Poesia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 30 Nov 2024 07:35:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Condannato dai cieli io m’addormento su questa terra maledetta https://www.carmillaonline.com/2024/11/29/condannato-dai-cieli-io-maddormento-su-questa-terra-maledetta/ Fri, 29 Nov 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85476 di Giorgio Bona

Nel settembre del 1978 l’editore Vanni Scheiwiller pubblicò Le mie lettere sono fatte per essere bruciate (a cura di Gabriel Cacho Millet, All’insegna del pesce d’oro, Milano) di Dino Campana, con un carteggio tale da esaltare la voce e lo slancio poetico di un autore che aveva innalzato la poesia attraverso una visione della vita nel segno della follia.

“Non venire con me, Zaccarini. Con me si può soltanto stare male. Io sono pazzo”: con queste parole, ferme, decise, dure, Dino Campana allontanava un carissimo amico della sua adolescenza perché lo lasciasse da solo in cammino verso il [...]]]> di Giorgio Bona

Nel settembre del 1978 l’editore Vanni Scheiwiller pubblicò Le mie lettere sono fatte per essere bruciate (a cura di Gabriel Cacho Millet, All’insegna del pesce d’oro, Milano) di Dino Campana, con un carteggio tale da esaltare la voce e lo slancio poetico di un autore che aveva innalzato la poesia attraverso una visione della vita nel segno della follia.

“Non venire con me, Zaccarini. Con me si può soltanto stare male. Io sono pazzo”: con queste parole, ferme, decise, dure, Dino Campana allontanava un carissimo amico della sua adolescenza perché lo lasciasse da solo in cammino verso il monte. Andare, andare.

Non riusciva a rimanere fermo, era un’anima in pena. Come scrive Cacho Millet nell’introduzione alle lettere: “entrando nell’infrenabile notte, nascosto in un pagliaio due, tre giorni, senza mangiare né bere, inossava i suoi fantasmi” (lettera a Giovanni Papini, maggio 1913).

Il titolo di questa raccolta è tratto da una lettera che il poeta inviò a Sibilla Aleramo, da lui amata. Il carteggio comprende lettere con lei, e soprattutto con poeti e scrittori di quegli anni così tormentati come Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Boine, Emilio Cecchi e Silvio Novaro; e raccoglie, oltre alle lettere, cartoline postali, dediche e testimonianze, mettendo in evidenza il lamento di un uomo che crede ciecamente nel valore assoluto della poesia.

L’amore irruppe nella vita del poeta e fu esaltante e drammatico. Aleramo (pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina, 1876-1960) fu la sua grande musa nell’ambito di una relazione turbolenta che finì con l’aggravare la salute mentale del poeta.

Curioso come nella sua lucida follia Campana minacci di morte Papini per la mancata restituzione di un manoscritto che Soffici smarrì durante un trasloco: “verrò a Firenze armato di un buon coltello e mi farò giustizia ovunque vi troverò”.

Anche in queste lettere, in frammenti che diventano una parentesi di vita poetica di Campana, si coglie la capacità di trasformare in simboli immagini realistiche – e proprio partendo da qui abbiamo metafore di alto respiro, realizzate e sorrette da termini aulici e richiami coltissimi.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile desiderio di fuga dedicandosi a una vita errabonda. È un poeta che va a vendere le sue poesie nei caffè, nelle bettole, che vuole far sentire la sua voce a tutti: una scelta eroica per una personalità in apparenza fragile, un grande sognatore dentro un crudo realismo.

La sua follia, le forme violente che lo assalgono improvvise sono interpretate come una mancanza di adattamento alla vita sociale, ma anche come un intrinseco desiderio dentro di lui di manifestare la sua poesia attraverso una forma di comunicazione aggressiva. Quello che è certo che la follia rappresentò un passaggio nella ricerca della libertà, e dentro questa libertà ecco prendere vivacità colori, musica, paesaggi, luci improvvise tra il sogno e la veglia.

Nel 1938 lo psichiatra Carlo Pariani pubblicò Vita non romanzata di Dino Campana, che si propose come un documento indispensabile per la conoscenza della follia del poeta, da lui incontrato al tempo del ricovero nel manicomio di Castel Pulci. Pariani ebbe con Campana una lunga serie di colloqui tra la fine del 1926 e l’aprile del 1930, e la trascrizione costituì la parte centrale di questo studio presentato come ricerca sull’influenza della psicopatia sull’ingegno e il carattere del poeta. Nei dialoghi il discorso tra i due viaggia su un unico binario, come scrive Cosimo Ortesta, e riguarda un solo oggetto: l’unicità del corpo, il suo movimento, il suo desiderio.

È il 1907 quando Dino Campana fugge da Marradi per Montevideo e poi l’Argentina. Di quel viaggio non esistono fonti certe e Carlo Pariani non riesce a saperne molto anche se una ventina di anni dopo la reclusione a Castel Pulci, tra le angherie dell’infermiere Caliban, i pasti insipidi e le notti insonni, lo psichiatra riuscirà a schiudere nel poeta vivide memorie e a ricostruire in parte quella piccola parentesi di vita.

Questo viaggio lo racconta Laura Pariani nel suo libro Questo viaggio chiamavamo amore (Einaudi, 2015), dove ipotizza un cammino che dalle rive del Paranà lo conducesse ai bordelli di Rosario fino ai cantieri ferroviari di Bahìa Blanca.

Come successe al giovane Che Guevara mezzo secolo dopo, partito con la motocicletta alla conquista del mondo, per il giovane Dino il vagabondaggio attraverso il Sudamerica sarà un’occasione per sentir nascere qualcosa dentro di sé, in mezzo alla Pampa, tra ubriacature e feste selvagge, dentro una natura dolce e terribile.

Vagabondò continuando a coltivare la sua poesia, come un’ossessione e come suo canto intimo e disperato, dove viaggio e follia sono in sintonia, dove suoi versi erano sempre in cammino e ritmavano la vita, la nostalgia delle stagioni, il battito del cuore.

I canti orfici. La sua unica opera. Poesia e prosa. Orfismo come tentacolo per accalappiare il mondo perché la poesia diventa un simbolo dell’inconscio, di quell’inferno dell’anima e della fame della mente dove deve calarsi Orfeo per ritrovare la verità e la luce di un nuovo cammino.

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Virgilia D’Andrea, una poesia https://www.carmillaonline.com/2024/11/25/virgilia-dandrea-una-poesia/ Mon, 25 Nov 2024 21:45:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85591 di Francisco Soriano

Fu Errico Malatesta a curare la prefazione della prima edizione di Tormento, silloge poetica di Virgilia D’Andrea pubblicata a Milano nel 1922. Proprio il 13 marzo di quell’anno, come già ricordato,[1] un attento funzionario di polizia della questura di Milano la denunciò per vilipendio e istigazione all’odio di classe.

Malatesta, come moltissimi altri anarchici del suo tempo, nutre nei confronti di Virgilia una profonda stima personale, umana e politica. L’anarchica divenne un punto di riferimento per molti anarchici in esilio dopo essere stata costretta a fuggire all’estero: l’esempio più lampante è la collaborazione di moltissimi intellettuali [...]]]> di Francisco Soriano

Fu Errico Malatesta a curare la prefazione della prima edizione di Tormento, silloge poetica di Virgilia D’Andrea pubblicata a Milano nel 1922. Proprio il 13 marzo di quell’anno, come già ricordato,[1] un attento funzionario di polizia della questura di Milano la denunciò per vilipendio e istigazione all’odio di classe.

Malatesta, come moltissimi altri anarchici del suo tempo, nutre nei confronti di Virgilia una profonda stima personale, umana e politica. L’anarchica divenne un punto di riferimento per molti anarchici in esilio dopo essere stata costretta a fuggire all’estero: l’esempio più lampante è la collaborazione di moltissimi intellettuali e anarchici alla pubblicazione, a Parigi, degli otto numeri in veste raffinatissima della rivista “Veglia”, che rimane un’esperienza unica nel panorama mondiale delle riviste di opposizione e di lotta. Così Errico Malatesta scrive in esergo alla raccolta poetica Tormento:

Qui troverai, o lettore, la storia di questi ultimi anni quale fu sentita e vissuta da chi nelle alterne vicende di vittorie e di sconfitte, di fulgide speranze e di disinganni amari conservò fede nell’ideale di fratellanza umana, di giustizia, di benessere, di pace e di progresso per tutti. […] Ella si serve della letteratura come di un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico, o da una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che alla prigione la sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta.[2]

Le qualità di Virgilia D’Andrea come letterata e poetessa, come anarchica e biografa, sono indubbiamente oggetto di studio e riflessione anche se, come è avvenuto per secoli anche nei confronti di altre donne di lettere impegnate in lotte ideologiche, le sue opere hanno subito un vergognoso ostracismo, una sistematica cancellazione, un subdolo oblio. I testi poetici di Tormento rappresentano un chiaro esempio di poesia civile, non riconducibile tuttavia a uno specifico canone, partorito in una cornice storica dominata da autoritarismi e sistemi di governo che non esitavano a utilizzare metodi violenti per reprimere le libertà di pensiero e di parola. Violenze ampiamente e puntualmente subite da Virgilia D’Andrea con il carcere e la censura: donna tenace e straordinariamente incisiva nella critica politica, sociale e antropologica del fascismo, volta a metterne a nudo i rituali lugubri e retorici, che nulla avevano a che fare con la tradizione culturale italiana, soprattutto rinascimentale e risorgimentale. L’azione di smascheramento che l’anarchica attuò con precisione, in prosa e in poesia, nei saggi e negli articoli giornalistici, durante le conferenze e i comizi, danneggiò l’immagine del fascismo, falso e privo dell’umanesimo al quale la poetessa si ispirava.

Errico Malatesta

I testi poetici di Virgilia D’Andrea rappresentano documenti storici importanti a testimonianza di eventi che hanno segnato una pagina brutale del nostro Paese. Quelle della scrittrice e poetessa sono visioni antagoniste, di opposizione fiera e, soprattutto, di discernimento politico, mai veicolate da un impulso fine a se stesso. Virgilia D’Andrea ha progettato e fortificato in un arco temporale molto breve il suo credo, arricchito da una fede monolitica che aveva come scopo il perseguimento di obiettivi e valori dei quali tutti sono testimoni: libertà, giustizia sociale, uguaglianza, contrarietà alla guerra. Originalità poetica e conoscenza delle regole metriche e sintattiche della lingua rendono i testi di Virgilia D’Andrea un affresco elegante e abbastanza imperturbabile al passaggio del tempo, quest’ultimo caratterizzato dai tentativi talvolta subdoli di cancellazione sistematica di tutto quello che rappresenta asimmetria ai valori della produzione, dello sfruttamento, delle politiche editoriali. Virgilia D’Andrea è vittima di questo riprovevole e silenzioso sistema di oscuramento, non meno colpevole della censura che ha prodotto danni indicibili, in tempi non lontani, al nostro Paese.

