Recensioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Feb 2025 21:00:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quale spazio oggi per il fascismo? https://www.carmillaonline.com/2025/01/31/quale-spazio-oggi-per-il-fascismo/ Thu, 30 Jan 2025 23:10:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86699 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen; Fasciocapitalismo; Edizioni Malamente; Urbino 2024; 119 pp. 12€

Se il fascismo esista ancora oppure no è un leitmotiv dei dibattiti accademici e mediatici più ricorrenti. Una discussione annosa che ha finito per non aver capo né coda, preda degli sciacallaggi di commentatori bipartisan. Eppure rimane un tema di importanza cruciale per almeno due motivi: da un lato c’è la crescita esponenziale di formazioni che più o meno apertamente si richiamano al discorso fascista, ormai non di rado giunte in posizione di governo; dall’altro abbiamo l’emersione, potente e periodica, di sentimenti antifascisti che si [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen; Fasciocapitalismo; Edizioni Malamente; Urbino 2024; 119 pp. 12€

Se il fascismo esista ancora oppure no è un leitmotiv dei dibattiti accademici e mediatici più ricorrenti. Una discussione annosa che ha finito per non aver capo né coda, preda degli sciacallaggi di commentatori bipartisan.
Eppure rimane un tema di importanza cruciale per almeno due motivi: da un lato c’è la crescita esponenziale di formazioni che più o meno apertamente si richiamano al discorso fascista, ormai non di rado giunte in posizione di governo; dall’altro abbiamo l’emersione, potente e periodica, di sentimenti antifascisti che si riattivano alle provocazioni più reazionarie.

Il fascismo è, in sostanza, qualcosa che al tramonto del liberalismo riesce a smuovere le acque stagnanti delle (post?)democrazie occidentali. Un moto perpetuo che però agita la superficie senza davvero andare a fondo, a incidere sul flusso degli eventi. È il segno più evidente di un ginepraio di guerre culturali che si sono fatte senso della politica in un frangente in cui la Politica (con la “P” maiuscola) è andata a farsi fottere.

Non è un caso se tra formazioni e personaggi che a primo acchito finiscono sotto l’etichetta di fascisti possiamo trovare delle costanti (xenofobia, misoginia, conservatorismo retrivo e retorica paranoide tra tutti) ma non riusciamo mai darne una definizione coerente e lineare. Anzi, stessi segmenti di discorso li troviamo non di rado in contrapposizione (che in realtà è competizione per il consenso elettorale) e allora emerge l’intramontabile e ormai altrettanto fumoso termine di rossobruno.
Ancor di più è un campo troppo vago quello dell’antifascismo come categoria politica in grado di produrre saldature sociali: è un tema in grado smuovere l’opinione pubblica e di far convergere istanze radicali e giochi di potere liberali, ma con il ricorrente risultato di dare repressione alle prime e ossigeno per restare a galla un giorno in più ai secondi.

Questo perché nel gioco della democrazia liberale l’antifascismo da pratica si è fatto valore morale rientrando negli strumenti discorsivi di una metà della classe dirigente e, in quanto tale, è diventato bersaglio delle crociate culturali della nuova destra impegnata nello smantellamento feroce di ogni tabù che le si ponga come argine. Nel paradossale discorso destrorso l’antifascismo non è una difesa delle libertà e di una parvenza d’egualitarismo, ma un’ipoteca sul diritto d’espressione, il diritto di dire qualsiasi bestialità, di renderla apprezzabile e farne programma politico.
E d’altro canto è proprio una certa spocchia elitaria dei liberali ad aver alimentato una disaffezione non solo dall’antifascismo, ma da un immaginario progressista tout court. Abbandonando ogni velleità di cambiamento per farsi araldi dello status quo, hanno inseguito elettoralmente i competitor di destra sul piano delle politiche con l’illusione di poter mantenere una qualche forma di egemonia culturale slegata da qualsiasi legame sociale. Questa conversione della sinistra in sacerdotessa del liberalismo, incapace di imporre alcuna direzione alternativa, è la prima responsabile della piega involutiva d’Occidente.

Rasmussen ha ragione nel dire che non è possibile interpretare il fascismo se non nella sua osmosi alla democrazia del tardocapitalismo, che l’idea di fascismo come sinonimo di ignoranza è demenziale oltre che classista, che è difficile negare i fili neri della storia quando si parla serenamente in TV di deportazioni e si rendono off-limits pezzi di città a determinate categorie sociali. Né si può negare la continuità tra una dimensione sotterranea dell’estrema destra più militante come laboratorio di pensiero e le agende della destra di governo, sempre più difficile da definire moderata.

Sbaglia però nel pensare che ad esso si possa o debba contrapporre un efficace antifascismo, replicando così lo schema delle guerre culturali da cui vorrebbe smarcarsi.
Se giustamente il fascismo non è una variabile ma un frammento congenito della forma politica del presente allora è l’equazione che bisogna invertire: è questa democrazia formale e vuota di senso, scudo dei peggiori squali, ad essere il problema reale.
L’unica dimensione realmente democratica che l’Occidente abbia mai avuto è stata quella del conflitto tra classi avverse rispettivamente organizzate per farsi valere sulla scena.
L’equilibrio di compromesso che fugava lo spettro delle guerre civili e che abbiamo chiamato stato sociale, fondato sulla costante dialettica del rapporto di forza (e a volerla dir tutta sull’ombra sovietica), poteva essere definito Democrazia; la classe media ipertrofica con il suo accesso al consumo ne è stato il risultato, il segno distintivo e infine l’illusione tradita.

Aime Cesaire, in un brevissimo passaggio del suo “Discorso sul colonialismo”, offre un’intuizione illuminante: l’Occidente non ha condannato il fascismo per il suo orrore intrinseco (anzi, a ben vedere ai suoi esordi esso riscuoteva un discreto successo nelle cancellerie europee) ma per il suo aver portato tra la Civiltà dei bianchi ciò che era riservato alle colonie.
Il mondo del capitale, iniziato con l’esproprio e l’assoggettamento delle popolazioni europee ha fatto il suo salto di qualità andando a violentare e conquistare il resto del globo, a aprire le meraviglie del mercato grazie a corpi neri incatenati, corpi gialli piagati, corpi bianchi indesiderati spediti a forza a migliaia di chilometri da casa per dissodare terreni e crepare nella preparazione di nuovi territori. Per finire ha riportato nel suo ventre le lezioni apprese in giro per il mondo, come strumenti di contenimento e ristrutturazione.
E lì son rimaste anche dopo la loro fine storica e formale, come tutti gli altri elementi di cui il capitalismo si è nutrito e che ha integrato nella sua marcia trionfale.

Tutto il razzismo e la violenza del fascismo storico si sono abbeverati a un secolare fiume di sangue, passando per la truce esperienza della Guerra delle trincee. Quello tra le due guerre è stato un tentativo politico fondato sul primato della Nazione e sulla mobilitazione di identità durissime quali quelle del reducismo. La restaurazione di un ordine mitico fu il contraltare della costruzione di nuove forme di statualità in competizione con l’assalto al cielo del socialismo bolscevico.
Tutto questo manca oggi al cosiddetto fasciocapitalismo, la cui unica promessa è la resurrezione posticcia dell’illusione borghese di un tranquillo e ordinato mondo capitalistico-patriarcale.
Non c’è alcuna mitologia, alcuna patria, non c’è nemmeno una massa da mobilitare: abbiamo leader politici che berciano come televenditori, che vendono paure invece che tappeti e si rivolgono a pubblici di follower il cui livore si consuma nella sezione commenti di una diretta e solo occasionalmente investe le piazze.

La stessa osmosi tra le formazioni estreme e quelle di governo si consuma sul piano di una guerra culturale: l’ideologia del decoro, il razzismo di stato, l’attacco all’aborto e alle politiche d’inclusione non sono che tentativi di pasticciare il volto della realtà a propria immagine, nascondendo l’incapacità politica, nonchè l’impossibilità strategica, di mettere in piedi un autentico progetto forte di Stato nazionalista.
Semplicemente, il sogno tardofascista non è possibile, perché (con forse la sola eccezione degli USA di Trump) non c’è uno Stato che sia in grado di esercitare una reale sovranità fuori da vincoli economici sovranazionali e macroattori privati, né c’è una massa disposta al sacrificio della disciplina patriottica; la classe media vuole consumare in santa pace e fanculo il resto.
Lo stesso contrasto dell’immigrazione, oggi alimentato da scene ignobili di deportazione e catene non fa che rivelarsi una squallida truffa: rendere sadicamente impossibile la vita agli ultimi della scala sociale rende indispensabile poi prepararsi a dover mandare i propri stessi elettori a lavorare i campi per paghe da fame.

Il programma del fascismo tardocapitalista si riduce in sostanza alla gestione, fortemente ideologizzata, di una sacca ridotta del potere statuale.
Ma non vi è traccia in esso della capacità (o della volontà) di determinare un diverso corso delle cose. Non vi è dubbio che sulla scena operino ormai apertamente forze di matrice fascista, e non vi è dubbio che ad esse debba essere contrapposta una pratica di difesa; ma non possiamo assolutizzarne la parabola e interpretare il presente come una forma aggiornata di qualcosa visto già all’opera in altre temperie.
L’integrazione di meccanismi generati dai laboratori fascisti all’interno del funzionamento del Capitalismo (che non è novità dell’ultimo minuto ma percorso pluridecennale) non fa di esso Fascismo. Piuttosto è maggiore la visibilità di questi suoi tratti data l’attuale fase di competizione furiosa per le risorse e il mantenimento dell’egemonia, nell’insorgere di inedite forme di potere legittimate dalla capacità tecnologico-finanziaria piuttosto che dalla volontà popolare, che ci presentano ora il volto nuovo di una realtà nuova e ci impongono la necessità di nomi e parole adatte.
Si, c’è del fascismo tra i dispositivi del tardocapitalismo, ma non sarà l’antifascismo a salvarci. E forse, non è nemmeno questa democrazia che merita di essere salvata.

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We are not robots – “L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata” https://www.carmillaonline.com/2025/01/28/we-are-not-robots-lunica-tecnologia-che-amiamo-e-quella-dirottata-e-riappropriata/ Tue, 28 Jan 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86465 di Gioacchino Toni

Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00

Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un [...]]]> di Gioacchino Toni

Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00

Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un forte approccio comunitario ed emancipante nei confronti della tecnologia».

È a partire dalla sperimentazione e condivisione mutualistica di competenze e attitudini maturate in tali ambienti che Fant e Milani, e con loro il Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (CIRCE), hanno iniziato a discutere di “pedagogia hacker”.

L’illusione con cui in tanti avevano accolto gli strumenti digitali come liberatori dell’umanità (categoria assai vasta) senza dirsi esplicitamente da quali vincoli (da chi/cosa) ha in molti lasciato il posto al disincanto: «la solitudine dilaga, ci si sente in continua competizione, impotenti, agiti» tanto sul lavoro quanto nei contesti che si vorrebbero extra-lavorativi (distinzione che è sempre più difficile fare nell’epoca del capitalismo digitale che ha saputo estendere a dismisura la produttività quotidiana pagandone una minima parte), mentre nel frattempo si muovono rimproveri trasudanti ipocrisia nei confronti dei più giovani, incapaci di staccarsi dall’universo digitale dello smartphone.

Davide Fant e Carlo Milani, come raccontano in Pedagogia hacker (elèuthera, 2024), a partire dalle esperienze laboratoriali attivate negli ultimi anni, hanno inteso «rispondere all’urgenza di un’educazione sui temi del digitale che ponga al centro le relazioni fra persone e tecnologie» al fine di «sviluppare un metodo che produca spazi liberati, dalla produttività forzata, dall’efficienza necessaria, in cui si incontrano la tecnologia e l’organico, i corpi umani e gli apparecchi elettronici, la politica e il codice sorgente, la poesia e la fantascienza speculativa; in cui si possano assumere le nostre vulnerabilità e alimentare la capacità di immaginare». Si tratta pertanto di una pedagogia volta a individuare e proporre «tecnologie appropriate non solo perché adeguate, ma perché proprie, riappropriate da noi».

L’attitudine hacker – rivolta, oltre ai computer, a «qualsiasi sistema tecnico di interazione, a qualunque apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altro modo» – viene riassunta dagli autori come: approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia; desacralizzazione della tecnica; apprendimento come piacere; apprendimento come frutto della ricerca e della esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali; dimensione sociale del sapere e conoscenza come bene collettivo.

Se, come mostrano le esperienze laboratoriali, per i bambini è più immediato attivare e costruire attitudine hacker, per gli adulti si tratta di riattivare l’arte del fai da te, dell’arrangiarsi, del riciclare e re-inventare attività comuni soffocate dai meccanismi abitudinari dettati dal consumismo e dal produttivismo economico. Si tratta di riscoprire il lato puramente ludico del rapporto con le tecnologie sfuggendo alla sua “messa a profitto” (gamificazione): «ci si fa hacker e si gioca per liberare il gioco, per recuperarne la dimensione visionaria e rivoluzionaria, per riscoprire la sua caratteristica imprescindibile di atto libero, aperto, creatore, caratteristica propria dell’umano come lo definiva già lo storico e filosofo Johan Huizinga alla fine degli anni Trenta».

Gli autori si dicono convinti della possibilità di costruire, insieme, «macchine conviviali, create per alleviare le fatiche e per il piacere di vivere bene insieme, nella meraviglia della continua scoperta del poter fare tecnico; macchine molto diverse dalle macchine industriali, create per l’estensione del dominio, per lo sfruttamento del mondo tramite il dominio sulla materia».

Scrivono Fant e Milani che, alla base di ogni pedagogia emancipante, «sta il porsi domande, chiedersi: Perché? Come funziona? Deve essere per forza così? Un atteggiamento tipico dei bambini (e dei visionari)», oltre che degli hacker.

La ricerca di uno spazio alternativo per le tecnologie, sostengono gli autori, deve ripartire dal corpo. È necessario «arginare la spinta delle troppe macchine al servizio dell’ansia di dominio, impazienti di renderci automi automatizzati e prevedibili». Facendo riferimento anche, ma non solo,  all’intelligenza artificiale, se ci si preoccupa del fatto che le macchine si stanno facendo “troppo umane”, non di meno occorrerebbe guardarsi anche dal fatto che queste contribuiscono a diffondere modelli di interazione e comportamento che appiattiscono gli esseri umani.

