlare della Legge Reale, che trasforma il conflitto sociale in problema di “ordine pubblico”, e le “leggi speciali” tutt’ora in vigore. E se come pare il decreto legge in discussione (1236) (1) alla camera dovesse passare, non oso immaginare il concretizzarsi dell’attuazione del sorvegliare e punire.

 

Note:

1. https://www.osservatoriorepressione.info/sicurezza-il-governo-forza-la-mano-un-decreto-al-posto-del-disegno-di-legge/

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The Shrouds (2024). Il corpo, oltre l’ultimo respiro https://www.carmillaonline.com/2025/04/13/the-shrouds-2024-il-corpo-oltre-lultimo-respiro/ Sun, 13 Apr 2025 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87864 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film il regista canadese ha aggiunto alla sua produzione un ulteriore episodio, portando la macchina da presa sin dentro la tomba, in quell’ultimo prolungamento di presenza del corpo ancora soggetto alla trasformazione nel suo lento e inesorabile processo di dissoluzione finale. Il desiderio di dare a vedere gli splendori e le mostruosità delle mutazioni del corpo umano in vita si è spinto alla sua ultima metamorfosi, prima della definitiva scomparsa.

Pensato inizialmente come opera seriale televisiva, The Shrouds (2024) si è trasformato in un film, presentato in anteprima al 77º Festival di Cannes nel 2024. Questa ultima produzione cronenberghiana ruota attorno alla figura di Karsh (Vincent Cassel), produttore di video industriali, che, dilaniato dalla perdita della moglie Becca (Diane Kruger), decide di costruire una futuristica necropoli dotata di una tecnologia, denominata Grave Tech, in grado di mostrare in tempo reale la decomposizione dei cadaveri avvolti all’interno di avveniristici sudari.

Nel momento in cui tale innovativa tecnologia si appresta ad essere lanciata sul mercato internazionale e dunque, potenzialmente, a divenire una modalità di sepoltura diffusa almeno tra chi può permettersi i costi, alcune di queste avveniristiche sepolture vengono profanate. Tentando di individuare i responsabili del gesto e di comprenderne le motivazioni, il protagonista si trova a fare i conti con una serie di ipotesi che contemplano non meglio definiti gruppi ecologisti antitecnologici, hacker al soldo dello spionaggio di potenze straniere e segrete sperimentazioni mediche, oltre che gelosie e risvolti passionali inconfessati di amanti ed ex coniugi che toccano i protagonisti del film, inducendo Karsh a riflettere sulla sua attività imprenditoriale e sul senso del prolungare il rapporto con il corpo dell’amata per via scopica.

Se tradizionalmente i sudari (shrouds), a cui ricorrono diversi riti funebri, intendono celare il volto dei defunti, nel film, nella loro variante tecnologica, questi manifestano, al contrario, l’intenzione di rivelare, insieme al volto ed al resto della salma di chi ha perso la vita, la “morte al lavoro”, nel suo atto di trasformare e consumare quel che ancora resta dell’essere umano dopo l’ultimo respiro, il corpo.

L’avveniristica tecnologia capace di prolungare il contatto visivo con il corpo intende soddisfare la necessità di mantenere il legame con il corpo di una persona cara, nell’incapacità di pensarla, anche nel ricordo, oltre ad esso. Per il protagonista del film, il corpo della moglie defunta resta l’unico, straziante, ancoraggio possibile all’amata; le immagini che mostrano in diretta il suo processo di deterioramento divengono, dunque, un ultimo disperato tentativo di prolungarne la presenza corporea.

Come ribadito tante volte dal cinema cronenberghiano e dallo stesso autore, il corpo resta la vera essenza dell’essere umano, la sua identità1. Un corpo destinato a trasformarsi in continuazione in vita come, per qualche tempo, dopo il sopraggiungere della morte, prima che di questo scompaia ogni traccia.

Karsh realizza una necropoli dalle forme minimaliste composta da una serie ordinata di lapidi dotate di monitor attraverso cui, ricorrendo ad una app, è possibile osservare i defunti a cui si è legati. Le sofisticate immagini tridimensionali dei corpi, a differenza di quanto accade nella tradizione che dalle antiche maschere mortuarie conduce alle fotografie post mortem, non mirano alla mummificazione degli effigiati, bensì a soddisfare un voyeurismo necrofilo, un desiderio scopico da consumare in tempo reale al fine di prolungare il rapporto, per quanto esclusivamente visivo, con i corpi dei defunti.

Non sfugge come il desiderio di mantenere il legame con la moglie venuta a mancare si converta in business, a riprova di come anche la morte ed il lutto non tardino ad essere piegati al profitto, né sfugge l’impulso a portare alle estreme conseguenze la pratica di vetrinizzazione ossessiva e continuativa a cui si è votato l’individuo contemporaneo2, in assenza della quale sembra non riuscire più a percepire ed a manifestare al mondo la propria presenza, il proprio esserci e con esso il proprio essere3. Emblematica, in tal senso, la conversazione, al loro primo incontro in un ristornate, tra il protagonista e Myrna Slotnik (Jennifer Dale), in cui i due ironizzano sull’impossibilità che si possano ancora dare “incontri al buio”, stante la possibilità tecnologica di sapere e, soprattutto, vedere tutto della persona con cui ci si incontra per la prima volta.

Come altri film cronenberghiani, The Shrouds mette in scena l’impossibile unità tra entità distinte e la tematica del doppio4 che si palesa non solo nelle due sorelle Becca e Terry, pressoché identiche, interpretate dalla medesima attrice e replicate persino nella grafica di Hunny, l’assistente AI installata sullo smartphone del protagonista, ma anche nel ricorrere, nel ruolo di quest’ultimo, ad un attore, Cassel, duplicante le fattezze del regista stesso.

Se nel film si possono cogliere richiami a celebri doppi femminili hitchcockiani, o a personaggi che si duplicano su più piani visivo/narrativi in film precedenti dello stesso canadese, a rafforzare l’effetto moltiplicatore provvedono i tanti schermi dei dispositivi tecnologici presenti, nonché i momenti di intimità con la moglie che si replicano nelle apparizioni oniriche di Karsh, mentre le menomazioni e le cicatrici di Becca ricompaiono, agli occhi dell’uomo, sul corpo di SooMin Szabo (Sandrine Holt), l’amante che, costretta a cercare il contatto tattile con la realtà e con gli individui, a causa del suo stato di cecità, suggerisce un’alternativa alla dipendenza scopica del protagonista.

Il futuro distopico e ipertecnologico narrato dal film, un futuro assai vicino e simile alla nostra epoca, in cui l’Intelligenza Artificiale ed i più diversi dispositivi digitali fanno parte della sfera più intima degli individui, è ossessionato dalle tombe e dalla morte come negli interstizi più arcani ed arcaici della modernità. Sembra che non ci sia nessuna differenza fra un’epoca digitalizzata e ipermoderna e gli inizi del XVIII secolo in cui si diffuse una vera e propria “epidemia vampirica” soprattutto nell’Europa dell’est5. Se i viaggiatori occidentali, all’epoca, erano ‘contagiati’ dalle credenze e dalle superstizioni delle sperdute lande orientali dell’Europa, laddove si riesumavano i morti e si mutilavano per paura che potessero riemergere dal sepolcro per nuocere ai vivi, in pieno occidente ipertecnologico si costruiscono tombe per poter osservare il processo di decomposizione dei cadaveri.

Quello messo in scena da Cronenberg è un mondo ossessionato dalla morte, che guarda con terrore a ciò che sta sottoterra e desidera tenere sotto controllo i processi di cui sono investiti i corpi nelle tombe: un mondo molto simile a quello degli inizi del Settecento, quando si temevano i vampiri e si riesumavano i morti. Le magiche superstizioni si sono velate di tecnologia ma restano ugualmente crudeli e barbare. L’orrore della modernità si è trasformato in tecnologia. Le paure notturne, il terrore degli incubi, quegli esseri che apparivano nella notte e si posavano sui corpi addormentati gravando su di essi riemergono sotto forma di ossessioni e depressioni legate a un passato irrisolto.

Se le fake news sui vampiri, negli anni Trenta del Settecento, hanno posto le basi per le attuali teorie del complotto6, sembra che queste ultime vadano di pari passo con il miglioramento delle tecnologie. L’aumento della tecnologia e delle innovazioni scientifiche corrisponde all’aumento di un sostrato magico7 lungamente represso che riemerge dalle profondità dei cimiteri. L’uomo digitalizzato, circondato di AI e di smart car che si guidano da sole, di ritrovati tecnologici all’avanguardia, è superstizioso e intriso di arcana magia non meno di un contadino della Slesia del Settecento8. Non a caso, il geniale informatico creatore di AI, Maury (Guy Pearce), è fermamente convinto di essere vittima di una serie di complotti.

Come per altre opere dell’autore, anche da The Shrouds è inutile pretendere maggiore verosimiglianza e definizione negli intrecci complottisti che vengono tratteggiati sommariamente soltanto per fare da sfondo alle questioni che interessano il regista, d’altra parte anche il mondo reale contemporaneo non è particolarmente incline alla plausibilità delle sue spiegazioni, basti pensare, ad esempio, alla narrazione riguardante le carneficine belliche in corso da parte di politici, media principali e narratori ‘alternativi’ da social inclini a limitarsi a ribaltare le versioni ufficiali.

Non è nemmeno impensabile che la smania voyeuristico-esibizionista contemporanea possa spingersi fino a seguire la decomposizione dei corpi oltre la morte, se si pensa che nella realtà vetrinizzata dei nostri giorni c’è persino chi, mosso da un incontenibile desiderio di esibizionismo sui social, non ha esitato a sottoporre al rischio di estinzione un’intera comunità indigena isolata dal resto del mondo al solo scopo di ottenere qualche visualizzazione in più9.

