Racconti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un abito cremisi https://www.carmillaonline.com/2024/09/07/un-abito-cremisi/ Sat, 07 Sep 2024 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84165 di Chiara de Stefano

Non l’aveva mai detto a nessuno, ma esclusi i matrimoni, le comunioni e le festività, la donna aveva stabilito un codice cromatico per decidere cosa avrebbe fatto quel giorno. Se vestiva d’ocra o verde significava che sarebbe rimasta a casa: c’era sempre qualcosa da fare in quel formicaio di pietra; se invece indossava l’azzurro o il rosso sarebbe uscita per solo un’ora: la spesa doveva pur trascinarla qualcuno. Così quella mattina aprì, come sempre, il covo di vipere davanti al letto. I serpenti di cotone, riposti uno accanto all’altro, erano stipati come cadaveri. Prese un abito color [...]]]> di Chiara de Stefano

Non l’aveva mai detto a nessuno, ma esclusi i matrimoni, le comunioni e le festività, la donna aveva stabilito un codice cromatico per decidere cosa avrebbe fatto quel giorno. Se vestiva d’ocra o verde significava che sarebbe rimasta a casa: c’era sempre qualcosa da fare in quel formicaio di pietra; se invece indossava l’azzurro o il rosso sarebbe uscita per solo un’ora: la spesa doveva pur trascinarla qualcuno. Così quella mattina aprì, come sempre, il covo di vipere davanti al letto. I serpenti di cotone, riposti uno accanto all’altro, erano stipati come cadaveri. Prese un abito color pitone e andò in bagno. Prima di chiudere la porta davanti a sé, fissò l’uomo nel suo letto, ancora prigioniero dei dolci demoni del sonno. Accese la luce e vide la sua immagine riflessa nello specchio. Appoggiò il dito su quel vetro algido e iniziò a tracciare i contorni del viso. Al suo flebile  tocco, lasciava dietro un’impronta opaca di pelle e sudore. Così si vide prima nella cornice di carne trasparente e poi in quella di ossa inverse. Poi prese la cuffia per la doccia e se la mise intorno  al volto. Si vestì mentre sentiva l’aria mancarle e si tolse quel velo di plastica solo quando vide la sua faccia diventare di un rosa che si vede solo nei giocattoli per bambine.

Sputò nel lavandino, attese qualche istante e aprì la porta.

Buongiorno, le disse l’uomo, sei già sveglia. Sì, rispose, credo proprio che oggi rimarrò a casa.

Lui aprì le tende e si avvicinò alla donna. L’iridescenza del mattino, nella sua diafana deformità, bruciava le loro squame. I drappi ruvidi sporgevano dietro di loro e la stoffa delle loro labbra si sfregò in una corda avvitata di baci. Poi l’uomo le disse che se non fosse andato via, avrebbe fatto tardi al lavoro e fece per avvicinarsi alla porta. Lei indugiò, chiedendogli di aspettare e poi frugò nell’armadio come un ladro cieco. Prese due cravatte, una azzurra e una rossa e gliele porse, invitandolo a scegliere. Lui la guardò negli occhi perforandole il cranio, prese quella azzurra, a detta sua, in tinta col suo abito e la indossò. Ti ho sposato anche perché hai buon gusto. E poi quelle tue guance rosa, mi fanno impazzire! Senza pensarci, lei si toccò la fede, le fece fare un giro su se stessa con il pollice e gli sorrise senza alcuna sporgenza canina. Lui non la vide nemmeno, perché si era già precipitato per le scale, poi disse che l’amava e chiuse la porta dietro di sé. La donna rimase per qualche istante a fissare la porta dalle fattezze sepolcrali. Si schiuse dalla pietra e portò il suo becco iridato di rosso e di fragole verso la finestra sul giardino.

Erano sposati da dieci anni, ma nessun frutto aveva saputo germogliare nel suo ventre senza marcire o farsi divorare dai vermi. La donna antropofaga fissò il marito dietro la tenda, lo vide sfilarsi la cravatta con un’espressione di disgusto e  gettarla nella borsa che aveva intorno al collo. L’uomo era un vento perpetuo e i suoi operai, che lo stavano aspettando, degli arbusti selvatici da sradicare al bisogno. Non c’era corda che suonasse la sua aria. Le membra della donna andavano avanti e indietro, come merci su un nastro destinate al consumo. L’amore, sempre irrequieto, si guarda intorno senza trovare mai niente, dà per avere finché vede che può avere di più.

Seguì con lo sguardo l’auto dell’uomo che divenne una pallottola e sparì dietro al sentiero. Presto sarebbe stato compresso sul viso dei suoi dipendenti, già piegati dai desideri di gente come lui. Bisognava riempire quelle tiepide case pastello di oggetti indispensabili, come statuette di ceramica da riporre sui caminetti.

La donna piegò le sue zampe da gazzella e si accasciò sulla poltrona scarlatta. Sollevò un tiepido grido che soffocò tra le assi lucide del pavimento. Davanti a lei, solo un televisore, regalo di nozze di sua madre. Esitò ad accenderlo. La vanità le fece guardare il suo riflesso deforme in quello specchio grigio.

Prese il cuscino dietro la schiena e se lo portò al viso, facendosi divorare da quel velluto con le fauci. Novantotto, novantanove, cento… contò e poi lo tolse via. Si specchiò di nuovo e si vide dello stesso colore della poltrona. Se stessimo tutti in apnea, nessuno potrebbe più parlare. Provava un ridicolo vezzo a svegliare quella bestia carnicina a comando. Se ne stava lì, ripiegata su se stessa come un gomitolo lanoso di budella avvinghiata agli stinchi, sempre pronta a salire e a battere mille cucchiai d’argento sul suo volto di aghi e spine. Col viso ancora traforato e il fiato corto, prese il telecomando e accese la tv. Il suo riflesso era svanito per dare spazio ad una pubblicità di materassi dai contorni verdi e la scritta OFFERTA a caratteri cubitali. C’era un uomo di mezza età in giacca e cravatta che indicava un letto e una ragazza in lingerie che fingeva di dormirci sopra. Lesse in alto a destra che a breve  sarebbe iniziato un film, quindi non cambiò canale. Dietro di lei, un piccolo insetto intraprendeva la sua lunga marcia sull’insormontabile collina che era la spalla della donna. Le cadde il telecomando e si chinò per recuperarlo. Nel frattempo, sullo schermo, era comparso uno scarafaggio dalle lunghe antenne e dalle vertebre incassate come bare dopo una strage.

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Si rialzò e si rimise comoda. L’insetto cadde sul tappeto senza alcun rumore.

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All’improvviso, la chioma della donna si scompigliò e le si rizzò in testa. Pareva un’antenna senza cavi. Sentì il capo lievitare e spingere verso l’alto, le ciocche cadere a terra in morbide masse sabbiose.

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Le sue zanne fuoriuscirono dal palato e le bucarono il mento, mentre la saliva le scorreva agli angoli delle labbra e si impastava col rossetto.

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Il suo braccio diafano fece un giro di trecentosessanta gradi e atterrò con il palmo della mano sulla gamba che nel frattempo si era squarciata come un cielo estivo ad un temporale improvviso. Le dita pescarono nella carne lacerata e le unghie si spezzarono nelle vene aperte, rimanendovi impigliate. Quelle terminazioni viola sembravano delle cassette delle lettere traboccanti di angoli di carta. La spalla le si accartocciò e le cadde nella cassa toracica. Sentì il tonfo delle ossa e il respiro che si faceva sempre più corto. Avrebbe voluto ammirarsi il viso roseo.

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Dei grappoli di plasma vermiglio le pendevano dagli occhi e le mandarono le palpebre all’indietro.

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Il vestito, ormai intriso di sangue, perse il suo color pitone.

La donna non riuscì a cambiare canale, ma aveva un vestito rosso adesso. Fece per uscire. Aveva una certa fame.

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Sguardi offesi https://www.carmillaonline.com/2024/03/25/sguardi-offesi/ Mon, 25 Mar 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81830 di Serena Penni

“Mai come mia madre” urlò la figlia sbattendo la porta, e in un attimo si perse nella notte senza stelle né luna. Lo aveva detto già tante volte, a voce bassissima, rivolta solo a sé stessa. L’aveva detto quando, da bambina, aveva messo in un sacchetto tutti i suoi vestitini pieni di fiocchi e di pizzi e li aveva regalati a una compagna. La madre, quando l’aveva scoperto, era andata su tutte le furie e aveva preteso che gli abiti le venissero restituiti, ma poi erano rimasti in una busta in fondo all’armadio. L’aveva detto il giorno in cui [...]]]> di Serena Penni

“Mai come mia madre” urlò la figlia sbattendo la porta, e in un attimo si perse nella notte senza stelle né luna. Lo aveva detto già tante volte, a voce bassissima, rivolta solo a sé stessa. L’aveva detto quando, da bambina, aveva messo in un sacchetto tutti i suoi vestitini pieni di fiocchi e di pizzi e li aveva regalati a una compagna. La madre, quando l’aveva scoperto, era andata su tutte le furie e aveva preteso che gli abiti le venissero restituiti, ma poi erano rimasti in una busta in fondo all’armadio. L’aveva detto il giorno in cui la madre aveva portato a casa un’enorme bistecca insanguinata. Erika, alla vista del pezzo di carne, che le pareva un misero cadavere, una cosa inerte, fragile e straziata, era stata colta da un conato di vomito ed era scappata via. Quella frase Erika l’aveva detta ogni volta che aveva visto la madre rincasare dopo un appuntamento da uno specialista di medicina estetica, col viso più disteso e l’espressione più disperata. L’aveva detta ogni volta che aveva guardato la madre prepararsi con troppa cura per una festa. Ogni volta che aveva scorto gli occhi di ghiaccio della madre che si posavano su di loro mentre sedevano a tavola. Prima sul padre, un uomo giovanile, abbronzato, con l’aria sempre annoiata, di chi avrebbe voluto essere altrove. Poi su un punto indefinito, appena sopra una sedia di legno scuro appoggiata alla parete. Erika immaginava che quello fosse il posto del bambino mai nato, del figlio che nella mente della madre avrebbe dovuto ripagarla di tutti i torti subiti. Dopo la nascita di Erika, c’erano stati quattro aborti, tutti accompagnati da tanto sangue e da altrettante lacrime, gonfie di rabbia e di amarezza. Durante le prime settimane di gravidanza, prima che tutto andasse in frantumi, Erika aveva sentito spesso la madre bisbigliare all’orecchio di un’amica, della sorella, della governante: “questa volta è un maschio, me lo sento”.

Poi, se proprio non ne poteva fare a meno, se non trovava una farfalla da inseguire, una briciola di pane da spostare dalla tovaglia, una piega sulla manica della camicia, lo sguardo della madre cadeva su Erika, la figlia difettosa. Era uno sguardo che avrebbe voluto scivolare via, non vedere, essere cieco. Eppure non ci riusciva. La figlia difettosa attirava i suoi occhi di ghiaccio come una calamita. Nessuna delle due avrebbe voluto che ciò accadesse. Non la madre, che di quella creatura avrebbe preferito dimenticarsi. Perché vestiva sempre male, non si truccava, non parlava quasi mai, si abbuffava di mollica di pane e di biscotti del Mulino Bianco. Poi c’era il suo difetto che, secondo la madre, Erika avrebbe potuto nascondere e che invece sembrava ostentare quanto più poteva, quasi volesse dirle: “guarda, mi hai fatto nascere così, dentro sei malata, anche tu”. Non lo avrebbe voluto Erika, che, ogni volta che percepiva lo sguardo della madre abbattersi su di lei, si sentiva come se qualcuno le avesse strappato i vestiti di dosso e, davanti a una folla sterminata, la picchiasse e la deridesse.

Troppo spesso Erika si era guardata con gli occhi della madre e, esattamente come la madre, aveva provato, per il suo difetto, attrazione e repulsione, aveva desiderato dimenticarsene ma, al tempo stesso, non era riuscita a non lasciarsene catturare. La madre era molto bella e di difetti non ne aveva. Erika pensava che non meritasse una simile fortuna, perché non riusciva a essere felice. “Mai come mia madre” Erika lo aveva detto ogni volta che l’aveva vista, negli anni, tornare a casa a tarda notte da una serata con il padre. La sentiva camminare sicura sui suoi tacchi alti, ridere e parlare, poi la spiava mentre si struccava davanti al grande specchio del bagno e vedeva il suo bel viso, incorniciato da lunghi capelli d’un biondo ramato, farsi sempre più triste, più stanco, più vecchio.

Eppure la madre, nel suo sogno di felicità, ci si era buttata anima e corpo. Si era sposata all’età giusta, con un avvocato di un paio d’anni più vecchio di lei. Avevano comprato una casa grande e accogliente, che un tempo lei aveva passato giornate intere ad arredare, perché nulla sembrasse fuori posto, nulla fosse troppo vistoso o troppo misero. Avevano avuto una figlia. Peccato che la casa desse l’impressione di un sepolcro che cadeva a pezzi; si disfaceva in silenzio senza che nessuno se ne accorgesse tranne lei, Erika. Peccato che il marito un giorno avesse iniziato a staccarsi da quel matrimonio senza amore. Peccato che il figlio maschio non fosse mai nato. Soprattutto, peccato che la figlia femmina fosse lei, Erika, vestita da stracciona e che non mangiava la bistecca. Lei che aveva un difetto. Evidente, macroscopico. Un difetto di cui ogni tanto, nelle sere di primavera, quando l’aria sapeva di erba tagliata, o nelle mattine d’inverno, quando il freddo tagliava le guance e faceva colare il naso, Erika si dimenticava. Allora si sentiva normale, una bambina come tante, una ragazzina come tante, una giovane donna come tante. Ma l’incanto durava poco: se ne ricordava non appena incrociava il proprio sguardo con quello di un passante e vi vedeva riflesso per decine, centinaia, migliaia di volte, quello della madre.

La madre aveva inseguito la perfezione fin da piccola e, per ripagarla, il destino le aveva mandato una figlia imperfetta. Era arrabbiata con il destino e con Erika. Erika nonostante tutto le voleva bene. Era la persona che aveva asciugato il suo moccio quando era una bambina, era la figura elegante e slanciata che la aspettava all’uscita di scuola. Era la donna di cui Erika era stata orgogliosa davanti agli insegnanti e ai compagni di classe. Per anni, la madre era stata il suo mondo.