Da tutto ciò deriva la necessità di sviluppare un’attitudine hacker capace di spingere «ad assumere una posizione attiva per inventare qualcosa di nuovo fuori dagli schemi, a sperimentare, a rischiare la carta della creatività personale e collettiva». Tutto ciò, sottolineano Fant e Milani, occorre sperimentarlo collettivamente impegnandosi a costruire nuovi ambienti relazionali. Il volume racconta come e cosa è stato sperimentato in questi anni nei laboratori del gruppo CIRCE senza ambire a farsi modello da replicare, nella piena consapevolezza che si possono sperimentare altre modalità anch’esse mosse dalle medesime finalità di liberazione individuale/collettiva.


We are not robots – serie completa

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Strappare la gioia al futuro https://www.carmillaonline.com/2025/01/23/strappare-la-gioia-al-futuro/ Thu, 23 Jan 2025 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86527 di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti [...]]]> di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti mediati dalla cronaca di qualche telegiornale se non ricostruiti verosimilmente in fiction per il pubblico pagante, ma sempre tenuti a debita distanza dall’esercizio della critica o dalla presa di coscienza. Insomma il romanzo o smuove le acque della cultura borghese oppure è letteratura inoffensiva, innocua, che non lascia il segno.

Quindi, il romanzo noir come un “grimaldello” ma anche come un dispositivo. Con Gilles Deleuze e Félix Guattari che rileggono Franz Kafka, l’opera letteraria apre molteplici accessi che offrono l’ingresso nella Storia dei subalterni, degli indesiderati, dei “dannati della terra”. Per ciò un romanzo noir insegna giocoforza a “odiare ogni letteratura dei padroni” e prova attrazione per gli ultimi, “i servi e gli impiegati” di Kafka, o altrimenti i reietti, gli “anormali” della società secondo Foucault, gli individui da correggere e destinati alla esclusione, all’esilio, al carcere, alle periferie. Che in realtà sono le zone d’ombra del potere e del capitale, come Izzo ha mostrato, ossia i luoghi del “realismo capitalista.”

È nel solco di tale traccia indicata dai grandi romanzieri noir che si muove la seconda opera di Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini. Un noir a tratti thriller – ambientato a Napoli, ma con incursioni su Milano – in cui molti sono i rimandi al suo primo romanzo (I santi d’argento, 2022). Un consiglio: i due libri vanno letti insieme. E non se ne può equivocare la corrispondenza, per lo meno grafica, poiché entrambe le copertine sono disegnate da Zerocalcare.

I due libri sono l’affermazione di un talento: un inconfutabile e originale talento. Il cui genere ha un nitore nello stile e nell’espressione che lo rendono inconfondibile. Che in realtà è uno stile che lo colloca a pieno titolo fra gli autori del “noir mediterraneo”, sulla scia di Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Maurizio De Giovanni, il cui ispiratore è certamente Izzo. Sembra azzardata un’associazione così impegnativa, eppure Nostra signora dei fulmini non lascia dubbi sulla stoffa del suo autore.

Il noir di Piacci ricostruisce un insieme di storie ai margini: di proletari metropolitani che ostinatamente provano a curvare un destino che per loro è già stato scritto nella culla. L’incastro narrativo è costituito da rompicapi casistici fra il poliziesco e il criminale, mentre l’infrastruttura che unisce i personaggi è il crogiuolo di sentimenti e di passioni. Nel suo stile narrativo l’ambivalenza dei rapporti sociali si esplicita in una dialettica fra la vita e la morte, ove la differenza è intangibile, e la morte si presenta in tutta la sua crudezza di violenza, ferocia e disumanità.

Il punto d’aggancio è un groviglio di fatti e storie, presenti e passati – sullo sfondo della periferia occidentale di Napoli – che ruotano attorno alla vita di Vincenzo, il quale prova a districarsi fra le sue dipendenze, sostanze e amore, e a respingere un passato che non passa. Alcuni morti ammazzati infatti provano a strappargli il futuro e a trascinarlo nei bassifondi della criminalità con cui credeva di aver chiuso i conti.

Lo sguardo adoperato per narrare le vite di questi proletari senza gloria è tanto realistico quanto intimistico. L’autore ricostruisce il contesto in cui si muovono i personaggi, ma al contempo entra nella soggettività radiografandone i sentimenti: cioè, indaga l’estensione dello spazio del reale e delle storie così come l’intensità delle passioni, delle emozioni di quelle vite che provano a strappare la gioia ai giorni futuri.

Lo spazio che allontana questi ragazzi è meno spesso di quello che possa sembrare. La mia adolescenza è coincisa con il fervore degli anni Ottanta. Ovunque imperversava l’idea della scelta come diritto universale inalienabile. Nella maggior parte dei casi, però, la scelta riguardava solo cosa acquistare, e di conseguenza interessava solo chi avrebbe potuto permetterselo.
Per ragazzi come Salvatore la scelta non esisteva. A lui, come a tanti altri, non era dato nessun orizzonte da percorrere, se non la strada. Mi chiedo se ci fossi nato io senza alternative, quale dei due sarei adesso, quello obbligato a implorare di essere mutilato, oppure il suo torturatore. Uccidere o morire, carnefice o vittima, mutilato o mutilatore, forse la sola scelta che quell’epoca ha consegnato ai ragazzi del mio quartiere è stata questa. (p. 193)

Muoversi nelle zone d’ombra fra proletariato e borghesia, nelle terre di mezzo fra polizia, politica e criminalità, in un gioco di rimandi, osservando l’antropologia urbana, significa anche narrare in altro modo la lotta di classe che innerva la città. Infatti, nel flusso di fatti che sostanziano la lettura senza lasciare respiro, con una prosa penetrante, fra storie personali, dipendenze e ammazzamenti, vi è anche la lotta di una cooperativa di pescatori contro una multinazionale che contende la felicità a quella piccola comunità di lavoratori del porto di Bacoli. E se il romanzo è un’invettiva contro il lato oscuro del nostro vivere, i personaggi di Piacci sono dei falliti, ma non vinti, anzi, perennemente alla ricerca di un’altra occasione, anche se succubi di una realtà che non possono cambiare.

Nostra signora dei fulmini cede a quel senso di “appocundria”, quel sentimento di rassegnazione misto a malinconia, messo in versi da Pino Daniele in Terra mia. Eppure, al contempo, il libro restituisce un senso di ribellione e di rivalsa che risveglia il lettore provando a combatterne l’apatia e a farlo schierare. A dirla tutta è un altro modo di militare, quello di Piacci, ossia trasmettere dubbi, angosce, felicità, piaceri. E’ una maniera di condividere.

Pronuncia queste parole con tono neutro, asettico. Con la certezza di una verità scientifica. Se mio padre fosse qui, illuminato dalla luce fioca del sole di ciò che non è mai avvenuto, direbbe senz’altro che Lo Cascio è la prosecuzione dello Stato con altri mezzi. E in effetti lui si sente lo Stato. Giovanni lo guarda sprezzante: “E ti fa sentire forte tutto questo? A me dei tuoi intrallazzi, della politica, degli appalti, non me ne è mai fottuto niente. Parli come se hai capito tutto del mondo e sai campare solo tu, e invece dovresti ringraziare chi ti è sempre stato amico, non sapendo che in realtà eri un infame. (p. 256)

Nei tempi di quelle vite che ritmano lo stile, nell’alternanza umorale delle parole, Piacci racconta in fin dei conti le contraddizioni di Napoli, ché in realtà sono le contraddizioni delle società capitalistiche. Fra tutte, la turistificazione e la gentrificazione della città, ossia, come mercificare e ridicolizzare le pietre, la lingua se non la cultura, a uso e consumo della distrazione di massa e dell’ignoranza funzionale.

Laddove il desiderio di lottare e la voglia di amare convivono secondo «un detto dei banditi [che] suonava così: cospirare vuol dire respirare insieme» (p. 319), si può resistere, trasformare, migliorare. Anche se in ogni caso si è in trappola. Non si può cambiare niente, fondamentalmente. Ma nello spazio a disposizione si può essere felici costruendo comunità che cospirano.

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Illuminations, i racconti dell’immaginario di Alan Moore https://www.carmillaonline.com/2025/01/22/illuminations-i-racconti-dellimmaginario-di-alan-moore/ Wed, 22 Jan 2025 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86452 di Fosca Gallesio

Alan Moore (Northampton 1953) è uno dei più grandi sceneggiatori di fumetti di sempre: è conosciuto per le sue opere anticonvenzionali e dal marcato tono politico. Tra le sue graphic novel più famose c’è V per Vendetta (1982), una distopia che racconta di una Londra oppressa da un regime totalitario di sorveglianza e controllo dei cittadini, cui si oppone il rivoluzionario V, eroe mascherato con la faccia di Guy Fawkes (assurto a icona del movimento occupy di qualche anno fa). Ma anche la saga degli Watchmen (1987), rivisitazione del mito del supereroe in chiave iperrealistica e critica, [...]]]> di Fosca Gallesio

Alan Moore (Northampton 1953) è uno dei più grandi sceneggiatori di fumetti di sempre: è conosciuto per le sue opere anticonvenzionali e dal marcato tono politico. Tra le sue graphic novel più famose c’è V per Vendetta (1982), una distopia che racconta di una Londra oppressa da un regime totalitario di sorveglianza e controllo dei cittadini, cui si oppone il rivoluzionario V, eroe mascherato con la faccia di Guy Fawkes (assurto a icona del movimento occupy di qualche anno fa). Ma anche la saga degli Watchmen (1987), rivisitazione del mito del supereroe in chiave iperrealistica e critica, dove gli “eroi” sono personalità borderline affette da delirio di onnipotenza e dalla dubbia moralità, spesso usati come braccio armato al servizio della politica imperialista USA; il titolo fa riferimento alla frase di Giovenale “Quis custodiet ipsos custodes” (in inglese appunto, “Who watch the watchmen”), cioè chi controlla i controllori, che fa riferimento ai rischi di degenerazione e abuso del potere. Le istanze politiche emergono anche in From Hell (1989-98), affresco della Londra vittoriana che esplora le vicende che ruotano attorno agli assassini attribuiti a Jack lo squartatore, visti come prodotto sociale e culturale dell’epoca.

Le storie di Moore sono delle incursioni nell’immaginario collettivo, capaci di sovvertire il senso comune, smascherare le ipocrisie della società e risvegliare la coscienza politica, portando il lettore a porsi domande su di sé, sul mondo e sul modo in cui vive. Moore si definisce un anarchico, non intendendo con questo una semplice repulsione di ogni regola, ma una severa critica e opposizione al potere costituito e alle logiche di oppressione che dominano la società capitalista. Moore è sempre stato insofferente ai dettami del mercato mainstream, al punto da rifiutarsi sempre di mettere il proprio nome nei numerosi film tratti dalle sue opere (i cui diritti erano stati già ceduti dalle società editoriali che le avevano pubblicate), criticando aspramente l’equivalenza che spesso viene fatta tra film e fumetto, affermando che se il fumetto fosse visto solo come linguaggio intermedio verso il cinema, sarebbe solo un film senza movimento, mentre il fumetto ha una sua specificità artistica e linguistica del tutto unica e inadattabile, data dall’unione della parola scritta all’immagine disegnata.

Moore, dopo aver scritto fumetti per più di trent’anni, nel 2019 dichiara di abbandonare il medium per dedicarsi alla narrativa. Stanco delle logiche dell’industria editoriale del fumetto mainstream, che già lo avevano portato a cercare di lavorare solo per editori indipendenti, lo scrittore abbandona il suo medium preferito per dedicarsi alla scrittura letteraria. Così dopo aver già pubblicato un primo romanzo, La voce del fuoco, nel 1996, nel 2016 pubblica Jerusalem, un’imponente opera fiume, un’affresco storico-mitologico della cittadina natale di Northampton, che spazia attraverso i secoli. Per chi fosse curioso dello stile letterario di Moore è però sicuramente più agevole la lettura della raccolta di racconti Illuminations, pubblicata nel 2022 (in italiano l’anno successivo per Fanucci), che contiene nove storie brevi di carattere surreale e fantastico e un racconto lungo che ripercorre la storia del fumetto americano dagli anni ’50 del secolo scorso ai giorni della pandemia, utilizzando alter ego e nomi di fantasia per parodiare quelli reali di autori e personaggi, dando vita a un affresco cinico e spietato dell’industria odiata da Moore di un medium che invece adora, il fumetto.

Prima di esaminare le short stories di Moore è però utile prendere in esame alcuni aspetti cruciali della sua poetica, che danno una forma del tutto originale al suo stile e ai suoi temi. Dall’inizio degli anni ’90 Alan Moore è diventato un mago rituale, dedicandosi a pratiche occultistiche che risalgono all’antica tradizione ermetica. L’ispirazione è venuta mentre scriveva From Hell: “In una battuta un personaggio dice: L’unico posto dove Dio senza dubbio esiste è nella mente umana. Dopo averlo scritto ho capito di aver accidentalmente detto qualcosa di vero, e ora dovevo riorganizzare la mia vita su questo. L’unica cosa che sembrava davvero appropriata era diventare un mago.” La magia per Moore è uno strumento che svolge una parte fondamentale nella sua ricerca artistica e nella pratica di scrittura.

“Credo che la magia sia arte e che l’arte, che sia musica, scrittura, scultura o ogni altra forma d’arte, sia letteralmente magica. L’arte è, come la magia, la scienza di manipolazione di simboli, parole o immagini, per raggiungere dei mutamenti nella coscienza. In effetti lanciare un incantesimo (in inglese cast a spell) è semplicemente sillabare (to spell), manipolare parole, per cambiare la coscienza delle persone, e questo è il motivo per cui credo che un artista o uno scrittore in epoca contemporanea sia la cosa più vicina a uno sciamano.”

Moore afferma che nell’era contemporanea gli artisti hanno perso il loro status originario, hanno abbandonato il potere delle parole di cambiare il mondo e modificare le coscienze, per limitarsi a fornire mero intrattenimento. Il lavoro di un artista non è dare al pubblico quello che vuole, ma dare al pubblico quello di cui ha bisogno. Purtroppo al giorno d’oggi le persone che usano la magia delle parole per dare forma alla nostra cultura sono dei pubblicitari e il loro potere sciamanico è usato come un oppiaceo per anestetizzare le persone e renderle manipolabili.