Anche in The Shrouds, come avviene in diverse altre opere cronenberghiane, viene posta una certa attenzione sull’atto del cibarsi da parte dei personaggi. La bocca rappresenta uno dei possibili viatici di accesso all’affascinante mondo interno ai corpi, a quella bellezza celata dall’epidermide a cui hanno fatto esplicito riferimento tanto Dead Ringers (1988), quanto Crimes of the Future (2022). Non a caso, dopo i titoli iniziali avvolti in un suggestivo pulviscolo luminoso ectoplasmatico dal lentissimo andamento spiraliforme, il film si apre su una bocca spalancata da un onirico urlo che si trasforma rapidamente nella cruda ‘realtà’ della cavità orale del protagonista sottoposto alle cure di un dentista, il dottor Jerry Hofstra (Eric Weinthal), che gli rivela come nel marcire della sua dentatura sia possibile vedere uno sorta di somatizzazione della decomposizione della donna amata osservata grazie ai tecnologici sudari.

L’urlo con cui si apre il film può ricordare quello lanciato da Lucy, sempre nei momenti iniziali della storia, in Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog. Qui, dopo una carrellata dalle connotazioni oniriche che riprende in primo piano diverse inquietanti mummie, vediamo la giovane svegliarsi di soprassalto e urlare, come se le immagini mostruose iniziali rappresentassero una prosecuzione ectoplasmatica del vampiro che sta per sferrare il suo attacco. Anche nel film di Cronenberg vediamo delle immagini che mostrano il corpo di Becca all’interno della tomba, un corpo evanescente che sembra uno spettro, una entità incorporea che non possiede assolutamente la fisicità della putrefazione cui lo stesso corpo è sottoposto.

Probabilmente, l’urlo viene lanciato proprio perché quel corpo si è trasformato in una escrescenza vampiresca, in una “mummia del pensiero”, un “automa spirituale” per utilizzare due espressioni usate da Gilles Deleuze riguardo agli esseri sonnambulici di Vampyr. Der Traum des Allan Grey (1932) di Carl Theodor Dreyer10. Come Nosferatu e come la vampira del film di Dreyer, Becca è un “automa spirituale” che riemerge non solo dalla tomba ma anche dal greve passato del protagonista. È un corpo non solo fisico ma anche spirituale perché emerge dalla coscienza ferita del personaggio; è un fantasma, è un corpo-pensiero divenuto spettro e vampiro. Becca assume connotazioni evanescenti e vampiresche anche nelle sue visite notturne a Karsh, al quale si mostra nuda e ricoperta di cicatrici, con un seno e un braccio amputati. Come in Crimes of the future (2022), le ferite e le alterazioni dei corpi sono anche ferite e alterazioni mentali e psicologiche: Becca-vampira è un corpo divenuto pensiero, emerso dalla terra putrescente ma anche dalle malate plaghe della mente del protagonista. È fatta più di pensiero che di carne.

Una delle prime sequenze del film mostra Karsh intrattenersi a pranzo con una donna, Myrna Slotnik (Jennifer Dale), presentatagli dal comune dentista, in un ristorante collocato nel complesso cimiteriale da lui realizzato. In un’elegante sala arredata con gusto minimalista giapponese alle cui pareti sono esposti alcuni esemplari degli inquietanti sudari tecnologici richiamanti antichi costumi orientali, Karsh consuma con fare controllato il suo pasto a minuti bocconi e piccoli sorsi di vino mentre inizia a confidare alla donna quanto ha realizzato per soddisfare il legame viscerale che continua ad intrattenere con la moglie scomparsa, in particolare con il suo corpo.

Che si tratti dei gesti del dentista sulla cavità orale dell’uomo, dei bocconi di cibo e dei sorsi di vino che valicano la bocca, viatico che conduce all’interno del corpo, o dell’osservazione del cadavere in decomposizione della moglie, attraverso orifizi, ferite e lacerazioni Cronenberg continua a condurre con le sue immagini oltre l’epidermide esplorando l’aspetto più corporeo dell’esistenza umana nella sua magnificenza e repellenza, nella sua potenza e vulnerabilità. The Shrouds ribadisce una volta ancora come il corpo resti per Cronenberg l’unico dato dell’esistenza umana a cui è possibile aggrapparsi, almeno finché ne resta traccia.

Il complesso cimiteriale e il ristorante di Karsh sono caratterizzati da linee geometriche e fredde, incastonate in un’architettura dai tratti razionalistici dai richiami orientali, come del resto la stessa abitazione avveniristica del personaggio. Non si può non pensare allora all’istituto di ricerca di Stereo (1969), al centro dermatologico House of Skin di Crimes of the Future (1970), al complesso residenziale delle Starliner Towers di Shivers (1975), alla clinica del dottor Keloid di Rabid (1977) ed al tetragono blocco granitico in cui ha sede la ConSec di Scanners (1981), tutti edifici isolati e caratterizzati da innovative architetture geometriche di stampo razionalista.

Nello spazio ipertecnologico, laddove la stessa tecnologia celebra i suoi fasti erigendosi a ornamento e sollazzo estetico per le frange più ricche della società, molto probabilmente, si cela l’orrore più terribile. Il perturbamento e l’orrore si nascondono negli angoli più razionali e tecnologici, dove i ricchi e i benpensanti, nei loro abiti eleganti, conversano amabilmente davanti a elaborate e costose portate.

Ancora una volta Cronenberg ci mostra come il mostro se ne stia rintanato negli spazi più impensati, nelle vite più regolate e scandite da razionali orpelli tecnologici e digitali. Se in Videodrome (1983) il mostro nascosto nell’intimità degli spazi domestici era rappresentato dallo schermo televisivo, terribile ed inquietante manipolatore degli individui, dei loro corpi e delle loro menti, The Shrouds mette in scena la pervasività dell’intelligenza artificiale che si insinua negli interstizi più privati dell’abitazione del protagonista. Hunny non è altro che una rivisitazione attuale e distopica dello schermo televisivo di Videodrome.

La stessa Tesla guidata da Karsh, lungi dall’apparire come un’icona pubblicitaria utilizzata subdolamente dal regista (niente di più lontano, crediamo, dagli intenti di Cronenberg per quanto notoriamente appassionato di automobili e motociclette), appare come un’auto mostruosa e ‘malvagia’, una versione attualizzata della demonica Crhistine di Christine la macchina infernale (Christine, 1983) di John Carpenter. Mentre il personaggio è alla guida, appare sì in primo piano il volante dell’auto con il marchio di fabbrica ma esso sembra alludere alla mostruosità insita in quello stesso marchio.

Se una volta era il diavolo in persona a guidare le automobili che andavano da sole, come la già citata Christine o la macchina nera dell’omonimo film (The Car, 1977) di Elliot Silverstein, adesso guidatrice fantasma è la tecnologia rappresentata per sineddoche dalle multinazionali automobilistiche, come Tesla appunto, in mano ad Elon Musk, braccio destro di Donald Trump e, come il neopresidente degli Stati Uniti, in prima fila fra le schiere dei negazionisti climatici.

Nel momento in cui Karsh appare ‘prigioniero’ della sua auto, condotto da Maury contro la sua volontà, la macchina da presa inquadra il volante mentre in sottofondo ascoltiamo delle sonorità inquietanti e dalle connotazioni ‘mostruose’, come se l’essere umano alla guida sia in realtà un impotente burattino in mano alla tecnologia che lo sta imprigionando e comandando. L’auto assume connotazioni inquietanti come la vecchia auto guidata da Vaughan in Crash (1996), personaggio mostruoso e quasi novella creatura frankensteiniana. In tale film, l’auto, guidata da quest’ultimo, sembrava quasi una entità infernale che si muoveva da sola.

Non possono che tornare alla mente anche le ‘demoniche’ Tesla di un recente film come Il mondo dietro di te (Leave the World behind, 2023) di Sam Esmail, in cui una schiera di Tesla impazzite a guida automatica rischia di travolgere e uccidere la famiglia protagonista mentre sta fuggendo dalla misteriosa villa in cui si era recata per una breve vacanza.

Se la “nuova carne” era il prodotto più mostruoso di film come Videodrome e Crimes of the Future (2022), adesso, in The Shrouds, la carne sembra essersi ormai decomposta insieme ad ogni residuo di umanità, mentre resta la ‘nuova tecnologia’ che ormai ha fagocitato i corpi e li ha sotterrati insieme a quella stessa umanità ormai putrefatta e dimenticata.


  1. David Cronenberg: «il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci»: intervista rilasciata a Richard Porton, Il regista come filosofo, in D. Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di D. Schwartz, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, p. 270. 

  2. Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. 

  3. Cfr. E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  4. Cfr. A. Chimento, C. Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in L. Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso, Mimesis, Milano-Udine, 2012. 

  5. Cfr. F.P. de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, 2023, p. 20 e seguenti. 

  6. Cfr. ivi, pp. 22-23. 

  7. Cfr. V. Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  8. Cfr. G.N. Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024. 

  9. Cfr. Tenta di contattare una delle tribù più isolate del mondo, arrestato youtuber americano, “Rai News.it”, 7 aprile 2025. 