La madre, Erika lo sapeva, aveva girato il Paese in lungo e in largo in cerca di risposte. In cerca di qualcuno che potesse spiegarle la causa del difetto di quella sua figlia altrimenti così graziosa. Aveva parlato con i medici, loro l’avevano rassicurata. Non era colpa sua, era stato solo il caso. Era stato il destino, le avevano detto gli esseri inquietanti cui si era rivolta qualche tempo dopo, quando Erika aveva già cinque o sei anni, e lei ancora non si dava pace. Erano maghi, sensitivi, chiromanti, sciamani. Erano uomini e donne senza età, di etnia nebulosa, che parlavano l’italiano con un lieve accento straniero. Le accoglievamo in stanze che odoravano di incenso, con molte candele. Guardavano Erika, la sfioravano, le stringevano forte la mano sinistra, le passavano una bacchetta sulla spalla destra. La madre ascoltava poi parlava a sua volta, anche lei bisbigliando, come i suoi interlocutori; spesso piangeva e allora quelle persone le passavano un fazzoletto di stoffa con cui, pensava Erika, si erano già asciugati le lacrime in molti.

“Mai come mia madre” Erika lo aveva detto, rivolgendosi per l’ultima volta solo a sé stessa, la mattina del suo ventiduesimo compleanno, quando aveva visto la madre affacciarsi alla porta della sua camera con gli occhi lucidi e dei fogli in mano. “Dobbiamo pensarci per tempo” – aveva esclamato la donna. Le avevano sempre detto tutti che non era colpa sua, ma lei non ci aveva mai creduto – “Adesso dici che non vuoi avere figli, ma magari cambierai idea. Sei cresciuta in un soffio, presto troverai un ragazzo che ti piace. Lo dico per te, devi fare delle analisi. Non vorrei mai che tu rivivessi il mio inferno”. Si riferiva al suo difetto, ma non lo nominava mai. Era ottobre e le foglie sugli alberi erano del colore del sangue. Erika alzò gli occhi dal romanzo che stava leggendo. La madre le fece pena. Si chiese quando aveva iniziato a essere così infelice. Forse quando lei era venuta al mondo, con il suo difetto. Sulle prime non gliel’avevano nemmeno fatta vedere. Le avevano detto che era una bambina, che stava bene, e in un attimo le erano scorse davanti agli occhi immagini di trecce dal colore biondo ramato, come i suoi capelli, da sciogliere alla sera, prima di andare a dormire, nella penombra di una lampada di stoffa pesante, segreti bisbigliati all’orecchio, passeggiate fatte mano nella mano con una sé stessa in miniatura. Era giovane allora, la madre, e non particolarmente segnata dalla vita: quel giorno aveva ancora potuto sognare. Poi un medico le aveva parlato, le aveva detto che la neonata aveva un difetto. Ma l’uomo aveva gli occhi troppo azzurri, il sorriso troppo sincero per portare cattive notizie. Così, la madre non si era preoccupata. Sul mobile della stanza di ospedale, di fronte al suo letto, c’era un enorme mazzo di rose rosse. Quelle rose, l’odore intenso che sprigionavano, la musica classica che si spandeva per la stanza grazie a un altoparlante posizionato in un angolo del soffitto, il raggio di sole pallido che penetrava dalla finestra socchiusa e disegnava una linea diagonale sul pavimento di linoleum verde, formavano, nella mente della madre, l’ultimo momento gioioso della sua vita. Poi era entrata nella stanza una donna. Era possibile che fosse vestita di nero? Nel suo ricordo, la madre l’avrebbe rivista così. Le aveva portato una bambina avvolta in un asciugamano, rossa per lo sforzo della nascita e forse per la vergogna di essere difettosa; la madre sulle prime non si era accorta di nulla, l’aveva presa in braccio e l’aveva stretta a sé. Poi aveva visto il suo difetto: all’inizio non ci aveva creduto. Aveva pensato che i suoi occhi la ingannassero. Allora aveva toccato, e alle sue mani aveva prestato fede. In quello stesso istante, era sprofondata in un pozzo profondo dal quale non sarebbe riemersa mai più.

La sera del suo ventiduesimo compleanno, Erika capì, all’improvviso, di essere grande abbastanza per smettere di essere figlia. Indossò il cappotto più lungo che aveva e si diresse verso la porta di casa. Intravide la sala da pranzo: erano rimasti sulla tavola i piatti sporchi, una bottiglia di vetro verde e le due candeline a forma di 2. “Mai come mia madre” disse andandosene, e finalmente non si rivolse più solo a sé stessa. Il suo grido di addio fece vibrare l’aria come un vento carico di speranza e di libertà. Aveva con sé una sacca di stoffa con dentro un po’ di soldi, qualche libro e pochi abiti di ricambio. Guardò il vuoto nella manica del suo cappotto, dal gomito destro in giù. Lo soppesò. Per la prima volta, le parve leggero, sopportabile. Erika era triste. Ma adesso per lei l’aria odorava di cibo buono cotto alla griglia e accoglieva le luci variopinte di un futuro possibile.

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Lapislazzuli e terrore. Un femminicidio narrato da Alberto Laiseca https://www.carmillaonline.com/2024/02/24/lapislazzuli-e-terrore-un-femminicidio-narrato-da-alberto-laiseca/ Sat, 24 Feb 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81359 di Emanuela Cocco

Alberto Laiseca, Il cecoslovacco, trad. di Lorenza Di Lella, dalla raccolta Uccidendo nani a bastonate, pp. 151, € 12, Arcoiris, collana “Gli Eccentrici” diretta da Loris Tassi, Salerno 2016.

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

 

Lapislazzuli. Apro questo breve contributo usando proprio questa parola. Vorrei la tenessimo a mente, vorrei diventasse un sinistro promemoria. È una parola che ognuno di noi avrà sentito nominare più di una volta, il nome di una pietra preziosa. Ma l’ho incontrata in un racconto e [...]]]> di Emanuela Cocco

Alberto Laiseca, Il cecoslovacco, trad. di Lorenza Di Lella, dalla raccolta Uccidendo nani a bastonate, pp. 151, € 12, Arcoiris, collana “Gli Eccentrici” diretta da Loris Tassi, Salerno 2016.

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

 

Lapislazzuli. Apro questo breve contributo usando proprio questa parola. Vorrei la tenessimo a mente, vorrei diventasse un sinistro promemoria. È una parola che ognuno di noi avrà sentito nominare più di una volta, il nome di una pietra preziosa. Ma l’ho incontrata in un racconto e da allora, quando penso alla violenza di genere, la parola mi raggiunge, carica di tormento. Lapislazzuli. Una parola spaventosa.

Questa è la storia di un femminicidio. L’ha scritta Alberto Laiseca, vorrei la leggessimo insieme. Il racconto è stato scritto più di vent’anni ma a leggerlo oggi non sembrerebbe, purtroppo. Come ogni cosa scritta da Laiseca è un racconto che non imita la realtà ma la forza attraverso una resa paradossale che rende le cose di colpo così assurde da pretendere la nostra attenzione. Allora, sotto la patina delirante, sotto la resa insensata degli eventi, le cose strane appariranno così fatalmente simili a quelle che conosciamo bene, di cui sentiamo parlare ogni giorno.

La storia, a suo modo, è un racconto dell’orrore, un domestico racconto dell’orrore. In queste pagine la violenza è ospitata in una casa, vive e prospera dentro una relazione. Laiseca è solito costruire edifici bizzarri nei quali albergano la paura e la sopraffazione, in questo racconto l’aggressione, e la morte che ne seguirà, arrivano attraverso le parole.

Tutto ha inizio con un corteggiamento che assume, però, la forma di un assedio. Le manovre di avvicinamento sono colpi di cannone, lei una roccaforte poco guarnita che cede subito le armi. Una donna viene scelta, si arrende. La relazione, la  tutela che ne deriva, interrompe la sua vita e la precipita in un’esperienza assurda, quella del suo matrimonio.

L’orrore, nell’opera di Laiseca, è sempre una voragine, un intermezzo grottesco, uno strapiombo in cui precipita il senso.

In questa storia il cecoslovacco, il marito, decide di uccidere la moglie servendosi di armi segrete, che sono le parole, parole che lui storpia, parole private del loro significato, un degradare il linguaggio come forma di tortura. La cosa funziona, il racconto inizia quando siamo vicini alla fine. L’uomo e la donna sono sposati da diciassette anni. La donna deperisce, invecchia, si disfa. L’uomo, ci viene detto, prospera del suo disfacimento.

 

«Le donne con le gambe grasse» si diceva per giustificarsi «non dovrebbero proprio esistere; sono un’offesa alla natura. Devono essere eliminate per ragioni etiche, estetiche, mistiche ed erotiche». Diremo inoltre che, stranamente, nonostante già da un bel po’ la moglie non lo eccitasse più, non appena cominciò a coltivare l’idea di assassinarla con armi sofisticate, sentì il desiderio sopito risvegliarsi con violenza dentro di sé. Fu come essere di nuovo innamorato.

 

L’uomo vuole commettere il delitto perfetto. Ci riuscirà. La sua opera di demolizione è accurata. La donna ha paura delle parole che segnalano i suoi errori, che mappano il suo corpo, che di colpo privano la sua esperienza quotidiana di senso. Il marito la terrorizza, la disprezza, la controlla e la schernisce. Le sue mani iniziano a tremare. La donna ha paura di non avere forza nelle mani, le cose le cadono di continuo quando lui la guarda, ha paura di essere grassa e sporca, e idiota. E lui non fa altro che rassicurarla della verità di queste tremende intuizioni.

Lapislazzuli.

Le parole fuori contesto, le frasi dell’uomo con la loro sintassi mostruosa e ridicola, la attraversano come lame.

La storia di questo matrimonio è una storia di violenza e martirio in cui il gesto è sostituito dalla parola ma conduce al dolore, alla paura, alla morte.

Il racconto è un resoconto raccapricciante carico di tormento e risa, perché il cecoslovacco si diverte nel torturare la donna, nel vederla annaspare dentro la camera di martirio che è il loro matrimonio.

 

[…] quelle parole, così assurde e trogloditicamente disposte, la punteggiatura arbitraria e la dislocazione sintattica possedevano la forza carismatica del male. E andavano a scavare nei recessi più profondi dell’animo della donna.

 

La parola è la responsabile della degradazione tanto del corpo quanto della mente della donna, fino alla dissoluzione dell’individuo nella morte. In questa selva di frasi i personaggi e il lettore sono catturati da un fatale spaesamento, un pericoloso abbandono della ragione in forza della rappresentazione di un disordine invincibile che ha catturato il mondo.

Creature orripilanti, equamente divise tra vittime e carnefici, i personaggi, abitano il racconto come marionette che inscenano la violenza del potere, riproducendo l’orrore che è dentro l’eterna ripetizione di una relazione sbilanciata, tra i corpi che hanno il mandato autoriale di infliggere il dolore e quelli che lo subiscono nella carne e, più ancora, nella mente, fino alla perdita della loro identità.

Nei romanzi e nei racconti di Laiseca la parola uccide e ha un aspetto spaventoso, contiene in sé uno strano amalgama di potere e insensatezza.

Lapislazzuli.

La parola si manifesta come ordine che dà il via alla violenza e non è oggetto di discussione, non deve essere compresa per venire eseguita.  Le parole sono ibridi, innesti frutto di invenzioni spregiudicate, mostri di caratteri che celano minacce.

Che sia mentale o fisico, il tormento a cui sono sottoposti i personaggi è un processo che porta alla perdita dello statuto di essere umano e che trasforma il corpo in un oggetto.  Il riso, con la sua carica eversiva, svela l’esistenza di un mondo in cui l’ordine morale è deragliato e la sofferenza altrui è stata trasformata in un grottesco passatempo.

In tutto questo noi lettori, come spesso accade con Laiseca, siamo lasciati completamente soli davanti all’insensatezza dell’esperienza narrata. Scorgiamo dentro le frasi la rapacità dell’uomo, la fine certa che attende la donna prima della conclusione del racconto. Mentre siamo ancora impigliati nella rete di questa delirante violenza semantica, ecco arrivare, tardive, parziali, forse inutili anche, ma inevitabili, le domande.

Perché l’orrore si compie senza nessuna sorpresa? Perché nessuno fa niente? La parola è la chiave che innesta un meccanismo di terrore e dietro la sua modulazione c’è un vuoto di senso che apre le porte alla paura. Le parole feriscono e uccidono. Gli strumenti del supplizio, nella loro varietà, hanno un elemento che li accomuna: realizzano un procedimento in cui la vittima viene fraintesa e il suo dolore viene schernito.

 

Quando gli sembrava che la manovra fosse andata a buon fine, pronunciava una di quelle parole lapidarie che lei temeva ancora di più delle sue frasi mal costruite: «Lapislazzuli».

 

Già, lapislazzuli. Perché Lapislazzuli? Perché?

E ora leggiamo insieme il racconto.

 

Il cecoslovacco

Lei diventava ogni giorno più grassa, sfatta e vecchia. Lui al contrario sembrava acquistare con il tempo sempre maggior vigore. Lei poteva andarci a letto in qualsiasi momento e invariabilmente lo trovava più forte, più sano, più colorito del giorno precedente.

Lui era cecoslovacco. Erano passati quasi vent’anni da quando era emigrato nel paese che lo aveva accolto. Lavorava come ingegnere in una fabbrica e sapeva il fatto suo. Era diventato molto amico del padrone; ne aveva approfittato per cercare di sedurre la figlia, che non mancava di fascino. Stranamente non era riuscito ad accalappiare la corteggiata ma una sua amica, una ragazza un po’ grassottella e non proprio brutta, che non aveva mai né voluto né tentato di conquistare. Non essendo stupido, aveva capito che con l’altra avrebbe perso solo tempo e aveva smesso di insistere; in un batter d’occhio aveva cambiato strada e aveva puntato i suoi cannoni verso la roccaforte meno guarnita, che aveva deposto le armi senza nemmeno tentare – non dico una difesa a oltranza – ma quantomeno una parvenza di manovra diversiva per via diplomatica.

Tre mesi dopo si erano sposati; da quel giorno erano passati diciassette anni.

Aggiungeremo, a titolo di curiosità, che lo avevano soprannominato, chissà per quale ragione, «l’ingegnere delle viti aguzze». Una volta l’ingegnere delle viti aguzze andò al cinema, a vedere un film horror. Ne fu entusiasta. Con i suoi pochi conoscenti citava sempre una battuta che lo aveva colpito e che attribuiva a Dracula: «Amico mio, le donne non sono un vizio, ma una necessità»*.

Il cecoslovacco parlava male, ma non malissimo come voleva far credere. Quando decise di uccidere la moglie servendosi esclusivamente di armi segrete, nel suo arsenale mise anche il linguaggio; quasi fosse il più letale e potente dei suoi missili nucleari a testata multipla.