“Direi che in qualche modo gli artisti, tutti gli artisti, si sono separati dalle proprie origini. Negli ultimi due secoli l’arte è sempre più stata vista come una semplice forma di intrattenimento, con nessun altro scopo che passare un paio d’ore di svago dalle nostre tristi vite. E questo non c’entra nulla con l’arte secondo me. L’arte ha una funzione vitale. Come diceva Brian Eno, bisogna guardare a come l’arte fosse una priorità per la vita umana per capire la sua ragione di esistere. Quando siamo scesi dagli alberi, abbiamo trovato qualcosa da mangiare, abbiamo trovato un posto dove dormire, abbiamo trovato un posto dove cagare e poi siamo andati a disegnare sui muri per spiegare come abbiamo trovato da mangiare, da dormire e dove cagare al caldo. L’arte riguarda una quarta priorità di sopravvivenza. E quindi si può presumere che abbia importanza.”

Ma è soprattutto il mercato dell’arte, o meglio dell’intrattenimento, che ha corrotto questa funzione originaria. Per la maggior parte degli artisti l’unica forma di successo è quella monetaria. Moore dice che è stato fatto un patto faustiano con il commercio: in cambio di un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare, l’artista tiene la bocca chiusa e continua a produrre solo intrattenimento. In Moore questo approccio alla magia e all’arte si traduce ovviamente in una particolare visione spirituale del mondo e in una metafisica mentale.

“Ovviamente se ci si espone al mondo della magia, si fa un passo oltre il perimetro del mondo razionale. La natura stessa della magia è connessa con l’irrazionale. Bisogna almeno affrancarsi dal regno convenzionale della sanità mentale. A un certo livello, per sua stessa definizione, la magia deve essere trans-razionale. Bisogna andare oltre la razionalità per fare il primo passo nella magia. Bisogna essere pazzi per essere dei maghi, ma bisogna essere pazzi in modo controllato. Bisogna esserlo in modo deliberato. Non diventare pazzi per caso! Allora sarebbe troppo tardi. Ma diventando pazzi apposta, in modo controllato, allora si può arrivare da qualche parte.”

Questo dislivello mentale permetterebbe un accesso a una visione del mondo in cui i simboli sono la chiave per la comprensione del significato profondo delle cose.

“Tendo a vedere la magia, in un certo senso, come una sorta di linguaggio. Penso che gli dei della magia siano dei del linguaggio. E la magia è una specie di linguaggio con cui leggere l’universo. È un linguaggio di simboli con cui si può estrarre un significato dalle cose più mondane. È questo l’aspetto della magia che mi attrae. Ma queste rivelazioni per me si collegano a un nuovo modo di vedere la vita nel mondo ordinario piuttosto che una fuga in qualche fantastico nuovo piano di esistenza. Si tratta di scoprire la rivelazione che è in ogni cosa.”

Con l’esplorazione di questa dimensione spirituale Moore approda a una specifica visione metafisica del mondo, che contempla l’esistenza di uno spazio composto dai concetti e dalle idee dell’umanità, un luogo che egli definisce Spazio-Idea.

“È lo spazio dove avvengono gli eventi mentali, uno spazio-idea che forse è universale. Le nostre coscienze individuali hanno accesso a questo vasto spazio universale, alla stessa maniera in cui abbiamo case individuali, ma le strade fuori dalla porta appartengono a tutti. È quasi come se le idee fossero forme preesistenti all’interno di questo spazio. In questo spazio esisterebbero dei continenti composti interamente da idee e concetti, invece di territori e isole ci sarebbero i grandi sistemi di conoscenza, le filosofie, il marxismo potrebbe essere uno, le religioni giudaico-cristiane un altro.”

Poiché l’essere umano ha accesso al reale attraverso le proprie percezioni e dà quindi alle cose una forma mentale, in ogni momento la nostra mente interagirebbe con lo spazio-idea, anche solo in modo limitato, per svolgere le attività quotidiane. Naturalmente gli artisti e gli intellettuali lavorano costantemente con lo spazio-idea, vi si immergono in profondità alla ricerca di connessioni e idee inedite e originali. Moore sente quindi la necessità di tracciare delle mappe cognitive per navigare lo spazio-idea. A questo scopo studia i sistemi magici dell’antichità: la kabbalah e i tarocchi, la mitologia greco-latina e l’ermetismo, sono dei sistemi di archetipi spirituali che costituiscono una mappa della condizione umana.

Ma ora veniamo alla raccolta di racconti Illuminations, nella quale la poetica di Alan Moore si delinea in una serie di quadri perlopiù di ispirazione fantastica, che mettono in luce la sua visione del mondo fatalistica e spirituale. Per Moore il racconto è una delle migliori forme della letteratura, lo definisce un mezzo attraverso cui imparare e mettere alla prova il proprio stile letterario. Sicuramente la brevità della narrazione gli permette di creare dei lampi di immaginario, delle parabole metafisiche caratterizzate da un’ironia malinconica.

Alan Moore critica il fantasy contemporaneo, accusandolo di un eccessivo escapismo e di riposare su tropi convenzionali: secondo lui i romanzi di questo genere creano mondi di fantasia che nulla hanno a che vedere con il mondo reale. Nei suoi racconti invece le fantasie prendono forma in un contatto con la dimensione quotidiana del mondo che conosciamo. Sono delle incursioni di una realtà parallela limitrofa alla nostra, che con il suo simbolismo ci rivela qualcosa di significativo sulla realtà. Il titolo della raccolta, Illuminations, è in questo senso significativo: ci sono degli squarci nel quotidiano che permettono di avere una visione oltre la soglia della normale percezione. Appare ovvio come questa visione della letteratura sia connessa con la chiave magica della filosofia di Moore: un modo per andare oltre la normale soglia delle percezioni e cogliere un senso del tutto.

Illuminations è una parola ambigua. Può significare molte cose. Nel racconto con quel titolo è la ghirlanda di lampadine sul lungomare. Il protagonista prova una collisione tra passato e presente in una cittadina sul mare. Ma è anche il suo momento di realizzazione. Un momento di illuminazione. E questo è presente anche in molti degli altri racconti. Un momento in cui si capisce che le cose non sono quello che sembravano. Questi momenti di illuminazione possono essere a volte molto positivi e a volte meno. Ma mi colpisce che probabilmente io sia un illuminista.”

Questi sprazzi di illuminazione cercano di cogliere un momento di coscienza superiore, in qualche modo magica, del senso del sé. I personaggi hanno una percezione che va oltre se stessi e la propria individualità; talvolta questa consapevolezza è lasciata più alla percezione del lettore, ma vi è sempre un profondo senso filosofico nelle storie di Moore. In questo scenario si distingue, per stile e argomento, il racconto più lungo della raccolta, Cosa ci è dato sapere su Thunderman, che è un’approfondita, e per certi versi spietata, disamina dell’industria americana dei fumetti dagli anni ’50 a oggi, in cui i fumettari sono delineati come soggetti marginali e alla deriva, schiacciati nel loro mondo di fantasie infantili e oppressi dalle dinamiche commerciali dell’industria editoriale. Questa illuminazione è più che altro uno sfogo di Moore contro tutte le dinamiche che viziano l’industria del fumetto, che assoggettano la creatività alle logiche del mercato e un omaggio alle vite schizzate da outsider degli autori di fumetti.

La prima storia Lucertola ipotetica è un racconto visionario abitato da personaggi magici e perturbanti. Ambientata in una casa di piacere chiamata “La casa senza orologi”, è il racconto di una conturbante relazione amorosa tra due attori attraverso il punto di vista di una ragazza che, a seguito di un’operazione cerebrale che ha reciso i legami tra i due emisferi del cervello, non è in grado di comunicare e per questo è stata resa la concubina perfetta per gli stregoni, che non possono permettersi di rivelare a nessuno i propri segreti. La giovane è dunque testimone silenziosa di una relazione in cui i due amanti si scambiano di posizione, in cui una dinamica di dominazione sostituisce il soggetto con l’oggetto, in un gioco fluido in cui le identità di genere maschile e femminile si confondono. La scrittura sofisticata e conturbante dà vita a un mondo languido di amore intellettuale e quasi filosofico, dove i corpi mutano in maniera imprevedibile, rispecchiando l’interiorità delle anime.

Al centro di Nemmeno leggenda c’è un essere magico con un talento del tutto particolare. È chiamato, per ignoti motivi, “Pete sussurrante” e la sua particolarità è che vive la sua vita all’incontrario, nascendo vecchio e viaggiando indietro nel tempo fino a quando sarà bambino. Le sue esperienze vengono quindi vissute all’incontrario rispetto a tutti gli altri: per lui il passato è futuro e viceversa, il primo incontro con un’amata è in realtà l’ultimo e ogni sera legge una pagina del suo diario per sapere quel che gli succederà in un ieri che per lui è domani. Questo racconto mostra un’esperienza del tempo vissuta in direzione inversa a quella normale, non è come nel caso de Il curioso caso di Benjamin Button, un processo di invecchiamento al contrario, ma una vita a ritroso nel tempo, in un flusso contrario a quello di tutte le altre persone. Questo paradosso veicola la particolare idea della temporalità di Alan Moore, che prende le mosse dal concetto di Einstein di un universo-blocco che comprende presente, passato, futuro. Sarebbe la nostra coscienza a muoversi in modo lineare e progressivo attraverso il blocco immutabile ed eterno dello spazio-tempo. Per Moore questa è una visione confortante, che si sposa con il suo senso fatalistico dell’esistenza come qualcosa che è già lì e che siamo destinati a rivivere ancora e ancora.

Posizione, posizione, posizione racconta con stile sardonico e brillante una possibile apocalisse che avviene sullo sfondo di una cittadina inglese mentre l’ultima persona sulla terra, una donna agente immobiliare, porta il suo ultime cliente a visitare una casa. Il cliente è Gesù Cristo, patito di serie tv e dipendente dalla sigaretta elettronica, che non esita a concedersi una sveltina con il suo agente immobiliare. Moore unisce scabrosamente gli scenari epici dell’apocalisse, con angeli di fuoco, mostruose creature demoniache e gigantesche amazzoni che si danno battaglia nel cielo, all’episodio ordinario, ma surreale, di una visita immobiliare improbabile di Gesù (detto Cris) che sta cercando una sistemazione nella tranquilla campagna inglese. L’effetto è ironico e spiazzante, una demistificazione della religione e un ritratto implacabile della natura umana.

Lettura a freddo è invece una divertente parabola su un sedicente medium che riceve la visita di un cliente che vuole mettersi in contatto con il defunto fratello, seppure quest’ultimo fosse una persona estremamente razionale che condannava lo spiritismo. Moore qui vuole mettere a confronto il mondo delle sedute spiritiche, condannandone l’artificiosità, con quello dei razionalisti, condannandone i limiti mentali. Il finale a sorpresa può risultare ovvio, ma coglie nel segno con paradossale ironia.

Il racconto intitolato L’improbabile complessità dello stato dell’alta energia gioca con il paradosso della fisica del cervello di Boltzmann, un’ipotetica entità consapevole di sé nata a causa di fluttuazioni quantistiche da uno stato di caos. Mi perdonerete se, date le mie scarse conoscenze di fisica, prendo la definizione da wikipedia, mentre nella storia Moore sa illustrare molto bene come in un universo in formazione si sviluppa il primo essere senziente, un cervello per l’appunto, di cui il racconto è una tragicomica biografia. Il cervello viene al mondo e si scopre dotato della coscienza di sé e come prima cosa riesce a sviluppare una protuberanza sensoria che gli permette di fare esperienza del mondo e un peduncolo motorio che gli permette di muoversi. Chiama se stesso Il Panperule e piano a piano cataloga tutti i fenomeni emotivi e cognitivi della propria esperienza. Fino a che non incontra un altro cervello appena formato, ma ancora privo degli organi di senso. Il Panperule osserva il suo simile con disappunto e avendo perso la sua unicità, decide, per rivalsa, di imporre sul nuovo cervello il dominio della propria volontà. Il Panperule aiuta il nuovo cervello a sviluppare le proprie appendici sensorie e motorie e, quando il nuovo cervello può comunicare, gli si presente come il creatore di tutto l’universo, come dio. Tra le due uniche entità del cosmo si stabilisce immediatamente una relazione di dominazione e controllo, in cui il più anziano e saggio Il Panperule impone tutte le sue conoscenze al nuovo cervello, dandogli perfino il nome di Glynne, naturalmente senza articolo. La supremazia de Il Panperule su Glynne è quasi spietata e riproduce le dinamiche della dialettica servo/padrone, fino agli estremi più perversi, fino al momento inevitabile in cui i due cervelli scoprono l’accoppiamento. Anche il sesso è sempre visto come una forma di dominazione e il piacere che ne ricava porta Il Panperule a trascurare tutto il resto. Ma a questo punto Glynne inizia a porsi delle domande e a mettere in discussione le affermazioni del suo maestro e padrone. La situazione degenera quando si vengono a formare decine di altri cervelli, che vengono piano piano istruiti alla coscienza da Il Panperule, con l’aiuto di Glynne, e anche loro instradati all’obbedienza. Il modo in cui Moore riesce a dare forma a questa esperienza paradossale e infondere in essa tutte le distorsioni e le perversioni della società umana, è sorprendente. L’avventura dei cervelli di Boltzmann è straordinariamente comica e contemporaneamente tragica nel mostrare come le logiche di potere e dominio siano insite nello stesso stato di coscienza. Ma allo stesso tempo queste coscienze riescono a sviluppare anche l’opposizione e la capacità rivoluzionaria, anche se lo scontro delle due istanze conduce inevitabilmente a uno stato di caos.