  10. Cfr. G. Deleuze, Cinema II. L’immagine tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

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Visum et repertum 3 https://www.carmillaonline.com/2025/04/12/visum-et-repertum-3/ Sat, 12 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87718 di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica [...]]]> di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica ricchissima e di straordinaria godibilità. Al Museo Civico di Crema e del Cremasco, tra 19 ottobre 2024 e 12 gennaio 2025 si è tenuta infatti una splendida mostra dal titolo Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Edoardo Fontana, Lidia Gallanti e Silvia Scaravaggi. Il più fortunato mattatore dei miti notturni vi è indagato a partire dalle prime ambigue epifanie (la Lilītu mesopotamica, i morti ematofagi dell’Odissea) fino all’odierno orizzonte pop, attraverso più di trecento opere provenienti dal patrimonio di venti biblioteche pubbliche italiane e di collezionisti privati, tra testi letterari e poetici, incisioni, fogli sciolti, edizioni originali e materiale iconografico. Poliedrico, multiforme, incerto ed equivoco, il protagonista “è un essere fluido, privo di una connotazione sessuale precisa, a cavallo tra vita e morte, che subisce malvolentieri le leggi della natura e le sovverte, incarnandosi in corpi sempre differenti e contaminando i generi e le forme di arte e di letteratura”: e la sua cifra finisce con l’interpellare un più ampio pelago di fantasmi, incubi, ombre d’ossessione tra folklore e letteratura.

Realizzata in collaborazione con Aretè Associazione Culturale e Alla fine dei conti di Mantova, la mostra è stata accompagnata da questo grande, ricco ed elegantissimo catalogo edito dal Museo con prefazione di Antonio Castronuovo (Quotazione dei vampiri) e testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Edoardo Fontana, Lidia Gallanti, Roberto Lunelio, Silvia Scaravaggi, Elena Vismara.

A due bei contributi di inquadramento antropologico e artistico delle curatrici Gallanti (I vampiri sono tra noi: revenant nella storia, nella letteratura e nell’arte) e Scaravaggi (“Fra poco il mondo finisce”: consapevolezza e fuga tra Simbolismo e contemporaneità) seguono testi approfonditi su singoli temi. Elena Alfonsi tratta di Inchiostro, carta e scrittura nel tempo di un papa e una regina: fede, scienza e astuzia contro la superstizione: papa e regina identificabili per inciso in Benedetto XIV Lambertini – il progressista che non riusciva a liberarsi dal vampiro linguistico dell’intercalare cazzo, ma che ai non-morti non credeva affatto – e in Maria Teresa d’Asburgo che dietro consulenza del dotto archiatra illuminista van Swieten pose il divieto di profanare tombe in sacrileghe cacce antivampiro.

In L’ombra del vampiro, Paolo Battistel parte dalla Lenore di Gottfried Augustus Bürger per una serie di riflessioni sull’immagine – anche erotica – del vampiro e dei suoi simili nella letteratura; lo sguardo si sposta poi a est con il dotto excursus La presenza dei vampiri in alcune pagine di letteratura romena: da Eliade a Eminescu, un intreccio a ritroso di Carla Caccia, e la trattazione di Marius-Mircea Crişan sul tema Dal folklore romeno alla letteratura gotica. Il vampiro oltre Dracula. con opportuna citazione finale da Nina Auerbach, “Every age embraces the vampire it needs”.

Per avvicinarci a noi, Domenico Cammarota, un nome noto nella vampirologia italiana attraverso volumi pionieristici (e ormai datati, ma carichi di fascino per chi – hai visto mai – abbia la ventura di rivenirli nei mercatini), presenta Il vampiro nella letteratura italiana. Bibliografia commentata (1801-1940): a partire da uno pseudobiblion usualmente citato nei repertori, Il Vampiro di De Gasparini, presuntamente rappresentato “al Teatro delle Arti di Torino nel 1801”, ma di cui non esiste alcuna traccia coeva, e il simil-plagio di Cifra (probabile pseudonimo per Raffaele Carrieri) Il Vampiro, che sostanzialmente traduce appropriandosi di un racconto di Jan Nepomuk Neruda. I vampiri, insomma, flirtano da sempre disinvoltamente con il falso e il plagio editoriale: in fondo fin da quando Il vampiro di Polidori era stato attribuito a Byron per biechi interessi dell’editore – e non perché Polidori avesse in effetti ripreso un’idea del suo amatodiato (e ormai soprattutto odiato) ex-datore di lavoro.

Mario Finazzi torna a oriente con Traiettorie di nipponizzazione del vampiro occidentale: vampiri illustrati tra i due mondi, mentre Elena Vismara affronta Anne Rice: A Gothic Soul, un argomento a questo punto must delle biblioteche sul tema. Ai risvolti psicologici del vampirismo Roberto Lunelio dedica Il vampiro innocente con itinerari tra sospetto e paranoia (follia, sessualità femminile disinibita, colonialismo inverso, omosessualità). E il terzo curatore Edoardo Fontana chiude la sezione saggistica con Tardi verso l’alba, con una cavalcata attraverso un’ampia serie di ritratti di una galleria – in senso lato – vampiresca.

Segue il Catalogo delle 328 opere esposte in mostra con schede curate da Finazzi, Fontana, Gallanti e Scaravaggi, le tavole – acquaforti, litografie, volumi a stampa, fotografie, acquerelli, collage, fotogrammi di film, tavole di fumetti, eccetera, con scelte anche originalissime e illuminanti per il tema – e una curata serie di paratesti, con nota bibliografica a cura di Scaravaggi.

Il volume è bellissimo. Merita dunque (tanto più a mostra ormai chiusa) assolutamente una scoperta, con la sua sontuosa serie di contributi, l’iconografia spesso poco nota e ad ampio raggio – ma mai “facile”, neppure nelle estensioni a opere nere non tecnicamente vampiresche, qui comunque giustificate – e, il che rappresenta una marcia in più, l’evidente passione con cui è stato assemblato. Una panoramica molto ampia dove non possono mancare i fondamentali e tuttavia mai scontata, in grado di competere felicemente con monografie celebrate.

(Per le precedenti puntate di Visum et repertum, cfr. qui)

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Vocazione rivoluzionaria. ‘O Zulù https://www.carmillaonline.com/2025/04/11/vocazione-rivoluzionaria-o-zulu/ Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87850 di Giovanni Iozzoli

Luca Persico, Vocazione rivoluzionaria. ’O Zulù. L’autobiografia mai autorizzata di Luca Persico, Il Castello Editore, Milano 2025, pp. 270, € 19,00

Diffidare della memorialistica di movimento – in particolare di quello scivolosissimo genere che è l’autobiografia – è sempre cosa buona e giusta. La maggior parte di tali lavori è appesantita da retoriche, reticenze, autoesaltazioni o pentimenti, tali da renderne discutibili gli esiti letterari. Per fortuna ogni tanto qualche eccezione c’è. E una di tali eccezioni ci sembra Vocazione rivoluzionaria di Luca Persico, in arte Zulù, storico front-man dei 99 Posse. Cos’è che rende questa autobiografia godibile e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Luca Persico, Vocazione rivoluzionaria. ’O Zulù. L’autobiografia mai autorizzata di Luca Persico, Il Castello Editore, Milano 2025, pp. 270, € 19,00

Diffidare della memorialistica di movimento – in particolare di quello scivolosissimo genere che è l’autobiografia – è sempre cosa buona e giusta. La maggior parte di tali lavori è appesantita da retoriche, reticenze, autoesaltazioni o pentimenti, tali da renderne discutibili gli esiti letterari. Per fortuna ogni tanto qualche eccezione c’è. E una di tali eccezioni ci sembra Vocazione rivoluzionaria di Luca Persico, in arte Zulù, storico front-man dei 99 Posse. Cos’è che rende questa autobiografia godibile e coerente? La radicale sincerità, la “resa incondizionata” davanti al lettore con il quale l’autore sceglie di giocare, per così dire, a carte scoperte.

“Ha scritto la storia di getto, a suo modo, senza abbellimenti né storpiature, senza inutili accanimenti né assoluzioni postume. Senza scorciatoie. Una necessaria eruzione di parole calda come la lava di quel Vesuvio che, da sempre, è straordinario maestro di precarietà per tutti i napoletani.” – scrive nell’introduzione Federico Traversa.

Luca Persico è stato molte cose nella sua vita, oltre che musicista. La sua traiettoria biografica ce lo ricorda: innanzitutto un militante tout court (passato giovanissimo dall’esperienza di Dp ai collettivi autonomi napoletani); una figura iconica, per un certo periodo, della scena musicale italiana; e un artista vero, nella capacità di creare, distruggere e ricreare di volta in volta il senso del proprio stare sul palco. A questo ci aggiungiamo una instancabile attitudine a viaggiare, conoscere, sradicarsi e ri-radicarsi in mondi diversi, sempre al ritmo della propria musica, senza sconti e compromessi.

Ricordo le notti passate a cercare la rima giusta davanti al camino e ricordo una riunione in cui rifiutammo l’offerta di un noto produttore napoletano: mezzo miliardo di lire per l’esclusiva del tour senza però date “politiche” e biglietto a prezzo imposto. Dicemmo no, senza esitazioni, all’unanimità, e poi piangemmo tutti insieme. (p.113)

È la storia di un gruppetto di ragazzi – e collaboratori di varia umanità – che si ritroveranno in pochi mesi a passare dalla più sbracata dimensione amatoriale, ad un successo travolgente e ad una celebrità mai inseguita, piovuta quasi per caso sulle loro esistenze. Nel 1992, l’anno di uscita del loro primo disco, misero insieme la bellezza di 120 concerti. Nel 1993 quasi 200! E tutto questo in una frenesia di eventi politici, culturali e sociali, incontrando migliaia di persone, intessendo amicizie e inimicizie perenni, vivendo in città e mondi differenti.

Questa ricchezza di vita viene squadernata pagina dopo pagina, senza verbosità ed eccessive concessioni all’ego. Il fatto che questa non sia una storia “dei maledetti 70” rende meno drammatica – ma non meno intensa – la vicenda umana e politica che racconta, permettendo un surplus di autoironia e malinconica svagatezza. Luca è un bambino degli anni ’70; respira fin dalla più tenera età le benefiche tensioni del decennio, ma si ritrova a vivere da giovane adulto nel pantano del riflusso, per il quale avverte una naturale estraneità. Questa tensione irrisolta tra passato, presente e futuro, ha fatto di lui lo spirito inquieto – e artisticamente fecondo – che il pubblico italiano ha apprezzato lungo l’arco di trent’anni.