Voleva commettere il delitto perfetto; a sentir lui, per ragioni estetiche. Così, benché avesse trent’anni più di lei, lei sarebbe morta molto prima di lui per effetto della sua deliberata volontà, e lui grazie quel crimine, anto e ontologico, bello e impunito, avrebbe avuto tutto per sé. «Le donne con le gambe grasse» si diceva per giustificarsi «non dovrebbero proprio esistere; sono un’offesa alla natura. Devono essere eliminate per ragioni etiche, estetiche, mistiche ed erotiche». Diremo inoltre che, stranamente, nonostante già da un bel po’ la moglie non lo eccitasse più, non appena cominciò a coltivare l’idea di assassinarla con armi sofisticate, sentì il desiderio sopito risvegliarsi con violenza dentro di sé. Fu come essere di nuovo innamorato.

Era perfino dolce con lei. Quasi affettuoso. A volte, mentre lei pelava le patate per il pranzo, si metteva alle sue spalle e restava lì in silenzio per un quarto d’ora. Quando lei se ne accorgeva, si innervosiva. «Non può fermare le bucce» diceva lui con voce stridula, meccanica, cecoslovacca, nonostante lei facesse di tutto per non lasciar cadere nulla. Gloria, infatti, cercava costantemente di correggere i tre difetti da cui era ossessionata giorno e notte. Innanzitutto la goffaggine: urtava contro i mobili, le cose le cadevano di mano, era incapace di calcolare l’energia necessaria per allungare il braccio e prendere, per esempio, un bicchiere, per cui il contenuto si rovesciava puntualmente sul tavolo. Quindi la grassezza e un sacro terrore delle malattie e della sporcizia: altri due focolai settici di nevrosi. Di questi tre angeli dell’Apocalisse, quello che riusciva a tenere meglio sotto controllo era il primo. Con grande forza di volontà e facendo molta attenzione – era piuttosto distratta –, muovendosi dapprima molto lentamente, era riuscita a ridurre dell’ottanta per cento gli urti contro mobili e altri oggetti – diventava isterica al minimo fallimento – e aveva eliminato quasi del tutto quella sua grottesca ineleganza.

Per questo motivo considerava inopportuno e ingiustissimo che lui sollevasse un vespaio per un non-nulla quando era ancora convalescente dalla sua goffaggine. Dove voleva andare a parare con il suo «Non può fermare le bucce».

La donna ebbe un sussulto e avvampò. Un istante dopo cominciarono a tremarle le mani. Riemerse tutta la sua insicurezza. E lui, come se non bastasse, aggiunse: «Chi non può fermare le bucce, dalle mani gli cadono».

Gloria era consapevole delle sue difficoltà idiomatiche; ma era convinta che la pessima sintassi della frase fosse stata esagerata di proposito. In casi come questo bisognava starlo a sentire fino alla fine se si voleva capire il senso della frase, che veniva svelato solo dall’ultima parola. Si consideri l’espressione «dalle mani gli cadono»: all’apparenza era solo un’inefficace e mostruosa, perfino ridicola, deformazione. Di fatto, invece, otteneva l’effetto contrario, perché quelle parole, così assurde e trogloditicamente disposte, la punteggiatura arbitraria e la dislocazione sintattica possedevano la forza carismatica del male. E andavano a scavare nei recessi più profondi dell’animo della donna.

Era un piano perfetto e geniale; Stepan, di fatto, disponeva di un’infinità di armi segrete. E allora perché Gloria non chiedeva il divorzio? Be’, per insicurezza e per masochismo. E lui lo sapeva perfettamente, così come non ignorava nessuno degli altri suoi punti deboli.

Poi, in tono comprensivo e accondiscendente, continuava: «Succede, a una certa età. Un mio amico ha il male di Parkinson e trema. Che brutto». Insomma alla fine le cose le cadevano di mano per davvero: per esempio, uno di quei bidoni di latta che rotolano su se stessi facendo un rumore tremendo, e non c’è modo di fermarli. Il modo naturalmente ci sarebbe: basterebbe chinarsi immediatamente e bloccarli subito prima che inizino a girare. Ma questo dimostra quanto sia importante il rumore, quando sappiamo di avere dietro di noi qualcuno che ci osserva: un boia attentissimo e saggio, sempre pronto a coglierci in fallo.

Quando gli sembrava che la manovra fosse andata a buon fine, pronunciava una di quelle parole lapidarie che lei temeva ancora di più delle sue frasi mal costruite: «Lapislazzuli». Poi girava sui tacchi e se ne andava. Era terribile il contrasto tra la bellezza del vocabolo scelto e l’orrenda mancanza di coordinazione motoria a cui faceva riferimento. Ma era proprio per la sua bellezza che lo sceglieva.

Le tendeva agguati per riuscire a osservarla quando si guardava allo specchio. E mentre lei, con aria afflitta, esaminava le rughe e il resto, lui le diceva esattamente la frase che lei temeva di sentire e che era come la materializzazione di un suo pensiero inconscio: «Mi ricordo quando ero giovane, in Cecoslovacchia, nel mio paese…». Non diceva nient’altro. Mai niente di diretto. Oppure sì. A seconda del momento. A volte, con genuina tenerezza, aggiungeva: «Petunia». E non appena lei cominciava a sorridere, specificava: «Petunia avvizzita».

Proprio nel momento in cui lei, tutta in ghingheri, si apprestava a uscire, le diceva in tono impersonale: «Gambe grasse. Non sarebbe meglio dimagrire un poco il collo? Denti d’oro ma bocca rovinata. Che stupida. Lapislazzuli». In questi casi, gli attacchi reiterati su vari fronti facevano sì che lei non potesse difendersi in modo sistematico dalle diverse minacce.

Gloria andava spesso a trovare Julia, una sua amica. Con lei si confidava mentre, sedute al tavolino di un bar, prendevano un tè senza pasticcini – l’altra, che era magra, non mangiava per solidarietà. «Julia, stavolta ne sono sicura: Stepan mi vuole uccidere». «Calmati. Si può sapere che ha fatto?». «Mi ha detto: “Gambe grasse”. “Un microbo e zaff. Kaputt”. “Lapislazzuli”». «Piano, piano, per favore, che non capisco niente. Se non mi racconti l’antefatto non riesco a seguirti. Ti ha detto “Gambe grasse” e poi?». «Qualche giorno fa ho ricevuto per posta una scatola piena di deliziosi cioccolatini. Erano indirizzati a me, ma non c’era il nome del mittente. Probabilmente era una di quelle spedizioni pubblicitarie… Non sanno più che inventarsi. Quei miserabili non hanno trovato niente di meglio che mandare a me, che sto a dieta, una scatola di cioccolatini. Uno più buono dell’altro. Non sono riuscita a trattenermi; ho cominciato dicendomi che ne avrei mangiato soltanto uno, ma poi… Be’ che te lo dico a fare, sai benissimo come vanno queste cose. No, non lo sai. Non sei grassa». «Be’ e allora?». «Stepan mi ha scoperto quando ne avevo già mangiato la metà. Mi ha guardato con aria di disprezzo, ha abbozzato un mezzo sorriso, come fa lui, e ha detto: “Vorace. Vorace come un uccello piccione grasso”. E non è tutto. Sai che ho un problema di circolazione per cui mi sto curando da cinque anni. Stavo vedendo la televisione buona buona, con le gambe appoggiate su uno sgabello per farle riposare. Lui si è messo dietro la mia poltrona e ha detto schifato: “Fibrosa. Quante varici ha. Non sarebbe meglio curarle? Mia madre si è operata, ma poi stava peggio. Calendula”. Eh, che ne pensi?». «Be’… Immagino che la particolarità del suo temperamento implichi una certa propensione alla crudeltà mentale. Ma è una cosa comune a molti uomini. D’altra parte credo che sia un po’ pazzo, che voleva dire con la parola “calendula”, che non c’entra niente?». «Hai visto? Hai visto?». «Sì, be’, però a parte questo… Tutto il resto non è così terribile; se sa che hai problemi di circolazione, è logico che ti dica di farti curare. Lo ha detto in buona fede. In modo un po’ goffo, semmai…». «Un’altra volta mi è passato accanto come se non mi vedesse e ha detto piano, ma con forza sufficiente da farsi sentire: “Gambe grasse, mostro fibroso. Lapislazzuli”. Anche questo lo ha detto in buona fede?». «Be’, mia cara, sai come vanno le cose nelle coppie che stanno insieme da tanto tempo. È normale che ci siano degli scompensi frizionali. Bisogna essere tolleranti e comprensivi. Con un po’ di buona volontà da entrambe le parti…». «Julia, non capisci niente: mi vuole uccidere». «Gloria, mio Dio, non essere così esagerata e catastrofista. Dovresti parlare seriamente con lui». «E che ti credi, che non ci ho provato? Sa benissimo quali sono le mie ossessioni e se ne serve per torturarmi. Un’altra volta avevo comprato un libro nuovo, fantastico: la cura dimagrante del dottor Guoches-Heink. È un best seller che si trova in tutte le librerie. Pare che quell’uomo sia un luminare. Insomma, lo avevo appena aperto che mi si è avvicinato Stepan da dietro, di sbieco, e per demoralizzarmi ha detto con quel tono monotono e didascalico che ha a volte: “Il problema delle cure per non ingrassare è che uno vorrebbe far dimagrire certe parti. E invece disgraziatamente rammollisce solo quello che già era molle”. E se ne è andato. Dimmi tu se non è un maledetto schifoso».

Gloria smette di lamentarsi per un istante e beve un sorso di tè, poi riprende:

«Come sai sto cercando di tenere sotto controllo la mia mania della pulizia e la paura delle malattie. Negli ultimi tempi mi lavo le mani meno volte al giorno e utilizzo anche molto meno disinfettante per sterilizzare gli oggetti che uso quotidianamente. L’altro giorno, tutta contenta, stavo mangiando con le mani un pezzo di pollo croccante. Stepan mi ha guardato con la coda dell’occhio e, fingendo di leggere il giornale, ha detto: “Molta gente morta a Calcutta. Un batterio e zaff. Kaputt”. Non sono riuscita a continuare a mangiare. Mi è venuto in mente che forse non mi ero lavata le mani e allora sono corsa in bagno, pur sapendo che dovevo essermele stralavate almeno due o tre volte, fosse anche solo per abitudine».

Un giorno Stepan la portò a fare un picnic. Lei non ci poteva credere, sapeva bene come era fatto, ma lui l’aveva irretita in un secondo. Partirono con la macchina e la roulotte e andarono sulle rive del fiume. Si accamparono. All’inizio tutto andò per il meglio. Stepan assunse un’aria nostalgica: «Adoro questo fiume. Maestoso. Mi ricorda la Moldava. In verità cosa bella è vedere la Moldava passare sotto i ponti di Praga. Tanti fiori».

Lei lo ascoltava incredula. Per un attimo era riuscita a vedere l’acqua e i ponti, in quella città lontana ed esotica. Le venne voglia di dirgli: «Ah, Stepan, se fossi sempre così!».

Il cecoslovacco continuò dicendo: «Che bell’acqua. In estate è un piacere chinarsi e bere l’acqua della Moldava». Detto questo si girò e se ne andò a preparare il fuoco accanto alla roulotte.

Lei, incantata dalla brevissima descrizione, si chinò per bere l’acqua del fiume. Era deliziosa. Poi raggiunse Stepan.

Lui – che le dava le spalle, apparentemente occupatissimo ad accendere il fuoco – le chiese: «Era fresca l’acqua?». «Oh sì, una meraviglia! Dovresti provarla». E lui, con aria indifferente: «No. Non bevo mai acqua di fiume. Mi è passata la voglia quando un amico medico mi ha raccontato una storia terribile». «Che storia? Che storia ti ha raccontato?» chiese lei spaventata. «Pare che a un matrimonio dove era andato avevano organizzato un picnic. Era una giornata bellissima ed erano molto contenti. Poi il pomeriggio lei stava malissimo. Andarono al pronto soccorso. Riunione di medici, perché non sapevano che aveva. Non ne facevano una giusta. Un medico vecchietto, con molta esperienza, chiese al marito: “Dove siete stati?”. “In campagna. Abbiamo fatto un picnic vicino al fiume”. “Ah ah! E la signora ha bevuto l’acqua del fiume?”. “Sì, perché?”. “E lei l’ha bevuta?”. “No”. Si misero a indagare e nel fiume, non lontano, c’era una mucca morta. Decomposta. Quella notte la donna morì. Setticemia. Infezione generalizzata. Fulminante. Non c’è cura, nemmeno se si interviene subito».

Le aveva rovinato la giornata. Lui, invece, sembrava tranquillo. Tutto contento e soddisfatto.

Qualche tempo dopo Stepan cambiò tattica: cominciò a fare l’amore con lei una volta a settimana. Il giorno in cui prevedeva di andarci a letto, iniziava a sedurla fin dal mattino con dolcezza e sagacia. Per eccitarla usava l’artiglieria pesante: toccava con la lingua la cavità del femminile orecchio, le diceva cose incredibili, le parlava delle sue ginocchia, che erano questo e quest’altro. Insomma, di tutto. Finché lei non si abbandonava a lui. La portava sul letto e con molta dolcezza, come l’uomo più innamorato del mondo, cominciava a spogliarla. E nel bel mezzo dell’atto, quando lei definitivamente conquistata era sul punto di andare in estasi, le sussurrava una di quelle sue paroline, come «fibrosa», «gambe grosse» o «varici», e allora la donna si irrigidiva, diventava di ghiaccio e non riusciva più a godere. Lui, al contrario, nel vederla in quello stato, era travolto da un’eccitazione immensa, colossale, e godeva come non mai. Proprio perché lei non poteva.

Sempre la stessa solfa.

Un giorno Gloria decise di affrontarlo. Con una calma gelida gli disse: «Sei uno stronzo, sei tale e quale ai nazisti che uccidevano gli ebrei. Sei un criminale di guerra frustrato. Questa casa è come un campo di concentramento. La cucina è attraversata dal tuo filo spinato elettrificato e dai tuoi cani. Io sono la prigioniera e tu una SS. Sei un figlio di puttana». Lui, lungi dal sentirsi offeso, sembrava contentissimo di quel paragone. Lo prese come il miglior complimento che potessero fargli. Tuttavia commentò:

«Non avevo mai considerato la cosa da questo punto di vista. Ma, cerchiamo di essere onesti, non mi voglio arrogare meriti altrui: non so se quello che dici è esatto, poiché non mi sono mai preoccupato di studiare i capricci, le manie, le preferenze o le motivazioni di qualcuno che non fossi io stesso. In ogni caso capisco a che ti riferisci e, per risponderti adottando la stessa prospettiva, ti dirò che la vera SS sei tu. Io, al limite, potrei essere un modesto ausiliario; uno di quei subordinati di infima categoria che entravano nelle camere a gas per staccare i denti d’oro ai cadaveri. Lo ammetto anche se non è lusinghiero per il mio orgoglio».

La cosa più sconcertante fu che pronunciò questo discorsetto quasi senza far sentire l’accento slavo e con una costruzione impeccabile. Lei rimase di sasso.

