Recensioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 05 Mar 2025 21:00:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Visum et repertum 2 https://www.carmillaonline.com/2025/03/01/visum-et-repertum-2/ Sat, 01 Mar 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87090 di Franco Pezzini

Solo i giocatori sopravvivono

Piero Melati, Lola&Vlad, pp. 496, € 20, Polidoro, Napoli 2024

Lo sappiamo, il vampiro è un Fregoli dell’immaginario, capace di assumere nel tempo mille e mille diverse facce: dall’impresentabile e putrescente orco tornato di successo con il Nosferatu di Robert Eggers, 2024, attraverso una lunghissima serie di metamorfosi (via teatro, cinema, tv, fumetti, giochi di ruolo, romanzi young adult, …) è diventato il belloccio sbrilluccicante di Twilight. Anzi la storia del gotico transmediale trova proprio nel vampiro – più che in ogni altra creatura dell’immaginario – la cartina al tornasole di una qualunque [...]]]> di Franco Pezzini

Solo i giocatori sopravvivono

Piero Melati, Lola&Vlad, pp. 496, € 20, Polidoro, Napoli 2024

Lo sappiamo, il vampiro è un Fregoli dell’immaginario, capace di assumere nel tempo mille e mille diverse facce: dall’impresentabile e putrescente orco tornato di successo con il Nosferatu di Robert Eggers, 2024, attraverso una lunghissima serie di metamorfosi (via teatro, cinema, tv, fumetti, giochi di ruolo, romanzi young adult, …) è diventato il belloccio sbrilluccicante di Twilight. Anzi la storia del gotico transmediale trova proprio nel vampiro – più che in ogni altra creatura dell’immaginario – la cartina al tornasole di una qualunque periodizzazione puntuale.

Non stupisce dunque che, con un’operazione sottile, un giornalista navigato come Piero Melati, uso a confrontarsi con istanze di serio impatto dell’attualità (dalla nota bio, “ha seguito il Maxiprocesso e la guerra siciliana di mafia degli anni Ottanta. È stato vicecaporedattore alla cultura del Venerdì di Repubblica. Attualmente collabora all’inserto Robinson di Repubblica, alle pagine culturali del Venerdì”) riporti in scena i vampiri: ma quelli di un periodo molto preciso e puntualmente descritti in ritratti, allergie ed erotica, cioè i vampiri degli anni Novanta, del RPG Vampire: The Masquerade (prima edizione 1991), dell’immaginario di chat e nickname fantasiosi o prevedibili, dei siti vampirologici del primissimo web. Lo fa con ironia e sparando alto, con un profluvio di personaggi, molti – non tutti – giovani (almeno d’aspetto: con vampiri ultrasecolari non si può mai dire) e scontri tra Milano e la Sicilia che fanno pensare a fenomeni paralleli di infiltrazione malavitosa del territorio.

Dimentichiamo i castelli turriti del gotico e la catabasi nei sotterranei lugubri e surreali di Murnau (e magari Sätty), dimentichiamo le orripilazioni del classico Vampiri, sepoltura, morte di Paul Barber o del recente Vampyr di de Ceglia; dimentichiamo anche i vampiri paradigmatici di Universal e Hammer. Qui lo spazio non è meno immaginale perché anzitutto è quello di internet, magari di plaghe segrete del dark web, e in secondo luogo vira verso altre dimensioni onirico/virtuali (“zone morte”, “terre di nessuno”… dir di più sarebbe un peccato) a mappare il pianeta fin da viscere male abitate come per covi mafiosi. Il limite non è quello geografico di remote Transilvanie, ma quello di link blindati in qualche altro cartolario della realtà. Dimentichiamo anche le classiche forme associative riconosciute al vampiro nell’immaginario collettivo – famiglie incestuose, plagio di servi umani… – visto che qui in scena sono Camarille da giochi di ruolo o socialità da web. Connotate, queste ultime, dall’impossibilità di conoscere davvero interlocutori catafratti da nickname elusivi, magari multipli e dunque sostanzialmente invisibili, o da epiteti da battaglia di eroi metallari.

E proprio questo del contesto pare l’aspetto più affascinante di un romanzo godibile, colto (ammiccamenti e citazioni si sprecano, dalle divertenti “portaerei americane ‘John Wayne’ e ‘John Belushi’” ad altri più sottili, come l’identificazione del vero autore del Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis a Palermo o il richiamo ai locali Bosconero che potrebbe costituire un omaggio al romanzo L’eterna notte dei Bosconero di Flavio Santi, 2006), veloce nel ritmo e incalzante, con un finale scandito che può evocare certe eliminazioni seriali conclusive dei Padrini di Coppola: il richiamo alle fantasie di quegli anni di esordio di internet in cui euforie assortite per il nuovo mezzo e sue potenzialità aggregative ci appaiono oggi lontane quasi come lo steampunk vittorianeggiante. La percezione di uno spazio magico accessibile a tutti, di misteri e inconoscibilità non meno profondi di quelli declinati dal gotico classico, di schermaglie personali tutte nuove condotte sotto fitti velami trova connessioni e punti di sutura (termine che tornerà nel romanzo) con forme di aggregazione inedite nel segno della diffusione popolare dei pc – magari dietro saracinesche di covi di post-giovani o nell’ufficio di amici.

Di più, uno spazio magico dove un amore può sorgere tra sconosciuti – ma lo sono davvero più di tante persone incontratesi in carne e ossa? – e diventare così forte da spingere a un inseguimento avventuroso da antico romanzo alessandrino. Fino a un finale dove al lettore non è concesso di vedere i due assieme nella forma a noi più consueta… perché tutto è velato, travisato, ricondotto alla domanda fondamentale su quanto possiamo conoscerci e riconoscerci, e sull’asset del mistero in un gioco erotico che continuamente si rinnovella sui social a tanta distanza da quell’alba di internet. Perché sì, si può amare anche così.

Fino a un discorso più generale sul fantastico, all’inizio di quella che si è proposta di chiamare l’età neogotica – dagli anni Novanta agli anni Dieci del millennio successivo, con lo spegnersi della fase vampiresca del “romanticismo sexy” (e prima di singoli tentativi di ripensare il mito, dalla saga TV Penny Dreadful, 2014-16, al Dracula BBC/Netflix, 2020, fino, se vogliamo, allo stesso Eggers). In Lola&Vlad, storia (in sé delicata) d’amore & peculiarità ematiche, ci troviamo compiaciutamente nell’età neogotica: e il vampiro vi si conferma come una supermetafora del fantastico, un passepartout in grado di veicolare provocazioni sempre nuove delle società via via susseguitesi. Il che, ammettiamolo, per un vecchio babau come lui è davvero un risultato degno di nota.

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Isaac Asimov e la sua vita. Mille parole al giorno https://www.carmillaonline.com/2025/03/01/isaac-asimov-e-la-sua-vita-mille-parole-al-giorno/ Sat, 01 Mar 2025 06:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86795 di Andrea Di Vita

“Isaac era autenticamente orgoglioso e felice dei suoi traguardi. Dopo la sua morte, trovai un pezzo di carta sul quale aveva scritto a inchiostro (forse dopo la prima volta che si era ammalato): ’Nel corso di quarant’anni, ho venduto un pezzo ogni dieci giorni in media. Nel corso dei successivi vent’anni, ho venduto un pezzo ogni sei giorni in media. Nel corso di quarant’anni, ho pubblicato una media di 1000 parole al giorno. Nel corso dei successivi vent’anni, ho pubblicato una media di 1700 parole al giorno.’ Scrivere ciò che voleva e stata una gioia per lui, che [...]]]> di Andrea Di Vita

“Isaac era autenticamente orgoglioso e felice dei suoi traguardi. Dopo la sua morte, trovai un pezzo di carta sul quale aveva scritto a inchiostro (forse dopo la prima volta che si era ammalato): ’Nel corso di quarant’anni, ho venduto un pezzo ogni dieci giorni in media. Nel corso dei successivi vent’anni, ho venduto un pezzo ogni sei giorni in media. Nel corso di quarant’anni, ho pubblicato una media di 1000 parole al giorno. Nel corso dei successivi vent’anni, ho pubblicato una media di 1700 parole al giorno.’ Scrivere ciò che voleva e stata una gioia per lui, che l’ha aiutato a rilassarsi e dimenticare i suoi guai.”

Queste parole sono state scritte dalla vedova di Isaac Asimov (1920-1992) nella terza autobiografia dello scrittore, Io, Asimov. Questa autobiografia – nella bella e accurata traduzione italiana di Chiara Beltrami per i tipi de il Saggiatore – fu compilata poco tempo prima della morte da un Asimov ancora in buona salute; delle due autobiografie precedenti solo la prima era stata pubblicata in Italia da Armenia. Il titolo del volume fa l’occhiolino alla celebre antologia Io, Robot dove si sviluppano le Tre Leggi della Robotica che ancora oggi influenzano la vera ricerca sull’intelligenza artificiale. Anche agli occhi dell’appassionato di fantascienza e di chi – come l’autore di queste note – ricorda con piacere le interminabili letture giovanili dei saggi e degli articoli di divulgazione scientifica di Asimov, il libro ha il pregio di illuminare un aspetto poco noto della personalità dello scrittore: la coerenza.

Dire che Asimov “è uno scrittore di fantascienza e un divulgatore scientifico” è poco. La sua produzione è sterminata: fra opere originali di fantascienza, prefazioni ad antologie, articoli pubblicati su riviste di fantascienza e non, abbozzi di sceneggiature, volumi di divulgazione scientifica, libri di testo scolastici, una trama di un musical di fantascienza coi Beatles mai realizzato e – appunto – tre autobiografie, non si va troppo lontano dal vero se si parla di cinquecento titoli. Tenuto conto anche che fino al raggiungimento della fama editoriale la percentuale dei manoscritti rinviati al mittente dagli editori è di solito considerevole, i ventisette milioni di parole pubblicate in sessant’anni sono una sottostima dell’effettiva produzione. Asimov si vanta di non avere mai patito il “crampo dello scrittore”: gli dai una macchina da scrivere e una risma di carta e lui comincia a battere sui tasti di getto, con pochissime correzioni. C’e da credergli. Racconta di aver passato un’intera vacanza con la prima moglie in un campeggio in cui non ha trovato nulla di meglio da fare che mettersi a scrivere il copione della filodrammatica di dilettanti compagni di villeggiatura.

Come Woody Allen, spiega di odiare l’allontanarsi dalla metropoli i cui grattacieli oscurano il cielo e lo proteggono dalle distrazioni. Accompagnando l’adorata figlia piccola ai giardinetti, scalpita in cuor suo pensando ai minuti in cui non sta battendo macchina. Si vanta di seguire una routine di ferro: otto ore al giorno a battere a macchina o a catalogare vecchi testi – secondo un suo personalissimo sistema di archiviazione, in un mondo senza personal computer e telefonini. A questo ritmo, anche immaginando di fare solo quello, ventisette milioni di parole in sessant’anni corrispondono a una media di centocinquanta quattro parole all’ora: due pagine al giorno, per tutta la vita. Giusto Mozart componeva così in fretta.

Viene da chiedersi: che razza di individuo è uno che sul letto di morte pensa a scrivere un biglietto in cui si congratula con se stesso per aver scritto e venduto così tante cose? Il biglietto lo ha scritto rivolto a se stesso, la moglie non dice di averne saputo qualcosa prima di trovarlo. Non si tratta di una civetteria superflua: la mole della bibliografia sta lì a dimostrarlo. Chi legge l’autobiografia sa che non si tratta di avidità. Asimov rifiuta tutte le lucrose offerte di collaborazione da Hollywood. L’unico film indiscutibilmente asimoviano, Viaggio allucinante, è anche uno dei pochissimi casi in cui Asimov scrive un racconto esplicitamente ispirato a una sceneggiatura preesistente, e non farina del suo sacco. È oggi che una serie di lavori al cinema e alla televisione saccheggiano la vasta opera asimoviana, dall’improbabile I, Robot di Willy Smith al ciclo della Foundation prodotto da Netflix; c’è da sperare che l’annunciato film diretto da John Ridley tratto da Caves of Steel (Abissi d’acciaio) sortisca effetti migliori. Non si tratta di amore della letteratura: Asimov è avido lettore dell’opera omnia di Shakespeare, ammira lo stile dei colleghi scrittori di fantascienza Ray Bradbury e Theodore Sturgeon, legge e rilegge J.R.R. Tolkien cinque volte; ma rimane grato agli amici che lo sconsigliano di provare a scrivere in modo “letterario”.

C’entrano sicuramente la bibliofilia e la claustrofilia. La prima rimanda all’adolescenza dello scrittore, ne parleremo più tardi: è singolare che un libro – anche nella forma di una registrazione nanotecnologica – spunti sempre qua e là nel ciclo della Fondazione, per esempio nella scena madre che avviene nella biblioteca della capitale in rovina dell’Impero Galattico, su Trantor. La claustrofilia – la diffidenza per gli spazi aperti – ritorna continuamente in tutti i racconti col detective Elijah Bailey. In Asimov raggiunge il livello di una vera e propria acrofobia – il terrore delle altezze. Ma un claustrofilo può avere una vita sociale attiva, invitare amici; l’unica volta che Asimov ammette di avere invitato amici a cena sottolinea di avere raccomandato a tutti di astenersi dal fumo – l’intolleranza verso il quale era stata una delle cause del divorzio dalla prima moglie. Questo non significa che Asimov fosse un solitario. Al contrario: la sua capacità di intrattenere le persone, di creare un ambiente favorevole, di raccontare barzellette e aneddoti divertenti, e soprattutto di improvvisare spiegazioni chiare e comprensibili su quasi ogni argomento è leggendaria. È quella che lo ha reso un divulgatore scientifico altrettanto se non addirittura più prolifico dello scrittore di fantascienza, un conferenziere conteso a peso d’oro, un affabulatore nato, un allegrone di genio, un mattatore con un istrionico senso dell’umorismo. L’autobiografia è ricca di esempi, come quando Asimov dice di essere stato sfidato a tirare in pubblico un acuto da cantante lirico a una conferenza tenuta da un suo amico, cosa che – con sollazzo universale – lui si guarda bene dal rifiutarsi di fare.