Come musicista – e anima politica dei 99 Posse – Zulù non si è fatto mancare niente: Disco d’Oro col suo gruppo nel ’96, autore di colonne sonore e di una infinità di concerti organizzati in ogni luogo e in ogni modo, nello spazio di tre continenti. È stato tra i primi ad impattare con successo di pubblico la scena Rap e Hip Hop italiana, reinterpretandola però con leggerezza, spirito di dissacrazione e un surplus di polemica politico-ideologica. In questo raccoglieva la lezione di coloro che – vedi gli Onda Rossa Posse – erano arrivati poco prima di lui su quel fronte musicale ma coltivavano il genere con un senso di più rispettosa ortodossia. Per Luca e i 99, invece, il Rap era solo uno dei molti modi di comunicare amore e rabbia – e lo strumento si poteva maneggiare o modificare alla bisogna. Tutto molto napoletano.

Le foto con Arafat alla Moqada e l’evocazione del sub-comandante Marcos che dorme nella tenda a fianco alla sua nella Selva Lacadona, sono la riprova che non di un testimone effimero o occasionale si sta parlando. È la storia di una generazione arrivata alla politica per un’attitudine controcorrente e caparbia. Una stagione lunga che comincia negli anni ’80, con la rivendicazione orgogliosa di una identità sconfitta; e passa attraverso la Pantera, il ciclo dei centri sociali, le prime forme di autorganizzazione operaia, per approdare a Genova ed inaugurare – con un’altra sconfitta! – un nuovo indecifrabile secolo. E le canzoni dei 99 Posse hanno costituito a buon diritto la colonna sonora di questa corsa a perdifiato attraverso gli anni della globalizzazione e della “incredibile opposizione” che andava montando in Italia e nel mondo.

Sempre consapevole del suo background, Luca rivendica di essere stato prima di tutto un militante politico che a un certo punto della sua giovane storia, incontra la musica e decide di cavalcarla, accorgendosi che i linguaggi e gli strumenti della sua generazione politica non funzionano, essendo quasi tutti mutuati dall’eredità ingombrante del decennio precedente. È l’attivismo politico che evolve e dilaga nel discorso poetico e musicale: tutto parte da lì e lì deve tornare, nella storia tormentata dei 99. Questa testarda centralità della militanza, è l’elemento che tiene insieme i frammenti di una vita eccedente e incasinata: Luca è stato “militante” quando scriveva volantini per gli studenti, quando correva travisato in mezzo ai lacrimogeni, quando conobbe la prima volta il carcere, quando cominciò quasi per gioco a scrivere canzoni. E lo è stato, in qualche modo contorto e obliquo, anche nei periodi di “dissoluzione esistenziale”, quando le droghe prima e la depressione poi, parevano averlo strappato alla sua originale irriducibile “vocazione rivoluzionaria”. La militanza è il prisma che tiene insieme tutte queste vite e dà dignità ad ognuna di esse. Così come questo libro, che in poco meno di 300 pagine, riesce a contenere le diverse anime di questo strano artista napoletano, verace e camaleontico allo stesso tempo. O’ Zulù, trent’anni dopo il suo timido esordio in un capannone occupato della periferia orientale di Napoli (Officina Rettifica Motori, civico 99) ha ancora molto da dire, di sé e del mondo.

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Stati alterati di coscienza digitale https://www.carmillaonline.com/2025/04/09/stati-di-coscienza-alterati-dal-capitale/ Wed, 09 Apr 2025 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87752 di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre vite. Infatti la tecnologia, in particolare nella forma della televisione, ci permette di separare noi stessi dalla sfera dei nostri sentimenti.» Per poi continuare affermando: «In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità.»

E concludere, infine: «Certamente uno degli sviluppi che arriveranno molto presto è quella che viene chiamata realtà virtuale. Se le previsioni degli scienziati che stanno lavorando in California e in Giappone sui sistemi per la realtà virtuale sono vere, credo che non vi sia alcun dubbio che la realtà virtuale rappresenterà il più grande cambiamento nella storia dell’umanità. Per la prima volta gli esseri umani vivranno in un ambiente artificiale più convincente della cosiddetta realtà in cui abitiamo oggi. Una realtà artificiale dove saremo in grado di soddisfare qualsiasi fantasia, qualsiasi autoindulgenza, qualsiasi sogno, qualsiasi mito»1.

Certo, però, neanche un indagatore dell’inner space come Ballard avrebbe potuto immaginare il trasferimento della vita reale delle persone avvenuto, senza passare per visori e sensori particolari, all’interno del circuito dei social e di tutto quanto viene oggi ritenuto smart2. Un passaggio che ha permesso ai più di ritagliarsi spazi di vita immaginaria in cui perdere la propria fisicità e condizione reale per trasformarla in altro da sé, pur fingendo di rimanere tali. Una vita che è stata trasformata in altra o altro senza nemmeno passare dalla Second Life lanciata dalla Linden Lab nel 2003, un anno prima di Facebook, e che ha aperto le porte alla diffusione del Metaverso o Meta ideato e sviluppato da Mark Zuckerberg.

Richiamandosi al titolo di uno dei più celebri testi prodotti da Raoul Vaneigem, il Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, nel lontano 1967 e adeguandolo al fatto che le giovani generazioni del tempo sono diventate il ma non solo di adesso, il saggio pubblicato da Colibrì e curato dalla Calusca City Lights si scaglia in un autentico attacco da “non fate prigionieri” contro le illusioni e le falsificazioni prodotte dall’utilizzo dei social, delle nuove tecnologie digitali e tutto quanto, attraverso le stesse, ha finito col definire il miserabile orizzonte di vite che si ritengono al passo coi tempi e, per l’appunto, “smart”.

Il volume si apre con una rapida disanima dei principali fattori culturali, politico/religiosi, economici e tecnologici che hanno condotto al Capitalocene come conseguenza dell’Antropocene, ovvero dalla convivenza umana con il mondo al tentativo di dominarlo in tutte le sue manifestazioni ambientali e naturali, seguito all’affermarsi del modo di produzione capitalistico.

L’acquisita capacità di alterare le caratteristiche, le condizioni biologiche e fisiche del Pianeta con tutte le specie viventi e i fossili, mette in grado di modificare non solo ogni darwiniana evoluzione ma anche il corso stesso della Storia: «La Natura non guida più la Terra. Noi lo facciamo. Ciò che accade è frutto della nostra scelta»3. Si deve quindi dominare il Pianeta attraverso la Tecnologia, presentata come espressione naturale della condizione umana; Tecnologia, la sola in grado di adeguare Gaia allo Sviluppo del Progresso dominando la Natura e le sue leggi: creandola e ricreandola nel Tempo a seconda delle necessità e degli effetti della produzione di merci. «il “dispotismo” capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica»4.
Ovviamente per “attività umane” vengono intese unicamente quelle foriere e portatrici del Progresso: la Proprietà Privata e il Profitto; i virus che sarà il Mercantilismo a diffondere, forgiando al contempo quell’Homo OEconomicus soggetto-modello monocolturale di ogni relazione, che deve
farsi, essere Economia.
Modello unico, globale, totalitario e totalizzante delle relazioni umane, darà origine al Capitalocene che, per affermarsi e divenire esso solo “la Storia”, usufruirà di quattro eventi rivoluzionari:
– A) la pubblicazione del Liber abaci (1202)
– B) la scoperta delle Americhe (1492)
– C) l’affissione delle 95 tesi di Lutero (1517)
– D) l’invenzione della macchina a vapore (1769)5.

Dalle conseguenze dello sviluppo dei quattro punti appena elencati, il saggio prende spunto per giungere fino all’attuale trasformazione della comunità umana in “comunità del capitale”; fatto ricollegabile soprattutto allo sviluppo di un’intelligenza artificiale che, in base a processi di calcolo sempre più rapidi e ad algoritmi sempre più raffinati e complessi, fornisce risposte senza la necessità di fornire una spiegazione pienamente comprensibile6.

L’Intelligenza Artificiale è figlia del potere capitalista che utilizza una tecnica onnipervasiva in grado di sostituire l’automatismo all’autonomia, il controllo per mezzo dei big data alle scelte dell’individuo. Un determinismo tecnologico ove sono la società e le persone a doversi modellare, adattare allo sviluppo tecnologico. È la società digitale data driven, omologata ai e dai prodotti della ai, che ripropone il mondo così com’è, il già pensato-detto-fatto (il data base): la Intelligenza Artificiale riproduce l’ordine costituito esistente. Non solo. Le tech companies proprietarie delle piattaforme e delle app di ai propongono un sistema organizzativo e valoriale, quindi una cultura, una pratica imprenditoriale e sociale sulla base di rapporti di potere, prevaricazione e sfruttamento: nell’economia digitale si demolisce la concorrenza (move fast and break things), la merce di successo è un killer, i siti internet sono registrati come domini (domains) e le ricerche in rete si chiamano esplorazioni (evocazione linguistica del colonialismo). La società digitale è in realtà una società macchinica7.

Ecco allora che le speranze riposte nella rete ai suoi esordi e nelle possibilità espresse dalla virtual reality si son trasformate non tanto nel loro contrario quanto, piuttosto nella loro stessa negazione. Marco Margnelli, neurofisiologo e psicoterapeuta presidente della «Società italiana per lo studio degli stati di coscienza», nel 1993, scriveva infatti:

Per molti lo sviluppo della tecnologia della cosiddetta realtà virtuale rappresenta la concreta realizzazione di alcune delle tensioni ideali e delle aspirazioni più vivaci di questo secolo. Il cosiddetto cyberspazio […] viene salutato come il più consistente e concreto passo in avanti verso la conoscenza del Sé che l’uomo abbia compiuto nel corso della sua storia.
[…] Progettare di riappropriarsi dell’intera coscienza significa acquistare autocoscienza della coscienza e cioè tentare, per l’ennesima volta, di conoscere noi stessi. […] La realtà virtuale sarà un software interclasse8.