Quando il medico gli disse che sua moglie aveva un cancro, ma che era meglio non farglielo capire per non rischiare di abbreviarle ulteriormente la vita, lui fece tutto quello che poté perché lei non lo venisse a sapere e fino all’ultimo restasse convinta di poter guarire.

Lei era in fin di vita. All’alba sarebbe morta. Ma era ancora lucida. Lui entrò nella stanza in penombra con una candela in mano. La guardò a lungo e disse: «È incredibile quanto ti ha fatto dimagrire la malattia. Sei bellissima».

E se ne andò, lasciando il cero ai piedi del letto.

 

Si ringraziano le edizioni Arcoiris per il permesso di pubblicare il racconto in versione integrale. La traduzione è di Lorenza di Lella.

 

* A dirlo, in realtà, era un altro personaggio, in una versione inglese di Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde di Stevenson. Non ricordo il titolo del film.

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Cheikh https://www.carmillaonline.com/2024/01/15/cheikh/ Mon, 15 Jan 2024 22:55:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80810 di Cesare Battisti

Cheick è un senegalese alto 2 metri e un sorriso che gli prende metà della faccia. È così che che si è presentato davanti alla mia cella oggi pomeriggio, giusto prima della conta. Ma nello sguardo aveva un’ombra di tristezza. A dirla tutta, era già da qualche giorno che non sentivo la sua risata risuonare nel corridoio. Ma il carcere è così, alti e bassi improvvisi e le ragioni sono sempre troppo complicate da spiegare. È rimasto zitto qualche istante, con la fronte nascosta dietro la parte superiore del cancello. Io mi sono avvicinato e lui ha chinato il [...]]]> di Cesare Battisti

Cheick è un senegalese alto 2 metri e un sorriso che gli prende metà della faccia. È così che che si è presentato davanti alla mia cella oggi pomeriggio, giusto prima della conta. Ma nello sguardo aveva un’ombra di tristezza. A dirla tutta, era già da qualche giorno che non sentivo la sua risata risuonare nel corridoio. Ma il carcere è così, alti e bassi improvvisi e le ragioni sono sempre troppo complicate da spiegare. È rimasto zitto qualche istante, con la fronte nascosta dietro la parte superiore del cancello. Io mi sono avvicinato e lui ha chinato il capo. Intuivo che aveva qualcosa di serio da dirmi, era la prima volta che si interessava a me, oltre al solito buongiorno. Gli ho chiesto cosa aveva.

Ha detto di un parente che si è tolto la vita in un carcere del Sud, “una persona a posto”, non se lo sarebbe aspettato.

“Finora ne sono morti tanti in carcere” ha cominciato a dire, “ma uno pensa sempre che siano poveretti con chissà quali problemi in testa, persone senza speranza. Adesso, invece, so che potrebbe toccare a chiunque e non ci dormo più. Tutte queste persone che muoiono e soffrono per niente, i familiari, ma non interessano a nessuno… … Non ci avevo mai pensato prima, non così. Basterebbe un gesto, poca cosa, a farci sentire anche noi e i nostri ancora parte di questo mondo”.

Chi non ha mai visto questo ragazzone, sempre ben disposto e spensierato, troverebbe normali le sue preoccupazioni. Insomma, si tratta pur sempre di un carcerato. Ma a me Cheikh ha destato curiosità. Non capita tutti i giorni di sentire un detenuto esprimere preoccupazioni che vadano oltre la propria vicenda giudiziaria.

Così l’ho incoraggiato a continuare.

“Voglio dire, vedi, ci sono tante donne morte ammazzate, e giustamente fanno il giorno della donna, poi ci sono i poliziotti e allora si fa quello dei poliziotti, c’è anche la giornata degli animali ed è giusto commemorare anche loro. Serve a far capire, a dare forza a tutti per lottare contro le ingiustizie. Ma allora perché, tu leggi tanto, non parli a qualcuno per fare anche la giornata del detenuto? Non sto dicendo dei criminali, ma di chi soffre e muore in galera”.

Una giornata per commemorare e condividere le sofferenze di chi piange un amico o un parente dietro le sbarre.

È di questo che stava parlando Cheikh Niang. Lì per lì sono rimasto interdetto e lui se n’è andato dondolando la sua testa ad alta quota. Mentre io cominciavo a fare avanti e indietro per la cella e non avrei più smesso se non mi fossi deciso a raccontarlo a qualcuno: e se fosse una proposta sensata?

 

P.S.

Racconto questo episodio realmente accaduto e lo trasmetto tale e quale, perché credo sia il miglior modo per veicolare il messaggio o suggerire l’idea a coloro che la volessero prendere in considerazione: istituire la “Giornata delle vittime dietro le sbarre”. Mi rendo conto che il mio nome, di fronte a una simile iniziativa, potrebbe suscitare qualche perplessità in alcune istanze pubbliche, per questa ragione non ritengo necessario apparire, al contrario di Cheikh Niang che non ha problemi ad esporsi.

 

(Illustrazione di Nico Maccentelli)

 

Nota di chi pubblica: riporto integralmente quanto mi è pervenuto, poiché non ho avuto indicazioni in merito dall’autore e ritengo, al contrario, che in Cesare vi sia tutta l’autorevolezza e la legittimità per avere voce in capitolo su questo argomento.

 

 

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Una poltrona per uno https://www.carmillaonline.com/2023/12/25/una-poltrona-per-uno/ Sun, 24 Dec 2023 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80531 di Alessandro Villari

24 dicembre

«Voglio sapere chi ha ucciso mio marito, Billy Ray Valentine.» La donna seduta di fronte alla mia scrivania era un rompicapo. Alta, snella, abbronzata: sprizzava salute da tutti i pori, e solo qualche ruga quasi impercettibile sul volto dai lineamenti marcati tradiva l’età non più giovanissima. Contando che tra abiti e accessori aveva addosso qualche migliaio di dollari, si sarebbe mimetizzata perfettamente tra la migliore borghesia alla prima dell’Opera di Philadelphia. Eppure dalla maniera irrequieta di muoversi sulla sedia, dall’intensità dello sguardo così diretto, dal modo in cui non faceva nulla per nascondere una scollatura che non [...]]]> di Alessandro Villari

24 dicembre

«Voglio sapere chi ha ucciso mio marito, Billy Ray Valentine.»
La donna seduta di fronte alla mia scrivania era un rompicapo. Alta, snella, abbronzata: sprizzava salute da tutti i pori, e solo qualche ruga quasi impercettibile sul volto dai lineamenti marcati tradiva l’età non più giovanissima. Contando che tra abiti e accessori aveva addosso qualche migliaio di dollari, si sarebbe mimetizzata perfettamente tra la migliore borghesia alla prima dell’Opera di Philadelphia.
Eppure dalla maniera irrequieta di muoversi sulla sedia, dall’intensità dello sguardo così diretto, dal modo in cui non faceva nulla per nascondere una scollatura che non passava certo inosservata – per non parlare dalla gomma che non aveva smesso un secondo di masticare – si intuiva che Ophelia non era nata col culo al caldo. Un contrasto conturbante.
«Dunque non crede alla versione della polizia, che si sia trattato di un suicidio, o di un’overdose accidentale. Mi dica come mai.»
«Billy Ray era una persona solare, l’ultimo al mondo che si sarebbe tolto la vita. E non si faceva, mai.»
«E la bustina di coca trovata vicino al luogo del decesso?»
«È una montatura. Ed è anche un messaggio da parte dell’assassino: una citazione, se vogliamo. Come il bicchiere di succo d’arancia. È come tutto è cominciato, quindici anni fa: e anche allora, sia la coca che il succo d’arancia erano un inganno.»
«Che cosa intende?»
«Il detective è lei. E per duecento dollari al giorno un po’ di ricerca la potrà anche fare.»
E pronunciate queste parole, senza altro commiato, il mio rompicapo di nome Ophelia si alzò, raccolse la sua borsa di coccodrillo e infilò la porta.

*

Erano le 18 in punto della vigilia di Natale: decisamente ora di chiudere la baracca. Fuori era buio e nevicava – o forse era soltanto l’effetto delle finestre che Carmen non aveva pulito neppure questa volta. Come darle torto, visto che non la pagavo da un mese. Quei duecento bigliettoni al giorno erano davvero il regalo che serviva.
Nevicava davvero. Sulla via di casa feci una tappa da Joe il pescivendolo, per investire una parte del cospicuo anticipo della mia cliente in un trancio di salmone di prima qualità: sarebbe stato il piatto forte del mio banchetto natalizio.
Un’ora dopo contemplavo la mia tavola imbandita, non senza disappunto.
La tavola era in realtà il tavolino porta-riviste davanti al divano. Come tovaglia, avevo adattato uno strofinaccio della cucina che un tempo era stato rosso, o almeno arancione. Lasciava scoperte le estremità del tavolino, ma se non altro nascondeva le riviste sottostanti: quasi tutte pornografiche, devo ammettere.
Al centro, un unico piatto sbreccato su cui era adagiato il salmone così come era uscito dal foglio di giornale in cui era stato avvolto. Forse avrei dovuto pensare a un contorno. Non avevo neppure del vino per accompagnarlo: poco male, ero più uno da whisky.
Buon Natale a me.
Sarà stata la solitudine, il pesce scondito o il whisky, ma terminato in pochi minuti il mio discutibile pasto mi scese una certa malinconia. Mi ritrovai a pensare alla mia cliente: rimasta vedova alla vigilia di Natale, sola come me. Povera donna.
Quasi meccanicamente, sfilai una rivista da sotto il tavolino e mi masturbai.

*

25 dicembre

Mi risvegliai la mattina dopo sul divano, mezzo vestito, la bocca impastata dall’alcool. Nel tentativo di redimermi dallo schifo della sera precedente, feci una lunga doccia bollente e mi misi di buona lena a pulire e riordinare il mio monolocale.
Fu nel bel mezzo di questa attività catartica che, proprio mentre lo stavo gettando nella spazzatura, mi cadde l’occhio sul foglio di giornale che aveva avvolto il pesce: era dell’Inquirer del giorno prima, e c’era una foto di Ophelia.
Stesi la pagina stropicciata e me la portai sul divano, incurante del suo fetore. La foto accompagnava un lungo necrologio di Billy Ray Valentine e risaliva a una quindicina d’anni prima: il morto sorrideva a trentadue denti di fianco alla mia cliente – ancora più in forma di adesso – che se ne stava abbracciata a un altro uomo, secondo la didascalia un certo Louis Winthorpe III.
Dimenticai le pulizie e mi misi a leggere. Valentine e Winthorpe si erano messi in società all’inizio degli Anni Ottanta e avevano ricavato un enorme profitto dalla compravendita di titoli sul succo d’arancia – che modo stronzo di fare i soldi. Disse quello che i soldi non li avrebbe fatti mai. Con quel denaro avevano creato un vero impero finanziario, fino alla separazione, apparentemente per dissidi personali – che c’entrassero con Ophelia, prima abbracciata all’uno e poi sposata con l’altro?
L’articolo continuava nella pagina successiva: per leggerlo tutto avrei dovuto comprare anche le capesante, come mi aveva suggerito Joe. Al quale si doveva comunque dare atto che almeno l’involucro del pesce era fresco di giornata.
In ogni caso, avevo il primo nome sulla mia lista: Louis Winthorpe III.
Col pretesto degli auguri contattai in giornata un ex collega di polizia che mi doveva qualche favore.

*

26 dicembre

Il giorno successivo, in una centrale semideserta, mi misi a setacciare gli archivi in cerca di indizi. Il nome di Valentine ricorreva spesso nei verbali tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta: disturbo alla quiete pubblica, piccoli furti, un paio di truffe di poco conto, qualche notte in cella. Era il classico tipo che viveva di espedienti. Un mistero come avesse fatto nel giro di nulla a diventare milionario.
Il mistero si infittiva con Winthorpe. Nulla su di lui fino alla fine del 1983, poi in una sola settimana un arresto per possesso e spaccio di cocaina e una denuncia per aggressione, la sera di Natale. La cosa interessante era che la denuncia, poi ritirata, era stata fatta da… Billy Ray Valentine. Ed era pochissimo tempo prima che i due diventassero soci!
Chiaramente c’era sotto qualcosa di losco.
Rilessi il verbale della denuncia per spaccio. L’arresto era avvenuto in flagranza. Tra i testimoni era citato un certo Clarence Beeks: ecco un altro nome da rintracciare. Ma su di lui non c’era nulla negli archivi della polizia.
Annotai l’indirizzo di residenza di Winthorpe – gli avrei fatto visita nel pomeriggio, sperando non fosse in qualche lussuoso chalet di montagna a trascorrere le feste – e uscii. Dopo un pranzo frugale, ma comunque migliore della mia cena di Natale – un hot-dog divorato in quattro bocconi in auto – guidai per le strade deserte verso una delle più sofisticate zone residenziali di Philadelphia, in centro e a due passi dal fiume.