Ancora Errico Malatesta ci avverte del temperamento letterario e politico dell’anarchica di Sulmona, scomparsa prematuramente in un ospedale di New York nel 1933 dopo una gravissima malattia:

Tu troverai, o lettore, qui appresso condensata in pochi poemetti, la storia di un’anima gentile e fiera che si affaccia alla vita piena di un sogno d’amore e della vita esperimenta tutti i dolori, tutti i disinganni, tutti i disgusti. Ella vede la gente umana dolorante e con essa soffre e freme; vede l’ingiustizia trionfante, la boria e l’insensibilità dei padroni, l’abbiezione e la viltà dei servi. Ma non si accascia sotto il peso del suo sogno infranto, e si ribella e lotta perché il sogno si realizzi un giorno; e, pronta a tutti i sacrifizii, continua a lottare e lotterà fino al trionfo auspicato, o fino alla morte.[3]

Il 1922 fu un anno orribile per le persecuzioni attuate dai fascisti, con uno squadrismo becero e assassino: milizie armate bastonavano e uccidevano i dissidenti nelle strade e nelle proprie abitazioni. Virgilia D’Andrea e Armando Borghi, ad esempio, non venivano neppure ammessi ad albergare negli hotel, perché si temevano le ritorsioni dei fascisti. Intanto l’anarchica chiese e ottenne il passaporto per la Germania. Il 22 dicembre 1922 partì per Berlino per partecipare al Congresso operaio sindacale internazionale e non fece mai più ritorno in Italia: visse per tutta la sua breve esistenza nella sofferenza e nelle ristrettezze economiche che attanagliavano centinaia di esiliati. La coppia dunque riuscì a fuggire affidando le valigie al tipografo Enrico Zerboni, lo stesso che aveva stampato Tormento: purtroppo quest’ultimo verrà arrestato e le valigie sequestrate dalla polizia. Dopo il mandato di cattura emesso dalla questura di Milano contro Borghi e Virgilia D’Andrea, i due decisero di rimanere a Berlino, ma il 27 febbraio 1923 Virgilia subì una denuncia per il suo libro. Il rapporto della polizia politica fascista ne descrive dettagliatamente la copertina:

Il libro ha la prammatica copertina rossa. In alto, in nero, la figura d’una donna alata, con disperata espressione di invocare dall’alto, verso cui vola, la liberazione dalle catene, cui è legata nei polsi, e che sono trattenute in una seconda vignetta, in fondo alla pagina, da mani artigliose di evidente marca borghese, e nell’intermezzo è semplicemente stampato: Virgilia D’Andrea, Tormento. Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito. A Berlino, Virgilia sta male, anche a causa della miseria e della denutrizione, che le provocano svenimenti.[4]

Nel primo anniversario della morte di Virgilia D’Andrea, Auro D’Arcola le dedica uno scritto apparso il 12 maggio 1934 sull’“Adunata dei Refrattari” che citiamo a testimonianza del contributo che l’anarchica ha fornito alla propaganda delle idee anarchiche soprattutto con la sua opera letteraria:

L’apostolato di Virgilia D’Andrea è stato breve, perché breve è stata la sua vita; ma è stato intenso. Vi ha portato il senso squisito di un’arte bellissima; il coraggio di tutte le temerità; la tenacia dell’eroismo; e un pensiero profondamente umano che tutto comprendeva e tutto abbelliva. […] La poesia di Virgilia D’Andrea, fosse scritta in versi o in prosa, era espressione di un pensiero vigoroso che non conosceva alla ragione e al sentimento altri limiti che quelli della vita.[5]

Il ritorno dell’esule (Bologna, dicembre 1919).[6]

Virgilia D’Andrea dedica la lirica Il ritorno dell’esule a Errico Malatesta. I due anarchici erano legati umanamente da affetto e stima profonda. Soprattutto Malatesta aveva ben inteso le qualità di Virgilia e la modalità di lotta politica che la scrittrice sosteneva coraggiosamente con le armi della parola.

Egli ritorna. Da la nave bianca

Guarda le azzurre austerità profonde…

Attorno attorno una dolcezza stanca

Scende dall’alto e perdesi nell’onde.[7]

L’immagine della “nave bianca” è momento di purezza e accoglienza: quale altro colore avrebbe potuto rappresentare meglio questo momento? Per Virgilia, tuttavia, non vi è una felicità appagante, assoluta. Fra le “austerità profonde”, infatti, una “dolcezza stanca” si perde nelle onde. Malatesta ritorna dall’esilio, una vita fra prigioni, sorveglianza e lontananza che mai più potrà essere rivissuta, perché il tempo ci trascina nel suo ineluttabile e quotidiano cono d’ombra. Ad accogliere l’anarchico, fiero combattente, “un ribelle coro”, le cui note “vibrano” in un poetico “silenzio appassionato e arcano”. Lo sguardo è sereno, forte dell’ideale che persegue lo spirito di un militante vero: “le pupille placide e severe”, le notti “palpitanti di febbre e di tensione”. Eppure, in questo vagare senza sosta, a perseguire un lontano ideale, mai le speranze hanno trovato ostacoli, in quell’“attesa folle e inutile soffrire”. Sotto i cieli tersi i “sofferenti”, i “miseri”, i “dispersi” sono invitati al canto, affinché alle verità e alle promesse, a quel pensiero che si materializza nelle “fulgenti aurore”, nella mente di ogni uomo finalmente si apra il “varco”, “vindice e possente”. Virgilia canta un sogno:

E in piedi, avvinti e liberi, cantate,

L’inno d’un vasto e rinnovato mondo…

Mentre si squarcia il sogno rigiurate,

A questa fede, un palpito profondo.[8]

Ancora un cuore “d’acciaio” e di “granito”, in fondo, per fronteggiare “l’urto immane della ‘rossa’ storia”.

* In anteprima al volume Virgilia D’Andrea: una poetica sovversiva, in uscita nel mese di novembre per i tipi di Nova Delphi, pubblichiamo la parafrasi di una delle poesie di Virgilia D’Andrea, dalla raccolta Tormento (1922), testo colpito dalla censura fascista dei tempi.

[1] Cfr. supra, p. 17.

[2] Virgilia D’Andrea, Tormento, con prefazione di Errico Malatesta, Galzerano, Casalvelino Scalo 1976, citato nella versione elettronica consultabile al link: https://bibliotecaborghi.org/wp/wp-content/uploads/20 16/01/d_andrea_tormento.pdf, pp. 12-13.

[3] Ivi, p. 12.

[4] Acs, Cpc, b. 1607, fasc. 3033, D’Andrea Virgilia.

[5] Auro D’Arcola (Tintino Persio Rasi), “Coraggio, e viva l’Anarchia!”, in “L’Adunata dei Refrattari”, XIII, 12 maggio 1934, n. 19, p. 1.

[6] Ead., Il ritorno dell’esule, in Tormento cit., pp. 32-33.

[7] Ivi, vv. 1-4, p. 32.

[8] Ivi, vv. 25-28, p. 33.

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Tempest Rap Matteotti https://www.carmillaonline.com/2024/10/25/tempest-rap-matteotti/ Thu, 24 Oct 2024 22:05:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84905 di Luca Baiada

Si è sentito rappare, qualche giorno fa in Toscana, nel Museo nazionale Casa Giusti. Proprio nella casa del poeta risorgimentale Giuseppe Giusti, quello della Terra dei morti, dello Stivale e dei versi famosi già prima del 1848. Quello di Sant’Ambrogio, con «Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco / per que’ pochi scherzucci di dozzina…».

È successo al convegno Giacomo Matteotti, martire e maestro. C’erano persone serie, strutture ammodo, rappresentanti di amministrazioni, scuole.

E allora. Rap? in un museo? davanti a studenti e studentesse? Ecco qui.

 

Un mondo di violenza è un mondo che è già morto.

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di Luca Baiada

Si è sentito rappare, qualche giorno fa in Toscana, nel Museo nazionale Casa Giusti. Proprio nella casa del poeta risorgimentale Giuseppe Giusti, quello della Terra dei morti, dello Stivale e dei versi famosi già prima del 1848. Quello di Sant’Ambrogio, con «Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco / per que’ pochi scherzucci di dozzina…».

È successo al convegno Giacomo Matteotti, martire e maestro. C’erano persone serie, strutture ammodo, rappresentanti di amministrazioni, scuole.

E allora. Rap? in un museo? davanti a studenti e studentesse? Ecco qui.

 

Un mondo di violenza è un mondo che è già morto.

A quelli che sonnecchiano, a quelli che ridacchiano,

a quelli che vivacchiano nel comodo sconforto,

non piace chi ha progetti e intanto cambia i fatti.

È meglio le riforme o la rivoluzione?

Se aspetti il tuo futuro facendoti domande,

il mondo a muso duro ti insegna la lezione,

e coi concetti astratti ti gratti le mutande.

Se guardi il tuo ombelico non cambi il tuo destino;

la storia non si annuncia, la vita non aspetta,

non puoi svuotare il mare usando il cucchiaino.

Ma a volte c’è qualcuno che guarda avanti e lotta.

 

È nato nel Polesine, Giacomo Matteotti,

è terra di lavoro, braccianti nei casotti,

casotti con la paglia, col fango e con le frasche,

si muore di pellagra, si vive fra le mosche.

Bruciava per lo sdegno, fremeva nell’impegno,

non si fermava mai, andava dritto ai guai,

per questo non dicevano «il nostro deputato»,

dicevano «il Tempesta»: Tempesta, l’incazzato.

Lui non faceva sconti, lui non voleva tonti;

lui controllava i conti, le regole e i contanti;

se uno poi sgarrava, Giacomo, stai sicuro,

appena lo scopriva tirava calci in culo.

 

Ragazzo timidone, sportivo con la gente,

amava le persone, però ragazze niente.

Ma un giorno è all’Abetone, vacanza di montagna,

ed ecco che conosce la Velia, la compagna.

Compagna della vita, la Velia fa poesia,

si scrivono per anni, prima che amore sia.

Ma poi è amore grosso, ma poi è amore vero,

e se lo porti addosso, lo senti, che è sincero.

L’amore di una vita non muore con la morte,

anche la malasorte, non è una vita vuota.

Soltanto se non ami, non sai che cosa sei;

lui scrive: «Cosa guardano, adesso, gli occhi tuoi?»

 

Tempesta studia legge all’università,

ma per il bene pubblico, contro la povertà.

Lo vogliono i colleghi, può fare il professore,

lui sceglie chi lavora con fame e con sudore.

Tempesta scrive e studia, di lingue ne sa quattro,

si attira tanta invidia, lavora come un matto.

Il mondo delle leggi è fatto a ragnatele,

il torto si fa dritto col trucco di parole.

Giacomo la sa lunga, lui sa le cose, è in gamba,

e dentro la sua scienza ha sveglia la coscienza;

per questo fa paura, per questo ha vita dura,

lo notano i padroni, preparano i bastoni.

 

Tempesta è socialista, si sa che cosa costa:

se non si resta uniti, un gesto e si è finiti.

Si sa che il tradimento è un pozzo senza fondo,

è aperto ogni momento, il buco dentro il mondo.

Lui nota un estremista che non muoveva un dito,

un falso, un egoista: lo chiamano Benito.

La Grande guerra arriva, il tritacarne grida,

è il ’15-’18 e il sangue copre tutto.

Tempesta è coerente, vuole salvare gente,

lo fanno soldatino, lo mandano al confino.

Invece Mussolini si vende agli assassini,

faceva il pacifista, adesso è interventista.

 

La guerra tutto sbrana, la terra tutta frana,

perché, sia dopo o prima, se muoiono persone,

la rima messa in croce è sempre guerra e terra,

e dice che la voce è quella del cannone.

Ma se tu vuoi la pace, se senti che ti piace,

attento, nell’oscuro c’è sempre un buco nero,

c’è sempre qualche verme per carognate eterne,

qualcuno fa le chiavi per fare tutti schiavi.

Tempesta è tutto tosto, è sempre in ogni posto,

sui campi, nei mercati, in mezzo ai sindacati,

a volte si traveste da donna, anche da prete,

lui sa che gli squadristi gli tendono la rete.

 

Tempesta è sui giornali, in piazza, in Parlamento,

denuncia tutti i mali e smaschera l’imbroglio.

Capisce che il fascismo è morte dell’Italia,

e vede l’affarismo di cricche e di petrolio.