Mentre a trent’anni di distanza il meccanismo di identificazione, si potrebbe dire, quasi extra-corporea messo in atto dai social network9 e dagli avatar con cui si identificano gli utenti anche quando utilizzano la loro vera identità anagrafica insieme alla massa di dati di ogni genere raccolti tra gli individui che frequentano la rete e gli stessi social, hanno fatto sì che gli stati individuali di coscienza si siano progressivamente alterati in direzione di quello che assomiglia sempre di più ad un annichilimento sia della coscienza individuale che collettiva. Attraverso l’uso di software che più che interclassisti, se non nella loro finalità di controllo automatico del gusto comune e del comune sentire, si vanno rivelando invece estremamente funzionali a un capitalismo che, guarda caso, si rivolge nelle sue forme più avanzate sempre più alla ricerca e allo sviluppo in ambito digitale.

Desiderio e passione, pensiero e sentimenti, corporeità e spirito, tutto ciò che è proprio dell’umano è messo in produzione dal Data computing; nella società delle piattaforme il Data computing esprime la strumentalizzazione e l’asservimento derivanti dall’organizzazione capitalista, che utilizza l’intera umanità come mezzo funzionale al fine ultimo della propria esistenza: il profitto.
Il Data computing è “Lavoro Implicito”, una forma produttiva del Lavoro reso digitale e gratuito, finalizzato alla riproduzione del Capitale-Cloud delle Società delle Piattaforme (Big Tech), capace di generare inedite procedure di governabilità e servitù volontaria. I lavoratori-utenti ci offrono lo spettacolo di una moltitudine di sfruttati felici (= dominio & consenso): dobbiamo aver ben chiaro che il Data computing è inserito a pieno titolo nello scontro sociale tra Capitale e Lavoro, e come tale dev’essere affrontato: il “Lavoro Implicito” è una componente della Economia Politica del Capitalismo.
La lotta degli invisibili deve investire la digitalizzazione del Mondo: laddove il Capitalismo si esprime nelle forme e nei contenuti più rappresentativi della globalità del Nuovo Mondo alieno che sta costruendo, pur conservando modi di sfruttamento assai novecenteschi, fordisti e colonia listi, di genere ove convenienti, utilizzando sia le guerre diffuse e permanenti per il controllo geopolitico delle risorse e dei mercati sia la crisi economica speculativa come strumento oppressivo della condizione proletaria.
[…] Opporsi, impedire la colonizzazione digitale della vita da parte del neurocapitalismo e della sorveglianza, del mercato e del profitto, comporta la consapevolezza individuale e collettiva che subiamo una seconda esistenza negli universi digitali delle app e delle piattaforme, nel Metaverso, dove il corpo è ri-composto dalle nuove protesi, la testa sta in un cloud, il cibo prodotto nelle vertical farm, è geneticamente modificato ma bio, le tecnologie riproduttive e la AI elidono le frontiere tra quanto è umano e quanto non lo è. È questa la condizione post-umana propugnata dal neo-umanesimo capitalista in un pianeta altro, alieno da Gaia. Senza rimpianti per un ’900 che ha esaurito un ciclo storico durato due secoli e che non è più ripetibile. What me worry?10.

Anche se il testo è supportato da numerose altre considerazioni sulle trasformazioni in atto nel pianeta e nelle “dipendenze umane”, è proprio questo appello a mettere metaforicamente mano alle colt dell’azione collettiva e cosciente contro un modo di produzione, autodefinentesi smart, sempre più totale e totalizzante, a caratterizzarlo e a renderlo quasi indispensabile per la biblioteca di chiunque voglia ancora considerarsi nemico e antagonista dell’esistente. Non tanto o solo delle sue forme politiche, ma delle caratteristiche profonde che ne definiscono la produzione e riproduzione della vita biologica, economica e sociale.


  1. J. Ballard, All That Matterede Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, pp. 30-39.  

  2. Smart può essere tradotto come intelligente, sveglio, furbo, astuto, spiritoso, brillante, elegante o alla moda. Nel contesto della tecnologia, “smart” è spesso associato a dispositivi elettronici avanzati e connessi a Internet, come smartphone, smartwatch e smart TV.  

  3. An Ecomodernist Manifesto, sottoscritto da una ventina di accademici ed economisti di fama internazionale: www.ecomodernism.org  

  4. Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, «Quaderni rossi», n. 1, settembre 1961.  

  5. R. Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 13-14.  

  6. Si veda in proposito quanto affermato da Gioacchino Toni qui.  

  7. R. Brioschi, op. cit., p. 51.  

  8. M. Margnelli, Realtà virtuale e autogestione della coscienza, in «Altrove» n. 1, dicembre 1993, Nautilus, Torino, pp. 93-95.  

  9. Per un’ulteriore riflessione in proposito, si consiglia la visione del convincente primo episodio della terza stagione della serie britannica “BlacK Mirror”, intitolato Caduta libera, diretto da Joe Wright e sceneggiato da Charlie Brooker, Michael Schur e Rashida Jones.  

  10. R. Brioschi, Smart Life, op. cit., pp. 54-55.  

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Le immagini veggenti nell’era delle macchine oracolari https://www.carmillaonline.com/2025/04/07/le-immagini-veggenti-nellera-delle-macchine-oracolari/ Mon, 07 Apr 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87735 di Gioacchino Toni

Jorge Luis Marzo, Le veggenti. Immagini nell’era della predizione, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 248, € 22,00

Guardando agli affreschi della Volta della Sistina, l’importanza assegnata da Michelangelo alle figure dei Profeti e delle Sibille risulta evidente sin dalle dimensioni loro assegnate. È noto come Michelangelo, convinto del ruolo assolutamente prioritario spettante tra le arti alla scultura “che si fa per forza di levare”, tendesse a pensare allo scultore come ad una sorta di veggente capace di cogliere, in anticipo rispetto ai comuni mortali, le tracce della perfezione divina contenute nella materia bruta tenuto dunque ad ingaggiare una faticosa [...]]]> di Gioacchino Toni

Jorge Luis Marzo, Le veggenti. Immagini nell’era della predizione, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 248, € 22,00

Guardando agli affreschi della Volta della Sistina, l’importanza assegnata da Michelangelo alle figure dei Profeti e delle Sibille risulta evidente sin dalle dimensioni loro assegnate. È noto come Michelangelo, convinto del ruolo assolutamente prioritario spettante tra le arti alla scultura “che si fa per forza di levare”, tendesse a pensare allo scultore come ad una sorta di veggente capace di cogliere, in anticipo rispetto ai comuni mortali, le tracce della perfezione divina contenute nella materia bruta tenuto dunque ad ingaggiare una faticosa lotta con la pietra volta a “sollevare il soverchio” al fine di liberare e dare a vedere la bellezza con cui si manifesta il divino.

Affrontando maldisposto l’enorme ciclo pittorico alla Sistina, vissuto come ripiego al poderoso monumento funebre di Giulio II a cui avrebbe voluto lavorare, Michelangelo sembrerebbe identificarsi, in quanto scultore, con quelle figure di veggenti, dotate del dono di vedere prima, appunto, quanto agli altri non è consentito.

L’immagine di copertina del volume Le veggenti di Jorge Luis Marzo propone una suggestiva rielaborazione del volto della Sibilla Delfica michelangiolesca ad opera di Nicolò Ciccarone che ha provveduto ad applicarvi il reticolo di punti di mappatura utilizzati per il riconoscimento facciale dalle moderne tecnologie di identificazione e sorveglianza. Un’immagine di per sé capace di offrire spunti di riflessione circa l’evoluzione delle immagini veggenti, della logica che le produce e di quella da queste determinata.

Se la Sibilla impressa sulla Volta della Sistina rimanda tanto al ruolo della veggenza nel mondo antico, quanto a quello proprio degli albori della modernità, il reticolo di punti tracciato su di essa rinvia al nuovo ruolo assunto dalle immagini veggenti nel momento in cui le macchine pensanti sembrano aver fatto proprio il linguaggio oracolare per interpretare e giudicare tutto ciò che sta loro attorno, esseri umani compresi.

L’immagine di copertina conduce efficacemente alla ricostruzione di Jorge Luis Marzo del «percorso che ha portato le macchine a fare proprio il linguaggio degli oracoli» in un’epoca in cui i computer stanno imparando a «vedere le immagini, vedere il mondo attraverso le immagini, scriverle, convertire in immagini tutto ciò che scrivono» inducendo gli umani a «interpretare il mondo quasi esclusivamente attraverso di esse» (p. 10). Le macchine si sono così fatte veggenti in quanto hanno già previsto quanto dovrebbe accadere; di fronte al loro preoccuparsi esclusivamente di capire, e indirizzare, un futuro prefigurato, all’essere umano non resterebbe che adattarsi.

Quando si guarda al mondo oracolare non si deve pensare al «semplice dominio di una superstizione primitiva», bensì ad «un complesso apparato sociologico ed epistemologico, un insieme di tecnologie coerenti di controllo e un sistema di pratiche sociali che rispecchia miti e immaginari» (p. 36). Ricostruito il mutare della logica predittiva dall’antichità legata al mito fino a piegarsi alle finalità tecno-scientifiche moderne, l’autore si focalizza su come l’intelligenza artificiale sia una tecnologia predittiva in quanto, attraverso il calcolo statistico, tenta di interpretare correttamente dati esterni senza basarsi su un modello predefinito per dedurre scenari futuri.