*

Un maggiordomo compassato, dall’aria francamente antipatica, socchiuse il portone d’ingresso.
«Non siamo interessati a pubblicità e richieste di elemosine.»
Gli mostrai il tesserino.
«Sto cercando il signor Winthorpe: se è in casa e non è troppo disturbo avrei bisogno di parlargli.»
Mi squadrò da capo a piedi, sollevando un sopracciglio. Quindi mi tese un biglietto da visita.
«Il signor Winthorpe riceve solo su appuntamento, può telefonare alla sua segretaria lunedì.»
Non feci in tempo a protestare, che una voce dall’interno dell’abitazione s’intromise.
«Ernest, non essere scortese e prendi il soprabito del signor…»
«Simpson Day. La ringrazio signore, e mi scuso per l’intrusione per di più in periodo di festa. A dire la verità pensavo proprio che non l’avrei trovata in casa.»
Porsi il mio giaccone al maggiordomo, che sparì in uno stanzino laterale tenendolo con la punta delle dita, senza sforzarsi di nascondere un’espressione disgustata.
«Perdoni le maniere del mio maggiordomo. Un tempo ne avevo uno straordinario, si chiamava Coleman, era un amico. È morto qualche anno fa. Ernest non è degno di abbottonargli la giacca, ma mi devo accontentare.»
L’uomo che aveva parlato mi attendeva in fondo al corridoio, vidi che si reggeva sulle stampelle e aveva una gamba ingessata.
«E comunque nemmeno io pensavo che sarei stato qui il 26 dicembre: a quest’ora avrei dovuto essere in un lussuoso chalet di montagna. Mi segua, andiamo a sederci in un ambiente un po’ più confortevole. Posso offrirle del caffè? Ernest, per favore.»
Il padrone di casa saltellando mi condusse in un salottino quadrato che trasudava ricchezza dal parquet lucido, dai tappeti eleganti, dal caminetto acceso che occupava un’intera parete. Si lasciò cadere sul divano proprio di fronte al braciere e sollevò la gamba sul pouf. Io non avevo ancora poggiato le chiappe sulla poltrona di fianco al fuoco che entrò il maggiordomo reggendo un vassoio con due tazzine e una zuccheriera: lo appoggiò sul tavolino e uscì senza fiatare, e senza degnarmi di uno sguardo.
«Immagino sia venuto per farmi delle domande su Billy Ray», disse Winthorpe in tono neutro fissando il suo caffè. «Sospetta di me?» chiese guardandomi improvvisamente negli occhi.
«Non ancora», gli sorrisi. «Ma credo che lei possa aiutarmi a capire alcuni retroscena che potrebbero essere importanti.»
Non avevo motivo di mentirgli, perciò gli raccontai in breve delle mie ricerche mattutine e delle conclusioni – per la verità estremamente parziali – a cui ero giunto.
«E vorrebbe che unissi i puntini per lei?» mi chiese alla fine.
«Gliene sarei grato. E vorrei sapere anche dove posso trovare quel Clarence Beeks, sempre che davvero c’entri in questa faccenda.»
«C’entra, eccome. Ma temo di non poterla aiutare a trovarlo. Per il resto, invece, si metta comodo e lasci che le racconti una storia. Sa che cosa sono i contratti future
Scossi la testa. Winthorpe iniziò a spiegare e a raccontare. Rimasi ad ascoltarlo per quasi un’ora, a bocca aperta.
«È stato davvero illuminante», commentai alla fine. «Mi perdoni, ma non posso proprio fare a meno di chiederglielo: in che rapporti era con il signor Valentine? So che da qualche anno non eravate più soci, e poi…»
«… e poi aveva sposato Ophelia, la mia fidanzata. Ex fidanzata, vorrei sottolineare: l’avevo lasciata io. Capisco il suo scrupolo, ma la verità è che anche dopo aver sciolto la società, Billy Ray e io eravamo rimasti molto amici. Ed ero stato molto felice sia per lui che per Ophelia quando si erano innamorati: erano proprio fatti uno per l’altra.»
«Ma allora perché…»
«Perché avevamo preso strade separate? Vede, Billy Ray aveva un fiuto fantastico per gli investimenti ed era il socio ideale: affidabile, per nulla avido. Solo che negli ultimi anni aveva maturato una certa quantità di scrupoli morali che a mio avviso non erano accettabili per chi fa il nostro mestiere.»
«Può farmi un esempio?»
«Sì. Alcuni anni fa, ci contattò Mortimer Duke proponendoci una collaborazione. Da pari, questa volta.»
«Mortimer Duke? Ma non è uno dei due fratelli che avevate rovinato?»
«Oh, rovinato è una parola grossa. Sì, i Duke avevano perso un sacco di soldi. Ma non erano soldi loro dopotutto, almeno in gran parte. Certo, la loro reputazione ne era uscita a pezzi. Ma il mercato ha la memoria corta, nel giro di qualche tempo erano tornati in pista. Comunque, era una buona occasione, e in affari non c’è nulla di peggio che tenere il broncio.»
«Ma Valentine tenne il broncio.»
«Esatto. Cercai in ogni modo di convincerlo ma non ci fu verso. Allora mi resi conto – ci rendemmo conto entrambi a dire il vero – che non potevamo rimanere soci. Ma ci lasciammo in amicizia, come con Ophelia del resto. Onestamente non avevo alcun motivo per avercela con lui.»
«E i fratelli Duke? Loro un motivo ce l’avevano.»
«Certo. Ma, come le dicevo, erano comunque caduti in piedi e non erano tipi da nutrire rancore. Lo dimostra il fatto che ci chiesero loro di collaborare. E comunque credo proprio che abbiano entrambi un alibi inattaccabile.»
«E sarebbe?»
«Sono morti. Randolph una decina d’anni fa, Mortimer la scorsa estate. Aveva più di novant’anni.»
«Un’ultima cosa. Mi pare evidente che il succo d’arancia e la bustina di coca di fianco al cadavere non fossero lì per caso. Chi altri era a conoscenza della storia che mi ha raccontato, oltre a voi quattro, ai Duke e a Beeks?»
«Nessuno, che io sappia. E concordo che sia una messinscena. Ma potrebbe benissimo averla organizzata Billy Ray: aveva un gran senso dell’umorismo. E magari qualche senso di colpa.»
Ci stringemmo la mano sull’uscio, mentre Ernest mi restituiva il giaccone sempre con la stessa maschera di disgusto scolpita sul volto.

*

Fuori nel frattempo era buio. Mentre salivo in macchina, mi sembrò di notare con la coda nell’occhio un’ombra che si ritraeva nel vano di un portone vicino. Volsi lo sguardo in quella direzione ma non vidi nulla: probabilmente era solo un gatto.
La chiacchierata era stata utile, a prescindere da quanto potessi fidarmi di Winthorpe. Ma di fatto ero in un vicolo cieco. L’unica pista che avevo era Clarence Beeks, ma non avevo idea di dove e neppure come trovarlo. Le sue tracce, a quanto avevo appreso, si interrompevano alla stazione di Chicago, all’alba del primo gennaio 1984.
Per quanto fosse improbabile, al limite dell’assurdità, l’unica opzione che avevo era andare a Chicago.
Ero talmente immerso in questi pensieri che, entrando, non mi accorsi che la luce del mio ufficio era accesa.
«Buonasera, detective.»
Feci un salto. Ovviamente era Ophelia.
Non persi neppure tempo a chiederle come fosse entrata e la aggiornai sui miei magri progressi.
«Vengo con lei a Chicago», fu la sua reazione – assai migliore di quella che temevo. «Non si preoccupi, non la intralcerò. Ho degli affari da sbrigare lì e approfitterò per non fare il viaggio da sola. Ci vediamo in stazione domani a mezzogiorno, prendo io i biglietti.»
«Come, in stazione? Non vorrà andarci in treno, impiegheremo una vita…»
«Non volo. E sono io che pago: che le importa del tempo? Troveremo qualche modo per impiegarlo.»
Detto questo si alzò e uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta e lasciandomi a bocca aperta a interrogarmi sulle implicazioni di quell’ultima frase.
«A domani, detective», la sentii salutare dal pianerottolo.

*

27 dicembre

Mi addormentai a fatica quella notte, feci sogni agitati e mi svegliai tardi, più stanco di quando mi ero coricato.
Dedicai più tempo del solito alla toeletta. Docciato e ben rasato, infilai qualche straccio in un borsone – contavo di non fermarmi a Chicago più di un paio di giorni – e mezz’ora prima di mezzogiorno ero in stazione.
Mi feci dare allo sportello il numero del centralino della Union Station di Chicago e chiamai: se non altro, esisteva un ufficio doganale con un archivio. Con un po’ di fortuna sarei riuscito a trovare qualche traccia della spedizione di un gorilla avvenuta quindici anni prima.
La mia cliente mi venne incontro a mezzogiorno spaccato, fin troppo sorridente per una fresca vedova.
«Ho prenotato una carrozza con due posti letto: spero non le dispiaccia condividerla – ma non si faccia strane idee. Il treno parte tra mezz’ora, saremo a Chicago domani mattina.»
«Nessuna idea: ho una deontologia.»
Per confermare il concetto, mi addormentai pochi minuti dopo la partenza, il cappello calato sugli occhi.
Mi risvegliai che era già tramontato il sole. Una fioca luce rossastra illuminava una distesa di campi gelati a perdita d’occhio.
«Bentornato. Meno male che doveva farmi compagnia. Forse questa potrà interessarle: gliene avrei parlato appena saliti ma non me ne ha dato il tempo.» Mi porse un’agenda rilegata in pelle rossa.
«Che cos’è?», chiesi mentre la sfogliavo. Conteneva numeri di telefono, date, qualche nome.
«L’ha trovata stamattina la domestica, mentre riordinava lo studio di mio marito. A quanto pare era nascosta in uno scomparto della scrivania che si è aperto mentre la spostava per pulire. È diversa dall’agenda che Billy Ray usava normalmente.»
«L’ha già letta? Ha trovato informazioni o indizi che potrebbero essere utili?»
«L’ho sfogliata da cima a fondo mentre lei dormiva. C’è un numero di telefono che ricorre, ma non lo riconosco. Eccolo, guardi. Ho anche provato a chiamarlo, ma non ha risposto nessuno. Qua e là è associato a un nome: Martino. Non so a dire il vero se sia un nome o un cognome, a me non dice nulla.»
«Farò qualche ricerca quando saremo a Chicago.»
Trascorremmo le due ore successive in silenzio: io a consultare l’agenda, dalla prima all’ultima pagina; Ophelia leggeva un romanzo. Cenammo a Pittsburgh in uno dei bistrot della stazione, in attesa del cambio.
Al momento di risalire, vidi che tutt’a un tratto si era incupita, sembrava quasi che avesse gli occhi lucidi.
«Questo è esattamente il treno che prendemmo quindici anni fa, la notte di Capodanno del 1984, con Billy Ray, Louis e Coleman», disse quando fummo a bordo. Mi prese una mano. «Grazie per aver accettato di viaggiare insieme, non credo che sarei riuscita a prenderlo da sola.»
«Come se avessi scelta», sorrisi. «Che effetto le fa, adesso che è qui?»
«Tristezza, per Billy Ray ovviamente. Ma forse soprattutto nostalgia. Eravamo così giovani, fu una vera pazzia», mi sorrise a sua volta.
Si addormentò quasi subito. Mi senti uno sciocco per aver pensato… Mi addormentai pure io.
Mi svegliò a un’ora imprecisata, in piena notte, un movimento sotto la mia coperta. Era Ophelia che si era intrufolata. Immerse il volto nel mio petto, era umido. Mi abbracciò e dopo pochi istanti sentii il suo respiro rallentare e farsi più regolare.

*

28 dicembre

Quando mi destai, poco dopo l’alba, ero da solo nella mia cuccetta. Avevo sognato forse? Il sorriso della mia cliente mi rispose di no.
«Buongiorno, detective. Ecco l’indirizzo dell’albergo, è a due passi dalla stazione – stanze separate», aggiunse. «Abbiamo entrambi da fare, ma se vuoi raggiungermi prima di sera puoi contattarmi sul cellulare.»
Mi porse un biglietto dell’Holiday Inn, sul retro aveva scritto a penna un numero di telefono.
«Lo uso solo in viaggio», aggiunse a mo’ di spiegazione, «normalmente non mi piace l’idea di essere raggiungibile ovunque, mi sembra di essere sorvegliata.»
A proposito di sentirsi sorvegliati, appena scesi dal treno ebbi la sensazione di essere osservato. Mi guardai intorno ma non vidi nessuno, probabilmente era davvero la suggestione del telefono cellulare.
Salutai Ophelia nell’atrio – lei mi diede un leggero bacio sulla guancia – e cercai l’ufficio doganale.
L’esibizione del tesserino, e di una banconota da venti al suo interno, placò le proteste dell’impiegato, che mi condusse all’archivio: una stanza interamente occupata da schedari ordinati cronologicamente, con i documenti di trasporto di tutte le merci che erano passate dal più importante nodo ferroviario del mondo, giorno dopo giorno.
«È fortunato, l’archivio del 1984 è qui ancora per poco, dopo quindici anni mandiamo i documenti al macero. Può mettersi a quel tavolo.»
Conoscevo la data – 1° gennaio 1984 – e trovai quasi subito quello che stavo cercando. Eccolo, un gorilla dello zoo di Pittsburgh destinato a essere trasportato in Camerun. Il documento di trasporto era stato corretto a penna: a Chicago, i gorilla erano diventati due! Lo sconforto fu come un pugno nello stomaco.
Tornai dall’impiegato, sventolando il documento come una bandiera bianca. «Posso averne una copia?» e poi, a bassa voce a me stesso, «Quindi Beeks è finito in Africa… Maledizione!»
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla fotocopiatrice: «Beeks, ha detto? Non Clarence Beeks, per caso?»
Spalancai gli occhi: «Lo conosce? Sa che fine ha fatto?»
«Be’, c’è un Clarence Beeks che lavora allo zoo giù a Lincoln Park. Con mio figlio che è fissato per i leoni ci andiamo così spesso che abbiamo finito per fare amicizia.»
Presi la mia fotocopia e lasciai sul bancone un altro biglietto da venti: l’uomo se l’era più che meritato. La giornata stava prendendo una direzione davvero inattesa.

*

Mi chiamo Clarence Beeks, e sono la dimostrazione di quanto la vita possa riservare sorprese.
Ho trascorso i primi trent’anni da adulto al servizio degli interessi dei ricchi, nutrendomi delle briciole che mi elargivano dal loro tavolo. Ero ambizioso e privo di scrupoli, e ho fatto cose di cui non vado fiero, sempre muovendomi nell’ombra: minacce, estorsioni, calunnie – tutto ciò che i miei facoltosi clienti mi chiedevano di fare. Ero piuttosto bravo.
Finché non successe qualcosa di inaspettato.
All’epoca ero l’uomo di mano della Duke & Duke, una finanziaria specializzata nella compravendita di titoli di beni di consumo. Mi avevano incaricato di corrompere un funzionario del ministero dell’agricoltura per ottenere in anticipo delle informazioni riservate sull’andamento del raccolto delle arance, e investire di conseguenza.
Ma un gruppo di squinternati, sul treno notturno per Chicago, mi sottrassero il rapporto, mi infilarono un costume da gorilla e mi chiusero in una gabbia occupata da un altro primate, in procinto di essere spedito in Africa. Fu soltanto quando sbarcammo in Camerun che si accorsero dell’errore.
Nel frattempo però, nelle lunghe ore trascorse in gabbia, avevo familiarizzato con il gorilla, imparando a comunicare con lui e perfino ad affezionarmici.
A cinquant’anni, avevo scoperto un lato di me stesso che non conoscevo – l’amore per gli animali selvatici – e che mi piacque moltissimo. Rimasi in Camerun per tre anni e, anche se non avevo nessuna competenza, potei collaborare al monitoraggio del programma di reinserimento degli animali nati in cattività nel loro habitat naturale.
Furono gli anni più belli della mia vita. Imparai moltissimo, con lo studio e con la pratica sul campo. Finché non ricevetti una proposta di lavoro dallo zoo di Chicago, uno dei più importanti d’America, che collaborava da tempo con i programmi di ripopolamento: avrei continuato a occuparmene seguendo gli esemplari più giovani e “preparandoli” alla loro nuova vita.
Mi parve un segno del destino. Chicago era il luogo in cui anche la mia vita era cambiata. Ora sono qui da dieci anni e sono un uomo felice. Soltanto una cosa mi turba: il pensiero delle tante azioni turpi che ho commesso nella mia vita precedente. Farei qualsiasi cosa per rimediare almeno in parte al male che ho fatto.