Vale la pena di spendere qualche parola in più per Cosa ci è dato sapere su Thunderman, il racconto lungo più di duecento pagine in cui Moore fa un affresco della storia dell’industria del fumetto americana. Vengono raccontati i dirigenti senza scrupoli delle case editrici, con la loro brama di compiacere il pubblico, dominarne il pensiero critico e soprattutto sfruttare i creativi alle loro dipendenze. Ma i veri protagonisti sono proprio i creativi, sceneggiatori per lo più, ma anche illustratori: Moore tratteggia le loro vite dall’infanzia nostalgica in cui li vediamo affamati lettori di fumetti dell’epoca d’oro degli anni ’50 e ’60, all’inizio delle loro carriere professionali, attraverso le assurde gozzoviglie delle convention di settore, fino all’inevitabile crisi contemporanea, con il crollo delle vendite, la carenza di idee, questi autori sono schiacciati dal cinismo dell’industria, ormai disillusi e apatici spettatori delle loro stesse vite alla deriva. Il ritratto di Moore certo non fa sconti e nel dipingere questi eterni ragazzini sognanti, alle prese con il loro lavoro ideale, li fa scontrare con la dura realtà, raccontandoli come personalità ai margini, in qualche modo disadattati funzionali, protagonisti dei più assurdi aneddoti. Scrive: «Quell’ambiente disumanizzava le persone che ci lavoravano e le risucchiava in una realtà alternativa assurda, dove non c’erano limiti o confini, in una specie di caduta libera psichiatrica che, forse giusto all’inizio, poteva dare la sensazione di volare.»

Proprio il passaggio da appassionati di fumetti a professionisti del settore, enciclopedie viventi del passato dei supereroi, ma incapaci di creare storie e personaggi originali, è ciò che segna inevitabilmente il destino di tutti i personaggi, che risultano buffi e grotteschi, ma sempre profondamente malinconici. «Ogni aneddoto legato all’industria dei fumetti finiva inevitabilmente con un suicidio, un’insufficienza epatica, un crollo nervoso o un funerale a bara chiusa.»

Moore indica con crudezza la crisi contemporanea del fumetto, ormai diventato un medium arretrato, che non interessa il pubblico infantile e adolescenziale, attratto più dai videogiochi e da internet. Non c’è più ricambio generazionale e il fumetto sta declinando con l’invecchiamento del suo pubblico e dei suoi autori.

È evidente come il microcosmo del mondo del fumetto sia un microcosmo dell’America. I supereroi sono l’emblema della cultura americana, ne incarnano i valori e nella loro azione ne sintetizzano la politica violenta e imperialista. La critica dello scrittore britannico è esplicita e molto politica.

“Cosa hanno di tanto speciale i supereroi? Bé, sono un fenomeno tutto americano che altrove non ha mai preso veramente piede. Sono una cosa che emerge in modo naturale dalla nostra cultura. Penso che in parte derivino dal nostro diritto, garantito pure dalla Costituzione, alla furtività. Della serie, se fai una cosa che potrebbe ragionevolmente farti finire nei guai, allora è meglio farla con una maschera, o con un costume addosso, o con entrambe le cose. […] E poi c’è la nostra inclinazione alla violenza. Il nostro è un Paese dove nessuno si fida di nessuno, perciò dormiamo con un fucile sotto i cuscini dai tempi dei pionieri, e la soluzione ideale per risolvere un problema è sparare e tendere imboscate. Non amiamo i conflitti se non abbiamo un certo vantaggio strategico, quindi l’idea del supereroe come essere indistruttibile o munito di denti retrattili di acciaio è rassicurante. I supereroi sono quello che sogniamo di essere. Hanno una morale, aiutano gli oppressi e, con i loro poteri speciali, eccellono in qualcosa, tutte cose che noi non abbiamo e non facciamo. Sono il nostro negativo da un punto di vista etico e, allo stesso tempo, incarnano il Sogno americano come massima espressione del suprematismo bianco.”

Insomma Cosa ci è dato sapere su Thunderman è davvero il pezzo di valore dell’intera opera, un racconto dettagliato e illuminante che solo uno scrittore con lo stile e la visione di Alan Moore poteva proporre.

Per concludere rimangono altri tre racconti, che ho trovato meno incisivi, ma che vale la pena citare. Illuminazioni dà il titolo all’opera ed è un’elegante e soffusa elegia, dove un uomo in una cittadina in riva al mare rivive le memorie della propria infanzia, con un disvelamento del presente. Luce Americana: una valutazione critica è invece un poema di un immaginario autore della San Francisco della beat generation, corredato da una serie di note storico-biografiche che richiamano i personaggi del periodo, rievocandone il clima culturale anticonformista. Infine E, da ultimo, per chiudere con il silenzio è un dialogo surreale tra due personaggi in un imprecisato passato medioevale in Inghilterra. Non è chiaro se siano due prigionieri condannati a morte o già due fantasmi, la loro identità è misteriosa anche ai loro stessi occhi, ma sono destinati a camminare insieme verso il silenzio.

N. B.
Le citazioni di Alan Moore sono tratte dal documentario The Mindscape of Alan Moore, 2003, di Dez Vylenz, che potrete trovare su YouTube, e dai seguenti articoli:

Magic is Afoot: a conversation with Alan Moore about the arts and the occult, 2003, di Jay Babcock (qui)

Haunted Resonance: an interview with Alan Moore, 2022, di Miles Ellingham sul sito «The Quietus».

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We are not robots – Tecnoluddismo 2/2 https://www.carmillaonline.com/2025/01/21/we-are-not-robots-tecnoluddismo-2-2/ Tue, 21 Jan 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86141 Gioacchino Toni

Se in Tecnoluddismo 1/2 ci si è occupati della prima parte del volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti delle tecnologie e dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del secolo successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa sulla scena del computer.

Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se [...]]]>

  • di Gioacchino Toni
  • Se in Tecnoluddismo 1/2 ci si è occupati della prima parte del volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti delle tecnologie e dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del secolo successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa sulla scena del computer.

    Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se nella quotidianità le schede perforate rappresentavano ai loro occhi burocrazia, censimento e controllo, non mancarono di cogliere il ricorso dell’apparato militare agli elaboratori nella pianificazione delle operazioni nel teatro di guerra vietnamita.

    «Il passaggio a strategie basate sulla raccolta di dati quantitativi e sull’analisi automatizzata rappresenta un cambiamento radicale nella cultura militare». A ribadire le analogie tra la logica militare e quella industriale è il fatto che entrambe faranno ricorso a metriche quantitative; non a caso, ricorda lo studioso, a guidare la riqualificazione militare fu chiamato il segretario della Difesa, Robert McNamara, che precedentemente aveva fatto ricorso all’analisi statistica nella ristrutturazione della Ford. «L’automazione della guerra, come l’automazione dell’industria, era uno strumento fondamentale per riaffermare il controllo sui soldati ribelli in Vietnam». Esattamente come avveniva nelle fabbriche, anche in Vietnam erano sempre più frequenti gli atti di insubordinazione e sabotaggio, tanto che si pensò di sostituire le resistenze della fanteria con il ricorso a bombardamenti aerei sempre più automatizzati così come nelle fabbriche si tentava di ovviare alle insorgenze operaie attraverso l’automazione della produzione.

    Nel corso degli anni Settanta la posizione degli attivisti nei confronti del computer prende due diversi indirizzi; uno, minoritario, antitecnologico, ed un secondo, decisamente maggioritario, propenso a vedere nel computer uno strumento che avrebbe potuto favorire, soprattutto a partire dalla commercializzazione delle apparecchiature, pratiche di liberazione personale su cui si sarebbe poi sviluppato l’internet-attivismo.

    L’automazione dei processi di lavoro, anche d’ufficio, attraverso tecnologie computerizzate, oltre a sottrarre ai lavoratori parte del controllo da essi esercitato sui processi produttivi e a rivelarsi un preciso strumento di sorveglianza – il computer come sofisticato panopticon –, comportava una crescente astrazione dell’attività lavorativa, dunque la necessità di fornire ai lavoratori gratificazioni utili ad ottenere forme di dedizione interiorizzate. Per quanto il lavoro panottico e digitalizzato abbia ridefinito l’universo produttivo, non ha eliminato totalmente la conflittualità nei luoghi di lavoro che, seppure in maniera meno plateale ed efficace rispetto a prima, ha trovato modo di esprimersi soprattutto in forme di “resistenza passiva”.

    Sebbene «le culture hacker siano state ricondotte a ogni sorta di schieramento politico: dal liberale al libertario, dal radicale al reazionario» – se, ad esempio, Bruce Schneier1 mette in evidenza come l’hacker sia spesso un operatore al servizio dei potenti, autori come Davide Fant e Carlo Milani2 mettono in risalto come non manchino esempi, soprattutto in forma collettiva, tendenti piuttosto a sottrarsi al potere –, non di meno, secondo Mueller, in tali culture è individuabile un certo spirito luddista non così distante da quelle che hanno mosso i tessitori ottocenteschi.

    Anche se la figura dell’hacker, spesso vista come quella di un virtuoso della tecnologia che agisce attraverso i suoi dispositivi digitali, ha finito per essere «gentrificata e assorbita nella figura dell’eccentrico imprenditore (sì, maschio) della Silicon Valley, che dà libero sfogo alla sua maestria tecnologica modificando per sempre la società», dunque un individuo che anziché distruggere le macchine le adotta, in realtà, sostiene Mueller, lungi dal celebrare la tecnologia, l’hacker ne è spesso critico, visto che sfrutta «le proprie abilità per sovvertire le misure societarie di razionalizzazione e controllo del comportamento degli utenti» e ciò fa di lui un luddista.

    Tra gli esempi di «organizzazione hacker di resistenza luddista» lo studioso indica il movimento del software libero. «Il software libero è un esempio di tecnologia luddista: un’innovazione il cui obiettivo è la salvaguardia dell’autonomia di chiunque se ne serva contro l’imposizione del controllo sul processo lavorativo da parte dei capitalisti». Insomma, «il movimento del software libero è stato determinante nello stabilire linguaggi di codifica non proprietari come standard nell’industria, facendo sì che lo sviluppo delle competenze, piuttosto che essere controllato esclusivamente dalle grandi corporation, potesse risultare dal coinvolgimento di una comunità aperta». Ciò ha inoltre contribuito a mettere in discussione i diritti di proprietà intellettuale che caratterizzano la cultura digitale. Ecco allora perché i conflitti che hanno attraversato la storia di internet possono, secondo l’autore, essere letti come lotte contro la sussunzione non così diverse da quelle dei tessitori ottocenteschi.

    Se negli anni Novanta, epoca in cui il web era popolato da dilettanti e hobbisti, il business si limitava alla fornitura di accesso alla rete, successivamente il capitalismo ha nesso a profitto la propensione partecipativa degli utenti (Web 2.0) trasformando la rete «in una macchina distribuita per la produzione di valore», ponendo le basi per quello che Shoshana Zuboff avrebbe efficacemente indicato come “surveillance capitalism” basato sulla datificazione. Questo capitalismo della sorveglianza nasce in apertura del nuovo millennio, quando alcuni settori del sistema economico iniziano a tradurre l’esperienza umana privata in dati da cui derivare previsioni comportamentali3. Gli algoritmi che regolano i processi decisionali a cui si viene sottoposti sono del tutto oscuri ed inaccessibili, tanto che Frank Pasquale4 parla di black box society, di “società delle scatole nere”, facendo riferimento in particolare all’incidenza dell’automazione sul sistema giuridico, ma ciò è evidentemente estendibile ad altri ambiti.

    A tutto ciò, scrive Mueller, gli hacker hanno reagito cercato di contrastare il capitalismo della sorveglianza ad esempio sviluppando tecnologie volte alla protezione della privacy degli utenti. «Dal momento che la sussunzione reale delle attività online si basa sulla sorveglianza e sulla profilazione, questi applicativi per la privacy si qualificano come un’altra forma di tecnologia luddista, che tenta di riportare il web al suo stato di sussunzione formale di attività creativa relativamente autonoma». Al fine di evitare che le pratiche hacker restino nelle mani di un manipolo di virtuosi della tecnologia, non sempre mossi da finalità di condivisione, secondo Mueller sarebbe utile allargare il bacino di utenti di internet in grado di fronteggiare le dinamiche del capitalismo della sorveglianza5.

    Se a fronte della diffusione in ambito lavorativo delle tecnologie basate sull’intelligenza delle macchine diversi approcci critici si mostrano inclini a ritenere che, più che arginata, questa andrebbe orientata al miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, evitando atteggiamenti deterministici, di entusiastica accettazione o d’indifferenza6, altri insistono piuttosto sul fatto che le tecnologie di intelligenza artificiale, più che sostituire i lavoratori, riconfigurano le pratiche di lavoro rendendole spesso più stressanti, tanto che, con indubbia efficacia, Brian Merchant7 parla di shitty automation, «automazione di merda», o ad imporre lavoro aggiuntivo non previsto dai mansionari, definito shadow work «lavoro ombra» da Craig Lambert8, con importanti ricadute anche nel lavoro sanitario9 ed educativo.

    In generale gli algoritmi alla base dei sistemi di machine learning della IA generativa necessitano di essere addestrati attraverso un’incredibile mole di lavoro sottopagato o letteralmente non pagato – altro caso di shadow work – attraverso processi di datificazione a cui sono quotidianamente sottoposti gli utenti che utilizzano le piattaforme digitali. John Banks e Sal Humphreys, ad esempio, hanno mostrato come il fenomeno partecipativo in rete, attorno al quale anche a sinistra sono state riposte tante aspettative, rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle grandi corporation10. L’utopia della conquista del tempo libero permesso dalla piena automazione di cui pontificano i tecno-entusiasti acritici che si dicono di sinistra, sembra condurre in realtà ad erosione salariale ed estensione del tempo di lavoro sotto forma fantasma.

    Di fronte alle derive prodotte dai sistemi di IA insinuatisi ormai ovunque, scrive Mueller, a poco servono i mea culpa di importanti imprenditori e designer della Silicon Valley e le nostalgie romantiche per le conversazioni vis-à-vis auspicanti il recupero dei valori umanistici e delle attività affettive andate perdute; secondo lo studioso le strategie di rifiuto perseguite dai lavoratori industriali di un tempo potrebbero «dimostrarsi una tecnica più promettente contro i meccanismi depressivi dei social media».

    Alle pratiche di rifiuto si sono aggiunte altre forme di resistenza decisamente più conflittuali: a San Francisco le guardie di sicurezza robotiche utilizzate per scacciare i senzatetto, così come in Arizona i veicoli pilotati dall’IA,  sono stati più volte aggrediti; negli ospedali i lavoratori hanno ripetutamente sabotato i robot che stavano sostituendo il personale addetto alle consegne; negli hub di Amazon i lavoratori hanno in molti casi sfogano il loro malcontento sugli aiutanti robotici e lo slogan «Siamo umani, non robot» ha accompagnato le battaglie per ottenere condizioni lavorative «più umane e meno automatizzate».