L’importanza assegnata alle immagini nell’ambito della logica predittiva contemporanea è esplicitata dalla desiderio di accumulare sempre più dati visivi di qualità e migliorare i modelli iconologici a cui si rifanno le macchine. Si pensi, ad esempio, a come i sistemi di guida autonoma necessitino di raccogliere ed elaborare sempre più dati visivi al fine di prevedere le più diverse casistiche, anticipare le circostanze eliminando così il più possibile l’incertezza.

L’autore mette in evidenza come l’ossessione dei produttori di smartphone di dotare i loro apparecchi di fotocamere di una risoluzione sempre più sostenuta abbia poco a che fare con i desideri fotografici degli utenti derivando piuttosto dalla volontà «di fornire all’intelligenza artificiale le migliori condizioni di lettura, in modo che possa riconoscere più facilmente oggetti e volti e quindi catalogarli con maggiore precisione» (p. 130).

Il livello sempre più elevato di risoluzione delle fotocamere di cui vengono dotati gli smartphone si sta ormai rivelando in grado di derivare dalle immagini scattate le impronte digitali, nel caso in cui siano inquadrate le dita, per la gioia degli appartati polizieschi come di chi intende sfruttarle al fine di falsificare l’identità o avere accesso ai dati sensibili altrui.

All’elevata risoluzione delle immagini ottenuta dagli smartphone si accompagnano, ovviamente, tutti i metadati del caso (modello di smartphone con tanto di specifico numero di serie, data ed ora in cui è stata scattata la fotografia, l’esatta collocazione geografica ecc.), consentendo così una precisa tracciatura dei movimenti ed indicizzazione delle immagini agli organi di polizia, ai social ed a chi è mosso da intenzioni criminali.

La previsione della macchina pensante si configura come il processo di riempimento delle informazioni mancanti: prese tutte le informazioni disponibili (dati), questa le utilizza per generare informazioni non presenti riferendosi alle regolarità derivate dall’esperienza. Il punto di forza dell’apprendimento automatico risiede proprio nella capacità di generalizzare. «Una regola è ciò che viene creato dall’analisi dei modelli e utilizzato per prevedere il futuro», dunque, sostiene Jorge Luis Marzo, «l’IA non porta direttamente all’intelligenza, ma a una componente critica dell’intelligenza: la previsione» (p. 16).

L’enorme disponibilità di dati potrebbe condurre la scienza in una nuova era in cui la causalità andrebbe a perdere il ruolo fondamentale che ha avuto negli ultimi secoli: la semplice correlazione dei dati potrebbe venire considerata sufficiente a spiegare il funzionamento del mondo. «Questa teoria porterebbe a una nuova rivoluzione scientifica che, oltre ai tre paradigmi già esistenti – sperimentale (guidato dai protocolli), teorico (governato dai modelli), computazionale (orientato al calcolo logico) –, ne rivelerebbe un quarto, che potremmo definire “correlativo”» (p. 17).

L’idea espressa, tra gli altri, dall’esperto di informatica Chris Anderson, caporedattore della rivista “Wired”, che con l’avvento dei Big Data si possano analizzare i dati senza necessità di ipotesi, induce a porsi alcuni importanti interrogativi.

Chiediamoci: è possibile una scienza puramente induttiva e predittiva, basata solo su presunte osservazioni oggettive e priva di qualsiasi teoria che prefiguri un “perché”? Possiamo arrivare a concepire e ad accettare che il risultato della semplice sintassi logica di dati incrociati non abbia bisogno di un particolare quadro interpretativo per essere approvato o rifiutato? È un modo di pensare che cerca di sposare surrettiziamente un positivismo radicale con le origini puramente augurali della Chiesa (p. 17).

L’intelligenza artificiale, nell’adottare una logica tutta sua, ad oggi a noi oscura, «designa il mondo attraverso le proprie immagini, frutto dei suoi calcoli», disseziona l’universo umano «attraverso un nuovo tipo di iconografia, tramite visioni che non ci riguardano» (p. 19).

Sono macchine la cui affidabilità si costruisce grazie alla veridicità matematica all’interno del discorso, che apparentemente rende superflui il nostro punto di vista e la nostra opinione. Man mano che il loro linguaggio diventa sempre più visivo, dobbiamo riconsiderare il vecchio problema del potenziale della visione meccanica per configurare sistemi di visione veritiera, o verovisione. Le immagini tecniche sono sempre state interpretate come verità che disincarnano ogni soggetto, come i raggi X, che cercano di separare il grano dalla pula e di esporre la realtà pura, quella invisibile e che, una volta mostrata, ammette poche repliche. Ma oggi le immagini intelligenti si propongono come e-videnze, come indicazioni affidabili non solo della realtà ma anche di quella che deve costituirsi come verità della realtà sotto il prisma di un occhio onniveggente, che crede di sapere tutto perché percepisce il successo accordatogli tra gli umani (pp. 19-20).

Oggi, sono le macchine veggenti, scrive Jorge Luis Marzo, «a ergersi ad arbitri delle contraddizioni, lasciandoci solo il ruolo di attuare abilmente le raccomandazioni che suggeriscono, se non addirittura impongono» (p. 20). La logica con cui l’IA elabora la sua spiegazione del mondo tende ad esclude l’essere umano proprio mentre lo analizza e lo prevede. Quali competenze assegnano all’essere umano queste nuove conoscenze intelligenti con le immagini escludenti l’umano a cui ricorrono per per comunicare tra loro?

Ogni cultura della predizione è inscritta in società che vivono in un’epoca altra. Quella di oggi è l’esperienza di un tempo che non è il presente, ma la proiezione di tutti i presenti in una catena di plusvalenze da ammortizzare istantaneamente nel casino dei mercati dei futures e degli investimenti rischiosi. […] Per la macchina, dedurre la logica dai dati rende sempre il futuro inerte, un déja-vu (pp. 2019-220).

Nel caso una macchina apprenda di aver sbagliato una previsione, tenderà a trasformare il passato in un errore. In un tale tipo di narrazione, la memoria è mero calcolo di schemi, privata di fantasie ed immaginari, di competenze politiche e storiche.

Ora è urgente pensare a come influenzare l’ostinata costruzione del mondo come storia datata, cosa fare con ciò che non viene calcolato ed elaborato, o con ciò che viene calcolato ed elaborato male. La costruzione dell’identità digitale si basa sul principio dell’autoesposizione. La registrazione continua e pubblica delle attività certifica l’identità, mentre la scarsità delle transazioni la penalizza. Questo riconduce, su scala inversa, al vecchio sogno degli scienziati di un secolo fa, che immaginavano di trasformare le proprietà della vita in dati, in una teoria del presente: si tratta di sapere quale vita c’è dietro ogni dato (p. 220).

Le veggenti di Jorge Luis Marzo è un libro che invita a domandarsi come ci si possa rapportare nei confronti di macchine pensanti che, appropriandosi del linguaggio oracolare per interpretare e giudicare il mondo, essere umano compreso, una volta previsto quanto dovrebbe accadere, indirizzano gli esseri umani verso un futuro prefigurato derivato dalla mera analisi statistica.

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Sei stato gotico, Giovanni https://www.carmillaonline.com/2025/04/05/sei-stato-gotico-giovanni/ Sat, 05 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87738 di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del [...]]]> di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del resto riconosciuto da Fabio Camilletti e altri cultori del genere. Gotico nelle dinamiche – un protagonista orfano e smarrito come certe titubanti madamigelle radcliffiane, una magione misteriosa dal sentor di castello con misteriosi scricchiolii notturni, uno zio finto-buono detentore di loschi segreti e manipolatore patologico (un po’ alla Silas), una zia di conclamata ingenuità, la sua matura domestica “storta e minuta” che borbottando offre imbeccate al protagonista, un pazzo recluso in una stanza a imitare un serpente con lingua dardeggiante, il tema del malato che succhia il sangue dei vivi, uno spioncino per occhieggiare come voyeur, un gioco torbido di doppi, un’identità nascosta, un rondò straniante tra bene e male, una donna di vita legata come in un dungeon, figure umbratili che si consumano nottetempo nella dispersione del gioco d’azzardo… e una conclusione raggelante –, il romanzo è però anche gotico nell’ambiguità d’ambiente.

Il romanzo esce per Mondadori nel 1966. Una decina d’anni dopo, Dino Risi ne trae un film (1977), lo dota di interpreti straordinari (Gassman, Deneuve) ma sposta la vicenda a Venezia, tradendo uno dei connotati di base, una sorta di meta-personaggio retrostante la vicenda: la Torino appiccicosa e avvizzita del caldo di luglio dei primi anni sessanta in cui il narrante diciassettenne Tino, orfano e reduce dal collegio, giunge per gli esami di maturità classica nella palazzina signorile oltre Po degli abbienti zii Calandra. Si attende con ebbrezza la città vitalistica del boom e di Italia ’61, delle fabbriche e delle automobili – e tra zabaglioni, caffè ben zuccherati e calmanti (l’ormai obsoleta simpamina) si trova invece in uno spazio appartato, impenetrabile e onirico più simile alle dimore dei quadri di Italo Cremona e del gruppo Surfanta. Un finto, lieto candore regna nella casa asfittica, claustrofobica e omertosa dove la zia Galla si sdilinquisce per il coniuge ingegnere tanto buono: mostruosamente, morbosamente buono nell’accudire da solo il fratello “professore” impazzito in Africa e recluso come la Bertha Mason di Jane Eyre… procurandogli periodicamente persino una prostituta per offrirgli qualche soddisfazione fisica, nella comprensione aureolante e nelle ampie vedute da modernità subalpina della devota (e ricca) moglie. La casa – un dedalo di stanze aperte o chiuse, di corridoi, di passaggi dalle scale per occhieggiare – e la città rappresentano forse gli oggetti più geniali di questo romanzo, a trapiantare l’intera vicenda nell’onirico e le sensazioni di Tino in una risacca di emozioni insieme collose e inquietanti. “Tutto s’è consumato in questa notte, dal momento in cui il Duca e il cameriere Luigi hanno ricondotto di peso a casa l’ingegner Calandra, o forse soltanto il suo spettro”.