Si è detto che la dote nascosta di Asimov fosse una ferrea coerenza. Tale coerenza lo rende sincero fino all’autoanalisi. Il fatto di coltivare l’autoironia gli facilita l’ammettere esplicitamente di essere un narcisista egocentrico, uno mosso in ogni cosa che intraprende dal perseguimento dell’autosoddisfazione. Ammette di trovare se stesso estremamente interessante: tre autobiografie lo dimostrano. Adora essere al centro dell’attenzione; ha un’altissima stima di sé, e non solo come affermato oratore (il deus ex machina della Seconda Fondazione è, appunto, un Primo Oratore). Alla consueta fila per gli autografi sui libri venduti una lettrice chioccia gli dice “Che emozione! Qui c’è lei, e nell’altra stanza c’è Lawrence Olivier!” Al che lui, subito: “Come sarebbe onorato Olivier se lo sapesse!”. Cita compiaciuto un giudizio altrui sul se stesso da giovane: “è molto immodesto, ma ha parecchio per cui essere immodesto”. Come l’altro autore egocentrico di una autobiografia rimasta celebre, Benvenuto Cellini, Asimov proietta continuamente l’immagine di sé come centro della fantascienza mondiale insieme a Arthur C. Clarke e a Robert A. Heinlein (cui peraltro non risparmia qualche frecciatina ogni tanto). Io, Asimov è fondamentalmente non una lunghissima carrellata di personaggi grandi e piccoli della scena fantascientifica statunitense dagli anni Quaranta ai Settanta, ma una carrellata dei loro rapporti (di solito soddisfacenti) con l’autore.

Asimov si rende conto già da giovane di essere diverso. Ha una memoria eccellente, se non fotografica; a scuola non è bravissimo in matematica ma si entusiasma alle scienze naturali e alla storia; rifugge dalla ginnastica. Soprattutto, l’essere figlio di poveri immigrati provenienti dalla Russia, che lo salvano dalla miseria durante la Grande Depressione solo grazie al negozio di dolciumi paterno, lo costringe a trascorrere in negozio tutto il suo tempo libero dalla scuola. Non ha letteralmente né il tempo né i soldi per andare a giocare a baseball coi coetanei né per andare a ballare e fare il filo alle ragazze. In tempi difficili pochi acquistano dolci; nel negozio, spesso vuoto di clienti, il giovane Asimov ha solo due cose da fare dopo i compiti: leggere e fantasticare. E Asimov legge, legge di tutto: da Shakespeare alla monumentale Ascesa e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon. Legge anche la Bibbia, anche se non condivide la fede dei padri e resterà ateo tutta la vita. Legge libri di divulgazione scientifica e legge le rivistine da un soldo piene di mostri mirabolanti, avventure incredibili, sesso suggerito e violenza esplicita. (Negli stessi anni, un inglese più anziano di quasi vent’anni uscito da Eton, e che Asimov non capirà quando l’avrà letto, come George Orwell, denunciava la sotterranea pornografia di quelle riviste. Ma senza di esse non avremmo le Tre Leggi). Non potendo costruire una vita sociale nella realtà, Asimov se la costruisce nella mente. Dice di se stesso “sono ancora e sempre nel negozio di dolciumi”. Quello che per Marcel Proust è la madeleine, per Asimov è Asimov… Consapevole delle proprie doti, costruisce mondi di cui – narcisisticamente – è il dio creatore e legislatore; la memoria gli consente di formarsi una cultura vasta e interdisciplinare, che riversa nelle sue creazioni; la facondia gli facilita l’esposizione dei punti di vista dei veri personaggi. Asimov si vede fin da ragazzo come creatore di storie, sia per iscritto sia a voce, e questo determinerà le sue scelte future. Scrive fantascienza perché si diverte; si diverte così perché costruisce mondi di cui detta le regole (come nella robotica) usando le sue interminabili letture di argomento scientifico. Per tutta la vita, il resto – raccontare barzellette, cantare – serve a mantenere buoni rapporti sociali che gli consentono di scrivere. Questa consapevolezza in Asimov si unisce a un rigore, un amore per la coerenza attribuito all’educazione al dovere ricevuta in famiglia. (Una volta confessò all’austero genitore di aver perso al gioco ben quindici centesimi. Il padre ringraziò il cielo: 2Meno male! Pensa se li avessi vinti!”). Le sue letture gli insegnano che in una storia anche i cattivi, dal proprio punto di vista, sono buoni, e che ciascuno dei personaggi, anche il più sciocco, è convinto di comportarsi nel modo più sensato. L’intreccio delle storie di Asimov è sempre il contrapporsi di ragioni individuali plausibili per i personaggi che le dichiarano. Prima di lui i robot sono tutti come il mostro di Frankenstein, l’orribile creatura intelligente che si ribella al suo creatore. Lui ne fa esseri razionali, servizievoli ma mai schiavi; anzi, chi li schiavizza viene punito (come nel romanzo The Nacked Sun, Il sole nudo). Prima di lui le donne nella fantascienza sono tutte “cerve che brucavano pigramente l’erba mentre aspettavano che i cervi smettessero di combattere in modo da sapere a quale harem sarebbero appartenute.” Asimov crea donne magari vittime dell’amor materno ma più attive e più intelligenti degli uomini; una di esse dichiara non a caso “i robot sono fondamentalmente persone per bene”.

La grandezza di Asimov è che la sua coerenza è onnipervasiva. Partiamo dalla poetica. Asimov non sarebbe se stesso se non la definisse esplicitamente. Scrive che ogni racconto è un problema con una soluzione. Le storie devono essere tutte dotate di una coerenza interna. Ogni storia è uno schema, come una partita a scacchi o di baseball. Cesellate a puntino, come le opere di Benvenuto Cellini. Lo stile è invariabilmente colloquiale, a costo di essere monotono; e questa costanza è frutto di un continuo e deliberato esercizio, come nel contemporaneo Ernst Hemingway.

Asimov condivide il giudizio del poeta Robert Frost secondo cui “il verso libero è come giocare a tennis senza rete”. Nessuno è più antimarinettiano e antisperimentale di Asimov. Come nei gialli di Agatha Christie – che Asimov divora e ammira profondamente – ogni storia ha uno schema che aspetta di essere rivelato. Asimov conosce la New Wave della fantascienza, ma la detesta, così come detesta i racconti alla Star Wars che considera “western su Marte”. (Solo l’amata figlia, da piccola, lo convinse a seguire gli episodi di Star Trek). Lui stesso, quando si mette alla macchina da scrivere, ha in mente uno schema, non i protagonisti della storia, che sono a volte poco più che i punti in un diagramma immaginati nelle partite a dama di certi testi di Edgar Allan Poe. L’autore ha il dovere dell’imparzialità nei confronti dei suoi personaggi nel presentarli al lettore. Questa imparzialità Asimov la estende a tutto. Nell’autobiografia non esita da ammettere di essere stato un padre troppo distante dal figlio avuto nel primo matrimonio, di rifuggire dalle grandi feste in famiglia, di non avere riconosciuto molte doti della prima moglie. Il principale vizio nel quale si vergogna di indulgere di quando in quando – di rado – è l’autocommiserazione, legata più che altro alla sua triste adolescenza; è grato al padre da una parte e alla seconda moglie dall’altra per averlo aiutato a guardarsene. In politica Asimov è un liberal, e se ne vanta, anche negli ultimi anni quando sotto Ronald Reagan la cosa non era più di moda. Diventa liberal da ragazzo perché vede che i conservatori del periodo bellico (quando lui comincia a pubblicare) sono tendenzialmente antisemiti, e lui è ebreo. I primi scrittori di fantascienza che contatta sono quelli di tendenze più chiaramente antifasciste. Nel Dopoguerra vede i conservatori diventare fondamentalmente degli egoisti; osserva che gli operai si imborghesiscono, si indigna di fronte ai tagli reaganiani alla sanità pubblica, di cui viene a sapere dalla figlia psichiatra. Scrive “mi fa pensare ai versi di Oliver Goldsmith: Mal sopporta la terra, preda di mali incalzanti / dove la ricchezza si accumula e gli uomini decadono. Da americano fedele, mi sentivo scoraggiato.” Ma proprio perché rifiuta l’autocommiserazione, Asimov mantiene fermo un punto: ogni essere umano ha il dovere verso se stesso e il mondo di comportarsi nel modo che ritiene più costruttivo possibile. È di sinistra come lo era Bertrand Russell: non per una qualche coscienza di classe, ma perché guidato da un rigido razionalismo materialista e antireligioso. Di economia ammette di non avere mai capito nulla, nemmeno nelle sue letture divulgative da ragazzo.

Quando recensisce 1984 di Orwell lo stronca giudicando (correttamente) che non si tratta di fantascienza: ma è tipico di Asimov il modo che ha di criticare, ad esempio, il segno distintivo dell’opera orwelliana, il teleschermo che in ogni casa spia l’operato dei telespettatori. Asimov giudica l’idea balzana e improponibile perché inefficiente, dato che richiede un numero spropositato di controllori: gli sfugge completamente che proprio il fatto che col teleschermo metà della popolazione è spiata dall’altra metà fa sì che – come nell’ex Germania Est – tutta la società diventa uno strumento di delazione. Ancora meglio, Asimov condanna in Orwell il fatto che “tutti i suoi personaggi sono, in un modo o nell’altro, deboli o sadici, o squallidi, o stupidi o repellenti”. La commovente ingenuità di Asimov intende smentire il pessimismo orwelliano affermando che “i decenni trascorsi dal 1945 sono stati notevolmente pacifici rispetto ai decenni precedenti”. E qui si vede in pieno lo stesso modo di pensare sotteso proprio a Io, Asimov: l’ottimismo radicale stile film di Frank Capra, l’idea che l’essere umano sia fondamentalmente buono e che, a patto che si sia doverosamente da fare, non si autocommiseri e non indulga a stravizi, la tecnologia farà sì che il mondo sia suo. Ogni problema va affrontato in modo costruttivo e ottimista. Anche se la conoscenza è pericolosa, l’ignoranza non è mai una soluzione, è solo una fuga. La religione, deviando l’uomo dal retto uso della ragione per comprendere il mondo, si riduce a fondamentalismo. E fondamentalisti sono coloro che si oppongono all’intelligenza artificiale dei robot, proprio come “quelli che in passato si opponevano all’energia nucleare”. Da Caves of Steel al racconto Winds of Change (Il vento è cambiato) i fondamentalisti sono la bestia nera di Asimov, che dedica tutto il suo vasto commento interlineare del libro della Genesi a confutarli. Asimov è lo Spencer Tracy del film Indovina chi viene a cena, l’antirazzista orgoglioso di accettare in famiglia il genero nero (laureato in medicina e impiegato all’ONU). Tranne la sovrappopolazione (Asimov è contemporaneo di quel Paul Ehrlich che terrorizzò gli USA coi suoi allarmi sulla bomba demografica negli anni Settanta) non esiste problema ambientale che la tecnologia non possa superare. Questo purché usata a fin di bene, e quindi non per la guerra.

E qui salta fuori l’altro aspetto di Asimov in politica: l’opposizione al nazionalismo. Ogni nazionalismo è male, perché porta alla guerra. La guerra è male perché è violenza, e “la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”. Coerenza vuole che l’ebreo Asimov si opponga allo Stato di Israele, perché la sua esistenza porta sempre i Palestinesi scacciati dalle loro case ad attaccarlo e questo sarà sempre foriero di guerra. Lo ha detto in pubblico davanti a dei sopravvissuti alla Shoah. Oggi Asimov sarebbe censurato come antisemita. Asimov non fa sit-in come Russell, ma aderisce all’Internazionale Umanista con la seconda moglie.

L’idea di Hannah Arendt (e di Orwell) che la tecnologia di per sé porti sia prospettive di maggiore liberazione sia di maggiore oppressione appare del tutto incomprensibile ad Asimov, che la ignora completamente – e che chiamerebbe “catastrofista’”se non la ignorasse. Lui appare tutto preso a costruire complessi ma comprensibili mondi sulla base degli assiomi di logica e di ragionevolezza buttati giù decenni prima nella solitudine del negozio di dolciumi. È come un Frank Sinatra che continua a cantare My Way all’epoca dell’hard rock. Non digerisce mai del tutto l’invadenza della televisione; meno male che non conosce i social. Forse però ha ragione lui quando dice che “l’aspetto più triste della vita in questo momento è che la scienza raccoglie conoscenza più velocemente di quanto la società raccolga saggezza”. Come per la canzone di Sinatra, allora, il biglietto di Asimov sul letto di morte è una versione tutta personale della frase dell’autore della lettera a Timoteo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.”

Per finire questa carrellata su questo grande del secolo scorso, le parole migliori sono le sue, perché descrivono non solo l’autobiografia ma la sua intera produzione: “C’è una scrittura che somiglia ai mosaici di vetro che si vedono nelle vetrate decorate. Tali finestre sono meravigliose in sé e lasciano entrare la luce in frammenti colorati, ma non ci si può aspettare di vedervi attraverso. Allo stesso modo, esiste una scrittura poetica che è splendida in sé, e può facilmente influenzare le emozioni, ma tale scrittura può essere astrusa e rendere difficile la lettura se si cerca di comprendere cosa stia accadendo. Un piatto di vetro, d’altro canto, non ha alcuna bellezza intrinseca. Idealmente, non si dovrebbe riuscire a vederlo, ma attraverso il piatto è possibile vedere tutto ciò che accade all’esterno. Quello è l’equivalente della scrittura che è semplice e disadorna. Idealmente, nel leggere una scrittura simile, non ci si rende nemmeno conto di leggere. Le idee e gli eventi paiono puramente fluire dalla mente dello scrittore a quella del lettore senza alcuna barriera nel mezzo. Spero che sia ciò che accadrà quando leggerete questo libro.”