*

Ho preso tante cantonate nella mia carriera di investigatore privato, ma ero assolutamente certo di non sbagliarmi stavolta: Clarence Beeks non aveva niente a che fare con la morte di Billy Ray Valentine.
La lunga chiacchierata con quell’uomo bizzarro comunque non era stata del tutto inutile. Decisi però che l’avrei tenuta per me, almeno per il momento.
Raggiunsi l’albergo mentre i primi fiocchi di neve imbiancavano i marciapiedi, nascondendo almeno per qualche minuto il lerciume che li ricopriva.
Trascorsi il pomeriggio compulsando nuovamente l’agenda segreta del defunto. Il numero di telefono che compariva a più riprese era senza prefisso, e quel nome… Martino: chi era? Mi feci prestare le guide telefoniche di una dozzina di città da una receptionist perplessa ma efficiente e cominciai a cercare, in ordine alfabetico.
Austin, Chicago, Dallas, Houston… Fu solo a San Jose, penultimo tentativo, che trovai il filo che cercavo. Mi attaccai al telefono e iniziai a tirarlo.
Ero sotto la doccia, nel tardo pomeriggio, quando sentii battere alla porta della mia stanza. Immaginai che fosse Ophelia: carino da parte sua bussare, una volta tanto, ghignai tra me. «Cinque minuti e arrivo!»
Aperta la porta del bagno mi si gelò il sorriso in faccia. Il mio borsone era aperto sul pavimento, i quattro indumenti che conteneva sparsi in giro, tutti i cassetti aperti, le tasche del cappotto rivoltate… E l’agenda era sparita.
Ophelia! Uscii di corsa, seminudo. Nessuno sul corridoio, la sua porta era chiusa: la spalancai.
«Ma sei impazzito! Esci subito!», gridò lanciandomi addosso i pantaloni che si era appena tolta. Stava per lanciarmi qualcos’altro quando vide la mia espressione stravolta e si bloccò, improvvisamente preoccupata: «Che cosa è successo?»

*

La cena, nel ristorante dell’hotel, fu silenziosa: Ophelia era molto scossa, io cercavo di ricomporre i pezzi del puzzle. Soltanto davanti al dolce mi chiese delle indagini.
«Ho trovato Beeks, ma è un vicolo cieco.» Le raccontai dell’Africa e dello zoo, strappandole un sorriso.
«Ma abbiamo perso l’agenda», si rabbuiò subito.
«Non tutto è perduto. Intanto adesso sappiamo che l’agenda era la pista giusta. E credo di aver scoperto l’identità di Martino.»
«Davvero? E chi è?»
«Che cosa: è il nome di un’azienda in California, si occupa di computer.»
«Il numero di telefono era quello dell’azienda? Ma Billy Ray non ha mai fatto investimenti in quel settore, diceva di essere affezionato alla pancetta e al succo di frutta», sospirò.
«No, il numero non corrisponde, ma ho una pista e domani volerò a San Jose per seguirla. Perdonami, ma non c’è davvero tempo per il treno stavolta.»
«E mi lasci da sola…»
«Sei perfettamente al sicuro», mentii, più a me stesso che a lei. «Se qualcuno avesse voluto farti del male ne avrebbe già avuto molte occasioni, e comunque, chiunque sia, ha già preso quello che cercava.»
«Quando ci rivedremo?»
«Il 31 dicembre alle dieci di sera in punto sarò nel mio studio, e spero che per allora avrò trovato il bandolo di questa matassa.»

*

29 e 30 dicembre

Mi chiamo Galileo Vanvestieri, ho 35 anni e vivo a San Jose. Mio nonno – anche lui Galileo – emigrò dall’Italia negli anni venti e si stabilì in California.
Fu lui, dopo la guerra, a trovare a mio padre un lavoro nella Martino Instruments, una piccola ditta che produceva transistor e apparecchiature elettriche e che all’epoca era tra le poche ad assumere italiani.
Negli anni l’azienda crebbe e da poco più che impresa familiare divenne un importante produttore di macchinari industriali, con clienti in tutto il Paese e centinaia di dipendenti. Alla fine degli anni settanta mio padre era tra i progettisti più stimati, un uomo realizzato e orgoglioso del suo lavoro.
Poi arrivarono i computer, e sembravano la gallina dalle uova d’oro. Anche Martino avrebbe voluto gettarsi in quel mercato, ma riconvertire la produzione e formare il personale era estremamente costoso. Investì in borsa tutto il fondo pensione dei dipendenti, ma nel gennaio del 1984 fu coinvolto nel crack della Duke & Duke e perse tutti i soldi.
Erano i risparmi di una vita di centinaia di persone, tra cui mio padre. Che si buttò da un ponte alla fine di quell’anno – e non fu il solo. Fu nello stesso periodo che una figlia del vecchio Martino, aprì un’azienda nuova di zecca, la Martino Enterprises: pare che il denaro lo ottenne giocando in borsa. Una strana coincidenza, no?
Con tutti nuovi dipendenti, la “nuova” Martino si occupava di informatica e oggi è una delle cento imprese più importanti d’America.
Dopo la morte di mio padre, ho dedicato la mia vita a ricostruire come andarono realmente le cose, a scoprire la truffa che ha rovinato la mia e tante altre famiglie, a fare in modo che i colpevoli vengano puniti.
Finché circa un anno fa è saltato fuori il nome di Billy Ray Valentine.

*

31 dicembre

Dieci meno un quarto. Avevo viaggiato di più negli ultimi tre giorni che negli ultimi anni, ed ero esausto. Ancora un piccolo sforzo.
A quest’ora, chi poteva se ne stava da qualche parte a godersi il veglione di fine anno. Io non potevo invece, ma se non altro avrei avuto presto compagnia.
Attendevo il mio destino sorseggiando un whisky migliore del solito, per celebrare l’occasione.
Dieci meno cinque. Con qualche minuto di anticipo, Ophelia si materializzò nel mio studio: impeccabile come sempre nell’abbigliamento e nel trucco, la sua espressione e la sua postura tradivano un’ansia febbrile. Rimase interdetta scoprendo di non essere l’unica invitata alla festa.
«Grazie per essere venuta», le sorrisi. «Ti presento il signor Galileo Vanvestieri. Signor Vanvestieri, la signora Ophelia… Valentine.»
L’interpellato, un uomo sulla quarantina molto alto e dinoccolato, capelli corvini e occhiaie profonde, si alzò in piedi e porse nervosamente la mano, che la donna strinse con evidente disagio.
«Dobbiamo rimediare a una certa asimmetria informativa: questo signore sa già tutto quel che deve sapere sul tuo conto, ho avuto circa tremila miglia di tempo da San Jose per ragguagliarlo. Ti metto subito in pari.»
Ophelia si sedette sull’unica sedia libera davanti alla scrivania. Io mi alzai e mi misi a passeggiare per la stanza, mentre parlavo.
«Quando sono partito per la California brancolavo nel buio. Se mai avessi nutrito ancora dubbi, il furto dell’agenda mi aveva convinto definitivamente che il signor Valentine era stato ucciso. L’assassino doveva essere qualcuno che lo conosceva, e che conosceva la storia dello “scambio” tra lui e Louis Winthorpe e dello scherzetto milionario ai danni della Duke & Duke. Questo riduceva il numero dei possibili sospetti, ma la cerchia era ancora piuttosto ampia. C’eri anche tu del resto.»
«Io?! Come osi anche solo pensarlo!»
Scrollai le spalle. «Dove ci sono montagne di soldi, può nascondersi ogni tipo di motivazione. E quella tua improvvisa necessità di seguirmi a Chicago per occuparti di chissà che “affari”, non aiutava certo a depennarti dalla lista.»
Chinò il capo e si appoggiò allo schienale, come se avesse perso tutta in un colpo la sua indignazione. «Era una necessità, sì, ma non era improvvisa», disse a bassa voce. «Con Billy Ray facevamo quel viaggio ogni anno, tra Natale e Capodanno, per ricordare di quella prima traversata in treno di tanti anni fa. Prendevamo una stanza in quello stesso albergo in cui avevamo dormito nel 1984 e giravamo per la città ricordando e ridendo. Avevo bisogno di tornarci ancora anche se lui non c’è più, ma non ce la facevo ad andare da sola…»
«Lo so. Ti ho fatto seguire.»
«Tu…»
«È il lavoro per cui mi stai pagando. Se può consolarti, ti credo. Comunque, avevo individuato “Martino” e scoperto a chi apparteneva il numero di telefono – al signor Vanvestieri, come immagino avrai intuito. Ma ancora non avevo idea di quale fosse il collegamento: come dicesti, il signor Valentine non investiva nel settore dell’informatica. Fu soltanto a San Jose che la nebbia cominciò a diradarsi.»
Le raccontai tutta la storia. «Ed ecco qualcun altro che aveva qualche ragione per nutrire rancore nei confronti di Billy Ray Valentine», conclusi.
Ophelia spalancò gli occhi e portò entrambe le mani davanti alla bocca. «Ma Billy Ray non ne sapeva nulla!»
«Lui no. Ma Winthorpe sì: gestiva lui da anni i clienti della Duke & Duke e conosceva personalmente Martino. Ma il fatto interessante è che, a quanto pare, anche Martino sapeva che cosa sarebbe successo: ed ecco come saltarono fuori i soldi per aprire la nuova impresa, dopo aver convenientemente chiuso quella vecchia senza il fastidio di dover liquidare i dipendenti.»
«Dunque sei stato tu a ucciderlo?», scattò in piedi indicando Vanvestieri.
L’uomo rimase seduto e scosse la testa. «Ammetto che il nostro primo incontro fu alquanto burrascoso. Ma fu chiaro subito che lui era all’oscuro di tutto, pur essendo responsabile ovviamente. È grazie al signor Valentine che abbiamo scoperto che Martino e Winthorpe erano d’accordo, e gli ultimi tasselli del puzzle sono andati al loro posto. Credo che volesse sinceramente aiutarci per rimediare almeno in parte al male che avevamo subito.»
«Così Winthorpe lo venne a sapere», commentai. «Se Valentine avesse reso pubblica la cosa, non solo avrebbero dovuto rifondere tutti i danneggiati, ma avrebbero rischiato la galera: l’insider trading è reato federale.»
«Louis…», sospirò Ophelia, gli occhi ormai invasi dalle lacrime.
«Lasciamo che a raccontare la conclusione sia l’ultimo personaggio di questa tragedia. Entri pure, signor Coleman.»

*

Chiamatemi Coleman.
Ero poco più che un ragazzo quando entrai al servizio di Louis Winthorpe e ho servito fedelmente, da maggiordomo e uomo di fiducia, prima suo figlio e poi suo nipote.
La mia vita fu distrutta un giorno di quindici anni fa, quando il mio padrone prima perse tutto e poi mi rese ricco.
Per la prima volta non avevo più nessuno da servire. All’inizio era una bella sensazione, inebriante. Ma ben presto mi resi conto che non ero capace di vivere quel tipo di vita. Dilapidai in pochi anni tutti soldi che avevo guadagnato in donne e alcool, finché non mi rimase nulla. Meditai il suicidio.
Fu Louis Winthorpe III, il mio benefattore, a salvarmi ancora una volta.
Mi propose di tornare al suo servizio, ma non più come maggiordomo. Aveva bisogno di qualcuno di assolutamente fidato che si muovesse nell’ombra e curasse i suoi affari più importanti. Perciò inscenammo la mia morte, in modo che io fossi a tutti gli effetti un fantasma. D’altra parte ero morto nel 1984.
Circa un anno fa mi mandò a Chicago per contattare Clarence Beeks: quel Beeks, nientemeno! Lo aveva rintracciato tramite Mortimer Duke. Voleva affidargli un incarico delicato: l’assassinio di Billy Ray Valentine.
Quando Beeks rifiutò, mi venne naturale offrirmi per quel lavoro. Io non lo avevo mai sopportato Valentine, odiavo soprattutto la spudoratezza con cui aveva preteso di mischiarsi ai veri ricchi, vivere come loro invece di stare al suo posto e che servirli come gli sarebbe spettato. E poi, minacciava di rovinare il mio padrone.
L’ho ucciso io. Ma non sono stato capace di non farmi scoprire da quel maledetto detective. Avrei dovuto toglierlo di mezzo, l’ho seguito per giorni, ma è stato lui a beccare me.
Sono troppo vecchio e stanco per fuggire ancora. Perciò ho accettato di confessare. Tanto ormai non c’era più niente che potesse rimanere nascosto. Mi spiace soltanto per il signor Winthorpe, e più di tutto per averlo deluso.

*

«Coleman!» Ophelia non tentava nemmeno più di trattenere il pianto. «Sono stata al tuo funerale! Come hai potuto…»
All’improvviso prese un fermacarte dalla scrivania e si scaglio contro il vecchio. La fermai appena in tempo. Si abbandonò nella mia stretta.
«Non così, no. Ascolta.»
Prima quasi indistinguibile, poi sempre più rumoroso, si avvicinava il suono di sirene. Dalla finestra lurida le loro luci sembravano solo altre luminarie natalizie.
Il vecchio maggiordomo si consegnò ai poliziotti senza opporre resistenza e senza guardarsi intorno. Nell’istante in cui li vedemmo uscire dalla porta, il cielo si colorò di fuochi artificiali.

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La bottega dell’intagliatore https://www.carmillaonline.com/2023/12/21/la-bottega-dellintagliatore-2/ Thu, 21 Dec 2023 22:14:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80511 di Cesare Battisti

Se avesse saputo che non sarebbe più tornato, avrebbe scelto una ad una le parole prima di partire. Le avrebbe cercate nel dizionario dell’amore e fatte stampare a lettere dorate. Avrebbe atteso un istante in più sulla soglia, per dire a suo figlio io ti amo come non l’aveva detto mai. Invece di andarsene così per strada, senza sapere neppure dove andava. Nel cuore il peso del silenzio, alto in cielo un sole indifferente.

Ci fu un momento in cui credette di aver dimenticato l’essenziale. Esitò davanti alla bottega dell’intagliatore. Sembrava volesse tornare indietro, si tastò le tasche, niente [...]]]> di Cesare Battisti

Se avesse saputo che non sarebbe più tornato, avrebbe scelto una ad una le parole prima di partire. Le avrebbe cercate nel dizionario dell’amore e fatte stampare a lettere dorate. Avrebbe atteso un istante in più sulla soglia, per dire a suo figlio io ti amo come non l’aveva detto mai. Invece di andarsene così per strada, senza sapere neppure dove andava. Nel cuore il peso del silenzio, alto in cielo un sole indifferente.