    Insomma, persino «nei centri logistici di Amazon, dove capitalismo industriale e capitalismo della sorveglianza si integrano perfettamente» in efficacissimi sistemi di dominio, i lavoratori non mancano di sperimentare strategie per reagire e sovvertire il regime di sorveglianza assoluta e di controllo fisico sebbene, al momento, risulti difficile individuare in che modo si possa riguadagnare autonomia in ambito lavorativo e nella vita di tutti i giorni.  È interessante notare come il recente sciopero dei portuali statunitensi, oltre portare ad importanti aumenti salariali, faccia emergere il conflitto dei lavoratori organizzati contro l’incedere dell’intelligenza artificiale e della robotica11. In Italia si segnalano le considerazioni di Luca Toscano relative al distretto pratese che testimoniano come i processi di automazione tecnologica coesistano con le più brutali forme di sfruttamento12.

    Mueller si dice convinto che «la sinistra radicale possa e debba proporre una politica decelerazionista: una politica che miri a rallentare il cambiamento, minare il progresso tecnologico e arginare la cupidigia del capitale, sviluppando e coltivando allo stesso tempo nuove forme di organizzazione e militanza. […] Lasciare che la tecnologia segua il suo corso non porterà a risultati egualitari, ma autoritari». Attenzione però, avverte lo studioso, la politica decelerazionista non ha nulla a che fare con le politiche slow tanto care agli strati agiati della popolazione che se le possono permettere; non si tratta nemmeno di dare un volto umano al capitalismo, l’ipotesi decelerazionista «non si basa su un accordo con la natura, umana o meno, ma nel riconoscere le sfide che le strategie organizzative della classe lavoratrice devono affrontare. […] Il decelerazionismo non è una ritirata verso uno stile di vita più lento, ma la manifestazione di un antagonismo nei confronti del progresso voluto dalle élite, del tutto indifferenti ai nostri interessi. È il freno d’emergenza di Walter Benjamin. È una chiave inglese negli ingranaggi».

    In conclusione, l’opzione luddista, scrive Meuller, non è finalizzata ad una semplice opposizione alle nuove tecnologie, ma si configura come

    un insieme di politiche concrete con un contenuto positivo. Il luddismo, ispirato com’è dalle lotte che i lavoratori combattono su luogo di lavoro enfatizza l’autonomia: la libertà di stabilire i criteri migliori per la propria attività, cosi come la possibilità di definire i propri standard, e la garanzia di continuità e di miglioramento delle condizioni lavorative. Nello specifico, per i luddisti le nuove macchine erano una minaccia immediata – il luddismo dunque implica una prospettiva critica sulla tecnologia, che presta particolare attenzione alla relazione fra tecnologia, processo lavorativo e condizioni di lavoro. In altre parole, non ritiene che la tecnologia sia neutrale, ma che sia piuttosto un terreno di scontro. Il luddismo rifiuta la produzione per la produzione: è critico nei confronti dell’“efficienza” considerata come obiettivo finale, poiché sa che ci sono altri valori in gioco. Il luddismo può essere generalizzato: non e una posizione morale individuale, ma una serie di pratiche che possono proliferare e consolidarsi attraverso l’azione collettiva. Infine, il luddismo è antagonista: si oppone ai rapporti sociali capitalistici esistenti, a cui si può porre fine solo attraverso la lotta, non attraverso fattori come le riforme statali, la crescita incrementale della sovrapproduzione, o una migliore economia pianificata.

    [Tecnloluddismo 1/2]


    We are not robots – serie completa


    1. Bruce Schneier, La mente dell’hacker. Trovare la falla per migliorare il sistema, Luiss Univeristy Press, Roma, 2024. 

    2. Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024. 

    3. Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. 

    4. Frank Pasquale, Secret Algorithms Threaten Rule of Law, “MIT Technology Review”, June 1, 2017. 

    5. Si vedano a tal proposito: Carlo Milani, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022; Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano, 2022. 

    6. Si veda, ad esempio, Dunia Astrologo, Andrea Surbone, Piero Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione, Meltemi, Milano 2019. 

    7. Brian Merchant, Why Self-Checkout Is and Has Always Been the Worst, “Gizmodo”, March 7, 2019. 

    8. Craig Lambert, Shadow Work: The Unpaid, Unseen Jobs That Fill Your Day, Counterpoint, Berkeley, CA, 2015. 

    9. Cfr. Atul Gawande, Why Doctors Hate Their Computers, “New Yorker”, November 5, 2018. 

    10. Cfr. John Banks, Sal Humphreys, The labour of user co-creators: Emergent social network markets?, in “Convergence: The International Journal of Research into New Media Technologies”, vol. 14, n. 4, 2008, pp. 401-418. 

    11. Si veda la traduzione dell’articolo di Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder pubblicato sul “Financial Time”, 8 gennaio 2025: Portuali americani: aumenti salariali e lotta contro l’automazione, in “Codice Rosso” 11 gennaio 2025. 

    12. Luca Toscano, Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti, in “Zapruder – Storie in movimento”, 2024. 

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    La politica al tramonto (d’Occidente) https://www.carmillaonline.com/2025/01/20/la-politica-al-tramonto-doccidente/ Sun, 19 Jan 2025 23:08:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86562 di Jack Orlando

    Anton Jager; Iperpolitica. Politicizzazione senza politica; Nero Edizioni; Roma 2024; 15€ 158 pp.

    Tre proiettili alle spalle e Brian Thompson, il CEO della United Healthcare, cade freddato a terra. Non si fa in tempo a avere l’identità dell’attentatore che già inizia il vociare di internet. Sui social si brinda alla morte del capo dell’assicurazione sanitaria, si moltiplicano le testimonianze di cure rifiutate per le politiche aziendali dell’assicurazione guidata da Thompson; rifiuti che hanno determinato morti evitabili e dolori inutili, che hanno stabilito il valore della vita di ciascuno sulla base della sua affidabilità economica. L’empatia è un [...]]]> di Jack Orlando

    Anton Jager; Iperpolitica. Politicizzazione senza politica; Nero Edizioni; Roma 2024; 15€ 158 pp.

    Tre proiettili alle spalle e Brian Thompson, il CEO della United Healthcare, cade freddato a terra.
    Non si fa in tempo a avere l’identità dell’attentatore che già inizia il vociare di internet.
    Sui social si brinda alla morte del capo dell’assicurazione sanitaria, si moltiplicano le testimonianze di cure rifiutate per le politiche aziendali dell’assicurazione guidata da Thompson; rifiuti che hanno determinato morti evitabili e dolori inutili, che hanno stabilito il valore della vita di ciascuno sulla base della sua affidabilità economica.
    L’empatia è un ingrediente che manca totalmente nella reazione generale e questo nonostante i canali mainstream si prodighino in avvisi allarmati e condoglianze contrite, nonostante soprattutto i megainfluencer politici, Musk tra tutti, che improvvisamente cambiano registro: da commentatori spietati e virulenti, aizzatori di folle, si riscoprono moderati e ragionevoli “epperò signora mia… uccidere qualcuno non è mica una bella cosa”. Rapidamente si allarga uno spazio dove le posizioni sono molto nette, al di là di qualsiasi posizionamento ideologico.

    Spazio che si fa rapidamente abisso quando diventa pubblica l’identità dell’attentatore, Luigi Mangione: italoamericano, studente brillante di buona famiglia, fisico atletico e bel viso.
    Non è incasellabile politicamente, non appartiene ad alcuna organizzazione, ha idee confuse e ha letto il manifesto di Unabomber (come lo hanno letto milioni di suoi coetanei d’altronde), soffriva di mal di schiena e odiava profondamente i parassiti delle compagnie assicurative. Non ci ha messo due ore a diventare un’icona internazionale. Il volto e il nome di Mangione invadono i social network replicandosi in una turbolenza di meme, fanart, cosplay che subissano qualsiasi critica.
    Con rapidità estrema assistiamo alla canonizzazione di un santo laico, dispensatore di giustizia sociale. La verticalizzazione dell’odio non necessita di spiegazioni scientifiche per darsi, né di successi politici o traduzioni pratiche prima di rifluire.
    È la guerra di classe che torna senza mettere radici, è la politica del XXI secolo.

    Ecco, nessuna immagine più di Mangione che spara in testa a Thompson (per poi assumere le fattezze memetiche del fratello di Super Mario) rappresenta meglio l’essenza del politico nell’Occidente al tramonto. Una modalità schizoide di interazione con la realtà, dove sono preponderanti immedesimazione e spinta emotiva più che l’appartenenza sociale, dove la consapevolezza esplicita è opzionale. È tutto un gran parlare di politica: sui social, al bar, in famiglia; ma latita la capacità di tradurre la parola in azione, la mobilitazione rimane uno strumento residuale che esplode in dati momenti per poi inabissarsi fino al ciclo seguente, senza mai sedimentare uno strumento collettivo reale. L’enigma dei nostri tempi: tutto è politica, ma la politica è nulla.

    Questo paradosso sta alla base anche del lavoro del giovane filosofo Anton Jager: come è possibile avere allo stesso tempo una società che produce proteste come mai prima nella storia, ed allo stesso tempo rimane disgregata, incapace di porre in atto qualsivoglia forma di volontà collettiva?
    In un denso pamphlet, Jager passa in rassegna l’evolvere della politica e della storia nell’ultimo mezzo secolo per trovare un punto d’appoggio da cui ricominciare a comprendere e dare una forma ai fenomeni che ci ruotano attorno a velocità vertiginosa.

    1989, il funerale della politica di massa dopo il suo ultimo sussulto dei ’70. Crolla il muro e crolla l’idea di un futuro, di una Storia. Il secolo delle guerre civili si congeda con una festa edonistica e permanente dove l’individuo è centro e punto di fuga. Il funerale del ‘900 balla in una discoteca di Londra, canta di un mondo leggero, libero dalla disciplina delle ideologie, dai catenacci del pensiero forte. La Storia è finita, si è nel dopo, nell’era dei post; della postpolitica, appunto.
    Un’illusione che dura finchè le modalità del consumo di massa sono garantite a quell’ipertrofica classe media euroatlantica tutelata dalla stabilita economica e lo stato sociale venuti fuori dalla ristrutturazione del mondo successiva alla Seconda Guerra Mondiale (e di cui il resto del globo sotto sfruttamento coatto è stato maggior contribuente).
    Lo smantellamento progressivo delle forme di organizzazione collettiva, quali partiti e sindacati, ha proceduto pari passo con lo smantellamento delle forme di tutela statale dei cittadini.
    Un lento processo di impoverimento economico e disgregamento sociale era l’ospite silenzioso della festa del mondo liberale globalizzato. Non era la Storia ad essere morta, ma il futuro.

    L’illusione dura almeno fino al 2008, alla crisi dei subprime che si schianta sui sogni di gloria della middle class. Qualcosa si rimette in moto, i primi nuovi passi della Storia dopo la fine di sé stessa, ma non siamo più in grado di riconoscerla.
    Tornano a essere battute le strade dai cortei, tornano i picchetti che bloccano le merci e gli scontri con la polizia. Battono i tamburi le primavere arabe e piazza Syntagma.
    Un sussulto che si voleva relegato al passato. Que se vayan todos.
    È il rifiuto di un’intera classe dirigente vista come principale responsabile del disastro, il rifiuto di pagare i costi della crisi, rifiuto delle promesse fatte e tradite. È il momento dell’antipolitica: il ritorno sghembo di istanze collettive ancora troppo vaghe, di alleanze sociali incapaci di riconoscersi in qualche forma di classe.
    Non è un caso che chi provi a capitalizzare il dissenso dirottandolo verso le urne finisca per accendere grandi aspettative e poi, rapidissimamente, spegnerle contro i dispositivi politici di Stati la cui sovranità è meramente formale. Il grande bluff dei cosiddetti populismi, sulla cui carcassa ha fermentato il ritorno dell’ultranazionalismo.
    E così gli anni dieci volgono al tramonto con una pandemia globale, una radicalizzazione sociale senza sbocchi e alcuno strumento per interpretare ciò che gli sta arrivando davanti.

    Gli anni venti del ‘900 furono un’epifania di ferro e fuoco, zenit dello scontro per decidere quale specie umana avesse diritto a determinare il mondo. Vinse il Capitale, grazie alla carneficina della guerra mondiale, ma i socialisti non se ne accorsero e si trovarono a fargli da garzoni di bottega.
    Un lungo processo di sussunzione che ha fatto della sinistra un amministratore della miseria, reso antipatico da un’irrefrenabile cipiglio moralista, pallido residuo di quel che un tempo si definiva coscienza.
    Ad un secolo di distanza, con un globo che brucia tra i fuochi del mutamento climatico e i razzi ipersonici della guerra mondiale che viene, le condizioni per un nuovo slancio di rottura sarebbero ottimali. Ma a differire rispetto a quei ’20 furiosi è l’assenza sociale generalizzata.
    Si è detto che non esistevano più le classi, ed in parte è stato vero; ma non in senso puramente tecnico-economico. Non esistono più le sue forme di potenza: il partito comunista, la chiesa, la parata delle camicie nere. Tutte le modalità con cui comunità umane hanno costruito propri mondi, portato avanti verità di parte e assunto un senso collettivo hanno ceduto sotto l’irresistibile ascesa del mercato.
    La sconfitta di ogni forma di incompatibilità capitalistica, che aveva come presupposto la smobilitazione sociale e il ripiego nel privato più misero, ha privato gli umani delle loro armi di difesa e del loro senso di esistere e così ha compromesso la capacità di intere società di pensare sé stesse. È un mondo di bolle, sacche d’incomunicabilità che rasentano l’autismo, nessun istituto in grado di fare universo è rimasto in piedi.