Lui vuole pace e vita, lui vuole Europa unita,

non tace, alza la voce, sa che per lui è finita,

fa i conti anche allo Stato, si batte con lo slancio,

e sputa sui fascisti: è falso, quel bilancio!

Ci sono pochi anni, ci sono troppi inganni,

tra guerra e finta pace, tra fabbrica e arsenale.

I fasci hanno paura, detestano il Tempesta

e il grande socialista ci muore di pugnale.

 

È tanto, quel che resta di Giacomo, il Tempesta:

un cielo di giustizia, un velo di mestizia,

un volo di ottimismo, il vero pacifismo,

lo scritto che ti scotta, la forza della lotta.

Adesso che il pianeta diventa spazzatura,

chi specula avvelena, chi accumula devasta,

ma il libro della vita, la pagina futura,

ripete che ora basta, ci vuole più Tempesta.

Tempeste, se lo vuoi, burrasche siamo noi.

La storia di domani l’abbiamo nelle mani,

la linfa nelle vene è fare il bene insieme,

il faro nella notte è fare ancora lotte.

 

Il testo è mio, le voci sono digitali e il beat è frutto di intelligenza artificiale generativa, aggeggiata e strapazzata.

Ho debiti. Per esempio, col Giorgio Caproni di Fatalità della rima (guerra / terra, morte / sorte), e con Paolo Pietrangeli per la canzone in cui dice: «Non ci s’impegola con, con chi si scaccola al bar, con chi si grogiola al sol, con chi si sbrufola il cul…» (più o meno, sono quelli che sonnecchiano e ridacchiano).

Alcune cose. Velia Titta, la moglie di Matteotti, era compagna di vita, non seguiva il marito in politica ma condivideva i rischi con lui.

Sulle motivazioni del delitto è ancora controverso il peso, oltre che di tutto l’impegno politico del socialista, della sua attenzione a specifiche ruberie fasciste sul commercio di petrolio.

La falsità del bilancio dello Stato fu denunciata da Matteotti il 5 giugno 1924, alla Camera. È più famosa la seduta del 30 maggio, considerata determinante nella decisione di ucciderlo e messa in apertura del film Il delitto Matteotti di Florestano Vancini. Le parole con cui Matteotti concluse, il 30 maggio, suonano proprio risorgimentali: «Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi [fascisti] volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità».

 

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Padurap paduloop https://www.carmillaonline.com/2024/08/23/padurap-paduloop/ Thu, 22 Aug 2024 22:05:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83519 di Luca Baiada

Liduino lo incontrai nel 2013 in un circolo di paese. Eravamo a un passo dalla palude. Sto parlando della palude interna più grande d’Italia. È in Valdinievole, dove abitava Tofanelli. È il Padule di Fucecchio, perché in Toscana la lingua non l’hanno imparata, l’hanno fatta, sicché la palude è il padule, come la luce si spenge e gli scritti si interpetrano, che poi le persone ammodo la chiamano metatesi. Però metatesi è una parola che uno di quei padulini, uno come il Betti, per dire, non l’avrebbe usata, lui con quella voce e le mani di scaglie di [...]]]> di Luca Baiada

Liduino lo incontrai nel 2013 in un circolo di paese. Eravamo a un passo dalla palude. Sto parlando della palude interna più grande d’Italia. È in Valdinievole, dove abitava Tofanelli. È il Padule di Fucecchio, perché in Toscana la lingua non l’hanno imparata, l’hanno fatta, sicché la palude è il padule, come la luce si spenge e gli scritti si interpetrano, che poi le persone ammodo la chiamano metatesi. Però metatesi è una parola che uno di quei padulini, uno come il Betti, per dire, non l’avrebbe usata, lui con quella voce e le mani di scaglie di tartaruga.

In quel tempo volevo farmi dire dal Faina una ballata, una ballata popolare vecchia, ma vecchia è dire poco; antica, via. Una ballata sull’eccidio del Padule di Fucecchio, fatto dai tedeschi e dai fascisti il 23 agosto 1944, pochi giorni prima che la Valdinievole fosse liberata.

Questa ballata che volevo dal Faina non ha un titolo, anzi ce l’ha nel senso che gliel’hanno messo, ma dopo: Popolo se m’ascolti, che sono le prime parole. L’autore l’ho cercato, voglio dire ho provato a individuarlo, dev’essere morto da un pezzo. Certe volte sono arrivato a un passo da lui, ma poi, sarà che non volesse farsi trovare, non mi è riuscito. Era un barrocciaio, cioè un carrettiere. Un po’, l’autore doveva essere anche il popolo che ascoltava, il popolo che sentiva le varie versioni e interveniva per correggere, cambiare. Ma questo barrocciaio, niente. Però c’era lui, ancora vivo, lui che la ballata la sapeva perché l’aveva sentita dal barrocciaio, subito dopo la guerra, e l’aveva mandata a memoria. Lui l’aveva salvata.

Sì, ma avete capito lui chi? Il Faina oppure Liduino, o magari il Tofanelli. O invece il Betti? Io impiegai un po’, a capire, perché se non sei proprio di quelle parti, duri fatica. Liduino e Tofanelli e Faina e Betti erano la stessa persona, ma chiamata così a seconda. Dagli amici, dall’anagrafe, dalla fama. Perché Liduino Tofanelli era un Faina, cioè un discendente di una famiglia dove fanno Tofanelli di cognome ma sono soprannominati tutti insieme Faini, e uno per uno Faina, da non si sa quanto tempo, e chissà perché, e se lo domandi in giro sorridono e si guardano come a dire: questo è cittadino.

Ma Liduino aveva anche un soprannome suo: Betti, come un famoso cacciatore, che a parlarne si farebbe notte, perché cacciava tanto tempo fa e conobbe anche gente venuta da fuori. Gente ricca che per un po’ si mischiava ai poveri, si immergeva in qualcosa di speciale, fra vita brada e scherzi grassocci, come quella scritta con cui Renato Fucini, nel Padule, immortalò un altro cacciatore, Pinciano, uno famoso come Betti o come Bandino, sul muro della sua casa: «Questa è la reggia di Pinciano il grande, / che senza la beccaccia fa i crostini / grattandosi la merda alle mutande».

Dicevo della ballata. Quella ballata il Faina me la dovette ripetere e ripetere, perché mi colpì talmente che tornai bambino. Diventai come quando vuoi sentire una cosa cento volte anche se sai già come va a finire. Poi, per una diecina d’anni, ogni 23 agosto ho scritto qualcosa per quei poveri morti, quei 174 assassinati, e ho messo sempre come titolo un verso della ballata misteriosa, e senza il permesso del barrocciaio. Ma non si è fatto vivo neanche così.

Io non so portare il barroccio. Io ho portato il barchino, l’altro mezzo di spostamento nel Padule, che bisogna pingere con la forcola nel fondo, e vai dal cannellaio al chiaro, e torni, e così si entra in un mondo incantato. Ma ecco, sto divagando perché non mi riesce di venire al dunque.

Per farla breve. Adesso volevo comporla io, una ballata, ma come quella del barrocciaio non la sapevo fare. Io l’ho fatta così, perché ogni cosa ha il suo tempo e adesso va il rap e poi c’è il loop, e questa è la ballata Padurap paduloop, che si può dire a cantilena, a rap, su una base ritmata, magari giocando con le mani su un vinile che gira. Oppure cliccando un file audio, per esempio questo:

Rap-loop

Ci vorrebbe anche della gente che fa hip-hop. Gente di oggi, magari gente di città che non ha mai visto neanche le galline, o le vede solo a pezzi, in scatola, quando le porta cotte, chilometri e chilometri in bicicletta, a casa di chi non le sa cucinare. Perché tanto, in Toscana, di finti contadini e finte damigelle e finti cavalieri, ne abbiamo pieni i quadretti pubblicitari e anche i coglioni.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La sai la storia atroce, ascolta questa voce,

sono nomi lontani, sono caduti umani.

Conosci questi nomi, conosci questi luoghi:

Sant’Anna di Stazzema, Cavriglia, Marzabotto.

Ma un’altra storia antica, questa storia nemica,

non l’hai sentita mai, non sai che cosa sia.

E se l’ascolterai, non dimenticherai,

dirai «questo mi tocca», dirai «è storia mia».

È una palude grande, fra le montagne e l’Arno,

gente di ceppo forte, di dignità operosa.

È una terra di mezzo, c’è nato Leonardo,

e puoi trovarci il popolo, la vita laboriosa.

Ti dicono Cerreto, Fucecchio, Monsummano,

e poi Larciano e Ponte, parole che non sai,

ma tu dì «caro sangue», ma tu dì «cuore umano».

È un’ala, la memoria, e adesso volerai.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

È il 23 d’agosto, è nel quarantaquattro,

e l’Italia è divisa, e l’Arno fa il confine;

una strage terribile, centosettantaquattro,

pane zuppo di lacrime, dolore senza fine.

Sconfitti, quei tedeschi, grande è la loro rabbia,

uccidono, violentano, rubano gli animali,

e questa terra freme, e questa terra è in gabbia,

ma i partigiani lottano, nei boschi e fra i canali.

Dall’alba al pomeriggio, sono ore di massacro,

insiste la mitraglia, brulicano soldati.

Muoiono donne, bimbi, tra spari e fumo acre,

pastori, contadini e poveri sfollati.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Sulle aie, nelle case, arrivano col fuoco,

hanno mitragliatrici e portano l’elmetto.

Sono curiosi, i bimbi: credono che sia un gioco,

pensano a foto in gruppo, fatte col cavalletto.

«Ho tanta tete, tete!», fa Graziella ferita,

e muore in braccio a un’altra che è grande poco più.

E i fichi dell’estate, che sono pane e vita,

dal pancino di Pietro escono rossi giù.

E duro è questo canto, e puro è il loro pianto,

braccianti con le spose, lattanti nel grembiule.

La vecchia e la più piccola cadono quasi accanto,

piccine tutte e due, pulcine del Padule.

Carmela è cieca e sorda, chiama i parenti invano:

non sa che li hanno uccisi, tutta la sua famiglia.

Nella sua tasca un milite mette una bomba a mano:

Carmela ha novant’anni, non resta che poltiglia.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Remo è preso con gli altri, con Maggino il pastore,

li portano sull’argine, per i tedeschi è un gioco:

spinti nel fosso asciutto, gridano di terrore,

adesso sono in trappola, e quelli fanno fuoco.

Ha un capanno sicuro, il dolce Ferdinando,

ma ha promesso alla Ida che sola non starà.

La va a trovare trepido, s’affretta camminando,

e Ida aspetta, aspetta. Lui non arriverà.

Gente portata via, vecchi portati via,

li strappano dai letti, li strappano dai petti.

Antonio vede il sangue, ripete «mamma bua»,

gli spaccano la testa, solo silenzio resta.

Il marito di Angiola si chiama come lei.

Angiola vuole Angiolo, corre verso il canneto.

Corre anche il figlio Dario, non si vedranno mai:

si sente ta-ta-ta, restano in tre sul prato.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Vede i tedeschi, Lia, esce dal casolare.

Lando è fuori nascosto, e lei è la sua sposa:

vuole dirgli il pericolo, fa finta di falciare,

e muore al posto suo, cerbiatta generosa.

Sono forti, le donne, come mamma Maria:

la figlia Italia sanguina, la palude è assediata,

Maria la mette in barca e rema e rema via;

ma i tedeschi le fermano, e Italia è dissanguata.

Perciò, se trovi un fascio, e dice «Cristo» e «fede»,

tu mettilo alla prova, se quello fa il patriota:

digli che Italia è morta, ma c’è Maria che vede;

è una Passione povera, e lui è un povero idiota.

Marisa solo tredici, e ventun anni Anita:

e se davvero hai un cuore, aprilo con coraggio.