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La rivoluzione come una bella avventura / 5: S-Contro, storia di un collettivo antagonista https://www.carmillaonline.com/2025/02/26/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-5-s-contro-storia-di-un-collettivo-antagonista/ Wed, 26 Feb 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86973 di Sandro Moiso

Sergio Gambino, Luca Perrone, S-Contro, Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, con i contributi di Salvatore Cumino e Alberto Campo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 176, 18 euro

«Noi sentivamo di avere una collocazione forte! Io nell’84, quando abbiamo cominciato, avevo vent’anni, eravamo giovani, ma ci sentivamo di avere un grande compito e anche in completa controtendenza. Io, Marco e Sergio abbiamo vissuto il riflusso in modo molto forte, quando tutti si ritiravano, noi avanzavamo». (Efisio, militante di S-Contro)

E’ una gran bella storia quella di S-Contro, sotto molti punti di vista. Una storia in cui [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Gambino, Luca Perrone, S-Contro, Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, con i contributi di Salvatore Cumino e Alberto Campo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 176, 18 euro

«Noi sentivamo di avere una collocazione forte! Io nell’84, quando abbiamo cominciato, avevo vent’anni, eravamo giovani, ma ci sentivamo di avere un grande compito e anche in completa controtendenza. Io, Marco e Sergio abbiamo vissuto il riflusso in modo molto forte, quando tutti si ritiravano, noi avanzavamo». (Efisio, militante di S-Contro)

E’ una gran bella storia quella di S-Contro, sotto molti punti di vista. Una storia in cui Torino, la città-fabbrica per eccellenza, ha rappresentato ancora una volta un laboratorio, così come lo era stata fin dall’inizio del secolo passato. Una città, però, in cui negli anni Ottanta non era certo facile vivere, soprattutto per i giovani che erano giunti sulla scena politica e sociale dopo che l’ubriacatura delle lotte degli anni ‘60 e ‘70 si era già ampiamente smorzata e la classe operaia della FIAT aveva già subito la sua più grande sconfitta proprio all’inizio del nuovo decennio.

Una città in cui i sedimenti della repressione, politica e militare, della lotta armata si accompagnavano alle siringhe dell’autodistruzione di una parte, non secondaria, della generazione appena precedente che, dopo le vittorie delle lotte operaie e studentesche e le illusioni che ne erano conseguite, aveva dovuto fare i conti con le sconfitte, la repressione e la delusione di una “rivoluzione tradita”. Anche da quei compagni di un tempo che sul cammino passato avevano iniziato a costruire ben più redditizie carriere sulla scena politica e culturale, cittadina e nazionale.

Fu certamente, e lo si capisce dalle numerose testimonianze dirette raccolte nella ricerca di Sergio Gambino e Luca Perrone, un’esperienza ispirata tanto dalla necessità politica di stare al passo con le trasformazioni già all’epoca in atto, quanto dallo spirito di avventura, ogni volta unica e irripetibile, che da sempre anima le iniziative delle giovani generazioni. Un elemento, quest’ultimo, inestinguibile e di vitale importanza per far sì che la vecchia talpa della rivoluzione possa continuare la sua sotterranea azione contro la Storia, o almeno contro quella codificata dalla narrazione imbalsamata e dalle leggi dell’ordine costituito, per scardinarla e stravolgerne le rotte e le traiettorie che non possono mai essere date una volta per tutte. Così come, invece, il capitale e i suoi funzionari di ogni grado e colore politico vorrebbero.

Non a caso il primo saggio, quello di Luca Perrone, si apre proprio sulla sconfitta operaia alla Fiat .

Gli anni Ottanta a Torino si aprono con i trentacinque giorni di blocco della Fiat dell’autunno 1980 in risposta ai 23.000 licenziamenti voluti dall’azienda e con la marcia dei quarantamila quadri del 14 ottobre che chiude questa lotta. Come noto quella vertenza era stata preceduta dal licenziamento dei 61 operai alla Fiat nell’ottobre 1979. Eppure ancora la vertenza contrattuale del 1979 si era caratterizzata per una imponente serie di blocchi stradali al di fuori delle fabbriche e aveva visto l’apparizione di nuove soggettività operaie e giovanili, in qualche modo imparentate a quelle del Movimento del ’77 e che praticavano il rifiuto del lavoro su larga scala. La Torino operaia esce trasformata da quella sconfitta che travalica i limiti sindacali. In quell’inizio degli anni Ottanta, l’attacco al sindacato conflittuale e alle avanguardie di classe da parte di Agnelli e Romiti è imponente e devastante, mentre i processi di ristrutturazione modificano in profondità la fisionomia sociale della città-fabbrica italiana per eccellenza. La vertenza Fiat del 1980 inaugura cosi un decennio di crisi, di chiusure di fabbriche, di processi di ristrutturazione produttiva, che stravolgono lo stesso tessuto urbano della città. E sarà la composizione sociale della città a uscirne stravolta1.

Una sconfitta, occorre qui ricordarlo, cui avevano contribuito sia il comportamento dei sindacati confederali che il PCI, che non esitò a portare davanti agli operai i maggiori quadri dirigenti sia a livello locale (Piero Fassino e Giuliano Ferrara) che nazionale (Enrico Berlinguer) per contribuire a contenerne la rabbia e, successivamente, far passare la mozione favorevole all’interesse dell’azienda con una truffaldina e tutt’altro trasparente conta dei voti a favore o contro l’accordo raggiunto con la stessa2.

Questo per dare l’idea di un clima in cui l’azione repressiva continuava a svolgersi, sia a livello locale che nazionale, sotto l’egida della sinistra di governo3, tutta tesa ad isolare e a marchiare con lo stigma del terrorismo qualsiasi iniziativa antagonista, come si coglie nel testo ciclostilato, prodotto da S—Contro, Se alzato il pugno ti sparano, sulla vicenda del militante triestino Pietro Maria Greco, detto Pedro e imputato per il processo 7 aprile, ucciso da una task force di Digos e Sisde la mattina del 9 marzo 1985 nell’androne di casa.

Eppure, eppure…
Una nuova generazione iniziava a muoversi e a produrre volantini, comunicati e pagine a stampa dal carattere fortemente classista, anzi dai contenuti “bellicosamente classisti“ come recitava la rivista prodotta dal collettivo. Giovani militanti che dal 1984 al 1991 diedero vita non soltanto alla fanzine, uscita in cinque numeri dal 1984 al 1987, dal cui titolo avrebbe preso nome il collettivo, ma anche ad una coraggiosa attività di agitazione presso le scuole medie superiori, soprattutto tecniche e professionali e, per quanto ancora possibile, le fabbriche della città e della sua periferia.

Collettivo che iniziò a riunirsi nella centralissima via Po al numero 12, nella sede dell’Organizzazione comunista internazionale (Oci). Le cui memorie, qui raccolte, non possono essere che di parte. Non certo per nostalgia, ma per sottolineare come gli ideali rivoluzionari, esattamente come l’Araba Fenice, tornino sempre a risorgere da quelle che si pensavano ceneri ormai spente. Naturalmente con modalità culturali, ancor prima che politiche, ogni volta differenti e più consone ai tempi, come si sottolinea in diverse testimonianze degli ex-militanti di S-Contro intervistati e, tangenzialmente, anche nel saggio di Alberto Campo, in quegli anni protagonista della nascente scena e critica musicale torinese, Canta che ti passa? La musica a Torino negli anni Ottanta4.

Sergio Gambino è stato militante del collettivo S-Contro e successivamente ha partecipato all’esperienza di Radio Black Out e attualmente è socio di Ultrasuoni Records, mentre Luca Perrone collabora con la rivista «Machina», per la quale ha raccolto i materiali prodotto dal collettivo torinese (qui) ed è autore o coautore di svariati saggi di carattere storico.
I due curatori oltre a documentare la storia del collettivo, hanno scelto di intervistare molti di coloro che parteciparono a quell’esperienza, come, ad esempio, Salvatore Cumino che, all’interno del testo in questione, ha curato il breve saggio Dopo il diluvio: militanti politici oltre la città fabbrica5, utile per contestualizzare criticamente quell’esperienza.

Per numero di affiliati il collettivo era esiguo e poteva dunque attraversare senza troppe contraddizioni i filtri concettuali che descrivevano la transizione di quegli anni. Sempre esistono persone e gruppi che vivono (magari anche proficuamente) fuori dal proprio tempo e S-Contro era cronologicamente sfasato, contro la corrente del decennio. I suoi militanti, in più, riusavano una «estetica» risalente al primo Novecento e alle sue avanguardie, ma anche certe suggestioni do it yourself di matrice punk. A scanso di equivoci, non c’era niente di postmoderno in ciò: gli «intenti bellicosamente classisti» del collettivo erano agiti – si parla della componente «giovane», all’epoca dei fatti compresa tra i 16 e i 30 anni di eta – da soggetti che erano anche prodotti del loro tempo. I militanti politici, quando non rinchiusi in luoghi immuni dal confronto con il sociale, possono essere in anticipo o ritardo sulla realtà sociale, ma sono essi stessi impregnati dello spirito d’assieme del collettivo societario in cui sono inseriti.
Anche a Torino, infatti, nella transizione oltre la città-fabbrica cambiavano le figure e le forme del conflitto. Più che cambiare scemavano […] Conflitti – anche duri – si daranno pure in seguito, ma le figure sociali e gli immaginari saranno differenti. Nel declinare della città-fabbrica (senza dismissione del comando capitalistico ma con una sua ristrutturazione guidata spesso dalle stesse forze sociali e dinastie famigliari) si riduceva anche il ruolo politico, culturale, organizzativo degli operai come “classe”. Torino era ancora immersa nell’industrialismo (solo qualche anno dopo scoprì che ne stava allestendo la spettacolare dismissione) e nella retorica della città-fabbrica; l’immaginario contro-culturale si nutriva di un’estetica (che, beninteso, per ampi strati della società era del tutto reale) della disperazione urbana; ma la composizione sociale, i mestieri, i riti, i luoghi di ritrovo (per quanto ci interessa «neo-proletari» o «iper-proletari») stavano mutando. Quel proletariato giovanile di cui S-Contro si proponeva come agente politico («neo-leninista»?) non era da tempo né forza-lavoro né classe operaia in socializzazione. Aveva dismesso questa veste, da un lato, cestinando volontariamente l’etica del lavoro: già l’immaginario «pagano» delle nuove forze operaie della fabbrica taylor-fordista, spesso meridionali di origine, era poco rispettoso delle sacre icone stachanoviste. E certo non erano «lavoristi» gli zingari dei circoli del proletariato, le femministe, i settantasettinidi ogni risma. Ma erano ovviamente anche stati dismessi, con la periferizzazione e la precarizzazione che si respirava già, sebbene un buon diploma tecnico consentisse ancora – per poco tempo – decine di colloqui di lavoro per entrare nell’esercito industriale che contava ancora centinaia di migliaia di effettivi6.

Ma una storia politica, musicale, contro-culturale e di militanza, che attraversa gli anni Ottanta, nella Torino che si avviava a essere una città post-industriale, tra fine della lotta armata e riflusso, non può fare a meno delle testimonianze dirette di chi, allora giovane, iniziò a fare politica in quel contesto. Per questo vale la pena di riportare qui le testimonianze di Davide e Betty.

Davide: Io sono nato nel 1966, vengo da un quartiere operaio di Torino, che e Lucento-Vallette, mio padre era un operaio della Teksid, era un operaio torinese di mestiere e del Pci, mia madre era una casalinga, la classica famiglia torinese, non di immigrazione dal Sud. […] La mia formazione, prima di arrivare a fare un po’ di politica, è stata quella di un quartiere operaio, con le sue contraddizioni, tra cui il dilagare dell’eroina. Ho avuto molti amici e compagni di scuole che sono morti, altri che hanno avuto percorsi di carcere, io mi sono salvato anche perché avevo paura di bucarmi. […] Nel 1980, quando ci sono stati i licenziamenti Fiat, io avevo quattordici anni, se ne discuteva molto in casa, mio padre era combattuto, se stare con il movimento operaio o con i Quarantamila (che poi non erano quarantamila…). Lui non era un militante del Pci, ed era della parte piu conservatrice del Pci, e come tanti altri operai aveva una stima per “Giovannino” Agnelli. Alle superiori vado al Baldracco, una scuola chimica-conciaria, senza alcuna formazione politica alle spalle. Qui inizio a conoscere il movimento new wave, dark, questo in quarta, verso il 1984, quindi ho un approccio musicale al fenomeno culturale e politico, e poi avevo una voglia di ribellione mia, una forma di riscatto individuale e personale. In quinta conosco Salvatore che viene a volantinare come studente medio davanti alla mia scuola, e qui inizia il mio percorso nel collettivo S-Contro. Il primo anno di militanza capivo poco delle riunioni che si facevano: i bordighisti, le posizioni specifiche di un gruppo e di un altro, non riuscivo a coglierle. La cosa che mi ha spinto per una continuità nella militanza e di approfondimento è stato questo mix tra lettura generale e sguardo sui fenomeni musicali e sociali. Mi sentivo un po’ “a casa”, perché era un gruppo di giovani, un gruppo metropolitano, di una citta industriale come Torino, era un gruppo orizzontale, le leadership erano naturali, non c’era un riconoscimento formale di un leader. […] Ma allo stesso tempo c’era un percorso di formazione politica e parallelamente c’era la questione musicale, in senso generale, che per me e stato uno dei collanti maggiori di quel gruppo di compagni7.