    La Storia ha ripreso il suo posto, anche gli idioti hanno dovuto riconoscerlo. E la politica, sua figlia stronza, è tornata con lei ma non ha trovato l’unica cosa in grado di farla germogliare: le collettività umane.
    Eccola qui l’Iperpolitica di Jager, la necessità bruciante di rimettere mano a un presente insostenibile e ingiustificabile, ma senza la capacità di immaginarne uno alternativo o, quantomeno, nell’incapacità di tradurre il desiderio in pratica. E soprattutto senza un attore collettivo in grado di darsi come forza.
    La politica di oggi è la scadente sottomarca di quel che era un tempo. Negazione senza costruzione, mobilitazione senza organizzazione, ideologismo senza prassi, moralismo senza norma.
    È la politica individualistica che cavilla sulle identità, buona per esser consumata e spammata ma refrattaria a qualsiasi disciplinamento (congenito a qualsiasi progetto) e che proprio per questo necessita di essere continuamente esposta al pubblico per esistere.

    Triste storia, ma è già qualcosa. Un segno che le crepe del dominio occidentale hanno dato ossigeno a spinte centrifughe rompendo l’illusione della pace perpetua neoliberale.
    Ancora troppo poco per poter sperare in un’inversione di rotta: si festeggia Luigi Mangione che spara ma si rifiuta qualsiasi militanza reale; abitiamo un’umanità instupidita e depressa che si accontenta dei simulacri della politica più che della sua sostanza. Ma la rabbia fermenta, i fenomeni mutano e maturano, e quel che solo ieri era impensabile oggi è banale.
    Se osserviamo i piccoli smottamenti del nostro tempo, nascosti sotto una coltre impressionante di macrofenomeni, possiamo iniziare a teorizzare la frana.

    Non è detto che Iperpolitica sia una definizione in grado di cogliere davvero l’essenza del nostro tempo, ma di sicuro la genealogia che la sorregge permette di guardarsi alle spalle con meno nebbia attorno; si fa i conti con i limiti di schemi di pensiero, tanto radicali quanto liberali, che hanno ormai fatto il loro tempo e girano a vuoto.
    Ma non si tratta di semplicistiche rottamazioni quanto di allargare maglie, aggiornare modelli, tagliar via inutili orpelli, riprendere la misura di quel che è.
    È un modo per aprire una pista, via d’uscita dalla gabbia di un pensiero atrofizzato; e nei tempi cupi che viviamo nulla è più essenziale delle vie di fuga.

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    Dalla Pantera al populismo, ovvero il détournement dei movimenti sconfitti https://www.carmillaonline.com/2025/01/18/dalla-pantera-al-populismo-ovvero-il-detournement-dei-movimenti-sconfitti/ Fri, 17 Jan 2025 23:20:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86067 di Fabio Ciabatti

    Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00

    I movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo dei centri sociali, si configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può consentire di rintracciare una possibile genealogia della protesta populista “di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto sostiene l’autore nel suo recente [...]]]> di Fabio Ciabatti

    Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00

    I movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo dei centri sociali, si configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può consentire di rintracciare una possibile genealogia della protesta populista “di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto sostiene l’autore nel suo recente libro La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003) bisogna prima di tutto capire cosa si intende con genealogia. In breve, non si tratta di una filiazione diretta, ma di

    un rapporto più distante e profondo, magmatico, che avviene a livello inconsapevole sul piano dell’ideologia spontanea dei movimenti, che sedimenta un modo di intendere la politica che, alterato dalla crisi economica e finanziaria degli anni dieci del Duemila e riformulato da nuovi protagonisti (e “imprenditori”) della politica, consente di ricavare un legame di parentela.1

    In secondo luogo, bisogna capire il significato di “protesta debole”. Cosa che è possibile fare paragonandola alla protesta che può essere considerata forte, cioè quella innervata nella tradizione marxista e comunista, con particolare riferimento al movimento degli anni Settanta. Raffronto che non è una mera sovrapposizione di due periodi storici differenti operata estrinsecamente dallo studioso, perché il riferimento a quegli anni è un tema ricorrente nella stessa riflessione dei movimenti successivi, sebbene tale confronto si esprima spesso attraverso una dinamica di attrazione e repulsione. Ebbene, la forte componente di identificazione ideologica, la capacità di sedimentazione organizzativa, il legame tra politica e collocazione di classe, la chiara connotazione rivoluzionaria e anticapitalista sono tutti elementi che mancano nei movimenti degli anni Novanta e dei primi Duemila e che invece troviamo negli anni Settanta, quantomeno nelle intenzioni.  

    A partire dalla Pantera e proseguendo nel ciclo dei centri sociali, infatti, si delinea la tendenza a una frattura con la memoria storica che però non sembra consumarsi fino in fondo. Piuttosto il risultato, in generale, è “quello di rivendicare un’autonomia delle scelte, delle pratiche, delle idee, di una nuova generazione che sente di poter camminare sulle sue gambe forte di una tradizione a cui si appartiene ma non costretta in essa”.2
    Un certo grado di separazione dal passato è inevitabile, secondo Barile: “La politica in senso novecentesco non poteva sopravvivere alla fine della società organica e di massa, di cui un certo modo di fare politica era espressione”.3 La fine del fordismo classico, dell’interventismo statale in senso genericamente keynesiano e la dissoluzione dell’Unione Sovietica fanno venire meno, contemporaneamente, i riferimenti materiali e ideologici della “protesta forte”. La mobilitazione sociale, dunque, seguendo lo spirito dei tempi, si organizza attraverso reti più agili diventando più vulnerabile e, al tempo stesso, più attraente. L’indebolimento dei canali di identificazione ideologica, infatti, permette ai movimenti di connettersi ai “sentimenti del disincanto” generati negli anni Ottanta contribuendo ad un fenomeno sociale attestato dalla ricerca empirica ma ignorato dal senso comune: in Italia, come nel resto d’Europa, dopo gli anni Settanta la protesta è divenuta un fattore strutturale della società, aumentando progressivamente nel corso degli anni. A mutare sono le forme di coinvolgimento politico e i soggetti che si mobilitano, con un innalzamento dei livelli di reddito e di istruzione delle persone che prendono parte a modalità non convenzionali di attivismo. 

    Attivismo è un termine  che, non a caso, sostituisce quello più tradizionale di militanza, sospettato di evocare una modalità del coinvolgimento politico totalizzante, impersonale, irreversibile e “sacrificale”. La parola militanza, inoltre, porta con sé una connotazione militaresca che richiama lo spauracchio della violenza politica degli anni Settanta, continuamente agitato dalle classi dirigenti e dai media mainstream. Nell’incessante evocazione di questo demone la vera posta in gioco, nota giustamente Barile, non è la violenza in quanto tale, ma la dimensione conflittuale della politica. Cioè la sua capacità di essere fino in fondo e coerentemente, da un punto teorico e pratico, antisistema e non semplicemente anti-establishment.
    Questa continua pressione sui movimenti ha avuto il suo peso nella perdita di vigore della variegata modellistica marxista sostituita, spesso inconsapevolmente, da una cornice interpretativa che l’autore indica come risalente a Karl Polanyi. In sostanza, a essere oggetto di contestazione non è più il capitalismo in quanto tale, ma una sua configurazione particolare che può essere variamente identificata come neoliberismo, globalizzazione, unipolarismo ecc. In altre parole quel tipo di capitalismo che può esplicare la sua logica senza freni e contrappesi, svincolato da qualsivoglia regolazione politica e statuale.
    Uno dei portati di questa situazione è il dibattersi dei movimenti tra una dimensione oggettivamente riformista e una pratica spesso radicale, come la difesa dei spazi occupati, che produce anche una sedimentazione di immaginari controculturali, espressione di  settori giovanili, marginali, metropolitani, capaci di dare nuova voce a un sentire rivoluzionario o, forse, più semplicemente ribellistico. Si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che i centri sociali diventano i luoghi di produzione della musica rap e reggae.
    In breve si può dire che la debolezza della protesta consente di mettere in sintonia le nuove generazioni di militanti, pardon attivisti, con un milieu, soprattutto giovanile, che non avrebbe avuto la capacità di coinvolgere riproponendo i modelli politici degli anni Settanta. D’altra parte questa stessa debolezza non consente di venire a capo di una serie di problemi che si pongono di fronte alla prassi politica e che, volendo sintetizzare all’estremo, rappresentano l’articolazione di quel dilemma tra riformismo e radicalità cui abbiamo accennato. 

    Cerchiamo di mettere a fuoco alcune questioni seguendo il filo cronologico dei movimenti. La occupazioni universitarie della Pantera, che durano circa due mesi all’inizio del 1990 seguendo a breve distanza l’occupazione in solitaria dell’Università di Palermo iniziata a dicembre dell’anno precedente, hanno l’innegabile pregio di mettere fine al lungo riflusso degli anni 80 e di denunciare con notevole tempismo i primi processi di privatizzazione dell’istruzione, intesa non solo come ingresso dei privati nella sua gestione ma anche come adozione di logiche privatistiche nell’amministrazione pubblica. Tuttavia la Pantera smobilita molto rapidamente dopo la fine delle occupazioni senza riuscire nel suo intento di far fuoriuscire la mobilitazione dalle sedi universitarie, dopo essersi incartata nella definizione delle procedure democratiche che dovevano presiedere all’assemblea nazionale di Firenze ma che, di fatto, consumano completamente la riunione plenaria del movimento, incapace di una qualsiasi sintesi politica.
    L’energia scaturita da quella mobilitazione, però, dà nuova linfa a un processo, l’occupazione dei centri sociali, in verità già iniziato nel decennio precedente per opera, essenzialmente, dell’area dell’autonomia. Si tratta di un fenomeno politico che, in forza del suo radicamento territoriale, mostra una significativa durata e una importante capacità espansiva. Tuttavia non riesce a venire a capo della sua duplice natura, da una parte sociale con le sue istanze aggregative, ricreative, culturali e mutualistiche, dall’altra politica, con le sue ambizioni di ricostruire i legami tra i segmenti di una composizione di classe disgregata e multiforme.
    Connesso a questo aspetto ce n’è un altro: l’occupazione e l’autogestione esprimono un’istanza di autodeterminazione contraria a ogni forma di delega e dunque alle modalità tradizionali, partitiche e sindacali, della politica. D’altra parte le già richiamate attività mutualistiche, che configurano in nuce una sorta di welfare dal basso in grado di sopperire al rapido deterioramento di quello statale, così come il tentativo di realizzare nell’ambito delle occupazioni attività in grado di procurare una forma di reddito, sono dinamiche che spingono alla ricerca di un riconoscimento e una collaborazione con le istituzione locali, sottraendo radicalità alle prassi e agli obiettivi politici.
    Solcato da queste contraddizioni irrisolte, il variegato mondo dei centri sociali diviene una componente importante dell’ancor più multiforme movimento no global, non a caso denominato movimento dei movimenti, che vede la partecipazione, tra gli altri, del sindacalismo di base e di una parte di quello confederale e dell’associazionismo, anche di stampo cattolico. La contestazione della globalizzazione, che trova un immediato referente polemico nelle riunioni degli organismi multilaterali che la governano, lascia spazio a un’ambiguità di fondo: a essere contestata è la globalizzazione in quanto tale, intesa come ultima incarnazione in ordine di tempo del capitalismo, o solamente la globalizzazione nella sua versione neoliberista, selvaggia e non regolamentata? In altre parole il movimento è no global o piuttosto new global, perorando la causa di una globalizzazione dal basso nell’ambito di una rinnovata cittadinanza globale?

    In qualche modo a Genova 2001 vengono al pettine una serie di nodi che si erano intrecciati durante tutto il decennio precedente. Un processo che era cresciuto velocemente dinamizzando la partecipazione politica si scontra frontalmente con l’apparato repressivo dello stato e non è in grado di reggere l’urto.

    A quel punto, il catalogo di pratiche e di istituti fondati su tale sistema ideologico debole non sopravviverà al calo fisiologico della partecipazione. Alla rapida crescita seguirà un altrettanto veloce ripiegamento, che troverà tutta la sinistra spiazzata di fronte alla crisi economica che, a partire dal 2009, inciderà sulla materialità dei rapporti sociali anche in Italia.4

    E con questo ci avviciniamo ai giorni nostri.

    Il populismo – nella sua inafferrabile definizione – si presenta come il risultato ultimo della crisi dei movimenti sociali, ma anche come conseguenza di una serie di idee contenute in nuce nella protesta degli anni novanta e primi duemila.5

    La contestazione della globalizzazione costituisce un immediato terreno comune tra movimento no global e populismo che si fa chiara espressione dei perdenti di processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. A dirla tutta l’atteggiamento del populismo configura un rifiuto più netto, laddove per il movimento dei movimenti la globalizzazione costituisce certamente un problema, ma, almeno per alcune sue componenti, anche un’opportunità. C’è anche una condivisa diffidenza nei confronti della politica e delle sue forme tradizionali, complice anche una certa fascinazione nei confronti delle tecnologie telematiche considerate come possibili strumenti per una disintermediazione della partecipazione politica. Si può inoltre registrare una condivisa connotazione anti-establishment che non si spinge fino al punto di diventare anti-sistema, non ponendosi l’obiettivo di un rovesciamento radicale dello stato di cose presenti
    C’è, last but not least, un comune disancoraggio della politica rispetto alla condizione di classe e la connessa considerazione della pluralità come valore in sé. Il popolo come soggetto collettivo consente infatti di integrare nella protesta tutte le marginalità eccedenti i confini storici della classe operaia garantendole nella loro molteplicità. Dal lato del movimento no global, il soggetto collettivo viene spesso rappresentato come moltitudine, concetto molto diffuso grazie agli scritti di Hardt e Negri. Si tratta, secondo Barile, di un “camuffamento lessicale” rispetto al concetto di classe che soffre di una significativa indeterminatezza sociologica richiedendo, perciò, un’unificazione tutta politica delle molteplici soggettività. Sganciato dalla effettiva materialità dei rapporti produttivi il referente sociale si allarga a dismisura arrivando ad assomigliare a quel famoso 99% che gli Indignatos e Occupy Wall Street qualche anno dopo sosterranno di rappresentare. Un’idea che, a sua volta, per la sua eccessiva genericità, si presterà ad essere trasfigurata nell’altrettanto vago concetto popolo.