Una ha le cosce in pezzi, l’altra è stata svestita,

sono morte, e ora sai, qual’è l’ultimo oltraggio.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Dopo, vedovi e vedove, e orfani disperati,

notti di pietra, incubi, e giorni di sudore.

Fanno due ombre in terra, tutti i sopravvissuti,

lacrimano anche dentro, affamati d’amore.

Il tempo non ha tempo, il sangue è un lago nero:

i figli sono padri, le bimbe sono spose.

Nel fondo del dolore lo specchio è più sincero,

ci guardi la tua faccia, e parlano le cose.

L’innocenza è una trappola. Dici «sono innocente»,

ma la storia cammina. Tu non hai fatto il male,

però se contro il male tu non hai fatto niente,

il male è dietro l’angolo e ti verrà a cercare.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La vita da scampati è vita di assediati,

tremano ai temporali, o al volo di un moscone;

hanno la mano stanca, hanno la testa bianca,

sono cuccioli antichi, col cuore di leone.

Quando la loro voce sarà nella tua bocca

tu parlerai per loro, dirai senza paura.

Ricorda questa storia, è storia che ti tocca,

quello che fai è te, nessuno te lo ruba.

Quando racconterai, se ti daranno ascolto,

chiederanno il perché, diranno «non c’è scelta».

Tu racconta, ripeti: è un mostro senza volto

la colpa immaginaria che uccide un’altra volta.

Diranno «colpa loro, colpa dei partigiani»,

tu non gli dare ascolto, tu spezza le catene.

Ripeti con i piedi, ripeti con le mani,

ripeti con la voce se hai sangue nelle vene.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

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«Monogramma» di Odisseas Elitis https://www.carmillaonline.com/2024/06/10/monogramma-di-odisseas-elitis/ Mon, 10 Jun 2024 21:55:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83028 di Francisco Soriano

Certo – il Destino, ancora una volta darà il Tempo agli uomini di amarsi ancora –, sotto sferzanti ellissi di luce e avvolgenti bagliori appena nati dal giorno nel suo eterno alternarsi alle tenebre notturne. Odisseas Elitis è sicuro: «l’innocenza colpirà il mondo», nonostante «l’acre nero della morte». Profondo e inimitabile canto del verso amoroso, il «monogramma» ha il senso dell’indicibile, specchiato e avvolto nelle bluastre acque dell’Egeo dal moto/immortale. Irriducibile, l’amore sopravvive, nel Paradiso di un’idea irrinunciabile, inappagante, insolita, che sublima la solitudine perché una sola volta – nell’intera esistenza, è dato attraversarlo.

Elitis ci parla d’amore [...]]]> di Francisco Soriano

Certo – il Destino, ancora una volta darà il Tempo agli uomini di amarsi ancora –, sotto sferzanti ellissi di luce e avvolgenti bagliori appena nati dal giorno nel suo eterno alternarsi alle tenebre notturne. Odisseas Elitis è sicuro: «l’innocenza colpirà il mondo», nonostante «l’acre nero della morte». Profondo e inimitabile canto del verso amoroso, il «monogramma» ha il senso dell’indicibile, specchiato e avvolto nelle bluastre acque dell’Egeo dal moto/immortale. Irriducibile, l’amore sopravvive, nel Paradiso di un’idea irrinunciabile, inappagante, insolita, che sublima la solitudine perché una sola volta – nell’intera esistenza, è dato attraversarlo.

Elitis ci parla d’amore – cantore di un’arca perduta, perché sa «sfogliare i gelsomini», e sa portare la sua donna «attraverso paesaggi luminosi e segreti porticati del mare», dove si trovano «alberi ipnotizzati con ragnatele inargentate». E in questo angolo del mondo non vi è lotta fra la luce e l’ombra, ma nella complicità e consapevolezza si appartengono gli opposti. Niente può eguagliare il rampicante che si inerpica sulle pareti sospese fra «rose intrecciate», il sentimento si compie alla stregua di un’ultima luminescenza al tramonto di un indimenticabile abbraccio. Il poeta nutre la sua arte con insolite profondità, disprezza ogni dimensione che appartenga all’inutile esercizio delle parole vuote, fugge da qualsiasi chiarore in superficie, abbandona ogni buio che sia la prova di una banalità.

La convinzione che anche le onde parlino di lei è segno inconfutabile di assoluto dominio di ogni follia sul mondo: il gesto si compie ai piedi delle immutabili eterne Cariatidi. Sotto il loro sguardo austero si rimane per sempre a sorvegliare i cieli e i mari che rimbombano di assurdi venti di tragedia. Il verso è puro e indimenticabile, doloroso fino allo stremo, acuto nel vortice della parola che si tramuta senza miracoli e vane retoriche in amore: «Verrà giorno, mi senti / che ci seppelliranno e poi, dopo migliaia di anni, mi senti / non saranno che pietre lucenti, mi senti». Il Paradiso doloroso è concesso solo a chi nutre memoria del proprio amore, ritrovato, riemerso, riannodato alle linee oblique del mondo, sull’indifferenza degli stolti, l’inconsapevolezza dell’utilità dell’inutile.

Ogni passo è un attraversamento di sentieri in fondo al cuore, palpiti assurdi, incoscienti e coscienti in una corsa senza fine; il giardino non sfiorisce, il vento non ostacola lo sguardo, la luce non ingombra gli spazi, neppure quelli più vicini, né la preghiera dei giorni avversi piegherà la sete di un solo bacio, neppure con la morte si spegne ogni secondo vissuto insieme. Eppure una tristezza, un riverbero di angoscia sembra poggiarsi sulle guance bianchissime, sui piedi adagiati in acque incolori, sugli occhi dipinti su una pergamena antica. È solo un attimo, un fragile ondeggiare nel petto di chi vive in asperità e profonde gole scavate giorno dopo giorno in abbracci e folli mani che si avvinghiano.

Ecco l’odore: il senno sembra evaporare o instillarsi come rugiada sulle foglie piegate in canali di stoffa verdissima, vince su ogni presagio di morte. Il corpo è l’incandescente rovina bruciata dal barbaro, resiste, è la pietra intonsa, il muro di cinta, il colonnato sul dirupo mai più raggiungibile, il ristoro degli dèi di ieri, la foglia d’acanto, il celeste solco dell’antica icona del santo, lo scuro fondale che palpita di vortici e palpebre di erbe marine, è la parola. Incanto e testimonianza, il pianto si spegne al primo vagito dell’alba che insanguina l’orizzonte del mare, e sopra gli spuntoni degli ultimi faraglioni invincibili alle tempeste degli strazianti addii, ecco diramarsi il canto – vela azzurra sospinta da voci mai udite.

Non ci resta che raccogliere sull’altra riva – i quattro crisantemi sparpagliati dalle quattro ali del vento; che siano forse – crisalidi oppure orchi o anatemi ad allontanarti dal greto di luce appena smarrito sui tuoi passi biancoverdi del primo mattino. Indugia – intanto, sulle labbra aperte come uno scrigno: e dai polsi fino al tendine d’Achille: tutto ciò che arde di follia si sveste. Lì – dal respiro posa il silenzio in bella mostra, solo l’ansimare bisbiglia gli assalti. Vieni, dormi – la luna capovolta veglia sul clamore del mondo. Nulla sarà mai più come prima, di questo si è certi, sulla soglia-del-giorno-che-verrà; l’ineluttabile l’inesorabile l’irripetibile: di questo si tratta. Allora/ contempleremo, sotto lo sguardo fermo delle cariatidi, là pianteremo il fiore del deserto – sulla pietra levigata il senno del poi (sulle metope il sole s’abbatte come sulle nostre mani).

«Di te ho parlato in tempi lontani / con esperte nutrici e vecchi partigiani»: è così che si vive nella polvere di questo mondo, sui suoi capelli folti come cedri nerissimi e densi alla stregua di nuvole in tempesta; l’arco appena curvo sui cuori intonsi colpisce l’inedia di un sonno lunghissimo. È nei nostri spiriti l’apparizione più strabiliante che si veste di merletti bianchissimi come nei giorni di festa: l’incanto mai tradisce, rincorre la vita in quel luogo non più disperato e coglie il calicanto intoccabile anche dal gelo.

Ti guardo, mi guardi: un’eco senza riverberi è il canto che attendevamo. Quando i mostri sono domati è tempo di partenze, le vele si spiegano, la notte di un viola che mai avevamo visto mi sospinge verso il dove che a lungo avevamo costruito brandendo coraggio e felicità indicibili. Non ci sono addii, malinconie, rimpianti, non ci sono segni del destino, incontri furtivi, fughe e ritorni. Non c’è cielo o terra oltre il senso dell’unico indicibile amore. Non resta che attendere il tuo silenzio cucito sui mille frammenti d’argento.

– Variazioni poetiche su un testo di Odisseas Elitis, Monogramma, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli Editore, Roma 2000.

 

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La felicità va punita? https://www.carmillaonline.com/2024/05/17/la-felicita-va-punita/ Fri, 17 May 2024 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82592 di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, Poems, trad. Gianpiero W. Doebler, pp. 248, Agincourt Press, New York.

Sono qui per apparire mi devo arrangiare…

Questo è un verso di Angelo Lumelli tratto da una poesia compresa in Trattatello incostante, libro uscito nel 1980 per l’editore Savelli in una collana diretta da Giancarlo Majorino e Roberto Roversi.

E ora ecco Lumelli apparire al dì là dell’Oceano, con una traduzione che completa quasi per intero tutta la sua opera poetica per i tipi Agincourt Press, casa editrice che ha pubblicato importanti poeti italiani raccogliendo in volume poesie di Giorgio Bassani, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani [...]]]> di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, Poems, trad. Gianpiero W. Doebler, pp. 248, Agincourt Press, New York.

Sono qui per apparire mi devo arrangiare…

Questo è un verso di Angelo Lumelli tratto da una poesia compresa in Trattatello incostante, libro uscito nel 1980 per l’editore Savelli in una collana diretta da Giancarlo Majorino e Roberto Roversi.

E ora ecco Lumelli apparire al dì là dell’Oceano, con una traduzione che completa quasi per intero tutta la sua opera poetica per i tipi Agincourt Press, casa editrice che ha pubblicato importanti poeti italiani raccogliendo in volume poesie di Giorgio Bassani, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani e Adriano Spatola.

Il seme è buttato, il campo ha il concime giusto per una buona crescita.

Allora Senti l’antifona

 

frase – Nostro porto in alto mare

calze di lana grezza

sciarpe che pungono il collo dei bambini

elenchi e vetri rotti dell’ovest

e voi – scolari coraggiosi

frasi – finestre

varco per uomini pietosi

nasi contro i vetri – manine

che fanno ciao ciao

 

eccomi!

come uno spavento che ride

bambino supremo

non ha ritorno lo sparo

sillaba iniziale che ti lascia stordito

natività – almeno incontrassimo

gli occhi di un estraneo –

il passante che si volta

verso figli ripetenti

 

La poesia di Angelo Lumelli è come una casa piena di tanti piccoli oggetti. Ogni oggetto contiene una storia, ogni oggetto racconta. Lumelli non lancia messaggi, silenziosamente invita all’ascolto.

Gli apprendisti sono molti e questa bottega artigiana offre utensili giusti per imparare. Plasmare, elaborare, celare, mostrare con amore a volte è doloroso, ma necessario. Andiamo a ritroso nel tempo, un tempo dove la parola ha la sua veste essenziale ed è degna di una felicità in cui Lumelli lancia una sfida: l’urgenza vitale di fare letteratura.