Betty: Io sono entrata in S-Contro nell’84 […]… La consapevolezza politica era minima, almeno da parte mia, ma ero attratta da tutto ciò che potesse essere una formazione politica di rottura con l’esistente. Inizialmente mi ero avvicinata al movimento punk e a Piazza Statuto, poi tramite Efi e altri compagni ho cominciato ad avere un’idea piu strutturata del mio pensiero politico.
Abbiamo anche tentato di frequentare via Plava, dove si trovavano i comitati a sostegno per i prigionieri politici. Fu un’esperienza molto deludente perché dopo un incontro questi erano inspiegabilmente spariti. In quel periodo molti compagni del circuito di via Plava vennero arrestati o furono costretti alla latitanza a causa di un’ inchiesta sui Nuclei comunisti rivoluzionari, che più che un gruppo “armato” era una rete di solidarieta attiva e sostegno ai detenuti politici, una rete formata da ex militanti di Pl e ex Autonomi, nonché del Movimento in generale. Questo dà la misura di quanto all’epoca fossi completamente inconsapevole di ogni cosa.
S-Contro risolveva e dava forma alla mia ideologia politica che era sostanzialmente leninista, per quella che doveva essere la pratica politica e l’organizzazione. Il collettivo S-Contro del primo periodo, quando si trovava in via Po 12, vedeva parecchi attori, di diverse generazioni. Io frequentavo la parte giovanile dell’organizzazione – Efi, Marco, Sergio – mentre Cesare e Mimmo erano gia piu distanti. […] La nostra ambizione di avanguardia rivoluzionaria fu soddisfatta nel 1985, quando un movimento studentesco si affacciò per la prima volta dopo anni nell’arena politica […] e ricordo un lungo periodo di attività politica e di volantinaggi, faticosissimi, davanti alle scuole per reclutare militanti. Le scuole erano quasi tutte scuole medie superiori, tecniche e professionali. Se ci doveva essere una radicalizzazione doveva partire dai ceti popolari. Ovviamente la scuola non era l’unico tema di interesse del gruppo, anche il livello internazionale era per noi significativo8.

Due testimonianze prese tra le tante riportate all’interno delle ricerca, entrambe significative di quello spirito di avventura, che mescola il desiderio di conoscenza con quello del cambiamento radicale, che animò quell’esperienza così come quella delle generazioni precedenti e riassumibile, sostanzialmente, nel desiderio “mitico” della Rivoluzione. Desideri ed esperienze che, quasi sempre finiscono con l’incontrare e conoscere, leopardianamente, i limiti di ogni desiderio irrealizzato, per quanto forte e intensamente vissuto.

Per chiudere la storia di S-Contro, però, conviene lasciare ancora la parola a Salvatore:

S-Contro formalmente si chiude nel 1991, con la nascita di Rifondazione comunista finisce e non si riunisce più. Per me il ’90 e uno spartiacque. Io non ero un artista, alcune passioni le ho portate in Radio Black out, dove facevo un programma musicale. Quando finalmente occupammo i centri sociali, noi portammo lì a suonare tutti quelli che prima andavamo a vedere con Nevio e Sergio con quelle micidiali trasferte, aderivamo a un circuito nazionale che si chiamava Circuito autogestito ed era una cosa molto interessante. Non la voglio sminuire, ma […] quello mi divertiva. Però fuori dal Gabrio non l’avrei mai fatto. […] Per me era più importante comunque… non so se chiamarla la “militanza dei volantini”, alla fine i volantini avevamo quasi smesso di farli in realtà… S-Contro si scioglie nel ’91, dopo la Pantera io comincio a seguire, senza alcuna convinzione, la prospettiva di «Politica e Classe». […] La scelta era stata di andare a vedere cosa succedeva in Rifondazione comunista, ma parallelamente decidiamo di fare un collettivo studentesco post-pantera, Ombre rosse, che non funziona, funziona un anno, un anno e mezzo, facciamo una rivista, «Riff-raff» (torinese)… Per me ha voluto dire immergersi in quel milieu che si crea tra la radio, i centri sociali, i collettivi, le riviste, che caratterizza i primi anni Novanta. Io quella stagione penso di averla vissuta con molta intensità, tutta, a partire dalle occupazioni. Dopo non molto tempo ci fu una crisi anche per me, perché non vedevo più una dimensione espansiva, generativa, soprattutto non era avvenuto quel processo di capacità di uscire dai centri sociali per costruire… Lì mi portavo dietro la cultura maturata in S-Contro, comunque senza la capacità di orientare la classe operaia, nel senso di una frazione della composizione di classe in grado di spostare, di agire politicamente in chiave ricompositiva, di essere avanguardia di massa dentro il movimento politico. Classe operaia intesa non come operai fisici. Mi era abbastanza chiaro… Con «Riff-raff» […] C’era già tutto un avvicinamento ai temi che erano posti soprattutto dagli studiosi di area operaista o post-operaista, nel mio caso personale molto filtrata dalla frequentazione e lettura di Romano Alquati, che ebbe un’importanza fondamentale in quegli anni, anche se poi non lo seguii nella proposta di formare gruppi di conricerca. Per me la scelta fu quella: sciogliersi, vivere creando altre strutture che ci sembravano piu adeguate al tipo di composizione giovanile, più istruita. Dico cosa pensavamo all’epoca, oggi penso cose un po’ diverse, per cui fatico a vedere una linearità. Quello fu un passaggio che mi portò abbastanza lontano anche rispetto alla seconda fase di S-Contro, dove il momento politico, organizzativo, per creare il partito dell’unita della sinistra di classe non socialdemocratica (che era la formula che utilizzavamo) mi sembrava fosse la stella polare che dovesse orientare la nostra prospettiva politica. Non pensavo più quello9.

Molti lettori avranno forse storto il naso di fronte all’uso di termini come avventura e mito nel descrivere l’esperienza di S-Contro, ma che potrebbero costituire due concetti adatti più di altri per comprendere la permanenza nell’immaginario collettivo, soprattutto giovanile, di quell’ipotesi che sembra non voler morire, nonostante tutto. Un immaginario che raramente guarda alla Rivoluzione come ad una scienza, troppo spesso di carattere economicistico, e che ogni volta rivela, invece, come l’unica scienza, pur sempre cangiante nelle sue forme organizzative, possa soltanto essere quella dell’insurrezione.

Un’idea che può far comprendere che i miti maggiori espressi dall’immaginario della specie, a partire da quelli religiosi, hanno sempre salde fondamenta nella storia, nei suoi diversi modi di produzione e riproduzione succedutisi nel tempo e nelle loro infinite contraddizioni. Un mito, comunque, per cui vale ancora la pena di combattere, nonostante gli errori, le eresie, le sconfitte e gli orrori delle solo e sempre pretese ortodossie che ne hanno costellato la storia, come le vicende di S-Contro e dei suoi militanti stanno ancora lì a dimostrare.


  1. L. Perrone, S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta in S. Gambino, L. Perrone, S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 9-10.  

  2. Si vedano le immagini di SENZACHIEDEREPERMESSO, il documentario di Pietro Perotti e Pier Milanese prodotto nel 2015, sulle lotte operaie alla Fiat dagli anni Settanta alla sconfitta del 1980, qui  

  3. A Torino, città laboratorio per eccellenza come si diceva poco prima, il primo questionario antiterrorismo diffusa sul territorio metropolitano, già nel 1977, fu opera dell’amministrazione Novelli.  

  4. In S. Gambino, L. Perrone, op. cit., pp. 53-58.  

  5. In op. cit., pp. 45-51.  

  6. S. Cumino, Dopo il diluvio: militanti politici oltre la città fabbrica, pp. 47-48.  

  7. Una storia torinese degli anni Ottanta raccontata dagli ex-militanti in op. cit., pp. 88-89.  

  8. Ibidem, pp. 89-90.  

  9. Ivi,pp. 153-154.  

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Le macchine della paura https://www.carmillaonline.com/2025/02/24/le-macchine-della-paura/ Mon, 24 Feb 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87071 di Paolo Lago

Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00.

L’animazione di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a ciò che è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud afferma che desta particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è perturbante in sommo grado [...]]]> di Paolo Lago

Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00.

L’animazione di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a ciò che è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud afferma che desta particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è perturbante in sommo grado il fatto che un oggetto inanimato, ritratto o bambola, acquisti vita propria”2. La bambola della fiaba di Hoffmann appare come un “automa”, cioè un essere che si muove da solo: se lì la spiegazione del movimento era puramente magica e soprannaturale, il movimento degli automi reali, realizzati a partire dal XVII secolo, era meccanico. Questi ultimi si potevano incontrare anche ai banchetti e alle feste delle corti barocche e settecentesche, esposti a fare bella mostra di sé: basta dare uno sguardo all’iperbolico banchetto di una corte tedesca ricostruito dalla fantasia di Federico Fellini in Il Casanova di Federico Fellini (1976), al quale partecipa uno stupefatto Giacomo Casanova. Qui, il celebre intellettuale e seduttore veneziano incontra una bambola meccanica che provoca in lui contemporaneamente attrazione e perturbamento e della quale finirà per innamorarsi.

Ma l’automa è anche e soprattutto portatore di orrore: non è un caso che il vampiro di Murnau, in Nosferatu. Una sinfonia dell’orrore (1922), emerga dal sepolcro e si muova quasi come una marionetta o un burattino, in modo meccanico, come un sonnambulo. Esseri sonnambulici, definiti “automi spirituali” e “mummie del pensiero” da Gilles Deleuze3 sono presenti d’altronde anche nel cinema di Dreyer, non a caso proprio in Vampyr – Il vampiro (1932). La figura dell’automa, nell’immaginario della fantascienza, si è evoluta poi nelle sembianze dell’androide, un essere meccanico dotato di una superiore intelligenza artificiale: è quest’ultima a sostituire, oggi, gli elementi magici, meravigliosi e demonici. Un cortocircuito di tematiche che, nella contemporaneità, esce dall’immaginario cinematografico e letterario per lambire la realtà: è da essa, in cui l’intelligenza artificiale si è ormai diffusa, che emergono gli spunti più inquietanti per un nuovo “orrore tecnologico”. È proprio di questo che si occupa il nuovo, interessante saggio di Fabio Malagnini dal titolo significativo di Horror ex machina, dedicato, come leggiamo nel sottotitolo, al “cinema dell’orrore tecnologico”. Se nel nesso Ex machina si può intravedere un riferimento al film del 2014 di Alex Garland (Ex machina appunto) è anche vero che Horror ex machina è una frase latina che significa “orrore dalla macchina”. Non solo il “sonno della ragione”, ma anche la tecnologia genera mostri, e li può generare anche nel mondo reale oggi più che mai, con l’elezione al soglio presidenziale degli Stati Uniti di Donald Trump e lo strapotere che ha assunto (se possibile, ancora più di prima) il suo accolito Elon Musk. Come scrive Malagnini, “parlare di AI e di mostri” non significa parlare soltanto del presente o del passato ma anche “guardare attraverso le ombre e i fantasmi che il futuro proietta verso di noi” (p. 31).

E comunque, Malagnini nel suo denso saggio dedica ampio spazio anche al passato. Un capitolo, ad esempio, è dedicato proprio agli automi, i quali “simboleggiano l’infanzia dell’automazione” (p. 34). Si arriva quindi anche all’automazione per l’infanzia, cioè i giocattoli meccanici ed elettronici che, nell’immaginario horror preso in esame, si configurano come “giocattoli killer”. Si può pensare, allora, fra i tanti film analizzati, alla bambola Chucky, posseduta dallo spirito di un serial killer, nella saga di Child’s Play, che “inizia nel 1988 e conta 7 film più una serie tv fino al reboot del 2019”. C’è poi una “bambola assassina per la generazione di ChatGPT” (p. 45), vale a dire quella di M3gan (2022), diretto da Gerard Johnstone, in cui una ricercatrice di robotica crea una bambola superintelligente per tenere compagnia a sua nipote Cady. La bambola, pur di proteggere Cady, sarà disposta anche ad uccidere senza pietà. Sempre nel passato è situato il “mostro elettrico” (titolo del capitolo 2) per eccellenza, Frankenstein, nato dalla fantasia di Mary Shelley. Antenato degli androidi, Frankenstein ha conosciuto una enorme fortuna cinematografica, dovuta indubbiamente soprattutto a James Whale e Terence Fisher per riversarsi negli anni Settanta nel geniale Frankenstein Junior (1974) diretto da Mel Brooks e ricomparire, recentemente, sotto le vesti femminili di Bella Baxter nell’altrettanto geniale pastiche di Yorgos Lanthimos, Povere creature! (Poor Things, 2023) tratto dal romanzo di Alasdair Gray. Come scrive Franco Moretti, il mostro “ci fa anche capire che in una società diseguale gli uomini non sono uguali”4, perché “la diseguaglianza scava la pelle, gli occhi, il corpo”5, una diseguaglianza bene evidente nella società industriale, in cui gli operai, costretti a lavorare nelle fabbriche a ritmi disumani, non sono davvero uguali ai ricchi borghesi. Per certi aspetti, gli androidi di Blade Runner (1982) di Ridley Scott, diversi dagli esseri umani perché costretti in vite a scadenza molto brevi, sono i pronipoti di Frankenstein anche perché sono coloro che devono lavorare a ritmi disumani in luoghi disumani, nelle lande più remote e inaccessibili dello spazio. E gli esseri umani, dopo averli creati, non trovano di meglio che cacciarli ed eliminarli in serie nelle strade di una fatiscente Los Angeles del 2019. Da Frankenstein alla clonazione, poi, il passo è più breve di quanto sembri: se nella realtà il primo mammifero clonato in laboratorio era stata la “pecora Dolly”, nell’immaginario tecno-horror le clonazioni abbondano, da quelle di Alien – La clonazione (Alien: Ressurection, 1997) di Jean-Pierre Jeunet, in cui sono stati clonati ibridi umani e xenomorfi fino alla saga di Resident Evil (2002-2017), dove “il clone è creato con intenti chiaramente dinastici per diventare l’elemento problematico e dinamico della saga” (p. 104).