    Nonostante queste significative consonanze, nota ancora l’autore,

    vi è un tema decisivo che distanzia clamorosamente le due esperienze: la questione della sovranità statuale. Nella proposta populista “di destra” e “di sinistra” lo Stato è l’attore in grado di resistere ai processi di globalizzazione, l’arena entro cui riportare l’economia sotto il controllo della politica, lo spazio politico e amministrativo in grado di proteggere i cittadini dalla violenza incontrollata delle forze del libero mercato.6

    Questa fondamentale distanza rende più difficile, per così dire, calcolare il grado di quella parentela tra populismo e movimenti che il testo cerca di descrivere attraverso il concetto di genealogia. Per questo può essere utile fare qualche riflessione aggiuntiva sul tema. Dal libro di Alessandro Barile emerge come nella “protesta debole” convivano in un precario equilibrio una serie di elementi che scaturiscono dal necessario tentativo di confrontarsi con un nuovo contesto. Protestare contro la globalizzazione senza scadere nel nazionalismo, criticare i meccanismi della rappresentanza politica senza senza finire nella braccia dell’antipolitica, cercare la ricomposizione di un corpo sociale frammentato senza pretendere di ridurre le molteplici soggettività a una forzosa unità: queste sono solo alcune delle questioni che sono state affrontate in maniera più o meno consapevole dalle nuove generazioni di militanti/attivisti. Contraddizioni in seno al popolo che mettono in moto la ricerca di una nuova sintesi, potremmo chiosare tra il serio e il faceto. Ogni tentativo in questo senso, però, è stato interrotto dalla sconfitta dei movimenti di quegli anni che si consuma a Genova nel 2001. E’ solo a questo punto che una nuova leva di politici può avere mano sufficientemente libera nello scegliere a proprio uso e consumo alcuni degli elementi presenti nel repertorio politico sedimentato dai movimenti degli anni precedenti. Ciò che nei movimenti era contraddittorio e per questo, in qualche misura, ancora fecondo, con il populismo diventa tristemente unilaterale.
    Insomma, se di genealogia dobbiamo parlare sarebbe forse opportuno sottolineare maggiormente il momento della sconfitta come fase di passaggio dai movimenti al populismo. Non è certo la prima volta che la sconfitta di un soggetto collettivo fa da premessa al recupero di alcune delle sue istanze di liberazione nell’ambito di un progetto di nuova stabilizzazione dell’ordine capitalistico. E’ accaduto, per esempio, con il movimento del Settantasette. Quest’ultimo, giova ricordarlo, si era già contrapposto ai modelli pratici e ideali della sinistra storica, anche se, a differenza di quanto accaduto in tempi più recenti, lo aveva fatto in nome di un differente concezione di comunismo che nasceva, tra l’altro, in risposta alle prime avvisaglie di un indebolimento delle identità collettive di classe. La repressione di quel movimento, però, aveva aperto la strada ai modelli individualistici e consumistici che si sarebbero affermati definitivamente negli anni successivi riciclando surrettiziamente alcuni valori e comportamenti della gioventù rivoluzionaria del lungo Sessantotto, in particolare l’opposizione ad alcune forme di collettivismo, proprie della sinistra storica, che assumevano connotati oppressivi e omologanti. Una sorta di amara vittoria del détournement situazionista, destinata a ripetersi.7

    Tornando a tempi più recenti, Barile non manca certo di menzionare l’importanza del frangente storico rappresentato dalla mattanza poliziesca del G8 di Genova nel 2001, ma forse questa vicenda avrebbe meritato maggiore attenzione. E’ singolare, notiamo di passaggio, che non venga fatta menzione dell’uccisione di Carlo Giuliani. E’ proprio attraverso i fatti di Genova, infatti, che giunge a compimento, sotto forma di un vero e proprio trauma generazionale, la messa in mora del conflitto quale forma essenziale della politica. Insieme alla crisi economica del 2008-9, che accelera fortemente il processo di impoverimento di larghi strati della popolazione, è il trauma di Genova a sgomberare la strada per l’affermazione del populismo grillino. Quest’ultimo non nasce certo per dare nuova linfa ai conflitti, oramai privi di una soggettività che ambisca a metterli in connessione nell’ambito di un progetto politico-sociale di ampio respiro, ma si propone come venditore di soluzioni di natura tecnica (se non propriamente tecnologica) offrendo un canale di sfogo a quella che veniva percepita come un’incipiente protesta a rischio di esplodere incontrollata (come ebbe a dire in un momento di rara sincerità Grillo stesso).8   
    Il populismo, dal punto di vista della sua tonalità emotiva, può essere considerato come una rabbiosa reazione a un soverchiante senso di impotenza. Lo stesso senso di impotenza che è all’origine del trauma del G8 di Genova. Nonostante la forte partecipazione alle proteste contro le successive guerre in Afghanistan e Iraq, la mobilitazione risulta comunque sfibrata: “il movimento entrò nel moto spontaneo pacifista e non ci fu più violenza alcuna solo paura della violenza e da allora dopo le manifestazioni si lodavano i prefetti che non cercavano lo scontro li si pensava sindaci delle città”,9 ha sintetizzato efficacemente Massimo Palma in un testo di prose poetiche. Occorre superare quella paura, che poi, come già chiarito, significa in realtà sconfiggere il timore del conflitto in quanto tale. Da questo punto di vista il populismo non fa problema perché dà espressione alla rabbia sociale, ma perché cerca di incanalarla verso soluzioni tecnocratiche e/o autoritarie che impediscono, di fatto, l’attivazione di una reale soggettività collettiva. L’unico possibilità che abbiamo per decostruire nella pratica la pseudo collettività populista è riannodare la trama dei conflitti, riallacciando i fili di una storia interrotta, ma evitando di percorrere nuovamente quelle che si sono dimostrate strade senza uscita. E sarà bene farlo in fretta perché quello stesso mondo che pretendeva di rappresentarsi come libero dai conflitti oggi è preda di spasmi bellici sempre più incontrollabili. A tal fine il testo di Barile, ragionando in modo approfondito e politicamente orientato sui punti di forza e di debolezza di movimenti che ci hanno preceduto, può sicuramente rappresentare un utile strumento.


    1. Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, p. 8. 

    2. Ivi, p. 80. 

    3. Ivi. p. 16. 

    4. Ivi, p. 15. 

    5. Ivi, p. 132. 

    6. Ivi, p. 167. 

    7. Cfr. Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, recensito qui

    8. Cfr. Giuliano Santoro, Dal Grillo qualunque al Conte dimezzato, in “Jacobin Italia”, 28 novembre 2024. 

    9. Massimo Palma, Movimento e Stasi, Industria & Letteratura, 2021, p. 33. 

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    La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

    Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

    Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

    Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

    Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

    A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

    Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

    Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

    Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

    Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

    In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

    Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

    Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

    Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

    Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

    Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

    Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

    “Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
    Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

    Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

    “La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
    Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
    È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

    Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

    Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


    1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

    2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

    3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

    4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

    5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

    6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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    We are not robots – Tecnoluddismo 1/2 https://www.carmillaonline.com/2025/01/14/we-are-not-robots-tecnoluddismo-1-2/ Tue, 14 Jan 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86133 di Gioacchino Toni

    Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, traduzione di Valerio Cianci, Nero, Roma, 2021, pp. 170, € 20,00

    In Breaking Thing at Work: The Luddites Are Right About Why You Hate Your Job (Verso, 2021), tradotto da Valerio Cianci per le edizioni Nero, l’ottimismo tecnologico, sostiene Mueller, lungi dall’essere prerogativa di cinici miliardari come Jeff Bezos ed Elon Musk, lo si ritrova anche in ambienti di sinistra, ove «i cosiddetti accelerazionisti prevedono un comunismo di lusso pienamente automatizzato sulla scia delle più selvagge fantasie degli imprenditori della Silicon Valley» in continuità con una tradizione marxista poco propensa [...]]]> di Gioacchino Toni

    Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, traduzione di Valerio Cianci, Nero, Roma, 2021, pp. 170, € 20,00

    In Breaking Thing at Work: The Luddites Are Right About Why You Hate Your Job (Verso, 2021), tradotto da Valerio Cianci per le edizioni Nero, l’ottimismo tecnologico, sostiene Mueller, lungi dall’essere prerogativa di cinici miliardari come Jeff Bezos ed Elon Musk, lo si ritrova anche in ambienti di sinistra, ove «i cosiddetti accelerazionisti prevedono un comunismo di lusso pienamente automatizzato sulla scia delle più selvagge fantasie degli imprenditori della Silicon Valley» in continuità con una tradizione marxista poco propensa a criticare la tecnologia anche quando questa viene applicata in ambito lavorativo in maniera alienante.

    Convinti della neutralità della tecnologia, molti marxisti hanno guardato quasi esclusivamente a chi disponesse del controllo su di essa (i lavoratori o il capitale), in alcuni casi giungendo persino a guardarla di buon occhio anche quando sottoposta al controllo del capitale in quanto «mezzo in grado di creare le condizioni per una trasformazione radicale proprio sotto al naso del datore di lavoro»; insomma, in vista del fine ultimo socialista, occorrerebbe saper accettare l’avanzamento tecnologico anche quando nel “breve” periodo – e poco importa se coincide con la vita lavorativa di intere generazioni – dovesse comportare conseguenze negative per gli stessi lavoratori (e l’ambiente in cui vivono).

    Per quanto marxista, Mueller si pone nei confronti della tecnologia in maniera decisamente diversa rispetto ai tecnoentusiasti marxisti, mettendo in risalto le ricadute negative della massiccia applicazione delle tecnologie in ambito produttivo sui lavoratori, la propensione all’accentramento di ricchezza, dunque di potere, a vantaggio degli sfruttatori e la riduzione dell’autonomia dei lavoratori e della loro capacità di organizzarsi per tutelare i propri interessi. Se si è interessati al destino di queste persone e se si è mossi da principi egualitari, afferma Mueller, occorrerebbe essere «critici nei confronti della tecnologia e quindi prendere in considerazione tutti i frangenti in cui le persone, soprattutto i lavoratori, vi si sono opposte».

    L’autore inizia il volume indagando la prospettiva politica propria dei tessitori inglesi ottocenteschi che hanno combattuto la riorganizzazione tecnologica del lavoro imposta dai capitalisti dell’epoca. Per quanto, anche a sinistra, siano stati a lungo dipinti come anacronistici ed irrazionali antimodernisti, i luddisti, scrive Mueller, «credevano che le nuove macchine fossero una minaccia al loro stile di vita, che sarebbero state in grado di distruggere le loro comunità e che, di conseguenza, la distruzione di quelle stesse macchine fosse una valida strategia per opporvi resistenza».

    Guardare sotto una diversa prospettiva quelle lotte può contribuire a vedere quanto di buono c’è nel riemergere di pratiche luddiste anche ai nostri giorni. Scopo dichiarato dell’autore è mostrare come «il luddismo sia intellettualmente compatibile con il marxismo», non tanto come esercizio astrattamente filosofico, ma per testare la teoria marxista mettendola a confronto con le effettive pratiche dei lavoratori. Per fare ciò, continua lo studioso, è importante recuperare «gli esempi fondamentali di lotte in cui i lavoratori non si sono focalizzati esclusivamente sui loro nemici di classe (rappresentati da padroni o manager) ma anche sulle macchine utilizzate in quelle lotte».

    «Che lo si ammetta o meno, buona parte della critica tecnologica contemporanea deriva da una prospettiva umanistica e romantica, dall’idea che la tecnologia ci abbia allontanato da qualche nostra componente essenziale, e che ci separi da ciò che ci rende umani». Il recupero della dimensione umana alienata dalle tecnologie di cui parlano diversi studiosi spesso si limita a riprendere la critica heideggeriana nei confronti della tecnologia (tecnica) al fine di riconquistare l’Essere “autentico”. Il limite evidente di tali prospettive, sostiene Mueller, è che il problema fondamentale della tecnologia riguarda piuttosto «il suo ruolo nella perpetrazione delle gerarchie e delle ingiustizie imposteci da proprietari d’industria, capi e governi. In poche parole, il problema della tecnologia è il suo ruolo nel capitalismo», il fatto che attraverso questa si sia di fatto ampliato a dismisura il tempo di lavoro, limitando l’autonomia dei lavoratori ed agendo in maniera predittiva nei loro confronti dividendoli.

    «In tutta risposta, un’efficace strategia di lotta di classe dovrà necessariamente prendere di mira le macchine con cui si trova costretta a convivere», come è accaduto in diversi momenti storici. L’obiettivo dell’autore, evidentemente, non è quello di invitare a “sfasciare le macchine”, bensì quello di «dimostrare come i lavoratori stessi si siano più volte dimostrati luddisti nel corso delle loro lotte. Questo è vero tanto per gli autoproclamati seguaci di re Ludd all’alba del XIX secolo, quanto per tutti gli altri lavoratori che ne hanno seguito le orme nel corso degli anni. E vale anche per i lavoratori tecnologici più qualificati nell’epoca del computer». Anziché perdere tempo nel giudicare o biasimare tali lotte, scrive l’autore, occorrerebbe articolare una teoria a partire da esse.

    Lo storytelling, fatto proprio anche dalla sinistra, che auspicava uno sviluppo tecnologico esponenziale in grado di correggere le storture presenti ha mostrato la sua inconsistenza; basti guardare a come le recenti innovazioni delle reti digitali, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale siano accompagnate da esiti negativi per i lavoratori e per il Pianeta. Nel frattempo si sono manifestati in maniera crescente sentimenti ed episodi luddisti e anticapitalisti: è a partire da questi che, secondo Mueller si deve guardare per costruire un futuro migliore per tutti e tutte.

    L’analisi attenta della stagione luddista ottocentesca contraddice la narrazione egemone che etichetta la resistenza alle macchine come tecnofoba, mossa da un’ingenua contrarietà al progresso. In realtà, scrive lo studioso, «le macchine industriali hanno sempre ispirato una particolare avversione non solo perché demolivano i modelli di vita tradizionali, ma anche perché logoravano e sfiancavano coloro che erano destinati a utilizzarle». Lungi dall’essere stata semplice tecnofobia, l’opposizione luddista alla tecnologia «non era contro le macchine in sé, ma contro la società industriale che minacciava il loro stile di vita, e che aveva trovato nelle macchine la propria arma principale».