Ecco come si presenta: autore attento a non cadere nelle trappole del linguaggio obbedendo al richiamo delle visioni posticce e innamorate, sirene di molti, fuochi fatui che portano la barca alla deriva. La parola, come tale, si riferisce a idee, percezioni, pensieri, enigmi, azioni. Solo quando si confronta con il verso rompe i confini delle pose retoriche e prepara l’anima in una nuova rinascita.

In oltre mezzo secolo Angelo Lumelli ci ha donato con la sua poesia un viaggio che punta all’infinito: la sua è una forza espressiva che reca idealmente in sé un promemoria del Novecento, il secolo in cui si hanno mille ragioni per “non essere contemporanei” ma che invita a non rimpiangere nulla.

 

quando finisce il lontano è finito anche il viaggio – non è un buon segno questa

mano che non si stacca – meglio se lanci un sasso e poi corri – convalescente con

brevi corsette – basta una prospettiva pro forma – come avessi le gambe buone – 

la tua ombra per terra, ai piedi della destinazione.

 

Non è bastato all’autore andarsene da Milano, sostare in quella zona del basso Piemonte dove si incrociano passaggi verso quattro province, Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova; non è bastato venire in campagna, in un mondo che porta sulle spalle strascichi pesanti, ma anche bei momenti di vita, e che l’autore ha cercato di raccontare attraverso una visione ricca di delicati piaceri, come piccole sacche di gioia alla deriva. Non si è messo in salvo, Lumelli, quando è uscito con uno dei libri di poesia più belli e più interessanti di quella stagione, Bambina teoria (Corpo 10, 1990), che chiude una produzione di magia assoluta come Felicità Obbligata.

La felicità non ci salva e questo non basta. Allora la felicità va punita?

È una beffarda opposizione, anche trattata con quella sottile e sagace ironia, indispensabile alla vita e in questo caso da scoprire nella parola necessaria come rifiuto a sostare in acque tranquille con l’ancora a fondo. No, non è necessario e non è neanche il caso anche quando la parola affonda dentro orgogli e ricchezze affettive che abbracciano attrezzi agricoli, piccoli spazi dentro luoghi sconosciuti, richiami a nomi e fisionomie. Una parola che può incidere mentre sembra passare inosservata.

 

come un eroe ti ho visto in mezzo al linguaggio in rovina mentre cadeva a pezzi

di qua e di là con grida e oscuri fonemi gorgoglianti nelle trachee ricucite alla

meglio ti ho visto con le braccia alzate come un abbraccio mortificato – orante

arreso, io in questa finta bufera – tra nugoli di domande voi mosche di sillabe!

Aspettando la grande frase da pronunciare come fosse scoprire l’America!

 

A una mente mai ferma, continuamente in azione, con un pensiero in difesa di una poesia che è diga e non rifugio contro la brutalità del mondo contemporaneo, la vertigine poetica in quei versi vibranti lancia messaggi di meraviglia.

Detta così sembra ci sia una forma mentis dove il pensiero è un atto ricettivo sublime del mondo e il mondo arriva in soccorso anche del linguaggio. Non è così. Angelo Lumelli è il poeta che va incontro, è il poeta dell’agire e il pensiero è la più grande forma di azione possibile. “Piedi in terra” e “testa in fiamme” aveva scritto a suo tempo Giancarlo Majorino presentando il primo libro di poesie di Lumelli per Guanda nel 1977, libro che lo portò a vincere il Premio Viareggio l’anno successivo. Osserva, cerca, si interroga mentre la lingua scava, senza aver la pretesa di comprendere per forza.

Al quotidiano Angelo Lumelli dona quel pizzico di magia, quel tanto di imprevedibile che lo rende pieno di vita. Con flash istantanei sembra fermare un presente di scorci che si fanno parola, intuizione, messaggio. E su tutto uno sguardo di ironia, affettuosa, a tratti tagliente, cattiva, ma mai distaccata.

Poeta che tocca con mano il senso delle cose: tutto parte da una curiosità per il mondo che ci circonda, dove la capacità di stupirsi è un richiamo. Angelo Lumelli non chiede alla scrittura di spogliarsi, di calarsi nuda nella visione del mondo, non vuole scherzare, fare finta, non vuole stare in equilibrio su una corda con un piede nel vuoto: si affida a lei rendendo ogni tempo che si confronta con un tempo dilatato che sta dentro un soffio di eternità, un’eternità quanto più possibile vicina.

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Disinganni https://www.carmillaonline.com/2024/04/14/disinganni/ Sun, 14 Apr 2024 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82094 di Francesca Fiorentin

[In occasione dell’uscita della nuova raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, Disinganni (Robin Edizioni, 2024), si riportano di seguito alcune poesie da essa selezionate ringraziando l’editore per la gentile concessione (p.l.)]

 

Ti rimando la palla, mondo, maleducata, dritta in faccia, immemore delle aperte ferite da me inferte. Difeso dal Padreterno sei il fratellastro viziato, preferito.

 

Sei pallida come un cencio. Ho sonno, tutto qui. Sempre sonno. Hai gli organi avvelenati. Sicuramente, e non so come smaltire le scorie le scorie, le persone, non so come smaltirle.

 

Non è mio, è di altri il sangue che scorre, la lama [...]]]> di Francesca Fiorentin

[In occasione dell’uscita della nuova raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, Disinganni (Robin Edizioni, 2024), si riportano di seguito alcune poesie da essa selezionate ringraziando l’editore per la gentile concessione (p.l.)]

 

Ti rimando la palla, mondo,
maleducata, dritta in faccia,
immemore delle aperte
ferite da me inferte.
Difeso dal Padreterno
sei il fratellastro viziato, preferito.

 

Sei pallida come un cencio.
Ho sonno, tutto qui. Sempre sonno.
Hai gli organi avvelenati.
Sicuramente, e non so come smaltire le scorie
le scorie, le persone,
non so come
smaltirle.

 

Non è mio, è di altri il sangue che scorre,
la lama affilata
sono il feto di un uovo di piombo;
esploderà i vivi
e dal fuoco, rimbalzati sulla scia del cielo,
coriandoli neri volanti
lontano.
Di me non vedrete il volto,
esangue in una pozza di rosso.

 

Diminuire le creature, destituire il piccolo loro potere,
le idee lasciare cadere come sassi,
uno spazio tu occupi vicino
a voce di lago claustrale.

 

 

 

 

 

 

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Il registro barocco e l’istanza ascetica nell’ultimo libro di Marina Petrillo https://www.carmillaonline.com/2024/03/24/il-registro-barocco-e-listanza-ascetica-nellultimo-libro-di-marina-petrillo/ Sun, 24 Mar 2024 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81823 di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti [...]]]> di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti filosofici. E accade allora che le componenti in prosa rendano possibile l’immissione di una serie di nuclei concettuali, i quali richiedono il tipo di espansione e di movimento che solo la prosa può contenere; ma al contempo, questi nuclei vengono tracciati attraverso quella disposizione lirica che pervade il loro tessuto nel modo più capillare; e d’altra parte, i versi alternati alla prosa custodiscono il peso dovuto alla componente logico-categoriale, che è propria delle inflessioni speculative. E su queste basi abbiamo gli esiti seguenti: da un lato una prosa che lievita sotto il profilo lirico, e si inclina sul versante della poesia; da un altro lato, una sorta di poesia sottoposta al gravame dell’ambito concettuale, che pertanto converge in qualche misura nei confronti della prosa. Ma quest’ultimo aspetto non toglie che si tratti di poesia autentica, che contiene comunque un indice musicale; e così, abbiamo una sorta di poesia frenata, e scandita secondo un registro uniforme che si rifiuta alle onde melodiche, e sembra quasi mimare, insieme alla prosa, una movenza atonale.

Stabilito questo, si tratta di  vedere se siamo davanti a una sorta di poema stratificato in sezioni che si susseguono come ondate, secondo una linea di progressione, oppure davanti a una raccolta esibita secondo criteri di ordinamento che mimano un punto di vista unitario. Certamente l’inizio e la chiusa mettono in gioco una sorta di simmetria: si procede a partire dal “cosmo che non agita alcun gesto” e dal “silenzioso assioma balbettato” (p. 39), e si conclude con una sorta di lavacro, nel quale l’immagine del Puer accompagna con la sua evanescenza il culmine di una “Sempiterna rappresentazione di idiomi ri-volti all’Omnieteronimo, anima del potenziale creante”, per aprire lo scorcio di uno “svanire nel tepido mattino”, dove un “sogno divaricante i piani di realtà” (p. 112) rimanda infine al gioco della scrittura (“Gioco Trasformante di uno scritto impenetrabile”) (p. 113), a cospetto del quale il Puer “si stanca. Si rigira e cade, ridendo”; e in questa congiuntura per un verso dobbiamo affacciarci sul bianco della pagina ormai svuotata dopo l”excipit’ segnato in caratteri maiuscoli, e per un altro verso siamo proiettati verso l’inizio, che appunto incarna il gioco della scrittura. Ma il maggiore interesse è dovuto all’arco di una specie di antitesi sfolgorante, secondo la quale infine si raccoglie il massimo di quanto può essere assunto – che a sua volta abbraccia i poli opposti ma convergenti del “maschile-femminile, della “pianta-pietra” e della “sillaba-silenzio” -, per dissolverlo nel riposo di una visione che dismette la sua apertura, nel segno della innocenza che tutto consacra e assegna alla propria disposizione e al proprio luogo di origine, in una sorta di limbo beato che capovolge o sovverte l’idea della morte in un sogno di eternità – e al contempo rinvia all’operoso lavoro di una scrittura che può essere attraversata in una istanza ulteriore, e forse può essere custodita e sigillata attraverso il gioco di un movimento perpetuo. D’altra parte, questo rapporto simmetrico tra l’inizio e la fine non è sufficiente per stabilire una linea di sviluppo unitaria, che possa circoscrivere o designare una sorta di poema, rappresentato o inciso nella sua dimensione globale. E infatti, la tessitura magmatica del testo – che si evidenzia attraverso la comparazione con le esigenze dettate da un punto di vista rivolto all’orizzonte di un’opera unica – viene in qualche modo dichiarata, se appunto si dice che “Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve” (p. 39). Ma a questo punto, si deve chiarire che nella accezione più ampia, è un’opera unica anche quella che corrisponde nel modo più radicale ai canoni dell’apertura – che a loro volta in una certa misura sono ineludibili per ogni risultato estetico-artistico -; infatti, anche in questi casi sono riconoscibili una linea di sviluppo e un piano di coesistenza, che sono diversi da quelli richiesti secondo il criterio della silloge o della raccolta; e d’altra parte, risulta evidente come l’apertura peculiare di questo testo sia dovuta al fatto che si colloca su una specie di piano intermedio tra quello dell’opera unica e quello della riunione di una serie di opere che sono annodate mediante uno stesso ingrediente di ispirazione – od uno stesso impulso creativo. E ancora, a complicare il quadro, interviene il fatto per cui la dimensione unitaria e la questione dell’apertura sono messe a tema da questo scritto; ed è così che questa lava “Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie”, e “Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto”; e parimenti, tornando al finale, si deve osservare come il Puer, iniziando il Gioco Trasformante dello scritto impenetrabile, tracci “una linea di demarcazione tra gli impossibili”. Ma questa apertura non si affida al tratto evanescente e irresponsabile di una espulsione dall’ambito del rigore, che solo rende possibile in prima istanza ogni forma di comprensione; infatti, l’autrice si spinge sino alla richiesta della maggiore coerenza che sia compatibile con lo spazio libero della coscienza – o se vogliamo, con l’istanza dovuta al singolo, e al punto di vista relativo alla sua possibilità di evocazione e di creazione. E riguardo a questo non vi sono dubbi, se consideriamo le seguenti parole: “Non sempre fragili, regnamo nell’interiore mondo. Ogni gesto risuona in armonia universale e nel grande affresco unico, si determinano legami, relazioni interagenti con il Tutto. Così il Tempo diviene quel Tutto. Spazio indescritto, delicata ma implacabile scissura nell’Eterno. E l’Eterno È, per sua stessa estensione. Presenza di cui non è dato sapere, se non nella mente di Colui che È” (p. 111). D’altra parte, la saldatura tra l’esigenza di mettere in gioco le parvenze antinomiche del reale e quella di stabilire una dimensione unitaria e assoluta, è assolta dai grandi maestri degli esercizi filosofico-speculativi che sono attraversati dal misticismo; e in questo modo, il richiamo alla dimensione filosofica più elevata che sia conciliabile con questo testo emerge nel fuori-testo dopo l’explicit, con il rimando a Dionigi Areopagita, e al gioco dei suoi paradossi, che ruotano attorno al rapporto tra conoscibile e inconoscibile – e all’inversione dei loro domini, che tuttavia, come osserva Francesco Solitario nella sua introduzione, si limita ad una disposizione allusiva, rivolta all’essere positivo riposto dietro le negazioni del nostro pensiero, ed alla sua luce avvolta dalla caligine che deve essere attraversata, per situarsi nel luogo di massima vicinanza possibile nei confronti dell’assoluto.