E se la “macchina” dotata di intelligenza artificiale non ha un aspetto antropomorfo, androide o ginoide, ma appare sotto le vesti di un cervellone elettronico, uno scatolone parlante? È sicuramente meno affascinante, anche meno inquietante, ma non certo meno terribile. In un capitolo dedicato ai “cervelli elettronici”, Malagnini ci informa che HAL 9000, il computer di 2001 Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick, ha superato anche Alien, lo squalo di Spielberg e Terminator nella classifica dei ‘cattivi’ di tutti i tempi. Si tratta di una AI ‘addestrata’ a ‘pensare’ come un essere umano, un processo che sta avvenendo oggi anche nella realtà e per cui è stato coniato il termine “Psicologia delle macchine” perché la liaison tra cervello e computer si fa sempre più stretta. Ma, come osserva l’autore, “l’inconscio della macchina incorpora volenti o nolenti i nostri pregiudizi culturali” (pp. 11-12). Stereotipi culturali e di pensiero legati a un passato e a un presente ‘discriminanti’ provocano inquietanti bias cognitivi: ad esempio, un archivio utilizzato per addestrare le AI, erroneamente ritenuto “universale”, possiede un’idea di “città” incentrata su metropoli come Londra, Tokyo, Parigi, New York e non su Città del Messico, Pechino o Nairobi; allo stesso modo, la conoscenza degli esseri umani è basata su un’alta percentuale di individui bianchi, maschi e occidentali con una bassissima presenza di bambini e donne africane. Un altro cervellone spaziale si incontra sulla Nostromo, la nave cargo di Alien (1979) di Ridley Scott, chiamato confidenzialmente “Mother”. Una ‘madre’ accudente ma che in realtà è programmata per fare gli interessi della corporation che possiede l’astronave a scapito degli esseri umani. Un’altra AI dalle connotazioni materne è presente anche nel più recente I Am Mother (2019) di Grant Sputore ma anche qui si tratta di una madre crudele, che mira a sterminare gli esseri umani per creare una razza superiore e più intelligente. In questo film la AI possiede l’aspetto di un robot molto ‘rozzo’, una specie di scatola con braccia e gambe, e ci ricorda, allora, tutta una serie di personaggi robotici più o meno ‘buoni’ o ‘cattivi’, pronti, a partire da Metropolis (Fritz Lang, 1927), a ribellarsi ai creatori umani.

Ma, come spiega Malagnini, esiste anche “la variabile umanoide” (titolo del capitolo 6), cioè esseri robotici che, a prima vista, non sono distinguibili dagli uomini in carne ed ossa, gli androidi. Come nota l’autore, “se il robot nasce dall’idea di automatizzare l’umano, l’androide rappresenta il tentativo di umanizzare la macchina. Il primo riflette storicamente la società delle masse, il secondo quello dell’individuo neoliberale” (p. 184). Fra gli innumerevoli film in cui sono presenti gli androidi risulta sicuramente interessante Westworld (1973) di Michael Crichton: in un parco a tema in cui “tutto è permesso”, i ricchi occidentali possono uccidere o violentare androidi a loro piacimento. Anche qui scatta il meccanismo della ribellione perché un ignaro turista, a un certo punto, sarà perseguitato da un robot-pistolero impazzito (Yul Brinner) in un’area tematica dedicata al selvaggio West. Alla categoria degli androidi appartengono anche alcuni personaggi di due film di Ridley Scott già ricordati, Alien e Blade Runner. In quest’ultimo avevamo incontrato anche Pris e Zhora, due androidi femminili o, per meglio dire, ginoidi (dal greco γυνή, “donna”) che, negli anni Ottanta e Novanta, offriranno lo spunto a molti “cliché action femminili” (pp. 193-194) “tra somatofobia e tecnofobia” (p. 195).

Nel “cinema dell’orrore tecnologico” sono poi ampiamente presenti i cyborg (contrazione di cybernetic organism, termine coniato da due scienziati della NASA nel lontano 1960), cioè gli esseri dotati di appendici meccaniche. Come scrive Malagnini,

la realtà ci sottopone ogni giorno casi concreti di cyborg a cominciare da chi si è sottoposto a un intervento per un bypass toracico o una protesi robotica per mani, gambe, avambracci, ecc. L’immaginario cinematografico ha invece continuato a creare mostri utilizzando la vecchia antinomia uomo-macchina, ereditata dalla fantascienza del secolo scorso. La figurazione e l’ontologia del cyborg, d’altro canto, sfumano oggi nella bolla del capitalismo tecnoscientifico, in un assemblaggio di corpi, tecnologie e politiche riproduttive che Donna Haraway ha ribattezzato ironicamente New World Order Inc. (p. 204).

Non si può non ricordare allora la teorizzazione del cyborg attuata da Donna Haraway nel suo celebre saggio uscito nel 1985 (Manifesto cyborg), in cui, all’interno di un approccio anti-tecnofobico, esso “rende problematica la condizione di uomo, donna, umano, razza, corpo. Il corpo femminile non è più il corpo materno; esclude ogni dualismo e ogni comunicazione universalmente comprensibile”6. Come nota l’autore, non sono numerosi i filmmaker che hanno descritto la nostra società come una cyborg society dal punto di vista degli oppressi: si può ricordare Alex Rivera con Sleep Dealer (2008) che mostra un futuro distopico in cui il capitalismo cyborg ha sigillato le frontiere tra il Messico e gli Stati Uniti (non troppo lontano dall’altrettanto distopica realtà che viviamo), e ha connesso i migranti a una realtà virtuale per sfruttarli direttamente a casa loro. Anche al di fuori delle proiezioni distopiche, si può pensare al nostro presente e osservare che, comunque, il corpo cyborg si presenta come “il corpo glorioso e sventrato dell’Antropocene” (p. 212).

L’orrore tecnologico può provenire anche dai media ed esiste tutto un filone di film dedicato a questo tema: il più significativo è senza dubbio Videodrome (1983) di David Cronenberg, in cui il terrore viaggia attraverso una comunicazione televisiva solcata da inenarrabili oscuri poteri e capace, addirittura, di forgiare una “nuova carne”. E se alla comunicazione televisiva, tipica del momento transizionale degli anni Ottanta, sostituiamo quella digitale ci troviamo proiettati nell’attuale immaginario tecno-horror e in buona parte della nostra realtà. Adesso non si parla solo di social e di comunicazione digitale ma anche di intelligenza artificiale che si mescola in modo pervasivo alle nostre vite e al mondo che ci circonda. Ad esempio – nota Malagnini – “una richiesta a ChatGPT richiede oggi 10 volte l’elettricità necessaria a una search Google ‘vecchio stile’” (p. 269). I consumi e le emissioni provocate da questi complessi sistemi elettronici provocano esorbitanti emissioni nell’atmosfera e “stiamo cominciando a realizzare che tra le AI e la catastrofe esiste dopotutto un nesso molto stretto e che non è la minaccia delle ‘AI cattive’ conosciuta al cinema, e accreditata anche da una parte dell’establishment politico. Il loro impatto materiale sulla crisi climatica è assai più concreto, per non parlare dei problemi di controllo democratico che la concentrazione economica prospetta” (ivi). Altro che androidi che viaggiano nello spazio e si ribellano ai propri creatori, altro che cervelloni elettronici sulle astronavi, altro che robottoni dominatori di lontani mondi distopici: le macchine della paura sono già arrivate nel nostro quotidiano e sono qui, oggi più che mai, in mezzo a noi.


  1. Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Id., Un bambino viene battuto e scritti 1919/1920, Newton Compton, Roma, 1976, p. 80. 

  2. Ivi, p. 92. 

  3. Cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

  4. F. Moretti, Dialettica della paura in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, Savelli, Roma, 1978, p. 81. 

  5. Ibid

  6. F. Fiorentin, Il cyberfemminismo di Donna Haraway, in “Codice Rosso”, 14 giugno 2022. Qui il link 

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Terzo settore e gentrificazione: una parola di chiarezza https://www.carmillaonline.com/2025/02/23/terzo-settore-e-gentrificazione-una-parola-di-chiarezza/ Sun, 23 Feb 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87019 di Giovanni Iozzoli

Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, Carocci Editore, Roma 2025, pp. 148, € 17,00

Nel corso della sua travagliatissima storia, Napoli è stata spesso laboratorio di sperimentazioni sociali – quasi sempre nefaste, spesso ardite e anticipatorie – che hanno inciso sul corso del suo sviluppo e delle sue infinite crisi. L’elemento più dirompente che ha segnato la città, in questo ultimo trentennio, è stato sicuramente l’avvento del turismo di massa, potentissimo fattore di riorganizzazione dei flussi economici e degli assetti urbanistici. Non che Napoli fosse storicamente estranea ai movimenti turistici; ma essi non [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, Carocci Editore, Roma 2025, pp. 148, € 17,00

Nel corso della sua travagliatissima storia, Napoli è stata spesso laboratorio di sperimentazioni sociali – quasi sempre nefaste, spesso ardite e anticipatorie – che hanno inciso sul corso del suo sviluppo e delle sue infinite crisi. L’elemento più dirompente che ha segnato la città, in questo ultimo trentennio, è stato sicuramente l’avvento del turismo di massa, potentissimo fattore di riorganizzazione dei flussi economici e degli assetti urbanistici. Non che Napoli fosse storicamente estranea ai movimenti turistici; ma essi non avevano influito che in minima parte sui suoi equilibri complessivi. Oggi, collocata a pieno titolo come tappa immancabile dentro la topografia turistica euromediterranea, la città subisce il ritmo crescente della valanga umana che anno dopo anno ne investe il centro storico, alterandone finanche l’antropologia, le relazioni sociali e i rapporti di potere e di classe.

Luca Rossomando, coordinatore delle attività editoriali di Napoli Monitor – laboratorio di riferimento della ricerca storiografica e sociologica sulle trasformazioni metropolitane – offre con questo suo breve e succoso saggio, una profonda occasione di riflessione. La sua analisi non si limita alla descrizione fenomenologica dei processi – turistificazione e gentrificazione – quanto all’inquadramento dei soggetti reali che guidano o cavalcano l’onda sociale delle trasformazioni. In particolare, l’indagine si concentra su tre quartieri simbolo – delle retoriche del “degrado” e della “rinascita” – studiando minuziosamente gli attori sociali che in tali territori esprimono progettualità e protagonismo: enti del Terzo settore, associazioni, imprenditori privati, ong, fondazioni, figure nuove di governance che operano “sul crinale tra sfera pubblica e mercato”.

In pratica, l’enorme scombussolamento sociale della turistificazione, sta producendo sul campo una nuova cartografia di poteri, sottopoteri, progetti, gerarchie, flussi finanziari, in cui il ruolo del pubblico risulta sempre più ancillare. E siccome questi processi – dal “particolare al generale” – possono riguardare qualsiasi tessuto urbano, le storie che Rossomando racconta in questo saggio, sono decisamente di largo interesse, al di là della babele napoletana.

Nel 1995 il centro storico di Napoli è stato dichiarato “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO. […] Qui, nell’ultimo decennio, i valori immobiliari sono aumentati costantemente e gli affitti temporanei hanno progressivamente soppiantato le locazioni residenziali. In poco tempo sono nate una miriade di piccole e piccolissime imprese, attive in particolare nei campi dell’accoglienza turistica e della ristorazione. Dopo la flessione dovuta al Covid 19, la marea dei turisti ha ricominciato a crescere, portandosi rapidamente sui livelli pre-pandemici. Nel 2023, l’aeroporto di Capodichino ha registrato 12,4 milioni di passeggeri, il numero maggiore della sua storia, con un incremento del 14% sul 2019. Nello stesso anno il traffico crocieristico ha indirizzato verso il porto di Napoli più di un milione e mezzo di persone, con una crescita del 43% rispetto al 2022. Nell’aprile 2024 il totale degli annunci disponibili sulla piattaforma Airbnb ha sfiorato per la prima volta quota 10.000. (p. 12)

Chiaro che fenomeni sociali di queste dimensioni producono impatti altamente distorsivi: quello che era il centro storico più grande d’Europa, densamente abitato e vissuto dalla popolazione residente, sta assistendo alla rapida espulsione dei soggetti socialmente deboli – poveri, anziani, studenti –, all’impennata dei valori immobiliari, alla chiusura di botteghe e servizi che lasciano il posto alla catena infinita della piccola ristorazione che, metro dopo metro, ridisegna le strade e gli odori della città. Anche il mercato del lavoro cambia rapidamente: il segmento dell’impiego precario e malpagato, in qualche modo si struttura, diventa definitivo, elemento non emancipabile, ma necessario e indispensabile per reggere l’industria dell’offerta turistica.

E il quadro politico-amministrativo – in un territorio che storicamente ha espresso una fetta importante di ceto dirigente nazionale – come approccia questi fenomeni?

Negli anni di Gaetano Manfredi, eletto sindaco nell’ottobre del 2021, la “turistificazione” della città è stata assunta dai governanti come punto di partenza in funzione del quale rimodulare ogni intervento o prospettiva di futuro. […] Nei discorsi e documenti della giunta si è affermata, nella rituale formula per cui le istituzioni lavorerebbero per il bene dei cittadini, la consuetudine di affiancare al benessere di questi ultimi anche quello dei turisti, talvolta invertendo i termini delle priorità: le istituzioni a Napoli, insomma, lavorano per il benessere dei turisti, ma anche per quello dei cittadini, con tutte le conseguenze che questa inversione comporta. (p. 13)

Quando il turismo inizia a riversarsi sul centro cittadino, una pluralità di soggetti afferenti alla categoria “omnibus” del c.d. Terzo Settore comincia a leggere le potenzialità di questa dinamica. Si possono gestire pezzi di territorio turisticamente interessanti, magari proprio in quei rioni che godono di non buona fama; si può organizzare la grande rete dell’ospitalità diffusa; si possono intercettare risorse fresche per “riorientare” la vita dei quartieri difficili e proporsi alle istituzioni come promotori di legalità; si può godere di un ampio serbatoio di mano d’opera locale, giovane, debole e disponibile. Per fare questo, si rafforzano lo stigma e gli stereotipi sul degrado dei territori da “bonificare” e ci si propone come “risanatori” dei quartieri, mettendo in rete le risorse di diversi soggetti: la Chiesa – che è un enorme proprietario immobiliare –, le fondazioni bancarie, le grandi imprese sponsor, le tipologie associative di ogni ordine e grado. Dalla retorica del degrado alla retorica della legalità, questi nuovi attori sociali conquistano campo, nella sottomessa passività del pubblico.