Ci fu un momento in cui credette di aver dimenticato l’essenziale. Esitò davanti alla bottega dell’intagliatore. Sembrava volesse tornare indietro, si tastò le tasche, niente che avesse potuto lasciare in casa. Riprese allora a camminare, deciso a non pensare più alle parole.

Non ditemi quello che faccio, non lo voglio sapere. Così aveva risposto il piccolo ad un rimprovero, il padre non aveva saputo più che dire. Di solito, le repliche migliori vengono sempre dopo. Ma non quando i passi sul selciato hanno smesso di far rumore. O con un sole appena nato e già pronto a morire. Se si fosse ogni volta interrogato su quello che stava facendo, non avrebbe trovato una ragione buona. Egli sapeva solo che doveva farlo. Così agiscono anche i bambini, ma nei loro occhi la vita arde, sfavilla la determinazione.

Se l’avesse saputo, che quello non era un giorno qualunque, ma il primo in un mondo in cui le anime non si vendono più al diavolo ma alla regola. Se suo figlio glielo avesse detto chiaro, con parole che capirebbe anche un bambino, egli avrebbe lasciato in casa il cuore e consegnato al carcere solo la mente ottusa. Ed ora non starebbe fissando un muro, come fosse la vetrina dell’intagliatore, che il bimbo non si stancava mai di ammirare.

Non starebbe accarezzando le macchie brune, né scambiando sospiri con parole. Quelle che non seppe cogliere quel mattino, nel giardino rigoglioso di suo figlio. Quando il tempo non si ammazzava con l’inganno, chiedendo ai muri brontoloni perché solo gli eroi vanno in paradiso. E sentirsi dire che è per penetrare il cuore della gente, che bisogna indossare il costume buono.

Convincersi che l’urlo del silenzio non sia dolore, ma un grido di amore e di speranza. Decorare il mondo dei sospiri con sorrisi di bimbi allevati negli anni di prigione. O confondere il rumore di passi sempre uguali con voci capaci di attraversare il mare. Non ascoltare più i penitenti, le loro litanie del passato. Accaniti a rinnegare l’evidenza che il proibito è sempre il meglio che ci è dato. Ciò che fa d’ogni adulto un condannato.

Suo figlio tutto questo lo ignora e aspetta in casa che il cielo si ricongiunga con la terra. Implora luce per le menti chiuse e un po’ d’amore per le ombre orfane di sole. Prega Dio, che fulmini le guerre. E quando la sera per il giorno è il miglior fine, il prigioniero si raccoglie e vola. Va da suo figlio che lo aspetta, davanti alla bottega dell’intagliatore.

 

(Illustrazione di Nico Maccentelli)

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Carcerite, 1° episodio https://www.carmillaonline.com/2023/10/07/carcerite-1-episodio/ Sat, 07 Oct 2023 21:55:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79474 di Cesare Battisti

La storia ha conosciuto tanti periodi bui, in cui lo svuotamento della parola, la stessa esistenza umana assalita dal “chiacchiericcio” non sono una novità dei nostri tempi. “Lo spazio pubblico ha perso il potere d’illuminare, tipico in origine della sua stessa essenza.” Lo scriveva Hanna Arendt nel 1959, ce lo ha provato, con la sua distanza dal reale, un’alta carica dello Stato in un talk show serale al dire che il carcere serve a punire, che è il luogo, insomma, dove il condannato non deve fare altro che [...]]]> di Cesare Battisti

La storia ha conosciuto tanti periodi bui, in cui lo svuotamento della parola, la stessa esistenza umana assalita dal “chiacchiericcio” non sono una novità dei nostri tempi. “Lo spazio pubblico ha perso il potere d’illuminare, tipico in origine della sua stessa essenza.” Lo scriveva Hanna Arendt nel 1959, ce lo ha provato, con la sua distanza dal reale, un’alta carica dello Stato in un talk show serale al dire che il carcere serve a punire, che è il luogo, insomma, dove il condannato non deve fare altro che impegnarsi a lavare il malfatto. Se questo addetto alla politica avesse ragione, il percorso trattamentale, la rieducazione, la lotta all’ozio, lo stesso art. 27 della Costituzione non sarebbero altro che una distrazione rispetto allo scopo ultimo della condanna: lavare, pulire, lucidare le parti recondite del corpo penale.

Che ne pensano le persone detenute di queste radiose esortazioni non è facile da sapere. Anche perché in carcere i chiacchiericci stanno a zero, qui si passa all’azione. Da noi i problemi di purificazione non esistono, anzi è l’attività la più diffusa, la sola che l’Amministrazione può permettersi di offrire a tutti i suoi i suoi penitenti. A Parma non si fa altro che pulire la cella tutto il giorno. Si fa la gara a chi consuma più detergenti. Tanti sono i prodotti di igiene che ci vorrebbe una rastrelliera per cella. Non a caso, sulla lista della spesa questa è la voce con più varietà. Non avrei mai pensato prima che ci fossero tanti detergenti e per ognuno dei quali un uso preciso e ben distinto.
E i detenuti, pochi lo sanno, sono scrupolosi ed eseguono le istruzioni per l’uso con la precisione di un fisico nucleare.

In carcere si strofina senza sosta ma non basta mai, perciò almeno due volte la settimana c’è anche la “generale”. Una faticaccia simile a quella che una volta si usava dire delle “grandi pulizie di primavera”. Da noi si comincia al mattino presto, ben prima dell’apertura delle celle. Strepitano allora gli sgabelli sul pavimento, cigolano gli stipetti, cade una pentola, fa eco qualche bestemmia. Sto pulendo, non rompete! Più forti sono i rumori e più laboriosa e accanita sarà la purificazione. Bisogna fare di più e meglio, senza pietà, raspare il fondo all’anima peccatrice. Solo i migliori si salveranno. Quelli del piano di sopra al nostro si scatenano: ma è una generale, che nessuno pretenda dormire. C’è anche chi intona una canzone strappa cuori, e intanto strofina. Alle 8,30 in punto, con i blindi aperti, tutto ciò che c’è di removibile nella cella va ad accatastarsi a una velocità supersonica nel corridoio. E i secchi d’acqua cominciano allora a scrosciare.

Le celle sono uno specchio, lo sono sempre, potrebbe esserci una perquisizione a qualunque ora che non troverebbero un capello a terra. Se a qualsiasi ora del giorno uno percorresse il corridoio lasciando occhiate discrete all’interno delle celle vedrebbe sempre qualcuno con spugna e straccio a pulire.
Ma che cosa avranno da pulire?
Me lo sono chiesto tante volte, mentre a mia volta mi davo da fare per far sparire qualche traccia di polvere perché gli altri ti guardano male. Qui non sfugge nulla, il tale della 20 non si fa il bagno, quell’altro non ha mai comprato un detersivo e così via.

I pulisce e si discorre: “ Ah, oggi ho messo la cella sottosopra e ho trovato una ragnatela dietro al termosifone, ti rendi conto?” Oppure quell’altro: “Vado a fare un’altra doccia, quel bagnoschiuma non vale niente”. Insomma, gli argomenti per conversare in galera non mancano. Sono parole sante, quasi quanto un chiacchiericcio alla televisione.

Non crediate ci si batta tanto solo per far passare il tempo. Oltre ai passeggi, dove quasi nessuno va, qui le celle sono aperte, non si sta 24 ore l chiuso. E comunque ho conosciuto gente là fuori che non usciva quasi mai di casa e non per questo passava il giorno a far brillare mobili e vetri. Qui invece sì, e se non lo fai sei sospetto. Sei un aggravante alla pena, alla reputazione: detenuto d’accordo, delinquente è discutibile, ma nessuno potrà permettersi di dire che sei anche uno sporcaccione. Da chiedersi quanti di noi, a piede libero, si ricorderebbero di avere una scopa in casa. Qui di scope, spazzoloni e attrezzi simili ce n’è uno per ogni impurità invisibile a occhio nudo. La macchia, l’imperfezione, la onta bisogna cercarla, scovarla mettendosi in controluce, per esempio appostato sul corridoio: è da lì che ti sbirciano in cella quelli che passano per poi sparlare: “Quello lì lo vedo male, la condizionale se la sogna.” E giù colpi di straccio, spugne, retine saponate e perfino flaconi di profumo diluito nel secchio del lisoform.

Una tortura per i poverini tossicodipendenti. Loro che cogli occhi ancora incollati dal sonno e la chimica a rodergli dentro devono stare lì a far brillare i muri e le Nike, quelle che metteranno solo per andare fino all’infermeria. Perché bisogna andarci puliti e abbattuti, guadagnarsi la fiala, riprendere forze pur di tornare a pulire, o almeno a farsi vedere farlo, mentre “Pomeriggio alla 5” imperversa su una trentina di schermi ad alto volume.

Chissà, forse tra un chiacchiericcio e l’altro, basterebbe fermarsi un istante, darsi un tempo, un respiro profondo e uno sguardo sincero al compagno di cella, dello scranno vicino, per mutare la forma di agire, pensare che non è con spugna e e sapone che ci togliamo le pene dal cuore. Bensì occupandoci un po’ più di noi stessi e degli altri che soffrono con i quali condividiamo lo stesso disagio sociale. Chiedersi seriamente dov’è l’errore e mettersi insieme a capire che forse non era proprio questa la luminosità che avrebbero voluto per noi i nostri Padri Costituenti.
E poi, cavolo, basta pulire, che tanto qui gli ospiti non sono graditi!

 

(Disegno di Nico Maccentelli)

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Amatù https://www.carmillaonline.com/2023/07/27/amatu/ Thu, 27 Jul 2023 21:55:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78442 di Cesare Battisti

Questo racconto vuole celebrare il dramma di un’adolescente che sulla rotta dei migranti ha subito l’amputazione delle gambe per congelamento.

Samuel apre le imposte, lasciando entrare nella stanza la luce pallida di n rigido mattino d’inverno. 

– Buongiorno Amatù, come andiamo oggi?

Da sotto la coperta della Croce Rossa risponde una voce sonnacchiosa.

– Bene, sto bene.

L’odore di chiuso misto a disinfettanti fa tornare Samuel alla finestra, questa volta per dischiuderne anche i vetri. La ragazza si raggomitola mugugnando.

Lei e lo psicologo hanno imparato a conoscersi, almeno quel tanto [...]]]> di Cesare Battisti

Questo racconto vuole celebrare il dramma di un’adolescente che sulla rotta dei migranti ha subito l’amputazione delle gambe per congelamento.

Samuel apre le imposte, lasciando entrare nella stanza la luce pallida di n rigido mattino d’inverno. 

– Buongiorno Amatù, come andiamo oggi?

Da sotto la coperta della Croce Rossa risponde una voce sonnacchiosa.

– Bene, sto bene.

L’odore di chiuso misto a disinfettanti fa tornare Samuel alla finestra, questa volta per dischiuderne anche i vetri. La ragazza si raggomitola mugugnando.

Lei e lo psicologo hanno imparato a conoscersi, almeno quel tanto da permettersi entrambi di recitare lo stesso rito ogni mattina. I primi giorni Amatù non voleva spiccicare una parola, aveva lo sguardo spento e la notte le capitava di svegliarsi urlando. Ma a 15 anni è difficile resistere al richiamo naturale della vita.

Soprattutto con qualcuno vicino che ce la mette tutta per non lasciargiela sfuggire. A Samuel quella ragazza sta realmente a cuore.

L’unica sopravvissuta d’una famiglia afgana, Amatù è arrivata al Centro in condizioni disperate. Al prendere coscienza dell’accaduto, è travolta dalla disperazione; piuttosto che vivere in quello stato preferisce morire. Per impedire di togliersi la vita viene sedata, rimane incosciente per alcuni giorni. Al suo risveglio, ha trovato Samuel accanto al letto che la osservava. Ha richiuso gli occhi, decisa a non aprirli più. Ma è stato sufficiente quell’istante a riaccendere in lei la fiammella della vita.

Sulla sedia che Samuel è solito occupare, è intatto il vassoio con la colazione. 

– Non hai mangiato niente.

Amatù si tira su coi gomiti, le volute ondulate di capelli si sparpagliano sul bianco del cuscino. Occhi di perla che risalgono gli abissi, e Samuel che non si stanca mai di vederli affiorare. 

– Non volevo interrompere un sogno, dice lei prendendo una fetta biscottata, ma ormai è fatta. 

C’era neve dappertutto ed io ci andavo su senza affondare. 

Samuel distoglie lo sguardo per non rivelare lo sconforto. Credeva che Amatù avesse smesso di vagare nella neve durante il sonno. Gli infermieri dicevano di non averla più sentita gridare di notte. 

– Avanzavo sul mano bianco senza sforzo alcuno, riprende lei. Ma non stavo camminando, scivolavo sulla neve senza nemmeno sfiorarla. Mi sono detta che se ero viva, dovevo per forza aver lasciato le mie impronte e allora mi sono voltata a guardare.  C’era un cammino tappezzato di viole e margherite, come un tappeto che si allungava alle mie spalle perdendosi lontano. Stavo seminando fiori sulla neve, mi sembrò una cosa meravigliosa. Stavo piangendo dalla felicità, quando mi sono sentita chiamare. Era la voce di mia madre. Cercavo di capire cosa volesse dire, ma la sua voce si è mischiata alla tua e mi sono svegliata.

– Mi dispiace essermi intromesso. Magari la mamma ti stava dicendo qualcosa di importante. 

Amatù si intenerisce quando Samuel fa la faccia dispiaciuta. Le ricorda suo padre quando si arrabbiava per niente e poi se ne doleva. La loro era una famiglia unita, ma lei non si era mai soffermata a pensare cosa li tenesse insieme. Non era una questione importante allora. Sembrava così normale essere nati per volersi bene. Ci sono voluti altri mondi da attraversare e un’anima addestrata.

 

(disegno di Nico Maccentelli)

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Quanto resta da sapere https://www.carmillaonline.com/2023/05/23/quanto-resta-da-sapere/ Tue, 23 May 2023 21:55:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77399 di Cesare Battisti

«Gli dei quando ci erano propizi, erano fatti di argilla. Ecco, questa proprio non l’ho capita.» Federico richiude il libro e ci appoggia su la fronte. La psicologa sorride. La postura del ragazzo le fa immaginare Lucilium che invoca disperatamente lo spirito di Seneca affinché gli illumini la mente. «Cos’è che ti turba tanto in questa citazione?», fa lei dando alla voce la giusta intonazione.

Lo sguardo che si alza su di lei sembra provenire dagli esordi della civiltà latina. È scomparso dal volto del ragazzo il piglio intransigente contro [...]]]> di Cesare Battisti

«Gli dei quando ci erano propizi, erano fatti di argilla. Ecco, questa proprio non l’ho capita.»
Federico richiude il libro e ci appoggia su la fronte.
La psicologa sorride. La postura del ragazzo le fa immaginare Lucilium che invoca disperatamente lo spirito di Seneca affinché gli illumini la mente. «Cos’è che ti turba tanto in questa citazione?», fa lei dando alla voce la giusta intonazione.