Ma per entrare adesso nel merito della posizione assunta da questa opera – nei limiti in cui possiamo parlare di un punto di vista che venga sostenuto, entro un contesto che ha una inconfondibile impronta poetica, la quale avvolge e giustifica le risonanze filosofiche -, occorre considerare ancora la lirica iniziale. In essa il “Silenzioso assioma” che pervade il cosmo e funge da cardine è congiunto al “tacito rullio del pensiero” il quale “intercetta la spiraliforme eclissi della parola”; al che, siamo di fronte a una dimensione indicibile, che può venire adombrata soltanto entro il dominio di una discordanza essenziale tra il pensiero e la parola medesima; infatti, a questo proposito il pensiero può esprimere la parola soltanto nel suo ritrarsi; o ancora, in un certo senso il pensiero rimane padrone, se appunto contempla o avverte questo gioco di ritrazione; e al contempo la parola, nel mentre che sfugge, irradia le spirali che emergono dalla sua fuga. E questa immagine non è dovuta soltanto alla necessità letteraria di dare un corpo alle proprie visioni, anche laddove puntano all’invisibile – o se vogliamo, all’evento sotteso che rende visibile l’evidenza dovuta al corpo sonoro e semantico della parola che si ritrae -; infatti, soltanto se la parola emette le risonanze che emergono dalla propria linea di fuga, è possibile che abbiano luogo la filosofia, la letteratura, la poesia, e in ultima analisi la stessa vita della coscienza. E queste risonanze, nel loro gioco spiraliforme, sembrano preannunciare il registro barocco di questo scritto – che in ultima analisi sembra mimare la traboccante ricchezza dovuta all’ordito del cosmo. Ma la tessitura barocca di questa opera letteraria – che già si evidenzia nel solco dell’incertezza inerente al suo status, ovvero al suo tratto sospeso tra il molteplice della raccolta e l’uno indicato dall’orizzonte dell’opera singola -, viene coniugata alla disposizione mistica e ascetica che attraversa nel modo più capillare la messe dei suoi risvolti; diciamo dunque – in un senso  elevato – che gli ingredienti barocchi di questo lavoro sono dovuti sia alla linea incerta del suo profilo globale, sia alla ricchezza delle immagini convocate – che abbracciano in modo spasmodico l’architettura del cosmo -, sia alla disposizione grandiosa di un tema così comprensivo, sia alla divaricazione tra il dono di questa ricchezza e il rimando a un momento ascetico il quale  richiama alla sua dissolvenza. E sotto questo profilo, si deve sottolineare come la linea del disaccordo tra questi due versanti metta in gioco quel tratto molteplice – e quindi barocco, a motivo della divaricazione medesima, e dell’estro giocato dal suo spettacolo -, che è fornito dal palpito sotteso di un’espansione e di una contrazione felicemente annodate tra loro. Così, un esempio della irruzione del punto di vista ascetico nel fasto barocco delle immagini convocate, può essere dato da questo scorcio di prosa: “Soli accecanti e luminescenze remote. Tardivi ricordi. Non essere più ciò che si è stati. Un buco nero, feroce, possiede l’ombra in anoressia del sentire. Digiuno. Grazia. Il raggio evocato giunge dal fasto, in necrologio della forma prossima al silenzio” (p. 58). E inoltre, è opportuno indicare i versi che seguono subito dopo: “Tutti i mondi si completano a vicenda. / Il raggio divino scende nelle coscienze a illuminare / le vette dello spirito. / Siamo nell’assente dormiveglia / sino a quando, toccati dalla tragedia, / non cediamo il campo all’indicibile / Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce / la costola dell’Assoluto Presente. / Inquietudine volge a paradosso / ogni gesto torna a lenta consapevolezza. / Si può morire nell’istante / Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. Riguardo alla prosa, dobbiamo allora osservare quello che segue: in primo luogo risulta evidente una serie incalzante di percezioni e visioni, che si dipanano nella consueta calma alla quale è sottesa la turbolenza di un movimento intestino tenuto sotto controllo dall’ambito di un rigore sospeso tra l’istanza della prosa e quella del movimento lirico; in secondo luogo, emerge un procedimento di sottrazione o di negazione, nel quale l’accecamento, la condizione remota, l’impronta tardiva, il non essere più rispetto all’essere stati, l’oscurità del buco concepito come una specie di calco interiore di una voragine cosmica e l’anoressia del sentire mettono in gioco un accumulo barocco di negazioni, che sfocia in una immagine della Grazia, la quale ribalta lo spettacolo di un sacrificio – o addirittura di un martirio – nel dono improvviso ma fermo dell’assoluto; e ancora, al di là della Grazia, per sua concessione si distende il raggio evocato dal “fasto” relativo ai presupposti di questo gioco di privazioni – e in particolare, si potrebbe dire, inerente ai “soli accecanti” e alle “luminescenze remote”, e degradando ai “Tardivi ricordi” -; e infine, abbiamo il “necrologio della forma prossima del silenzio”. E accade allora che il silenzio suggelli la sottrazione, e al contempo confermi il plenum dovuto all’istanza dell’assoluto e della sua concessione; ed è attraverso questo passaggio finale che la valenza ascetica  si sovrappone allo strato barocco delle visioni; ma nello stesso tempo, sia il risalto plastico dovuto alle stesse negazioni, sia l’irruzione del raggio, sia la mole grandiosa del silenzio mantengono a loro modo l’istanza che precede, mentre l’ascesi riveste il sostrato delle immagini conclusive, e non rinnega il volume esorbitante delle visioni. Per quanto riguarda invece i versi, innanzitutto abbiamo l’ampiezza visionaria della totalità dei mondi che si completano – che a suo modo e con una cadenza molto diversa può ricordare alcune illuminazioni paniche di Pessoa -, in secondo luogo abbiamo ancora la presenza del raggio, questa volta esplicitamente divino, e accompagnato dalle immagini sontuose che riguardano le coscienze e le vette dello spirito, riverberando la suggestione panica, e inoltre abbiamo la fase calante della tragedia che apre all’indicibile – e nello stesso tempo si allinea alla impronta sconfinata dello scenario, sia pure attraverso un’istanza di negazione -; e procedendo, sulla base di una discesa che rimane scolpita nel suo risalto, e sulla base del paradosso instaurato sul solco delle tradizioni mistiche, che racchiude comunque un massimo di consistenza –  dovuto al volto dell’assoluto, il quale si cela e al contempo si annuncia –, emerge il regno dell’indicibile; ma poi, in un moto di risalita entra nel gioco l’”Assoluto presente”,  che risulta commisto al vuoto dal quale nasce, e al contempo funge da luogo di origine di quanto sussiste nel proprio insieme. E avanzando ancora, si definisce un movimento di ascesa rivolto all’assoluto; e tuttavia questo guadagno è sottoposto al giogo dell’esistenza, e al vano tormento della sua fuga nel tempo: “Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. L’istante agognato perché inesistente rimanda ad uno scenario speculativo, sfuggendo a ogni richiamo erudito, nel modo più originario e autentico della poesia; ed è in questo istante che possiamo cogliere l’effetto di sottrazione più doloroso; e il movimento di istante in istante che volge verso l’assoluto racchiude l’impronta ascetica più definita – per cui abbiamo il punto di vista mistico, legato alle evidenze drammatiche della rinuncia. E ancora, nel caso di questi versi si definisce la dimensione  dell’umano e del suo limite, che è legata alla “lenta consapevolezza” insita in ogni gesto, e addirittura alla “nullità” del nostro procedere; e questo esito stabilisce uno scarto ben definito rispetto al finale della prosa, che contiene  il riverbero barocco  del raggio, del fasto,  del necrologio e della “forma prossima al silenzio”.

Stabilito questo, si può osservare che la congiuntura di una mescolanza tra l’istanza barocca e la dimensione ascetica – riguardo alla quale, sia sotto il profilo delle risorse espressive che sotto quello degli orizzonti tematici, prevale la prima di queste componenti, secondo una linea formale che si distingue nel modo maggiore rispetto, ad esempio, a un importo ascetico nel cinema come quello di Robert Bresson – mette in gioco un singolare equilibrio, che non può essere riscontrato in uno dei massimi vertici della scultura, come è quello impresso nelle opere del Bernini. Infatti, se consideriamo complessi come quelli dedicati alla Beata Ludovica Albertoni o a Santa Maria Teresa d’Avila, osserviamo il gioco prorompente di una torsione voluttuosa, che attraversa gli eventi ultimativi dell’estasi o della morte  – o di un loro sfolgorante scambio di senso -, mediante le volute contorte che predicano l’esuberanza delle vesti, del marmo, e delle figure straziate dal loro beato tormento e sottoposte a un dolce martirio al cospetto dall’invisibile; e in questi complessi non abbiamo in alcuna maniera l’istanza di sottrazione dovuta al punto di vista ascetico, e la linea di quella purezza che emerge nel lievito dell’ascesi risulta come travolta dall’impeto sensuale, dalla ricchezza dei suoi risvolti e da un macerazione che assorbe la morte oppure il contatto con il Divino nel segno di una eccedenza la quale dischiude, nel proprio fondo, l’esuberanza dovuta a un impulso vitale. E invece, nel libro di Marina Petrillo il risvolto barocco che ne attraversa la voce implacata e il timbro sofferto viene contenuto da un punto di vista metafisico e religioso a suo modo soave e quasi devoto – laddove la devozione non è delineata nei termini di un’angustia di fondo, e nemmeno di un punto di vista confessionale che sia professato nel testo, ma in quelli di un gesto di remissione, che non viene contaminato attraverso il gioco dei sensi, e il suo accento materico.