Questo ridisegno della mappa dei poteri e del dinamismo economico, va inquadrato dentro la più generale tendenza italiana, negli ultimi trent’anni, a esaltare il “privato sociale” e il principio di sussidiarietà. Secondo questa lettura il Terzo Settore si presenta come alternativa efficiente e democratica, rispetto allo Stato “burocratico e sprecone”. A Napoli, questo nuovo tipo di impresa – “del bene”, come suggerisce con amara ironia il titolo –, ha marciato con vigore, scoprendo spazi di valorizzazione e rafforzando giorno per giorno una sua propria narrazione: davanti al degrado, solo noi – società civile – siamo in grado di porre un argine e trasformare in oro la miseria sociale. Rossomando descrive attraverso una puntuale ricognizione dei progetti, dei soggetti e del loro rapporto con gli abitanti dei quartieri, l’azione di questi enti del Terzo settore, distinguendoli per risorse disponibili e velleità.

Le retoriche del Terzo Settore, si sono per anni sviluppate grazie ad una politica compiacente, ad un giornalismo servile, alla creazione di un clima generale che accreditava queste narrazioni. L’autore cita a mo’ di esempio un servizio televisivo di prima serata, in cui le attività di queste imprese napoletane, vengono sobriamente definite: “straordinaria esperienza di autogoverno civico”, “fabbrica del welfare sorta interamente su iniziativa e con risorse private”, “gemme di riformismo visionarie che fioriscono dove uno meno se le aspetta”.
Ma al di là del racconto entusiasta, quali sono i risultati concreti di questa ventennale discesa in campo del privato-sociale?

Questi enti operano da anni, talvolta da decenni, nei quartieri che descrivono al pubblico, agli sponsor, ai visitatori presenti e potenziali. Essi parlano di diseguaglianze, analfabetismo, disoccupazione, violenza, in modo così accalorato da far sorgere spontanee alcune domande: le loro iniziative hanno influito in qualche modo su queste criticità? Hanno prodotto miglioramenti apprezzabili? E quali? E quindi: è possibile identificare dei parametri validi per misurare l’efficacia del loro intervento? Si tratta di domande cruciali, perché poi con il passare degli anni, nuovi bandi vengono indetti da fondazioni private e amministrazioni pubbliche, nuovi sponsor decidono di scendere in campo per sostenere l’intervento sociale e culturale, e allora gli enti del terzo settore progettano nuove iniziative e, per partecipare ai bandi o attirare gli sponsor, ripropongono le narrazioni di cinque, dieci, quindici anni prima: il quartiere ghetto, il degrado, la disgregazione sociale e così via… (p. 131)

Questo piccolo saggio andrebbe adottato nelle facoltà di sociologia (almeno a Napoli!) come strumento di conoscenza e agenda di lavoro. Perché questa è proprio l’epoca in cui si vanno ridimensionando, con sempre più decisione, le risorse e gli strumenti di intervento pubblico che dovrebbero garantire i livelli minimi di tenuta dei diritti costituzionali. Rossomando mette quindi il dito dentro un nodo tutto politico, doloroso e attualissimo, del nostro presente. Più in generale, al di là del quadro napoletano, questo libro parla del potente ciclo neoliberale, delle sue egemonie, delle sue prassi, della sua ideologia sempre più incombente: l’impresa si fa “sociale”, il capitalismo si fa “green”, lo Stato si fa “leggero”. Quello che persiste è la riduzione alla misura del profitto di ogni attività, speranza e aspettativa umana.

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Processi di ibridazione. Il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg https://www.carmillaonline.com/2025/02/21/processi-di-ibridazione-il-tema-del-doppio-nel-cinema-di-david-cronenberg/ Fri, 21 Feb 2025 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86250 di Gioacchino Toni

Tra inquietanti ibridazioni che toccano il corpo e la mente egli individui, sessualità inconsuete e indistinguibilità tra reale e visionario, a far capolino più volte nella filmografia cronenberghiana è anche il tema del doppio. Andrea Chimento e Camilla Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in Luca Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso (Mimesis, 2012), hanno proposto un’interessante analisi della presenza di tale tema nel cinema del canadese.

I due studiosi evidenziano come nella prima parte della filmografia di Cronenberg i protagonisti si trovino frequentemente ad [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra inquietanti ibridazioni che toccano il corpo e la mente egli individui, sessualità inconsuete e indistinguibilità tra reale e visionario, a far capolino più volte nella filmografia cronenberghiana è anche il tema del doppio. Andrea Chimento e Camilla Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in Luca Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso (Mimesis, 2012), hanno proposto un’interessante analisi della presenza di tale tema nel cinema del canadese.

I due studiosi evidenziano come nella prima parte della filmografia di Cronenberg i protagonisti si trovino frequentemente ad avere a che fare con i loro doppi orrorifici, «epifanizzazione concreta del male interiore» degli individui. Se il «tema del doppio-estrinsecazione del mostruoso che giace nell’inconscio di ciascuno», lo si ritrova tanto in Shivers (1975) quanto in Rabid (1977), è con Brood (1979) che si palesa più nettamente attraverso le creature partorite dalla protagonista che rappresentano tanto un’incarnazione del suo lato malevolo che una diabolica distorsione della figlioletta.

Con La mosca (1986) la riflessione sul doppio mostruoso in senso carnale si manifesta attraverso la figura ibrida di Brundlefly, essere dal corpo repellente che mantiene però un barlume di umanità. La tematica del doppio la si ritrova anche in Videodrome (1983) ed eXistenZ (1999), in cui i protagonisti si trovano a fare i conti con una fusione/sdoppiamento tra realtà e virtualità mediatica che se nel primo caso trova soluzione nell’omicidio dell’alter ego catodico e con esso nel suicidio dello steso protagonista, mentre nel secondo la liberazione del doppio pare potersi dare con la disconnessione all’esperienza ludica.

Un processo di duplicazione, in questo caso per via psicotropa, tocca anche il protagonista de Il pasto nudo (1991), alter ego di Burroughs, autore dell’omonimo romanzo: il doppio del protagonista è, come per gli altri film citati, una declinazione di sé stesso generata dal ricorso a sostanze stupefacenti dello scrittore che lo conduce a confondere la realtà con un mostruoso universo parallelo. Si tratta di uno sdoppiamento-potenziamento esclusivamente psichico, non dissimile da quello che caratterizza il protagonista di La zona morta (1983) che da placido e timido insegnante si risveglia dal coma causato da un incidente in un doppio di sé distorto e inquietante dotato di poteri preveggenti. Riprendendo la tematica dei poteri psichici già presente in Scanners (1981) e in Stereo (1969), Cronenberg mostra in questo caso come lo sdoppiamento mostruoso possa coinvolgere tanto il corpo quanto la mente del protagonista generando uno sdoppiamento della realtà.

Chimento e Maccaferri evidenziano come nella sua produzione più recente, il regista abbia invece fatto più volte riferimento al mascheramento di una reale natura mantenuta nascosta: in Spider (2002), ove lo schizofrenico protagonista cela a sé stesso un trauma infantile; in La promessa dell’assassino (2007), incentrato su un agente sotto corportura costretto a dotarsi di un’identità fittizia; nell’intrigo identitario presente in M. Butterfly (1993); in A History of Violence (2005), ove il personaggio principale vive la sua placida normalità celando la sua identità turbolenta che vorrebbe seppellita nel passato, costretto dagli eventi, per mantenere una qualche forma di accettabilità sociale, a rinunciare «a una condizione di completezza, dovendo rinnegare un aspetto, per quanto deplorevole, della propria personalità».

È con Inseparabili (1988) che Cronenberg affronta più direttamente la questione del doppio. La perversa unità idilliaca tra i due gemelli protagonisti del film, identici nell’aspetto ma dotati di personalità diverse, che si completano a vicenda, si infrange con la comparsa di una donna e con essa dell’innamoramento: la presenza di un terzo soggetto incrina i rapporti tra i due sino a sfociare in un omicidio-suicidio; insomma, l’uccisione del Doppio diventa il suicidio dell’Io. La sovrapposizione identitaria reciproca e complementare sulla quale si basa il rapporto dei due gemelli contempla lo sdoppiamento di una metà buona da una malvagia, oltre alla compenetrazione e alla fagocitazione dell’uno da parte dell’altro. I due protagonisti sono due individui distinti separati ma al tempo stesso sono la medesima persona tenuti, come sono, a compiere le medesime esperienze affinché queste siano da loro vissute come reali.

Un triangolo di personaggi è presente anche in Crash (1996), formato dal protagonista James Ballard – a cui il regista mette lo stesso nome dello scrittore del romanzo da cui ha tratto il film –, la moglie Catherine e Vaughan, che condivide con la coppia una perversa attrazione sessuale per gli incidenti stradali. Un triangolo che, come in Inseparabili, è destinato a frantumarsi tragicamente, in questo caso a causa dell’incidente-suicidio di Vaughan destinato però a lasciare traccia indelebile del suo immaginario perverso nella coppia di sposi. Il rapporto tra Ballard e Vaughan si rivela come quello di due identità in cui la più debole si lascia talmente influenzare dalla più forte al punto di ricalcarla. Un doppio, scrivono Chimento e Maccaferri, «basato sul rapporto maestro-allievo, senza che quest’ultimo rinneghi mai le idee del suo insegnante; l’opposto di quanto avviene invece in A Dangerous Method (2011) in cui l’allievo Jung sceglierà strade diverse rispetto a quelle proposte dal maestro Freud». L’unità che sembrava indissolubile tra i due si romperà inesorabilmente quando l’allevo sceglierà di analizzare la psiche umana in altro modo rispetto al maestro.

«A metà tra Inseparabili e Crash, A Dangerous Method diventa l’ultimo tassello di un discorso sul doppio da sempre presente nel cinema del regista» che, evidenziano Chimento e Maccaferri, non poteva trovare un’incarnazione migliore delle figure dei due analisti che hanno approfondito la tematica del doppio. Come è accaduto in Insperabili, il serrato legame tra i due uomini viene meno con la comparsa di una figura femminile che, nel trasformare il doppio in triade, lo frantuma. «In qualche modo, come per i gemelli Mantle, anche Freud e Jung si dividono una donna: non come amante comune, dal momento che Freud nutre per lei un interesse puramente professionale, ma come paziente e difensore delle idee di uno o dell’altro». Se l’allievo si separa dal maestro per esplorare nuovi territori, quest’ultimo vende nell’allontanamento di Jung una modalità di oscuramento della propria fama. «Il loro rapporto, più che assomigliare a un’unione gemellare, prende sempre più la forma di un legame paterno-filiale, laddove, per sconfiggere l’ombra di Edipo, con buona pace di Freud, il figlio è costretto a distruggere il padre».

Sebbene in maniera meno traumatica rispetto ai casi presenti in altri film di Cronenberg, Ineparabili su tutti, anche in questo caso il distacco netto dall’Io-doppio non permette alcuna riconciliazione: i due soggetti proseguiranno la loro esistenza come entità nettamente separate su trattorie incomunicanti. L’attrazione professionale che Freud provava per Jung, visto inizialmente come il riflesso di sé stesso da giovane, svanisce e distaccandosi dal riflesso finisce «per lasciare Narciso privo della sua immagine da rimirare». Per quanto divenuti ostili l’uno all’altro, commentano Chimento e Maccaferri, resteranno condannati ad essere frequentemente accostati negli studi psicanalitici. «Proprio come due gemelli, sempre citati insieme, come se non potessero essere vissuti come due entità distinte, morti l’uno accanto all’altro e per sempre inseparabili».


Processi di ibridazioneSerie completa

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Immaginare il comunismo, oggi. https://www.carmillaonline.com/2025/02/19/immaginare-il-comunismo-oggi/ Wed, 19 Feb 2025 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86929 di Sandro Moiso

Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, pp. 122, 5 euro

Continua con la presente pubblicazione l’opera meritoria delle Edizioni Porfido di traduzione, pubblicazione e proposta all’attenzione del pubblico italiano delle riflessioni condotte sulla rivista online «Endnotes», di cui in passato ci si era già occupati su Carmilla (qui). In questo caso nella medesima collana «I Sanpietrini – Un’idea più grande di noi», viene sottoposta all’attenzione del lettore un testo curato dal geografo comunista americano Phil A. Neel, che collabora frequentemente anche con [...]]]> di Sandro Moiso

Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, pp. 122, 5 euro

Continua con la presente pubblicazione l’opera meritoria delle Edizioni Porfido di traduzione, pubblicazione e proposta all’attenzione del pubblico italiano delle riflessioni condotte sulla rivista online «Endnotes», di cui in passato ci si era già occupati su Carmilla (qui). In questo caso nella medesima collana «I Sanpietrini – Un’idea più grande di noi», viene sottoposta all’attenzione del lettore un testo curato dal geografo comunista americano Phil A. Neel, che collabora frequentemente anche con la rivista «The Broklyn Rail» di Paul Mattick Jr., e da Nick Chavez, ingegnere meccanico residente negli Stati Uniti che scrive di ingegneria e comunismo sul blog designformanufracture.wordpress.com. Un testo, Forest and Factory. The Science and the Fiction of Communism, originariamente edito nel dicembre 2023 sulla medesima rivista online.

La sfida, quella di pensare oggi il comunismo in una società che sembra essere lontana come non mai da qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale e positivo e in cui sembrano potersi leggere soltanto segnali di rivolte acefale o distorte nelle loro finalità1, non è da poco. E, in effetti, c’è da chiedersi come potrebbe mai emergere una tale forma sociale dal pantano e dai vicoli ciechi in cui il capitale sembra aver definitivamente confinato l’umanità.

Soprattutto occorre rispondere a una fondamentale domanda, ovvero quale comunismo immaginare in un contesto in cui la stessa idea non è stata soltanto relegata in soffitta dalle politiche liberali o fasciste contemporanee e dai rimasugli di movimenti sociali dispersi, ma anche dalla sua fasulla realizzazione novecentesca, in cui spesso la sua idea si è confusa con le scelte controrivoluzionarie più spietate, come nell’URSS di Stalin o nella Cine che ancora oggi si richiama alla medesima idea attraverso il nome del partito (unico) al governo.

Eppure è una riflessione che da anni viene condotta dai militanti che ruotano intorno alla rivista americana Endnotes. Militanti rivoluzionari che si interrogano non solo sulla necessità, ma anche sulle forme materiali della sua realizzazione. Su quali possano essere le modalità attraverso cui declinare oggi, in un quadro di crisi ecologica, guerra permanente e crisi e competizione economica globale, una transizione verso una società senza classi, senza denaro e senza lavoro salariato.