    La distruzione dei macchinari rappresenta soltanto una fra le tante tecniche utilizzate dai luddisti, riservata ai più intransigenti proprietari delle fabbriche, essa fa parte di una più ampia strategia volta ad implementare il potere dei lavoratori. Come ha mostrato lo storico Eric Hobsbawm1, le distruzioni delle macchine dei luddisti erano finalizzate all’ottenimento di un maggior potere contrattuale collettivo e deve essere considerata come espressione di una determinata composizione di classe: è attraverso «la distruzione dei macchinari che i luddisti si sono costituiti come classe, creando cosi legami di solidarietà», le varie forme di rivolta contro le macchine rappresentano dunque pratiche di organizzazione politica.

    Nel caso dei luddisti si trattava perlopiù di lavoratori indipendenti la cui opposizione al loro assorbimento nelle fabbriche si coniugava ad altre forme di resistenza che avevano come obiettivo la salvaguardia di elementi specifici del loro stile di vita e delle loro comunità. Ovviamente non potevano organizzarsi allo stesso modo dei lavoratori di massa, e non limitavano le loro lotte al posto di lavoro. Questa classe invece si organizzo attorno a una figura mitologica e collettiva – re Ludd – e creo forme e pratiche di segretezza e di solidarietà comunitaria in modo da alimentare le lotte e al contempo proteggere chi vi prendeva parte. […] Gli attacchi organizzati ai macchinari delle fabbriche e la loro distruzione non erano parte di una strategia isolata – erano invece la trama stessa della resistenza, la fibra che univa i tessitori come classe. Era una pratica di solidarietà.2.

    Mueller si sofferma anche sulla resistenza operaia all’introduzione del taylorismo a partire dal celebre  sciopero spontaneo dell’11 agosto del 1911 degli operai dell’arsenale di Watertown in risposta al licenziamento di uno di loro che si era rifiutato di farsi cronometrare dai solerti responsabili della “verifica scientifica” della tempistica produttiva. La mobilitazione comportò la sospensione del taylorismo e la riassunzione dell’operaio. Il cronometro rappresentò la macchina per eccellenza del nuovo sistema di organizzazione del lavoro e con esso delle attività operaie.

    Se fino ad allora i lavoratori detenevano il monopolio delle conoscenze necessarie all’organizzazione ed al funzionamento dei meccanismi produttivi, tanto da poter contrarre o dilatare i tempi a piacimento, il nuovo sistema produttivo fondato sull’organizzazione scientifica del lavoro, di fatto, più che a determinare metodi di lavoro ideali, mirava ad esautorare il controllo operaio sulla produzione, dunque a toglier loro potere. «La terminologia moderna della “scienza” e dell’“efficienza” mascherava il desiderio di disciplinare e controllare i lavoratori». L’organizzazione scientifica, scrive lo studioso, più che una «scienza dell’efficienza» si è rivelata «un programma politico per rendere i lavoratori soggetti docili e obbedienti». Non a caso «le priorità produttive» durante la seconda guerra mondiale «erano la costanza e il controllo, non la riduzione delle tempistiche o il risparmio di denaro, benché il controllo della domanda e dei salari durante il periodo bellico riuscissero in ogni caso a mantenere in attivo i fondi delle industrie».

    Che negli Stati Uniti l’obiettivo principale nelle fabbriche durante il periodo bellico fosse il controllo ben più che l’efficienza è chiaramente comprensibile se si pensa che nel corso degli anni Quaranta il numero di scioperi, spesso attuati senza preavviso, superò quello della Grande Depressione, tanto che per qualche tempo negli stabilimenti Ford si arrivò in media a scioperare a giorni alterni. Per arginare un tale livello di conflittualità, che rischiava di aumentare con il reinserimento dei militari di ritorno dalla guerra, oltre alla repressione diretta si fece ricorso anche a qualche apparente concessione sotto forma di accordo con le principali organizzazioni sindacali affinché i salari fossero sempre più strettamente legati alla produttività, dunque all’accettazione dei macchinari e dei sistemi di automazione sui luoghi di lavoro nonostante ciò portasse ad una sottrazione del sapere operaio nella gestione dei processi produttivi e con esso del potere contrattuale.

    Alla Bethlehem Steel, in Pennsylvania, ove intraprese i sui primi esperimenti di riorganizzazione del lavoro, Taylor si trovò a fare i conti con una lunga serie di guasti alle macchine provocati dai lavoratori. Dopo la scomparsa di Taylor nel 1915, scrive Mueller, a portare avanti la sua rivoluzione furono paradossalmente i sindacati operai.

    Agli inizi del XX secolo, i leader marxisti dei movimenti operai vedevano le tecnologie capitaliste e la gestione scientifica allo stesso modo di Taylor: si trattava di una tecnica obiettiva di incremento della produzione, e quindi di miglioramento della condizione dei lavoratori. Fondandosi su un’interpretazione particolare della teoria marxiana, credevano che il capitalismo, nella sua incessante ricerca di profitto, garantisse l’aumento della produttività grazie a innovazioni tecnologiche competitive e all’elaborazione di metodi lavorativi sempre più efficienti. Queste scoperte non avevano una politica intrinseca: la tecnologia era neutra e sarebbe stato possibile appropriarsene sottraendola al capitale privato e affidandone il controllo allo Stato, che l’avrebbe di conseguenza usata per l’emancipazione operaia dal logorio della vita lavorativa.

    Insomma, scrive Mueller, «per la teoria marxista ortodossa, la produzione socialista era già contenuta nei modi di produzione capitalisti, a patto che questi avessero continuato a svilupparsi». La fiducia che i teorici marxisti riponevano nella tecnologia e nella scienza della produzione e più in generale nel progresso, si trovò spesso in contrasto con l’attività pratica dei lavoratori. Mentre il taylorismo si diffondeva nelle fabbriche statunitensi, a differenza delle leadership dei partiti e dei principali sindacati di sinistra, i militanti dell’Industrial Workers of the World (IWW) compresero immediatamente le ricadute nefaste dell’organizzazione scientifica del lavoro sulla classe operaia, tanto da agire di conseguenza con i più diversi atti di sabotaggio.

    Dopo aver tratteggiato il dibatto interno alla Seconda internazionale e le scelte prese dall’Unione Sovietica a proposito della tecnologia, del processo lavorativo e delle produttività, Mueller si sofferma sull’azione autonoma dei lavoratori statunitensi ed europei nelle lotte contro l’automazione nell’era postbellica, quando, non badando agli inviti alla cautela e alla pazienza delle maggiori organizzazioni sindacali, i lavoratori abbandonavano le postazioni di lavoro o manomettevano i macchinari. Negli Stati Uniti, tra le fila di questi operai in lotta contro l’automazione, ricorda Mueller, «c’era posto per chi spesso veniva marginalizzato dai movimenti dei lavoratori ufficiali, ossia le donne e gli afroamericani – a cui, per altro, dobbiamo buona parte delle più efficaci analisi critiche sulle nuove tecnologie».

    Nel corso degli anni Sessanta, ricorda lo studioso, «nelle loro analisi e nelle loro politiche i maggiori gruppi radicali neri assegnarono un’importanza fondamentale alla critica della tecnologia. Capirono che la ricomposizione della forza lavoro innescata della tecnologia avrebbe segnato il destino delle loro lotte». Non a caso nel 1972 le Black Panther aggiornarono il loro programma inserendo il «controllo delle nuove tecnologie da parte delle comunità». Anche in ambito femminista furono numerose le denunce di come la tecnologia, nella sfera domestica come in fabbrica, rafforzasse la divisione di genere del lavoro3.

    Come avvenne per i tessitori, anche i lavoratori portuali americani si resero conto di come l’introduzione massiccia di tecnologia stesse minando il loro controllo sulle attività ed i legami di solidarietà. «L’automazione fu un vero e proprio rovesciamento del sistema portuale: nei porti ormai containerizzati, non solo erano necessari sempre meno scaricatori, ma, per via della drastica riduzione dei tempi di carico e scarico con il conseguente deprezzamento delle spedizioni marittime, divennero necessari sempre meno porti. Molte città, fra cui New York, videro i loro porti e le comunità che li animavano decimarsi nel giro di pochi anni».

    Ad avere la meglio nel pensiero di sinistra sarà una visione che, quando non si limita ad accogliere acriticamente l’automazione nei processi produttivi con annesse finalità produttivistiche, giunge persino a farne una vera e propria apologia, tanto da vedere nel mito della “piena automazione” un passaggio obbligato per il superamento dello sfruttamento capitalista, come se i fini ultimi bastassero a redimere una routine di fabbrica fatta di fatica, parcellizzazione, alienazione e corsa contro il tempo.

    Ai nostri giorni l’automazione – che agisce sulla forza lavoro «atomizzando e ricombinando i compiti, modificandone le richieste ed eliminando le occupazioni di fascia media» – comporta la sostituzione soprattutto del lavoro fisico ripetitivo e quello proprio delle posizioni manageriali intermedie.

    Per esempio, i magazzini di Amazon utilizzano un sistema a gestione software per coordinare i lavoratori umani che selezionano uno specifico bene e i robot che invece si occupano dello spostamento di grandi scaffali. Gli algoritmi sostituiscono le posizioni organizzative intermedie, comportando la polarizzazione della forza lavoro, fatta di dirigenti sempre più ricchi e potenti e lavoratori declassati che non sono sostituibili dalle macchine, ma da altri lavoratori: in sostanza manodopera tranquillamente rimpiazzabile all’occorrenza.

    Nel dopoguerra, attorno all’automazione si consumarono accese discussioni in seno alla sinistra. Sebbene i lavoratori si fossero a più riprese rivoltati contro l’introduzione di nuove tecnologie nell’ambito lavorativo, non di rado le organizzazioni sindacali hanno in qualche modo collaborato con i datori di lavoro «per assoggettare l’irrequieta forza lavoro alle macchine. Con l’intensificazione dell’attivismo nel corso degli anni Sessanta, il capitale ha accelerato il processo di cambiamento tecnologico come parte di una ristrutturazione globale radicata nelle varie destabilizzazioni dell’ordine postbellico. Al centro di tali cambiamenti c’era una tecnologia che le controculture accolsero con fascinazione e terrore: il computer».

    [continua]


    We are not robots – serie completa

     


    1. Eric Hobsbawm, The Machine Breakers, “Past and Present”, n. 1, 1952. 

    2. A tal proposito si veda Peter Linebaugh, King Ludd and Queen Mab Machine-Breaking, Romanticism, and the Several Commons of 1811-12, PM press, Oakland, CA, 2012. 

    3. Cfr.: Selma James, Mariarosa Dalla Costa, The Power of Women and the Subversion of Community, Falling Wall Press Limited, Bristol, 1975; Ruth Schwartz Cowan, More work for mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave, Basic Books, New York, 1983. 

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    Molto livore per nulla https://www.carmillaonline.com/2025/01/13/molto-livore-per-nulla/ Mon, 13 Jan 2025 22:50:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86081 di Paolo Grugni

    Andrea Ferrari, Molto livore per nulla, Ed. Eclissi, 304 pagg., € 18,00

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    Andrea Ferrari, Molto livore per nulla, Ed. Eclissi, 304 pagg., € 18,00

    Fino a qualche tempo fa non sarei stato la persona adatta a leggere questo libro e infattti non l’avrei letto. Non amo molto i personaggi seriali, soprattutto se indagano. E in questo romanzo di Andrea Ferrari, Molto livore per nulla”, ci sono entrambe le caratterizzazioni. Il caso ha però voluto che conoscessi Andrea Ferrari e ne apprezzassi l’acume intellettivo e intellettuale. Acume che ha trasferito al suo personaggio Andrea Brandelli (che esordì nel 2007 con il romanzo “Milano A. Brandelli”, sempre Eclissi), un detective privato, mezzo milanese e mezzo novegese, in cerca di corna e di botte. E ovviamente trova tutto in abbondanza.

    Fin qui niente di nuovo se non la simpatia per il classico detective un po’ sfigato. Quello che invece piace e convince è che Ferrari usa una scrittura tagliente, ironica se non sarcastica, per tutto quello che lo circonda. Uno sguardo gelido non filtrato dalle convenzioni dettate da un pensiero letterario semplice quanto inutile.

    Il tutto impreziosito da critica sociale e da un’analisi politica che nascono da una situazione disagiata come quella di piazzale Corvetto a Milano (vedasi ultimi fatti di cronaca con la morte di Ramy Elgaml), aggravata dall’esplosione della ‘peste’. Ma questa non è la metafora di Camus, è la pandemia che tutti noi abbiamo vissuto in prima persona. La vita è difficile e amara, ma Ferrari la vita dei milanesi la incanala verso la speranza che non si sia più indifferenti alle dinamiche di un mondo dove le debolezze siano ricchezza e non motivo umiliazione e derisione.

    Ferrari ci regala uno spaccato di vita urbana, fatto di una bellezza marcescente, che un po’ mette malinconia per una Milano che non c’è più, un po’ rabbia per essere sfuggita al controllo dei suoi abitanti, cittadini tra si muovono tra disperazione e lavoro, tra spaccio e repressione. Andrea Ferrari ha esordito nel lontano 2007 ha all’attivo numerose pubblicazioni fra cui Cuore di birra (Laurana – 2021). Ha collaborato per anni con Francesco Gallone e Riccardo Besola, con i quali ha dato il via alla serie di Operazione Madonnina (Frilli – 2012).
    Ciò nonostante rappresenta uno dei talenti misconosciuti della narrativa italiana.
    Va scoperto.

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    L’autore:
    Andrea Ferrari nasce a Milano nel 1977 e nella città meneghina vive e lavora. Si rivela un narratore prolifico: nel 2007 esordisce con Milano A. Brandelli (Eclissi Editrice) inaugurando la serie del detective privato Andrea Brandelli. Detective protagonista delle pubblicazioni: Bravo Brandelli; Milano muta; Divorzio alla milanese; Il fiordo di Milano e la Grande nespola tutti con Eclissi Editrice. Con Riccardo Besola e Francesco Gallone ha pubblicato la serie Operazione Madonnina (F.lli Frilli) e la serie del Polpo (Laurana). Con i suoi soci ha partecipato a svariate antologie fra cui Giallo di rigore (Il Giallo Mondadori). Nel 2016 pubblica con Novecento Editore Sangue nero, il primo romanzo della serie che ha come protagonista Angelo B. Bossi, investigatore della val Brembana serie rilanciata da Laurana con Nero fondente e Cuore di birra.

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