Ma infine, occorre osservare qualcosa riguardo allo sfondo più strettamente filosofico di questo volume. Il libro non ha la pretesa che può essere avanzata da un saggio teoretico, e a partire da questo presupposto i riferimenti o i rimandi devono essere concepiti dal punto di vista lirico-letterario, o devono essere assunti nei termini di una movenza a carattere evocativo. Così, il richiamo a Dionigi Areopagita risulta la strada maestra, che è in grado di illuminare gli scorci che invece rimandano ad altre figure. E a tale proposito, possiamo considerare una menzione fugace di Gilles Deleuze e di Carmelo Bene – che vengono come assorbiti nella temperie ludica di un delirio (cfr. p. 91). Da questo punto di vista, innanzitutto, per quanto riguarda la figura del Puer, Francesco Solitario rimanda a Carl Gustav Jung piuttosto che al filosofo, il quale si richiama sotto un altro profilo a questa figura; e il rimando risulta opportuno, perché la dottrina junghiana degli archetipi e la sua inflessione vagamente platonica si collocano su un versante contrapposto a quello dell’intento distruttivo di Deleuze – il quale, a differenza di questa dottrina, presenta dei tratti incompatibili con il senso espresso da un pervasivo rimando al principio immortale -; e potremmo dire che il pensiero di questo filosofo sia avverso nel modo più pronunciato a tale rimando. Ma è anche vero che gli approdi paradossali dei punti di vista mistici ed ascetici sono suscettibili di una serie di risonanze  disparate; ed è infatti nel gioco del paradosso secondo cui il massimo di affermazione può essere avvicinato soltanto attraverso la negazione, che è possibile stabilire un incontro fortuito con un pensiero il quale intende abolire questo orizzonte finale, ma affida ad esso una serie di suggestioni che possono essere consumate sotto il profilo di una inversione del loro senso di origine. E per quanto riguarda Carmelo Bene, il discorso risulta analogo; ma a questo proposito, possiamo sottolineare quello che segue. Il teatro, il cinema e soprattutto l’esercizio vocale di Carmelo Bene sono elementi che vengono piegati al punto di vista di un predominio assoluto del significante rispetto al significato o al senso – laddove l’autore di queste intraprese rifiuta non solo il gioco di superficie di ogni significato a carattere positivo, ma anche la dimensione profonda del senso medesimo, che invece è l’alimento e il fermento più sostanziale di questo Indice di immortalità. Ed anzi, potremmo dire che gli strali polemici e devastanti di Bene sono proprio rivolti alla dimensione del senso profondo; laddove, tuttavia, per ironia della sorte, questo gioco di opposizione è temperato dal fatto secondo cui lo scavo dentro i cunicoli vocali della phonè – o del nostro risuono -, nel momento nel quale assorbe una serie di referenti che rendono possibile il gioco attraverso il dominio del loro senso stravolto, acuisce i riverberi di una inedita significazione, che porta con sé, insieme alle scorie verbali ed alla loro resa impellente, quella penombra del senso nella cui sottrazione compiuta potremmo avere soltanto il decesso, privato appunto nel modo più assurdo di quanto intendiamo alludendo alla morte. E sembra che un libro come quello adesso in esame, con la sua singolare ricchezza, sia in grado di presentire l’istanza di una profonda significazione – e quindi di un senso -, quali ingredienti suscettibili di essere ritrovati, in quanto tali – e con una forma e una sostanza diverse che li rivestono -, attraverso il gioco che Bene ha disposto nei suoi scenari; e si deve osservare che tutto questo, del resto, non attenua l’impronta disperata dell’autore, ma la rende possibile. Ma a tale proposito, non è indispensabile condividere il pathos cosmico-religioso di Marina Petrillo, che nei suoi modi, al di là del proprio orizzonte, in ultima analisi offre il suo contributo a chiunque è disposto a mettere fuori gioco le derive più deboli e i risvolti inautentici di punti di vista contemporanei, che sono provvisti comunque del dono di una creazione – il  che non comporta alcuna riserva critica sulla resa artistica di Carmelo Bene, ma riguarda l’implicazione inerente al rapporto tra le sue dichiarazioni di poetica, e una serie di tratti speculativi che appartengono al mondo odierno. 

 

   

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Nella sinfonia del crepuscolo https://www.carmillaonline.com/2024/03/23/nella-sinfonia-del-crepuscolo/ Sat, 23 Mar 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81639 di Ala’a Sbaih

Tramite la traduzione dall’inglese a cura di Pina Piccolo, la redazione di Carmilla ha ricevuto questi versi da Ala’a Sbaih, ventiquattro anni. Abita a Gaza City, ha studiato letteratura inglese e francese, fa parte del Gaza Theatre Project. Arrivano da chi in questo momento non può soppesarli con comodità, di fronte a uno schermo, al caldo, come abbiamo fatto noi. Pongono domande senza sconti, anche sull’estetica, sul retroterra culturale.

Forse sfidano i nostri presupposti, compreso il realismo della cultura occidentale. Sono incredibilmente riflessivi, scrutano la morte ma andrebbero bene anche per un’epidemia, un terremoto, lutti privati. La guerra [...]]]> di Ala’a Sbaih

Tramite la traduzione dall’inglese a cura di Pina Piccolo, la redazione di Carmilla ha ricevuto questi versi da Ala’a Sbaih, ventiquattro anni. Abita a Gaza City, ha studiato letteratura inglese e francese, fa parte del Gaza Theatre Project. Arrivano da chi in questo momento non può soppesarli con comodità, di fronte a uno schermo, al caldo, come abbiamo fatto noi. Pongono domande senza sconti, anche sull’estetica, sul retroterra culturale.

Forse sfidano i nostri presupposti, compreso il realismo della cultura occidentale. Sono incredibilmente riflessivi, scrutano la morte ma andrebbero bene anche per un’epidemia, un terremoto, lutti privati. La guerra è nel sottotesto, è indicibile.

Qualcosa ci sconcerta. Per esempio, quella resilienza non va giù. Ancora: nella prima composizione cola l’inchiostro dell’inchiesta, e non siamo chiamati in causa? «Let the ink of inquiry flow», e inkinquiry è un gioco di parole ben sottile, per chi è bersaglio di un negazionismo preventivo. Sapremmo essere così arguti, e non nella lingua madre, noi? Sapremmo pensare all’inchiostro, senza acqua da bere? Dal giornalismo agli organi giudiziari internazionali, sbattiamo il muso contro i limiti del lavoro di parole, perché i fatti laggiù sono armati e tritano la terra e solcano il cielo. Anche noi, qui, liberi di scrivere con comodità, siamo chiamati in causa, perché ci tiriamo dietro le sillabe. Anche quelle che non spezzano la pagina in versi. Il dito che questa donna ha bagnato nell’inchiostro, e insieme nel sangue, non è puntato anche contro di noi? [La redazione]

 

I.

Nella sinfonia del crepuscolo, nella danza di ombre e luce fugace,

percorro i corridoi della mia anima, nel silenzio della notte cercando conforto

imploro il cielo, chiedendomi se sarà questa la mia ultima scrittura terrena.

Risuona un appello silenzioso e l’arazzo cosmico interroga:

Perché ad alcune anime è dato con la morte danzare nella miriade delle sue forme?

 

Nell’immensa distesa dell’esistenza, sfugge lo scopo,

Un intricato mosaico di domande, ricucito con i fili di “perché la morte?”.

Nel regno in cui la vita è implacabile prova,

anelo il giorno in cui troveranno la loro redenzione i “perché”

 

Quando tento di afferrare l’essenza dell’esistenza,

gli echi della guerra lasciano impronte indelebili, una firma cupa,

che ad ogni nuova alba si fonde con i mille ricordi di ieri.

Danza con le ombre diviene la sopravvivenza, testimone del riflusso di vite.

Forse il mio stesso riflesso ho intravisto nelle eteree acque della mortalità.

 

Eppure, sotto il peso dei dilemmi esistenziali persiste una fragile speranza:

una promessa sussurrata nella brezza che in questo tumultuoso viaggio coesiste

nella cadenza del battito cardiaco, il delicato ritmo dell’intricato canto della vita

racchiude frammenti di finalità, sfuggenti, ma innegabilmente forti.

Quindi, che scorra pure l’inchiostro dell’inchiesta, mentre continua a scrivere

la penna dell’esistenza nell’arazzo che unisce alba e oscurità.

Poiché nell’enigma di questa vita caduca, lo spirito  di resistenza tesse

la resilienza poetica che ti sussurra: “Continua a vivere”, percepita dall’anima,

nel momento in cui sono rimandati tutti i dolori.

 

***

II.

Nell’arazzo dell’esistenza, dove si uniscono oscurità e alba,

cercando sempre il sole d’inverno

la mia lingua, guerriera silenziosa nella battaglia tra parola e silenzio,

Nel crogiolo della vita, quando ogni momento ti presenta sfide

Il dolore dell’esistenza si scontra con l’istinto di sopravvivenza,

La morte, il velo che separa la meraviglia dall’ eterno alveare.

Le ombre prendono la forma dei miei pensieri,

gettando tutto il peso sulla mia anima,

si allungano ogni volta che sui miei piedi arrancando

cerco di raggiungere – come si dice – i miei sogni.

Davanti ad ogni scelta la confusione mi logora:

rovisto tra tutte le mie tracce

e ogni volta che tendo la mia mano scompaiono

In un luogo dove la vista vacilla, oscurata dall’invisibile,

la luce mancante, quale traviata guida, fa sbandare i desideri.

Il malessere mi avvolge, sfidando le mie aspettative,

illuminando la vita per cui è scritto

quale involucro a bolle attorno a ciò che sogno.

 

I.

In the symphony of twilight, where shadows waltz with fleeting light,
I traverse the corridors of my soul, seeking solace in the quiet night,
beseech the heavens, pondering if this marks my final earthly script.
A silent plea resonates, questioning the cosmic tapestry,
Why must some souls dance with demise in myriad guises?

In the vast expanse of existence, the purpose (death) eludes,
An intricate mosaic of queries, stitched with threads of “whies?”
In the realm where life is a relentless trial,
Yearning for the day when the whies find its redemption.

With each attempt to grasp the essence of existence,
The echoes of war leave indelible imprints, a somber signature,
That merge a thousand of yesterday’s memories with dawn anew.
Survival becomes a dance with shadows, witnessing the ebb of lives,
Perhaps I’ve glimpsed my own reflection in the ethereal waters of mortality.

Yet, beneath the weight of existential quandaries, a fragile hope persists,
A whispered promise in the breeze that this tumultuous journey coexists.
In the cadence of heartbeat, a delicate rhythm of life’s intricate song,
I find fragments of purpose, elusive, yet undeniably strong.
So, let the ink of inquiry flow, as the pen of existence continues to write,
In the tapestry of existence, where darkness and dawn unite.
For within the enigma of this transient existence, a resilient spirit weaves,

A poetic resilience that whispers, “Live on,” as the soul perceives, at the time when all the sorrows are postponed.

***

II.

In the tapestry of existence where darkness and dawn unite,
Seeking apricity all the time,
My tongue, a silent warrior in the battle of speech and hush,
In life’s crucible, where each moment is a trial to brush.
Pain of existence grapples with the instinct to survive,
Death, the veil separating wonder and eternal hive.
Shadows take the shape of my thoughts,
Throwing all the weight on my soul,
They grow longer every time I trudge upon my feet
Trying to catch up -as they say- my dreams,
Confusion wears me out every time choices come to me,
I rummage among all my traces
They disappear whenever I reach
In a place where sight falters, obscured by the unseen,
The missing light, a guide led astray, desires careen.
Malaise envelops, defying my expectations,
It brightens up the life that is written for is a bubble-wrapped from what I have dreamt.

 

Ala’a Sbaih, nata il 26 aprile 2000. Abito a Gaza City, ho studiato letteratura inglese e francese. Faccio parte del of Gaza Theatre Project, e amo scrivere opere teatrali e racconti. Scrivo quando sento il desiderio di sondare il significato delle cose, specialmente quando mi sento in balia della confusione.

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Un sentiero per la salvezza https://www.carmillaonline.com/2024/01/29/un-sentiero-per-la-salvezza/ Mon, 29 Jan 2024 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80953 di Paolo Lago

Gabriele Belletti, Tok, Zest Edizioni sostenibili, 2023, pp. 159, euro 14,00.