Lo sguardo che si alza su di lei sembra provenire dagli esordi della civiltà latina. È scomparso dal volto del ragazzo il piglio intransigente contro il quale lei si è fin qui scontrata. Al suo posto, si è aperta una domanda grande come una voragine e lei si sente risucchiata. Nonostante la solida esperienza professionale, la psicologa punta istintivamente i piedi.

Anni di analisi con giovani reclusi le hanno insegnato che non esistono due profili uguali, ed è proprio quando si crede di conoscere abbastanza il soggetto che ci si ritrova a vagare nel buio. Per marcare la distanza, la psicologa corregge la sua postura sulla sedia.

Federico ci sta pensando su. Non è una frase che lui ha colto aprendo il libro a caso. Ci è arrivato gradualmente, riga dopo riga, una pagina dietro l’altra facendo sforzi immani per dare un senso a ogni parola. Fino a immaginare sé stesso all’ombra di un salice piangente, proprio come sembra fosse solito farlo il discepolo del filosofo romano. Ci pensa su, il giovane Federico, e sorride amaro.

Chi l’avrebbe detto, doveva farsi pizzicare e poi sbattere in un carcere minorile per mettere per la prima volta piede in una biblioteca, e scoprire che scegliersi un libro da leggere è un’emozione. Non che non ne avesse mai avuto prima uno tra le mani, ma quelli della scuola non contano, non li ha voluti lui e poi non erano libri da leggere ma da studiare.

Seneca, lui l’aveva già sentito nominare. Probabilmente alla televisione, passando da un canale all’altro è inciampato su un programma culturale. Quando poi ha visto quel nome scritto sul dorso di un volume rilegato, lo ha tirato fuori dallo scaffale e, guardingo come se stesse commettendo un’infrazione, ha cominciato a sfogliarlo. Al sentirsi osservato, si è comportato come se fosse proprio quello il libro che era venuto a cercare. Ricompensato dallo stupore sulla faccia del bibliotecario, ha firmato il registro e se n’è andato trotterellando con il suoSeneca sotto il braccio. Non pensava che l’avrebbe davvero letto, tanto qui nessuno sarebbe venuto a chiedergli che diceva. Chissà poi cosa gli ha preso, dopo averlo scorso un po’ a caso, ha avuto l’impressione che quel tale della Roma antica stesse parlando proprio a lui. Allora è andato a sdraiarsi e ha ricominciato d’accapo.

Ma Seneca non si lasci leggere impunemente, dopo di lui perfino i colloqui con la psicologa non sono più gli stessi: lei non fa più domande inutili e lui non deve più cercare le risposte che lei vuole.

«Insomma, ci si sente n po’ confusi di fronte a una cosa simile», risponde infine Federico. «Voglio dire, di che materia sarebbero fatti allora i nostri dei? Perché a me non sembra che ci siano di grande aiuto.»

La psicologa inclina leggermente il busto per osservarlo meglio. Si sta chiedendo se i tratti sul volto del ragazzo, quell’espressione che fin qui lei aveva convenzionalmente associato a un temperamento bellicoso, non fossero invece segnali di una ponderata quanto sorprendente fermezza. Non è la prima volta che si deve ricredere su un giudizio frettoloso, e poi cambiare radicalmente tattica di approccio. Ma raramente questo accade dopo i primi colloqui e, comunque, mai a causa di una lettura miracolosa. La psicologa è combattuta tra la diffidenza e l’ammirazione; sono così rari i giovani pazienti che si interessano alle questioni culturali, figuriamoci in un classico dello stoicismo. Federico è intraprendente ma, come spesso è il caso tra i giovani reclusi, è anche tendenzialmente manipolatore.

«Di certo c’è che non ti sei scelto un libro d’intrattenimento. Credo che Seneca si riferisse al rapporto tra Spirito e libertà interiore, a sua volta dato dall’equilibrio che si stabilisce tra la spinta della natura e la vigilanza della ragione. Ma tu, come credi che potrebbero esserti di aiuto i tuoi “dei”?»

“Togliermi da questo inferno” è la prima risposta che gli viene in mente, l’istante prima di chiedere permesso alla ragione. Con il libro che gli scotta tra le mani, Federico cerca parole più sensate. Vuole il senso della formula, o almeno un aggettivo dotto per addolcire un desiderio di libertà troppo grezzo, vergognosamente naturale. Ma per quanto si sforzi di pensare ad altro, la parola libertà è scolpita a caratteri di fuoco sulla sua fronte.

Non era esattamente questo che voleva dire. È cola della psicologa che invece di spiegargli pare che ce la metta tutta a complicare ancor più le cose. E adesso si mette a guardarlo in quel modo, con quella punta di sospetto che gli punge l’anima e ogni volta lo fa balzare in piedi, pronto a sbattere la porta. Liberarsi delle passioni, se lo ripete mentalmente, dovrebbe anche voler dire vincere la paura. Federico questa volta non si scollerà dalla sedia. Vuole sapere se non ci ha mai capito niente, ed è questa la causa di suoi guai, o se non c’è proprio niente da capire, tanto è della stessa divina argilla che sono fatte tutte le prigioni. Al formulare questo pensiero, Federico entra in uno stato di esaltazione, è sicuro di essere sul punto di scoprire qualcosa che gli cambierà la vita ma, nel timore di confondersi, di fare la solita misera figura, si limita a sbuffare:

«Ma che c’entra, non l’ha detto lei che era solo un modo di dire? Comunque questo qui – fa puntando il dito sul volume – ha scritto queste cose quasi all’epoca di Cristo. Vuol dire che è già da un pezzo che ce la passiamo male».

La smani ardente negli occhi del ragazzo rischia di dare al colloquio una piega sconvenevole. La psicologa non si aspettava un’osservazione simile, ma non un tremito tradisce la sua sorpresa. Avrebbe dovuto intuirlo che stava intervenendo un fattore nuovo, l’elemento destabilizzante, e introdurre sin da subito un argomento che fungesse da filtro. Perfino in quel suo rimanere inerte si sente qualcosa in movimento, come se quanto da lui appena detto non fosse che l’apice di un pericolo sommerso.

Se male interpretato, Seneca parrebbe offrire agli incauti comodi argomenti assolutori, ed è perciò che lei ha creduto di sapere ciò che poteva attrarlo in quel libro. Ma ora non è più sicura. Pur percependo in lui il solito velo di asprezza, nei suoi occhi è però affiorato un mondo ombroso. Come se, stanco di rivolta, Federico stesse parlando per la prima volta alle sue paure vere. Ha fatto il balzo e adesso, in bilico sul bordo dell’abisso, sta scoprendo il fondo di sé stesso. La psicologa trattiene il fiato, non ha mai visto il ragazzo così esposto, tanto che basterebbe un soffio a farlo precipitare.

Federico oscilla ma non cade, si è aggrappato al ricordo di un bambino che corre libero su un prato. Nel cuore ha un giardino di speranza; più lontano nella mente, l’eco del richiamo di sua madre. È lui, l’anima sapiente che corre dietro a un fiore che sboccia solo un giorno prima di morire. Quanto basta per prendere coscienza di essere una creatura libera, e ragionevole. Ci voleva un gran libro su cui inciampare, per scoprire che la felicità è modellata anch’essa con la stessa argilla degli antichi dei.

Federico solleva lo sguardo dai suoi fondali per posarlo sulla dottoressa attonita. È la prima volta che ha per lei uno sguardo di gratitudine. Vorrebbe dirle con parole sue che questo sarà il colloquio che gli resterà in mente per sempre. Sarà anzi l’unico colloquio che avranno mai avuto. Un pensiero che lui riassume in un sorriso, lasciando alla sua voce appena le parole:

«Ho riflettuto un po’, come trattenendo qualcosa ma non so che dire. Un grand’uomo Seneca, mi dispiace per lui.»

La psicologa ha aperto la bocca per ribattere, la richiude subito.

«C’è da dire che neanche a lui è andata bene, si è suicidato. Ci sono persone che devono correre troppo davanti a tutti e, quando si voltano indietro, non c’è più nessuno che le segue, o almeno così lo credono. Ma grazie ai silenzi che lei mi ha concesso, io spero di fermarmi prima, per non perdere il ricordo di chi ero e né la speranza di chi posso diventare.»

La psicologa torna a respirare, trattenendo un sorriso triste che raccoglie in sé tutte le promesse che non potrà più mantenere.

 

(Illustrazione di Nico Maccentelli)

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Uno scrittore è uno scrittore, alla faccia di ogni repressione https://www.carmillaonline.com/2023/04/06/uno-scrittore-e-uno-scrittore-alla-faccia-di-ogni-repressione/ Thu, 06 Apr 2023 21:55:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76806 di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e [...]]]> di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e parti politiche di destra ignorino da sempre i più elementari diritti della persona in un luogo di restrizione della libertà come il carcere non mi stupisce. Ma parimenti non mi stupisce neanche la posizione della cosiddetta sinistra, sempre pronta a blaterare di diritti umani quando conviene, ma latitante se non connivente con la repressione e il clima di emergenza nei confronti dei protagonisti della sinistra antagonista degli anni ’70. 

Destra e “sinistra” così come sono sulla stessa lunghezza d’onda riguardo la guerra e l’invio di armi ai nazisti di Kiev, anche sulla repressione non si distinguono l’una dall’altra. E se non ho mai creduto al carcere come strumento di riabilitazione, ritenendolo solo un dispositivo di punizione fino all’annientamento della personalità attraverso la compressione dei diritti, fino ai più elementari, credo ancor meno in specifico a questo sistema discriminatorio e repressivo come quello carcerario italiano. 

Ci credo meno che meno quando un ministro esibisce il prigioniero come una belva in gabbia e quando da sempre alla restrizione tra quattro mura si aggiunge il libero arbitrio dell’intimidazione e della violenza sui detenuti. Soprattutto quando esiste il 41bis, prosecuzione della legislazione emergenziale (do you remember l’art.90?), già giudicato tortura dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (vedi qui) e ancora più spudoratamente dispositivo politico di annientamento su detenuti antagonisti che nulla ha a che vedere con lo scopo (o pretesto?) che politici e legislatori si erano dati per istituirlo: troncare i legami dei capi mafia detenuti con l’esterno. Vedi la lotta dell’anarchico Cospito, in sciopero della fame a oltranza.

La storia del nostro paese e delle sue lotte popolari è fatta anche delle condizioni di vita dei prigionieri, di quella molteplicità di soggetti, politici o meno, la cui presenza  e modalità di trattamento nelle carceri servono in fin dei conti, al di là dei reati veri o presunti, a legittimare un regime borghese e classista, un insieme di valori e narrazioni dominanti, che sono quelle dei gruppi più forti ed egemoni in questa società.

In questo contesto, dunque, ritengo importante proseguire l’impegno del nostro Valerio Evangelisti, dando spazio alla scrittura di Battisti, che carcere o meno è e resta uno scrittore e oggi anche un editor che dà spazio e stimolo ai tanti detenuti che scrivono. Battisti è uno scrittore alla faccia delle riscritture utili al regime (vedi il recente programma sulla RAI) perché un’opera d’arte, così come il suo autore, sono tali in quanto considerati così dai fruitori dell’opera stessa e dall’opinione che questi hanno degli artisti. La censura può solo colpire chi produce cultura e informazione critica, gli scrittori, i giornalisti che non si sono venduti, ma non può alterare ciò che sono, o che sono stati, il loro percorso culturale e artistico durante e dopo la loro opera. 

Alla presentazione dell’ultimo romanzo di Battisti, “l’Ultima duna”, che ho recensito su Carmilla tre mesi fa, c’era un folto pubblico presso la libreria Ubik di Bologna. È ho già detto tutto.

Per il resto, ecco un altro racconto di Cesare. E ne seguiranno ancora.

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L’albero delle storie

di Cesare Battisti

 Le apparenze ingannano, ma sono ancora ciò che abbiamo di più solido. Lo sa anche Vlady che ha solo dieci anni. Un’età in cui è ancora possibile cogliere gli istanti che passano nell’aria che respira e percepire che il presente gli è interdetto. Lui sa che la guerra non è fatta solo di bombe che cadono dal cielo, di fughe, di pianti, i corpi dilaniati. Sta negli sguardi vuoti dei sopravvissuti, nel silenzio afflitto del rifugio sotterraneo. La guerra sta nei gesti gravi dei grandi, nel loro inconfessabile terrore.

Ogni volta che sguscia allo scoperto, Vlady guarda le macerie tutt’intorno e sente quanto poco vale realmente la su vita. Sa che non dovrebbe esporsi tanto, farà stare in pensiero i suoi. Al rifugio tutti credono che fuori non sia rimasto niente, non sanno però dell’Albero e delle fughe che lui fa per andarlo ad ascoltare. Vlady è guardingo, ma non sa chi siano i nemici, di essi conosce solo il fagore degli spari. E una paura senza volto è troppo vaga per disanimare.

La guerra lui la sente sotto i piedi quanfo stringe i denti e corre incontro all’Albero delle storie. L’insidia è il palpito del sangue assorbito dalla terra, sta nell’alito pesante della quiete. Vlady corre a perdifiato al calar del sole, pregustando il suono di magiche parole. Il suo non è un albero speciale, offre ombra a tutti quelli che lo vogliono ascoltare. Racconta storie di mondi vecchi e nuovi, di (…) che rincorrono la pace. La sua è una lingua universale, dice di giochi, di sogni e di prestigiatori, di angeli erranti senza ali. 

Sotto le sue fronde la guerra regredisce, dalle rovine rinascono le case, la mamma stende ancora i panni sul balcone, mentre nel cortile della scuola è un gran vociare. l’Albero racconta che così è sempre stato, che volerlo differente è solo un’illusione, un abbaglio di inventori che non sanno amare.

La storia l’ha sentita tante volte, Vlady la ripete tutto il giorno sotto terra, eppure ogni volta sembra nuova. l’Albero sa quel che dice, ha radici più grandi della guerra e la sua voce è solo melodia; combina le parole con la musica dei fiori e ogni adagio ha un profumo differente.

Resta poco del giorno, ma Vlady non è sazio di ascoltare, vuole il cuore debordante di vita per inondare di speranza il rifugio sotto terra. Vuole portare con sé il canto degli uccelli, la filastrocca degli insetti a primavera, la vita che fisorge dalla cenere. E la sorpresa dei signori della guerra, il tornare docilmente al posto loro, come bravi nani da giardino.

Si fa notte, sul rifugio è spuntata una stella. l’Albero delle storie lo saluta con una lieve inclinazione della chioma, come per sigillare un accordo su qualcosa che Vlady ancora ignora.

 

Illustrazione di Nico Maccentelli

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