Gli autori e i curatori del libello hanno ben presente che tale idea non può essere di carattere utopistico e non a caso in epigrafe è riprodotta una chiara asserzione in tal senso da Amadeo Bordiga nel lungo articolo, intitolato Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro, pubblicato nel giornale «Il programma comunista» nei numeri 16 e 17 del 1958.

L’errore dell’utopista sta nel trarre […] la trama della società futura non da una concatenazione di processi reali che legano il percorso precedente a noi a quello futuro, ma dalla propria testa, dal razionale umano e non dal reale naturale e sociale. L’utopista crede che il punto di arrivo del corso sociale debba essere contenuto nella vittoria di alcuni principi generali che sono insiti nello spirito umano.

Se così fosse, allora, basterebbe affidarsi a quella che oggi è definibile come cultura woke oppure alla fasulla transizione ecologica ispirata dal green deal per permettere all’umanità di fare un decisivo passo in aventi. Ma così non è e non potrebbe essere e, proprio per questo, fare i conti con la difficile realtà che ci circonda, le sue contraddizioni, le sue crepe e le possibilità che possono aprirsi a partire dalla stessa diventa il tema centrale della riflessione contenuta nel testo di Neel e Chavez. Così come si afferma nella postfazione al testo, datata settembre 2024:

La possibilità di costruire sulle ceneri del capitalismo un mondo di liberi e uguali sarà necessariamente stretta tra due argini: l’esigenza di garantire le condizioni materiali per vivere e quella di organizzare la vita su basi del tutto nuove, al di fuori di logiche di sfruttamento e oppressione. La rivoluzione potrà andare avanti solo se questi due argini rimarranno in piedi lungo tutto il suo corso, senza il primo non si potrà banalmente vivere, senza il secondo si ritornerà invece a farlo lungo il solco scavto in precedenza dal capitalismo2.

Sono i due argini all’interno di cui si muovono anche i due autori con il loro immaginario fantascientifico, ma che di fantastico ha ben poco se non nulla. E i cui cardini possono essere rappresentati proprio dai due termini già contenuti nel titolo: la foresta, come simbolo della natura, dell’ambiente e della varietà dei rapporti sociali necessari per la riproduzione della vita, e la fabbrica, simbolo della necessità di organizzare la produzione in modo consono al mantenimento della prima.

Occorre quindi immaginare le tecnologie, le scelte economico-ecologiche e politiche, intendendo la politica non come funzione dello Stato e delle sua rappresentanza più o meno democratica, ma come gestione e organizzazione della comunità. Umana e autonoma. Uno sforzo variamente e riccamente illustrato nell’opera da cui si trarranno, qui di seguito, alcuni esempi. Così:

il comunismo non costituirà una monocultura sociale. Come le vecchie forme di sussistenza agro-ecologica locale fornirono la base per una molteplicità di pratiche sociali differenti, allo stesso modo la nuova base produttiva planetaria genererà un’efflorescenza di diversi modi di vivere, completamente inediti. Il lungo processo di rovesciamento del capitalismo e di costruzione di un mondo comunista produrrà esso stesso, nel caos della transizione, un mosaico di nuove forme sociali […] Risulta quindi impossibile delineare una loro esatta configurazione, se non ipotizzando alcuni loro principi “in negativo” (assenza di dominio, mantenimento dei principi fondamentali dell’associazione volontaria, interdizione di pratiche ecologiche indebitamente distruttive, ecc.), che verrebbero assicurati dall’azione di istituzioni decisionali di più ampia scala3.

D’altra parte, come si sottolinea ancora nella Postfazione, la riflessione sulle caratteristiche che dovrà esprimere una società comunista dovrà tener conto della necessità di rivoluzionare la tecnica più che fare la rivoluzione con la tecnica. Oppure i limiti spaziali che la società umana futura dovrà sapersi dare per mantenersi in equilibrio con la Natura o, ancora, le forme dello scambio in cui non si tratterà di

ridurre l’attuale sistema dei prezzi ad una sorta di “valore lavoro” o “valore d’uso” assoluto incarnato dalla merce. Il comunismo costituisce l’annientamento del “valore”, quindi anche dei prezzi [tramite] “misure comuniste”, le quali: a) puntano ad un’immediata demercificazione, attraverso la distruzione del denaro, del sistema dei prezzi (compreso il baratto, che è una sorta di sistema di prezzi “zombie”) e dell’intero complesso dei mercati e della proprietà privata; e b) avviano la sperimentazione di pianificazione, di allocazione e di riconfigurazione tecnica, come mezzi di smantellamento del dominio sociale. […] La guerra civile difensiva che segue a qualsiasi insurrezione rivoluzionaria potrebbe così trionfare per davvero soltanto tramutandosi in una guerra sociale più ampia rivolta contro le relazioni di base che strutturano il mondo capitalista, cristallizzate in forme come il prezzo e la proprietà4.

Quindi non si tratterà soltanto di sostituire i “prezzi” con il “piano”, come a partire dall’URSS si è troppo spesso ragionato, lasciando così intatto il fondamento del capitalismo stesso. Soltanto in questo modo la parola Rivoluzione assumerebbe in pieno il suo significato di rovesciamento e ribaltamento totale dell’esistente.

Un testo dunque, quello qui proposto, che sfida troppi assunti di una teoria comunista che guarda ancora troppo agli errori del passato (ma erano davvero solo errori?) senza osare, come ha fatto spesso la migliore fantascienza, accettare la ben più reale sfida del futuro e del mondo nuovo da costruire.

Immaginare, quindi, una fantascienza del comunismo risulta stimolante non perché permette di visualizzare mondi stravaganti e fantasiosi, ma perché mostra come mondi fondamentalmente altri rispetto al nostro possano comunque emergere da questo cumulo di macerie lasciatoci in eredità. […] La questione, pertanto, non è come far funzionare il comunismo in sé, ma come restare comunisti in un frangente in cui le condizioni necessarie alla sua piena instaurazione risulteranno ancora fuori portata. Abbiamo cercato di dimostrare, al contempo, come non esistano vincoli tecnici tali da impedire una riconversione in chiave comunista del mondo attuale. Non è necessario che le “forze produttive” si sviluppino fino ad una “piena automazione” perché un ordine sociale comunista divenga possibile. La costruzione comunista potrebbe benissimo prendere le mosse oggi stesso, se solo esistesse la soggettività politica in grado di avviare tale processo5.


  1. Si veda in proposito: V. Bevins, Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 2024.  

  2. T.S., Postfazione. Inaggirabili possibilità in Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, p. 91.  

  3. P. A. Neel, N. Chavez, op. cit., p. 38.  

  4. Ibidem, pp. 56–57. 

  5. Ivi, pp. 84-85. 

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Storia della filosofia: una chiamata all’azione https://www.carmillaonline.com/2025/02/17/storia-della-filosofia-una-chiamata-allazione/ Sun, 16 Feb 2025 23:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86985 di Alessandro Villari

Alan Woods, Storia della filosofia. Una prospettiva marxista, AC Editoriale, Milano 2023, pp. 298, € 15,00.

“I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo”.

Nel testo della celeberrima undicesima delle Tesi su Feuerbach di Karl Marx si trova condensato il senso profondo del volume Storia della filosofia. Una prospettiva marxista scritto da Alan Woods, principale teorico e dirigente dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria, e recentemente pubblicato in italiano dalla casa editrice militante AC Editoriale. Come già il sottotitolo lascia intendere, non si tratta di un qualunque compendio della storia delle teorie filosofiche che si sono avvicendate [...]]]> di Alessandro Villari

Alan Woods, Storia della filosofia. Una prospettiva marxista, AC Editoriale, Milano 2023, pp. 298, € 15,00.

“I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo”.

Nel testo della celeberrima undicesima delle Tesi su Feuerbach di Karl Marx si trova condensato il senso profondo del volume Storia della filosofia. Una prospettiva marxista scritto da Alan Woods, principale teorico e dirigente dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria, e recentemente pubblicato in italiano dalla casa editrice militante AC Editoriale.
Come già il sottotitolo lascia intendere, non si tratta di un qualunque compendio della storia delle teorie filosofiche che si sono avvicendate dai presocratici ai giorni nostri, ma del tentativo esplicito di tracciare e seguire il percorso dialettico di quelle idee.
Come la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi, così la storia della filosofia, sia pure su un piano che non è sovrapponibile all’altro in modo meccanicistico, viene presentata come una incessante battaglia di idee che nella loro essenza sono riconducibili ai due campi fondamentali del materialismo e dell’idealismo, a loro volta attraversati da uno sviluppo storico e da correnti contrastanti.

Il testo di Alan Woods mette in luce come lo stesso sviluppo storico delle idee e del pensiero umano abbia avuto un movimento dialettico, in cui ogni teoria è in qualche modo debitrice di quelle che l’hanno preceduta e non è realmente comprensibile senza tenerne conto. Se nei testi accademici e scolastici, perlopiù concentrati nell’esposizione “empirica” delle varie teorie, questo movimento è normalmente trascurato e lasciato sullo sfondo, la finalità di questa Storia della filosofia è invece precisamente quella di rimetterlo in primo piano: è il percorso dialettico delle idee il vero protagonista dell’opera.
Si spiega con questo approccio – dichiarato fin dall’introduzione – la trattazione relativamente sintetica delle singole scuole filosofiche, di cui vengono esposti gli elementi salienti e, soprattutto, il loro rapporto reciproco.
Il richiamo alla Storia della filosofia di Hegel è evidente e riconosciuto, ma altrettanto evidente è la distanza dalla concezione idealista del grande filosofo tedesco, che del resto non è altro che la distanza che separa la dialettica hegeliana dal materialismo dialettico elaborato da Marx ed Engels.
Da un lato, nella Storia della filosofia di Woods uno spazio preminente è dato a quelle idee che in qualche modo anticipano e contengono in nuce gli sviluppi successivi, e in particolare quelle che prefigurano – fatta ovviamente la tara del livello completamente diverso di conoscenze scientifiche e strumenti tecnologici – il futuro materialismo dialettico, ne costituiscono una sorta di albero genealogico. Da Eraclito alla scuola di Epicuro e poi di Lucrezio – autori alla cui concezione materialista dell’universo risale, se mi è consentita una piccola digressione personale, la mia “conversione” all’ateismo all’epoca del liceo – fino all’idealismo oggettivo nella teorizzazione di Spinoza e di Leibniz.
Dall’altro lato, è costantemente rimarcato nel testo il nesso tra lo sviluppo delle idee e quello della società nel suo complesso, delle conoscenze scientifiche, delle tecnologie e – ultimo ma non ultimo – dei rapporti di produzione.
Ecco perché nell’opera un’importanza centrale è attribuita alla rivoluzione tecnologica e scientifica dell’età rinascimentale, che segna l’avvio della storia moderna della filosofia a partire dalle scoperte nel campo dell’astronomia, antecedente storico e materiale necessario per la nascita di tutte le teorie filosofiche moderne, dal materialismo meccanicista degli empiristi britannici all’idealismo oggettivo di Cartesio, Spinoza e Leibniz, fino al vicolo cieco rappresentato dalla teoria della conoscenza kantiana.
Dopo il passaggio rivoluzionario della filosofia hegeliana, l’ultima tappa del “viaggio” attraverso la storia della filosofia è rappresentata dal materialismo storico e dialettico che costituisce il nucleo del marxismo.
La teorizzazione di Marx ed Engels, spiegata attraverso la disamina delle Tesi su Feuerbach, conclude non solo il volume, ma in un certo senso la stessa storia della filosofia per come era stata concepita fino ad allora.
Con il marxismo, infatti, la filosofia si sposta dal mondo della speculazione a quello della prassi, della trasformazione di una realtà conoscibile in quanto modificabile dall’azione cosciente degli uomini. Nell’affermazione, con l’undicesima tesi, che i filosofi devono ora trasformare il mondo, avviene il passaggio definitivo e senza ritorno dalla battaglia confinata al mondo delle idee a quella per la trasformazione rivoluzionaria della realtà intesa come realtà sociale, necessariamente collettiva. Da questo momento, la sola filosofia che possa avere un senso è quella che costituisce strumento della lotta per il cambiamento materiale della società.

Coerentemente con questa tesi, non c’è nessun capitolo ulteriore nella Storia della filosofia di Alan Woods: a conti fatti, tutto quello che è stato detto dopo Marx è stato detto essenzialmente per contrastare questa idea e soprattutto per contrastare l’idea della necessità di un cambiamento rivoluzionario della società. Ed è per questo che in tutte le teorie che si propongono di “superare Marx” non c’è nemmeno un concetto che non appartenga alla filosofia precedente, e che non sia già stato superato dallo sviluppo storico del pensiero. In particolare la filosofia postmodernista, che costituisce dichiaratamente il principale bersaglio polemico dell’autore, non è altro che una versione rimasticata e semmai meno onesta del vecchio idealismo soggettivo di Berkeley.
L’unico sviluppo possibile dopo la scoperta del materialismo dialettico è l’azione rivoluzionaria: dopo l’undicesima tesi su Feuerbach comincia idealmente il Manifesto del Partito comunista.
In questo risiede l’attualità dell’opera di Alan Woods e la sua importanza in un’epoca in cui le contraddizioni del mondo reale e, soprattutto, la necessità di una sua trasformazione radicale, appaiono sempre più chiare non solo a una piccola avanguardia di militanti, ma a uno strato sempre più ampio di giovani: il libro si rivolge principalmente a costoro, ma l’ottimismo di fondo che lo ispira – e che è una caratteristica essenziale del marxismo – sarà una ventata di aria fresca anche per tutti gli altri lettori.

[Una presentazione del libro, organizzata dalla sezione italiana dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria, si terrà all’Università degli Studi di Milano il 20 febbraio alle 15.30.]

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Nei boschi e(s)terni https://www.carmillaonline.com/2025/02/15/nei-boschi-esterni/ Sat, 15 Feb 2025 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86991 di Franco Pezzini

Gerardo Spirito, Madreselva, pp. 432, € 18, Moscabianca, Roma 2025.