Il poemetto Tok di Gabriele Belletti (che si presenta, grazie alla traduzione inglese di Pasquale Verdicchio, in una versione bilingue) è il primo volume che esce per “Zest edizioni sostenibili”, un marchio guidato da Antonia Santopietro la quale da diversi anni porta avanti, col sito “Zest Letteratura sostenibile”, da lei curato, un progetto di studio e di analisi delle tematiche ambientali ed ecologiche applicate alla letteratura. Tok è infatti un’opera in cui tali tematiche rivestono un’importanza fondamentale, fin dal titolo. Come leggiamo in una nota dell’autore, la [...]]]> di Paolo Lago

Gabriele Belletti, Tok, Zest Edizioni sostenibili, 2023, pp. 159, euro 14,00.

Il poemetto Tok di Gabriele Belletti (che si presenta, grazie alla traduzione inglese di Pasquale Verdicchio, in una versione bilingue) è il primo volume che esce per “Zest edizioni sostenibili”, un marchio guidato da Antonia Santopietro la quale da diversi anni porta avanti, col sito “Zest Letteratura sostenibile”, da lei curato, un progetto di studio e di analisi delle tematiche ambientali ed ecologiche applicate alla letteratura. Tok è infatti un’opera in cui tali tematiche rivestono un’importanza fondamentale, fin dal titolo. Come leggiamo in una nota dell’autore, la parola “tok”, per i Kaluli, indigeni della Papua Nuova Guinea, significa “sentiero”, “accesso” fino ad assumere il senso più esteso di “mappa”. Un sentiero che può rappresentare una via di salvezza per la società contemporanea, rappresa nelle dinamiche di una quotidianità basata su ripetitivi rituali imposti dal capitale e in cui gli individui trascorrono la propria esistenza in “altissimi palazzi” non conoscendo nulla della dimensione del “fuori”. Una società in cui “le proiezioni delle cose / sono diventate le cose” e in cui “si vive / di pulsanti / e contatori”. Dentro “l’appartamento parco” è rinchiuso anche il bambino che “non sa ancora” che in una dimensione lontana “già lo attende / una foresta”. Il poemetto racconta infatti il viaggio di uscita di un bambino dalla “Città-mondo”, un ambiente fatto di cemento, verso l’universo della foresta, in cui la natura pare magicamente essere sopravvissuta agli scempi della società capitalistica che, come un abulico zombie, non fa altro che devastare qualsiasi elemento naturale – alberi, piante, prati e animali – che ostacola la sua meccanica e cinica crescita.

I primi momenti del poemetto mettono in scena un universo fatto di palazzoni, cemento, apparenze, un vero e proprio “carcere della terrestrità” – per utilizzare il titolo di una bella raccolta di poesie di Francesca Fiorentin del 2021, alcune delle quali rappresentano questo stesso mondo alienato1 – dal quale si deve ‘evadere’ per ritrovare finalmente la dimensione del “fuori”. Non è un caso che Gabriele Belletti scelga un bambino come alfiere di questa possibile liberazione: chi, infatti, meglio di lui, può muovere verso una nuova e libera rinascita? D’altra parte, si può ricordare anche come la figura del bambino rappresenti, in diversa narrativa ecodistopica italiana contemporanea, l’incarnazione di una possibilità di salvezza e rinascita. Si può pensare, allora, a Bambini bonsai (2010) di Paolo Zanotti, in cui in una Genova del futuro, connotata dal cambiamento climatico e da una cementificazione senza precedenti, sono proprio i bambini, nel momento in cui gli adulti si rinchiudono in casa impauriti dalla “stagione delle piogge”, ad uscire per esplorare il mondo cercando una via di fuga dalla devastazione. Ricordiamo anche Anna (2015) di Niccolò Ammaniti, in cui a muovere verso il “fuori”, sfidando le distruzioni provocate da un’epidemia che uccide solo gli adulti, sono Anna e il suo fratellino Astor o il più recente racconto dal titolo La fiaba di Miriam, inserito nella raccolta Quando qui sarà tornato il mare (2020) del collettivo Moira Dal Sito, in cui la piccola Miriam riesce ad incontrare un lembo di territorio sopravvissuto a un disastro ambientale ed esistenziale.

Anche in Tok è presente una diffusa deriva esistenziale e la figura del bambino può quindi incarnare un frammento di resistenza che potrebbe estendersi ed allargarsi. Non per la sua ‘innocenza’ – credo – ma, anzi, per la sua maggiore consapevolezza e sensibilità. Donna Haraway, nel saggio Chtulucene. Sopravvivere su un mondo infetto, affida proprio a una generazione di “bambine del Compost”, le “Camille”, la possibilità di una rinascita anche esistenziale e culturale. Secondo la studiosa, è necessario generare continue connessioni e “parentele” per poter continuare a sopravvivere su un pianeta infestato dalla spinta distruttiva del “Capitalocene”2. Anche nella raccolta di Belletti è possibile incontrare un’aspirazione a una nuova “interconnessione” tra esseri viventi. Come scrive Pasquale Verdicchio nell’introduzione (un’altra introduzione al testo è firmata da Serenella Iovino), “Tok suggerisce che la guarigione può dipendere dalla ricerca o dall’elaborazione di un «linguaggio» comune, un percorso comune che poggia sulla conoscenza dell’interconnessione di tutti gli esseri, il riconoscimento di ciò che Thich Nhat Hanh ha chiamato «interbeing» («inter-essere»)”. Il bambino inizia quindi la sua erranza verso il “verde partigiano”, verso la possibilità di una “rivoluzione”, per poter raggiungere una nuova forma di connessione con gli altri esseri viventi, animali e vegetali. Raggiunge il bosco e “un maestoso vegetale / in mezzo al bosco / è il punto cardinale. / La sua chioma è madre / di un’ombra espansa / – una timida corona. Un’isola piena / di aria antica”. Il grande albero è significativamente definito “isola piena di aria antica” come se si trattasse, proprio come un’isola, di uno spazio nettamente separato da tutto ciò che lo circonda. In esso c’è un’“aria antica”, un’atmosfera che rimanda ad un mondo precedente alle devastazioni contemporanee. Dall’albero si leva il canto di un uccello e, sembra, proprio grazie ad esso si crea una nuova interconnessione fra le creature (“Trasporta una canzone / – fa quello che si deve – unisce le creature / le fa ascoltare insieme”): alberi grandi come isole, sulla cui canopia si poteva incontrare un affascinante mondo sconosciuto, ce li aveva raccontati anche Richard Powers nel suo romanzo Il sussurro del mondo (The Overstory, 2019). Alberi che erano capaci di entrare in connessione fra di loro e parlarsi, in una eterna e continua lotta di resistenza. Da una parte c’è la spazialità della foresta, fatta di alberi in connessione e sinergia fra di loro, dall’altra, invece, lo spazio cementificato della città, in cui si elevano i palazzi che rappresentano il trionfo dell’individualità e dell’individualismo, ‘carceri’ nelle quali si trascorre la vita in preda alla solitudine e all’alienazione.

Il viaggio del bambino è scandito da un incedere ritmico e sonoro che Belletti rende con sicura maestria ricalcando la sintassi lenta e spezzata tipica delle canzoni popolari: “Il ritmo è già nel cuore / – distillato – / pulsa e ripete / il suo semplice dettato. – Torna al luogo / dove il colore è colore / dove il pavimento è prato”. Le pause, le anafore, lo stile cantilenante conferiscono al testo un andamento da racconto popolare che ci può far venire in mente i versi di Peter Handke dal titolo Elogio dell’infanzia (connotati dall’intercalare “quando il bambino era bambino”) che Wim Wenders ha inserito nel suo film Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987). Il movimento di erranza del bambino protagonista di Tok si srotola in un universo devastato, in cui la distopia sembra appartenere già al presente: “Fuori / il bambino sùbito si perde / – tra scheletri di paesaggi scomparsi, / mutili fossili / di fuggiti passi. / Vaga / tra cumuli di polveri / di scordate epoche”. Al pari dei “bambini bonsai” di Zanotti, di Anna di Ammaniti, del ragazzino che insieme al padre percorre le strade post-apocalittiche degli Stati Uniti in La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy, si trova inserito in un universo di devastazione. Lo scenario eco-distopico e post-apocalittico descritto da Belletti è però già qui, è la nostra contemporaneità devastata dal tecnocapitalismo avanzato. Forse non ce ne siamo nemmeno accorti, ma la distopia la stiamo già vivendo. La dimensione post-apocalittica che avvolge il poemetto è stata rilevata anche da Serenella Iovino nella sua introduzione: la studiosa scrive infatti che “un diluvio c’è già stato. Un diluvio di cemento e dimenticanza, di lontananza e solitudine” forse riferendosi al “diluvio” (cioè, fuor di metafora, una pandemia globale) che ha devastato la società del futuro raccontata da Margaret Atwood in L’anno del diluvio (The Year of the Flood, 2009). Gli spazi verdi ormai ricoperti di cemento, dove si vive lontani e in solitudine, è già una dimensione post-apocalittica che tutti abbiamo sotto gli occhi nella nostra contemporaneità.

Nella seconda parte della raccolta, intitolata Cantica dei cerchi, sono gli stessi alberi a prendere la parola. Uno di essi dice che “dell’antico prato / avevano fatto un parcheggio. / Mi avevano graziato / per essere albero / prediletto / di un poeta morto ammazzato”. Insieme ad altri alberi superstiti – afferma – “scambiavamo / il nostro ricordo paesaggio / rinnegavamo i fabbricati che con desideri altissimi / imprigionavano / tutti”. Chissà se in quel “poeta morto ammazzato” vi è un riferimento all’assassinio di Pasolini; certo è che la chiusa del poemetto, come vedremo, è affidata a dei versi in friulano del poeta, scrittore e regista ucciso all’Idroscalo di Ostia nel 1975. E poi quando l’autore descrive il prato trasformato in parcheggio ci viene in mente quello che Pasolini scrive ne Il pianto della scavatrice (Le ceneri di Gramsci, 1957): “[…] Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore”3. D’altra parte, l’andamento sintattico della versificazione, in cui alcune volte risuona un rintocco grazie alla presenza della rima, può ricordare, per certi aspetti, lo stile pasoliniano presente nelle Ceneri (si legga, ad esempio, da Tok: “Lontano, si elevava / la Città-Mondo / e il deserto / si faceva / latifondo”). Quell’apocalisse descritta da Belletti pare essere cominciata, almeno in Italia, già negli anni Cinquanta, quando si distruggevano prati e boschi per erigere palazzi di cemento tutti uguali, allineati come impietriti zombie silenziosi. Il bosco nel quale si perde il sentiero percorso si contrappone, come già notato, alla cieca edilizia avanzante creatrice di quella “Città-Mondo” che è “sbiadita prigione”. L’incedere del bambino è accompagnato dall’accendersi di tante lucciole (della cui “scomparsa”, metaforicamente, aveva scritto sempre Pasolini) che si muovono incessantemente – quasi come in un film di Miyazaki – foriere di una nuova incantata e magica dimensione. Una dimensione che appartiene fortemente alla terra – come suggeriscono, a guisa di suggello, due versi di Pasolini in friulano appartenenti a La meglio gioventù (1954) che, come già notato, chiudono il poemetto – e che sta a noi riuscire a riscoprire. Contro future e peggiori distopie e apocalissi, contro lo zombie dominio capitalista che sta distruggendo il mondo e la natura.


  1. Cfr. F. Fiorentin, Carcere della terrestrità, Macabor, Francavilla Marittima, 2021. 

  2. Cfr. D. Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un mondo infetto, trad. it. di C. Durastanti e C. Ciccioni, nero, Roma, 2020, pp. 143 e seguenti. 

  3. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. 1, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano, 2003, p. 848. 

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