Attraverso una straniata catabasi in un mondo di perplessa fascinazione, dove le pellicole demenziali girate dal Professore rilasciano un sapore diffuso di non-senso e di spettacolo del farlocco, tutto precipita verso una conclusione dove il sordido e il degradato prevalgono persino sul tema in sé della follia. Sordido e degradato velati dalla quinta rispettabile di un decoro molto piemontese: e Tino vi troverà la sua traumatica iniziazione alla realtà – un esame di maturità per lui ben più crudo di quello consumato in sottotono nelle aule scolastiche. Una discesa agli inferi che tuttavia sembrerà lasciarlo prostrato: la storia di formazione si conclude in sostanza con un fallimento – a meno che non si consideri successo una traumatica iniziazione al dubbio degli adulti. Fallimento individuale, del resto, nel caso di Tino ma collettivo nell’affresco della canonizzata borghesia dell’ossequiato Ingegnere – di nome oltretutto Serafino, come esponente d’una gerarchia angelica – nella capitale della Fiat.

Forte di una scrittura straordinaria – dove tutto si regge grazie a un equilibrio stilistico scintillante, una scelta affilata del lessico, e una costruzione maliziosamente brillante del tragicomico, Un’anima persa finisce con l’offrire un quadro disperato che non si esaurisce nel follia ombelicocentrica del singolo ma in silenzi, maschere e derive interpella crudelmente la facciata di un intero mondo. Lorenzo Mondo scrisse che Un’anima persa era il romanzo più torinese tra quelli pubblicati fino a quel momento da Giovanni Arpino: dove l’ex capitale Torino mostra un suo volto misterioso e nero – gotico, appunto – non di satanismi d’accatto ma di ambiguità e finzioni d’un intero assetto sociale.

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E tutti danzarono in una festa crudele https://www.carmillaonline.com/2025/04/01/e-tutti-danzarono-in-una-festa-crudele/ Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87471 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere le sue gesta, la scrittura di Bertante si impenna nella direzione di una solennità sintattica cadenzata dalle ripetizioni e dalle anafore, dalla forma elenco che sembra ricalcare i cataloghi degli eroi dell’epica classica, da una sapiente lentezza del periodo in cui brillano spesso termini aulici e ricercati. Pensiamo soltanto, ad esempio, al brano seguente in cui, cadenzato dalla ripetizione di «Abbandonatemi qui» che sembra riecheggiare il «lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata» di Natale di Giuseppe Ungaretti, appare un conflitto quasi epico tra il presente ed il passato, inevitabilmente rivestito di un’aura mitica:

Abbandonatemi qui, su questa sedia di plastica puzzolente, testimone di questo infuocato epilogo che non ricorderà nessuno. Abbandonatemi qui, cullato dai miei ricordi d’infanzia, nel mio quartiere tradito e sfigurato. Abbandonatemi qui, non cercatemi più, il poco tempo che mi rimane a disposizione non posso sprecarlo a cercare di giustificare ogni cosa insensata che succede nel mondo. Sono finiti i giorni del sangue, della gloria, dell’odio e di ogni desiderio assoluto, delle voraci moltitudini in marcia e dei sogni che non si avverano mai. Navi di acciaio a solcare gli oceani, cattedrali a sfiorare il cielo per sfidarne la potenza, areoplani ipersonici, viadotti giganteschi che coronano le montagne, città splendenti in mezzo al deserto, centinaia di migliaia di persone in piazza infatuati dal sogno della rivoluzione, eserciti corazzati, promesse di civilizzazione, vile brutalità coloniale, vigore sessuale, sopraffazione, ambizione, conoscenza, folle pretesa di avere tutto (p. 23).

D’altra parte, E tutti danzarono appare strettamente legato, in un rapporto di intertestualità, ad altri romanzi dell’autore: non rovineremo certo il piacere della scoperta in un lettore che non conosce Bertante, anzi aumenteremo la curiosità di quello che già conosce l’autore, a dire che Ivan Boscolo non è altri che il figlio di Alberto Boscolo, il protagonista di Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR (2022), uscito dalla lotta armata nell’autunno del 1973 e che non venne mai identificato. Ivan è un docente universitario di letteratura a Milano ed ha come collega un altro personaggio molto conosciuto dai lettori di Bertante: Alessio Slaviero. Ebbene, ritroviamo Alessio giovane come protagonista di Estate crudele (2016) e poco più anziano in Nina dei lupi (uscito nel 2011 per Marsilio, poi rieditato da nottetempo nel 2019 e da La Nave di Teseo nel 2023, da cui è stato tratto nel 2023 il film di Antonio Pisu). Anzi, le vicende narrate in E tutti danzarono precedono immediatamente quelle di Nina dei lupi.

In un giugno milanese caratterizzato da temperature altissime, in un’era (la nostra) di riscaldamento globale già connotata come distopica («Come era possibile che nessuno ammettesse, nemmeno le persone intelligenti e di buon senso, che la lotta politica al capitalismo, alla quale avevamo creduto più o meno sinceramente per decenni, si fosse trasformata nostro malgrado in una semplicissima quanto terribile urgenza ecologica e che il modello economico neoliberista ci avrebbe portato all’estinzione qualche secolo prima del previsto?», p. 25), segnata dalla crisi e dall’emergenza ecologica, il sindaco decide di organizzare e patrocinare una festa danzante nei parchi cittadini che richiama giovani da tutta Italia e da tutta Europa, alla quale partecipa anche Micol, la figlia adolescente di Ivan. In preda a una specie di trance, i giovani non riusciranno a smettere di ballare: di fronte a questo fenomeno di festa collettiva, divenuta forzata, il potere non trova niente di meglio che rispondere con la violenza, con cariche della polizia e dell’esercito come di fronte a un atto violento. La festa, perciò, incrina il meccanismo del potere, lo manda in tilt; d’altronde, si potrebbe anche osservare – come suggerisce l’io narrante Boscolo – che sia generata da un forte disagio dei giovani («una sorta di mania parossistica generata dalle paure e dalla fragilità emotiva di questi anni», p. 124), i «nostri figli» che «abbiamo lasciati soli» (p. 136). Di fronte ai cortei delle nuove Baccanti che invadono la città, il potere non trova di meglio che rispondere con il carcere e la violenza, come nella tragedia di Euripide.

Però, è bene osservare che quella narrata da Bertante si presenta come una «festa crudele», nell’accezione datale da Furio Jesi. Quando non è più possibile la vera festa, quando ormai il mito è inesorabilmente caduto e «tecnicizzato»1, si crea solo un simulacro di essa. Come afferma Boscolo, ciò che sta avvenendo in città ricorda «i culti misterici e orientali diffusi durante il crepuscolo dell’Impero Romano» ma ormai mancava «il mistero, il fascino dell’iniziazione, la volontà aristocratica della distinzione» (p. 32). Anche Slaviero, esperto di miti, pensa che la trance collettiva avvenuta nella contemporanea era tecnicizzata, emerga da «qualcosa di più antico» (p. 72), da un sostrato dionisiaco e pagano. L’intera narrazione di E tutti danzarono è pervasa dall’immagine del ritorno di un universo mitico e magico che è divenuto ormai incomprensibile («una psicosi irrazionale, governata da un linguaggio magico allegorico per noi incomprensibile da millenni, riemerso prepotente in questa estate crudele, sfidando ogni legge della logica», p. 112). Ciò che era autentico e genuino ritorna nella sua veste «tecnicizzata» portando con sé soltanto un’immagine di morte. La festa allora si trasforma in tragedia, in violenta mattanza ed è, come già accennato, una «festa crudele» («c’era sangue ovunque, ma non si sentiva un lamento», p. 127). Secondo Jesi, fra le feste crudeli raccontate dalla letteratura c’è il terremoto di Lisbona nell’evocazione di Voltaire, la peste di Milano e l’insurrezione della plebe in cui si ritrova Renzo nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni; potremmo aggiungere allora anche la trance e la mattanza narrate da Bertante. Come scrive Furio Jesi,

quando la festa non è più possibile, poiché non esistono più i presupposti sociali e culturali per un’esperienza della collettività che “nel più profondo” sia “più affine alla giocondità che alla malinconia”, la memoria della festa antica e perduta assume nel rimpianto uno spicco così netto da attrarre nell’ambito della “festa” in negativo, della forma in cavo, ogni esperienza che sia collettiva, dolorosa, e che in qualche misura corrisponda – appunto in negativo – alle caratteristiche della vera festa2.

Nella devastante «tecnicizzazione» che ha pervaso la nostra società, il mito non può che riemergere in una forma falsificata, come lo squallido simulacro di qualcosa che è ormai perduto. Il mondo descritto da Bertante è sull’orlo di un collasso e sta caracollando insieme alla sua ebbrezza tecnologica indotta dal benessere del capitale. Eppure, il protagonista Ivan Boscolo, come Alessio Slaviero e gli altri personaggi messi in scena dall’autore negli altri suoi romanzi, pure a un passo dall’inferno, nella disperata ricerca senza fine della figlia Micol, sembra non perdere mai la sua capacità mitopoietica, il suo sguardo incantatore ed ‘epicizzante’ sulla realtà. Uno sguardo che si concretizza adesso nella scrittura di E tutti danzarono che diviene essa stessa evocatrice di mondi perduti e incantatrice di questa nostra realtà in bilico sul disastro.