Lucrezia Pei e Ornella Soncini, Nella verde gola delle lupe, illustrazioni di Marco Calvi, pp. 112, € 12, Moscabianca, Roma 2024.

In Italia come in altre parti del mondo, per secoli e anzi millenni il bosco – o la foresta, magari – è stato una realtà concreta e un polo simbolico di confronto continuo con l’uomo, solo o stretto in villaggi. Oggi continua a esserlo per chi viva all’esterno di grandi città specie in prossimità delle montagne: in Italia Alpi e Appennini conservano situazioni antiche, e la letteratura [...]]]> di Franco Pezzini

Gerardo Spirito, Madreselva, pp. 432, € 18, Moscabianca, Roma 2025.

Lucrezia Pei e Ornella Soncini, Nella verde gola delle lupe, illustrazioni di Marco Calvi, pp. 112, € 12, Moscabianca, Roma 2024.

In Italia come in altre parti del mondo, per secoli e anzi millenni il bosco – o la foresta, magari – è stato una realtà concreta e un polo simbolico di confronto continuo con l’uomo, solo o stretto in villaggi. Oggi continua a esserlo per chi viva all’esterno di grandi città specie in prossimità delle montagne: in Italia Alpi e Appennini conservano situazioni antiche, e la letteratura è pronta a valorizzarle non solo in un amarcord silvopastorale caro ai vecchi, ma scavando nelle ricchezze di un certo orizzonte immaginale.

Dal ricco catalogo di un piccolo editore di pregio come Moscabianca sarà interessante dunque recuperare due titoli che a un simile contesto ci conducono: a partire dall’appena uscito Madreselva di Gerardo Spirito. Già autore de Il libro nero della fame (Moscabianca, 2022) e fondatore della rivista “Calvario”, l’autore offre qui una prova narrativa molto interessante, nel segno di un fantastico inteso (non tanto come contenuto specifico, ma piuttosto) come modo di sentire e narrare.

Diciamolo subito, il titolo gioca su un paradosso: per la gente che vaga alla deriva nei boschi descritti – le storie sono legate a comunità di un’Italia appenninica in un vago meridione (viene da pensare a certi Abruzzi estremi di racconti dannunziani) – o sopravvive in borghi più o meno abbrutiti – ne viene descritto soprattutto uno – più che madre la selva è spinosa matrigna. Come la montagna descritta, sorta di divinità assorta e spietata di un orizzonte selvatico mitico-magico in cui mistica cristiana e pagana si mescidano continuamente: c’è molta religio – in tutto il ventaglio dei significati etimologici, dalle preghiere assorte alle superstizioni, dalla vendita ambulante di testi sacri alla “storia popolare del mondo” da Bibbia dei poveri di Carlo Lapucci – ma sembra sciabordare in dimensioni a tratti persino più primitive di quelle analizzate da de Martino. Il tranquillizzante pragmatismo magico che in tante comunità arcaiche rende possibile il confronto quotidiano con le istanze estreme della natura qui è ridotto al minimo: le ossessioni del singolo (un padre che venera la pietra tombale di un figlio morto troppo presto, un altro morente che vuol farsi tumulare presso un albero sacro) prevalgono su “regole” comunitarie intoccate per millenni a tutela degli umani, come a iniettare nelle letargie di un mondo immobile la variabile impazzita della certezza sciamanica o della degradazione patologica – e guaritrici e santedonne fan quel che possono. Catabasi in caverne, carbonaie, alberi cavi e romitaggi, transumanze sacre, benevolenze limitate e conclamate brutalità scandiscono le vite di figure anomale persino in simili contesti estremi: una povera ragazza di aspetto sgradevole umiliata e linciata, un bambino perduto – come in fondo già tutti i suoi affetti –, persone alla deriva di malattie misteriose, preti smarriti…

Quasi stranianti risultano dunque le miti preghiere di mattino, sera e notte di “Ma’ Cristiana, anziana vergine romita”, a incorniciare l’insieme come un pietoso officio religioso: anzi volutamente stranianti, perché nonostante il nostro istinto ad applicare a quanto pare assurdo criteri e valutazioni moderne, brutalità e atrocità descritte restano antropologicamente altre.

Il contesto narrativo pare modulato oralmente, con tutte le necessità d’inchiodare un ascoltatore (idealmente accanto al fuoco) all’inesorabilità di convinzioni e all’etica crudele di un mondo remoto e miserrimo, tra vertigini ctonie e indifferenza cosmica, rutti sghignazzi imprecazioni: e la struttura stessa evidenziata dall’indice finale ma scandita di continui richiami interni rende difficile definire formalmente l’opera come “Raccolta di racconti” come sul sito – semmai di storie diverse, all’interno di una originalissima narrazione unitaria dove tutto si tiene. Il registro estremo che porge l’insieme non sversa però mai in un eccesso grottesco, i dialoghi sono gestiti con mano salda, la voce narrante si mantiene sapientemente asciutta e la stessa scelta di rifiutare mimesi dialettali – come Spirito poteva essere tentato di fare – a favore di un italiano sobrio risponde a una consapevolezza autorale apprezzabile.

Boschi del tutto diversi e voce differente troviamo nello scintillante romanzo breve dell’anno scorso Nella verde gola delle lupe dell’affiatato duo Lucrezia Pei e Ornella Soncini (a volte, non qui, reso con l’attribuzione unitaria Sonpei), attive su vari fronti dell’editoria e autrici di narrazioni – spesso brevi – di carattere più o meno fantastico, dove (riporto dalla nota bio) “esplorano l’universo femminile, le questioni di genere e il rapporto col mondo naturale”. Sostenuta dalle meravigliose tavole d’illustrazione di Marco Calvi, la storia distopica, amara ma temperata di grazia si ambienta in un Cinquecento alternativo; e narra della piccola Ana, ragazzina ribelle e curiosissima e della comunità matriarcale cui appartiene – mamme, nonne, ave, zie, ragazze, bambine – isolatasi in un mondo riparato, a celebrare il culto di Nostradonna. Il bosco nuovamente demarca, vela, oscura: mai superare un certo tiglio, pena l’incontro con gli esseribestia. Ma il fragile equilibrio con cui la comunità ha tentato di smarcarsi da un patriarcato divorante, e che vede intessere complesse strategie di rapporti con l’altro sesso attraverso pratiche ritualizzate di accoppiamento e riproduzione sul confine tra i due mondi, dovrà confrontarsi con una drammatica crisi. Di più sarebbe peccato anticipare: ma almeno due note chiave vanno sottolineate.

La prima sui contenuti. Alla base della storia comunitaria si rammemora la storia di una giovane santa che nel profondo della foresta ha domato un enorme lupo nero, aggiogandolo poi con la cintura. Chi frequenti un po’ l’immaginario arcaico nota le ibridazioni (Francesco e il lupo, Marta e la Tarasque…), il gioco di archetipi (in particolare il lupo, la cui ombra si declina qui in tante forme diverse e con mille echi, al femminile e al maschile), le dimensioni di iniziazione tribale, reinventati e giocati con estrema fluidità e intelligenza nel testo. La cui storia è senz’altro originale ma ne allude e ne richiama sapientemente mille altre come in un gioco di ombre, a circonfondere il tutto di un’aura mitica. E di estremo interesse è la dinamica generazionale evocata, con le sue crisi, i giudizi, le ribellioni, le violenze: la vicenda non presenta semplificazioni o scorciatoie, postula la complessità come chiave di analisi in una Storia dove poi è giusto schiararsi.

La seconda riguarda la forma. Nel testo troviamo una scrittura elegante, di passo letterario e lievemente anticata, che non si esaurisce mai nel registro “di servizio” tanto diffuso per esempio in certo fantasy popolare di buoni sentimenti (mentre qui una certa complessità allusiva e talora ellittica costringe a leggere con attenzione), con una resa a tocchi sobri quanto efficaci delle psicologie di figure di diversa età e un’ottima qualità di affresco collettivo. Anche la soluzione di concentrare nel tempo di un anno la storia interessa la sua struttura formale e insieme echeggia il senso delle stagioni sotteso ai tempi propri delle donne coinvolte (l’anzianità, il momento degli accoppiamenti, le gravidanze…). Ma forse in questo tempo esemplare, quest’anno critico dei giorni nostri, ci troviamo tutti: e in questi boschi, esterni ai rapporti tessuti nelle nostre vite, luoghi dell’Altrove e del nascondimento, dei limiti e dei confini ultimi di ciò che siamo, andiamo brancolando anche noi.

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Nemica strana https://www.carmillaonline.com/2025/02/14/nemica-strana/ Fri, 14 Feb 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86956 di Giorgio Bona

Remo Bassini, Bastardo Posto, pp. 151, € 15,90, Golem, Torino 2025.

Piccola città bastardo posto sono parole di una celebre canzone di Francesco Guccini (dall’album Radici, ottobre 1972, Columbia) con chiaro riferimento a Modena, piccola città di provincia, “nemica strana”, dove ogni aspettativa è vana e la speranza di realizzarle è praticamente nulla.

Nascere in provincia può rappresentare una disgrazia, una maledizione, il portare addosso una mentalità piccolo borghese che lascerà per sempre un segno indelebile, provocando una disaffezione legata all’ambiente chiuso e al suo orizzonte bigotto?

Guccini scoperchia nelle parole di una canzone i turbamenti e gli [...]]]> di Giorgio Bona

Remo Bassini, Bastardo Posto, pp. 151, € 15,90, Golem, Torino 2025.

Piccola città bastardo posto sono parole di una celebre canzone di Francesco Guccini (dall’album Radici, ottobre 1972, Columbia) con chiaro riferimento a Modena, piccola città di provincia, “nemica strana”, dove ogni aspettativa è vana e la speranza di realizzarle è praticamente nulla.

Nascere in provincia può rappresentare una disgrazia, una maledizione, il portare addosso una mentalità piccolo borghese che lascerà per sempre un segno indelebile, provocando una disaffezione legata all’ambiente chiuso e al suo orizzonte bigotto?

Guccini scoperchia nelle parole di una canzone i turbamenti e gli orizzonti evocati dentro un sogno tra la Via Emilia e il West.

Bastardo Posto. Una piccola città di provincia. Un libro di Remo Bassini. Il titolo del romanzo, qui riproposto in versione riveduta e corretta (rispetto alla prima per Perdisa Pop, 2010) ha qualche assonanza con la canzone, una pietra miliare di quei formidabili anni. È la città di provincia un bastardo posto? Rancoroso? Pieno di risentimento?

Certo c’è un oscuro malessere che attraversa il libro, l’oscuro malessere della provincia italiana in eterno ritorno letterario e in fondo così ben raccontata, un bastardo posto urlato a gran voce, perché Remo Bassini scava nel corpo malato di una terra, quel corpo che ogni tanto affiora in superficie come un cadavere spurgante putridume che non vorremmo mai percepire e che facciamo finta di non vedere. Una realtà tenuta sottocoperta, che si ha quasi paura di narrare.

Un dolore nudo e crudo traspare tra le pagine di questo romanzo, senza scuse, appigli, ricerca di giustificazioni, un dolore che si tocca quasi con mano, che diventa un’ossessione, dove il protagonista cerca lo sfinimento per crollare trovandosi in pace.

Pensieri turbolenti, testa in fiamme. Due pacchetti di Muratti consumati giorno e notte. Fantasmi.

Chi è quel personaggio che si trova sotto i portici di una città di provincia, una città né piccola né grande, davanti a una vetrina dove c’è un manichino? Gesti nervosi, tremanti, sguardo fisso, quasi allucinato. È il protagonista, Paolo Limara, che vaga senza meta convivendo con il suo grande dolore: un lutto da portare per la scomparsa della sua Marina, un lutto che non si spegne, un dolore che non vuol tacere.

Paolo Limara davanti a quel manichino è come se fosse dentro uno specchio. Quel manichino è mutilato, solo, fermo dentro un negozio vuoto che nessuno si è sognato di riempire, a dargli un’identità. La sua identità è in quel manichino, sotto quei portici dove trascorre notti insonni mentre le crepe delle vecchie mura lasciano trapelare qualcosa.

Paolo Limara è stato un giornalista con una carriera in ascesa prima di incontrare Marina. Già vicedirettore de “La Civetta” quotidiano fondato nel dopoguerra da un gruppo di borghesi illuminati, alcuni liberali e altri socialisti, vicini al Partito d’Azione, tra cui il padre di Paolo: il nome del giornale era stato scelto in ricordo di una giovane staffetta partigiana, Maria Paola, violentata e poi impiccata dai fascisti a una trave della sala d’aspetto della stazione.

E con Paolo Limara Remo Bassini dà vita ad altri personaggi che completano il mosaico di questa storia: Tuddìa, figura controversa e misteriosa sul quale circolano strane voci, Viola Rodesi, ex proprietaria del negozio di abbigliamento dove si trova il manichino, un ambiguo funzionario ministeriale e ancor più equivoci commissari di polizia legati da un filo del male che alla fine del romanzo verrà rivelato soltanto in parte.

Bastardo posto. Il rancore trattenuto contro la perfidia dei potenti e contro il male oscuro. Le infiltrazioni mafiose,  l’omertà quando si parla di clero e di pedofilia, la stampa che è lacchè del potere, la corruzione imperante, sono senza pudore visibili agli occhi di tutti.

L’impressione è dunque che Remo Bassini dedichi un romanzo di denuncia a tutte quelle persone di un qualunque bastardo posto che, pur non essendo coinvolte nelle sue brutture, ne restano allo stesso tempo consapevoli e indifferenti. Dunque in qualche modo complici, a rendere ognuno di loro un perdente.

Paolo Limara è un uomo in perenne conflitto dopo il lutto che non riesce a metabolizzare, con poco spirito di reazione e privo del coraggio di affrontare la situazione piombatagli addosso, anche se cade e si rialza senza mai affondare. Questa in fondo è la sua salvezza, tale che non fa di lui un eroe.

Ecco, Franco Limara è una persona normale, ben inquadrato nel contesto di questa città di provincia, un Bastardo posto.

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