  1. cfr. F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968, p. 36. 

  2. Id., Conoscibilità della festa, in id., Il tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2023, p. 66. 

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Futurismo arabo https://www.carmillaonline.com/2025/03/31/futurismo-arabo/ Mon, 31 Mar 2025 05:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87238 di Andrea Pighin

Cristina Jurado e Francesco Verso (a cura di) Arabilioso, Future Fiction, pp. 230, euro 16,00 stampa

La fantascienza araba è tanto in fermento quanto poco nota al grande pubblico internazionale. In un’analisi precedente su questo sito, dedicata al romanzo Paradiso in Terra (Future Fiction, 2023) del giordano Fadi Zaghmout, veniva affrontata la diffusione del fantastico nel contesto arabo. Arabilioso, antologia del futurismo arabo, offre un indispensabile supporto informativo a nove racconti selezionati tra Giodania, Egitto, Palestina, Iraq, Libano, Bahrain e Siria. Lo scrittore egiziano Emad El-Din Aysha, autore del testo critico e storico di che chiude l’antologia, [...]]]> di Andrea Pighin

Cristina Jurado e Francesco Verso (a cura di) Arabilioso, Future Fiction, pp. 230, euro 16,00 stampa

La fantascienza araba è tanto in fermento quanto poco nota al grande pubblico internazionale. In un’analisi precedente su questo sito, dedicata al romanzo Paradiso in Terra (Future Fiction, 2023) del giordano Fadi Zaghmout, veniva affrontata la diffusione del fantastico nel contesto arabo. Arabilioso, antologia del futurismo arabo, offre un indispensabile supporto informativo a nove racconti selezionati tra Giodania, Egitto, Palestina, Iraq, Libano, Bahrain e Siria. Lo scrittore egiziano Emad El-Din Aysha, autore del testo critico e storico di che chiude l’antologia, intitolato Fantascienza araba: la speranza in un futuro e un passato migliori, offre una disamina dei precursori e mostra come il sottogenere della fantapolitica o dell’utopia fosse diffuso già nella prima metà del Novecento (come i romanzi Introduzione a un’utopia egiziana dell’egiziano Salama Musa, Il continente perduto del tunisino Sadek Rezgui e molti altri). Tutte queste pubblicazioni riflettevano le ferventi aspettative di un’indipendenza dal giogo coloniale, talvolta abbracciando la prospettiva del panarabismo.

Aysha prosegue descrivendo il pieno sviluppo della fantascienza egiziana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con scrittori come Tawfiq al-Hakim e con l’esplorazione di un genere spesso ignorato dalla fantascienza tradizionale: la poesia modernista in chiave tecnico-scientifica. Un filone destinato a perdere importanza intorno agli anni Ottanta quando Paesi come la Tunisia finirono per identificare «nel realismo sociale il vero strumento per far avanzare la nazione» e questa tendenza – sottolinea l’Autore – fu comune all’intero mondo arabo.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una nuova crescita della fantascienza che tiene conto delle esperienze trascorse ma che in alcune opere attinge anche a un passato pre-islamico e pre-cristiano. Un esempio lo troviamo nel romanzo steampunk Malaz. La città della rinascita (2017) dell’egiziano Ahmed Salah al-Mahdi (pubblicato in Italia da Atmosphere Libri), ambientato in una città-stato guidata da una casta sacerdotale ispirata alle antiche civiltà egizie. Nello stesso filone si colloca la trilogia di Atlantide dell’autore Ammar al-Masry, egiziano, che mescola la leggenda della civiltà perduta al tema di una scienza che rischia di divenire incontrollabile. Hosam Elzembely, fondatore della Società Egiziana di Fantascienza (ESSF), «ha descritto la fase successiva alla primavera araba della fantascienza egiziana come una fase di autenticazione in cui i giovani aspiranti autori hanno smesso di imitare la fantascienza occidentale e si stanno battendo per definire la loro identità di arabi e musulmani.»

Tra gli autori presenti in Arabilioso spiccano l’iracheno Hassan Abdulrazzak, autore teatrale e di sceneggiati radiofonici, Nadia Afifi del Bahrain, autrice della Trilogia Cosmica, il cui primo volume, The Sentient, ha ottenuto un discreto successo, presente con due racconti e Farah Kader, che ha ricevuto diversi premi letterari, tra cui il Ghassan Kanafani del Movimento giovanile palestinese. I loro temi spaziano dagli effetti dei cambiamenti climatici all’impatto delle tecnologie nelle società arabe, approfondendo il rapporto tra comunità e individuo, le tensioni politiche e religiose, la malinconia per un passato storico, personale o mitologico.

Il racconto Pan-Umanesimo: speranza e pragmatismo è opera di una coppia libanese e statunitense, Sara Saab e di Jess Barber, e ha al centro il problema della crisi idrica e delle modalità con le quali la tecnologia sta permettendo di conservarla. Sullo sfondo di questo scenario, la storia d’amore e di incomprensioni tra Mani e Amir, che dura un’intera vita e apre ad altre tematiche, tra cui la sessualità del futuro, la famiglia allargata e l’educazione domestica. Lo stendardo di Ur di Hassan Abdulrazzak, invece, racconta un dipendente del British Museum che viene inviato a Baghdad per valutare la possibilità di riconsegnare all’Iraq un reperto archeologico sumero, ritrovato in una tomba della necropoli reale di Ur risalente al 2500 a.C. circa, e oggi conservato al British Museum di Londra. Il tema delle opere d’arte trafugate nel mondo dall’Occidente è centrale nell’intero mondo arabo ed è l’appariscente contraddizione delle strategie coloniali e post-coloniali portate avanti dall’Occidente, e Abdulrazzak lo interconnette ad altre tematiche tipicamente fantascientifiche come la pacificazione sociale favorita da microchip cerebrali. Ma i temi del contemporaneo incontrano le radici storiche della cultura araba, descrivendo richiami ancestrali ormai sempre più deboli.

Il bazar sotterraneo del Bahrein di Nadia Afifi descrive un luogo in cui si vivono esperienze di immersione virtuale. La protagonista è una donna che si sta preparando a morire di tumore vivendo le esperienze di morte di altre persone registrate con un apparato neuronale. Il suo secondo racconto compreso nell’antologia è Esposizione K. La protagonista viene risvegliata nel 2354 dopo un trattamento criogenico e vive lo scontro culturale tra le due epoche. Un giorno nella vita di Anmar 20X1 del palestinese Abdulla Moaswes è la storia del presidente dell’Autorità Palestinese del futuro, abituato a trascorrere le sue giornate nel benessere e a ignorare la sofferenza dei propri concittadini. Aggrappato al potere personale non si cura del bene comune del suo popolo e il racconto descrive il senso di frustrazione di molti palestinesi di fronte all’incapacità o alla corruzione della propria classe dirigente. La mancanza di uno stato sociale adeguato e della scarsezza di risorse è al centro del racconto Gomma da masticare alla cannella della siriana Maria Dadouch. Un’epidemia che causa la cecità costringe una madre a donare i propri organi per poter vaccinare i propri figli. Nel racconto Alla Nuova Gerusalemme di Farah Kader, palestinese che risiede negli Stati Uniti, è descritto uno scenario apocalittico in cui  il livello dei mari si è alzato e molte coste del Mediterraneo sono divenute invivibili a causa di acide tossiche. La protagonista ritorna nel suo paese di origine durante la bassa marea, nel tentativo di salvare alcuni ricordi personali abbandonati dalla sua famiglia in fuga dalle innondazioni marine. Nel racconto non è presente l’opposizione tra Occidente e Medio Oriente perchè la catastrofe è stata globale e non ha risparmiato le nazioni ricche e potenti.

Una Jaha nel metaverso di Fadi Zaghmout, che in Giordania è un attivista per la parità di genere, usa la fantascienza per ribaltare una realtà della propria tradizione. Il racconto è scritto in prima persona da parte di una giovane donna che, per suparare l’ostilità tra la sua famiglia e quella del suo fidanzato, organizza l’incontro di fidanzamento in un ambiente virtuale. Il signore del Mediterraneo di Emad El-Din Aysha, inglese di genitori egiziano-palestinesi, racconta dell’esperienza di un turista che si trova a Tripoli e che viene controllato dalle autorità locali. Tripoli è una città-stato che rispetta l’ambiente e che critica con durezza coloro che vivono al di fuori delle sue mura. Lo sguardo verso l’UE è impietoso: una «buffonata» governata da cinici affaristi. Il Vecchio Continente è descritto come un territorio socialmente devastato.

Lo sguardo speculativo del mondo arabo costruito dai molteplici punti di vista di Arabilioso passa dalla crisi climatica al desiderio di una completa diustizia sociale, dall’incontro-scontro tra la tradizione e le nuove forme di dominio tecnologico, ma è anche un modo per le scrittrici e per gli scrittori arabi di riappropriarsi della loro storia. E ancora, i concetti della sostenibilità e della gestione delle risorse si intrecciano in una nuova definizione delle società e dei legami affettivi tra i singoli individui.

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Il silenzio di Sabina https://www.carmillaonline.com/2025/03/28/il-silenzio-di-sabina/ Fri, 28 Mar 2025 06:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87231 di Roberta Cospito

Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni, pp 126, euro 12,00 stampa

Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende [...]]]> di Roberta Cospito

Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni, pp 126, euro 12,00 stampa

Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza.

La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene (de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni, formalità e rispetto per i più elementari diritti umani.

Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky. Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori.

Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore – sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di quel periodo.

Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri.

Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale, perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo, è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi, con le mani pulite.

Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci – le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità. Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si può prospettare a chi ha vissuto “al limite”?

Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni.

In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di “carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero. Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”.

Il silenzio di Sabina  invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane: “Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue parole”.

Barilli riporta un’osservazione di  Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

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