America Latina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 16 Nov 2024 23:15:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cile, questo dimenticato https://www.carmillaonline.com/2021/05/28/cile-questo-dimenticato/ Fri, 28 May 2021 21:55:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66508 di Nico Maccentelli

Neanche 15 giorni fa si sono svolte in Cile le elezioni per eleggere l’Assemblea Costituente, a seguito del referendum dell’ottobre scorso che ha mandato in soffitta la vecchia Costituzione pinochettista del 1980. Insieme a queste, si sono tenute le regionali. In complesso, rispetto a sei mesi fa si è avuta una consistente flessione dell’affluenza al voto, ma il risultato in complesso riflette la forte spinta al cambiamento di questi ultimi due anni di lotte sociali vaste e radicali , da quelle studentesche della primavera del 2019 contro l’aumento del prezzo [...]]]> di Nico Maccentelli

Neanche 15 giorni fa si sono svolte in Cile le elezioni per eleggere l’Assemblea Costituente, a seguito del referendum dell’ottobre scorso che ha mandato in soffitta la vecchia Costituzione pinochettista del 1980. Insieme a queste, si sono tenute le regionali. In complesso, rispetto a sei mesi fa si è avuta una consistente flessione dell’affluenza al voto, ma il risultato in complesso riflette la forte spinta al cambiamento di questi ultimi due anni di lotte sociali vaste e radicali , da quelle studentesche della primavera del 2019 contro l’aumento del prezzo della metropolitana a Santiago a quelle di piazza Dignità e per tutto il Cile pochi mesi dopo contro i provvedimenti neoliberisti di massacro sociali del governo di destra di Sebastian Piñera.
Ma prima di addentrarmi nell’analisi del voto e delle conseguenze di quello che si configura come uno tsunami politico in Cile, vorrei spiegare il perché di questo articolo e di conseguenza il perché del titolo.

Il punto è che queste elezioni sono state quasi del tutto ignorate dai media nostrani e si può comprenderne il motivo. L’intero cono sud americano è scosso da proteste sociali di vasta portata. Infatti totalmente ignorata in queste settimane è anche la rivolta sociale in Colombia, che ha già provocato decine di vittime, con il governo Duque che tra torture, stupri, esecuzioni sommarie e desaparecidos, si trova alle strette e quindi costretto a ritirare parzialmente le misure, anche queste neoliberiste e di macelleria sociale, che avevano scatenato l’ira popolare(1).

A ciò si aggiunge il ritorno di governi socialisti e progressisti, comunque di segno antimperialista, invisi alla potenza USA e all’Occidente, come la Bolivia e l’Argentina. Va da sé che l’argomento America Latina inizia a essere piuttosto problematico  per gli yankee e quindi per tutti i media mainstream che seguono le veline delle agenzie di intelligence come la CIA nel mondo, non esclusi i nostri, che sono tra i più allineati. Meglio occultare. Visto che sul banco degli imputati c’è proprio quel neoliberismo che regola e governa il mondo atlantista e non solo e che le ripercussioni pandemiche del covid-19 ha reso ancora più feroce.

È però nell’ambito della sinistra nostrana che queste elezioni cilene hanno avuto poca eco e ancor meno riflessioni politiche. Quasi che perché questo paese essendo dall’altro capo dell’emisfero non abbia nulla a che vedere con il nostro contesto socio-economico e geopolitico occidentale. Eppure per le sinistre agli inizi degli anni ’70 era piuttosto chiaro nelle due fasi cilene: il governo Allende e la dittatura dei generali con Augusto José Ramón Pinochet Ugarte. Era chiaro come il Cile sia stato ben due laboratori socio-economici: il primo con Unidad Popular e un processo di socializzazione delle risorse come le miniere di rame e dei mezzi di produzione che indicava una strada possibile al socialismo lungo il solco cubano ma con caratteristiche proprie.

E successivamente il secondo, con il golpe dell’11 settembre del 1973, prendeva vita nel sangue della repressione di lavoratrici e lavoratori, sinistra, sindacalisti, il laboratorio neoliberale dei Chicago Boys, cresciuti sotto le ali di Milton Friedman, la cui scuola economica ha poi impestato tutto il mondo con la dottrina della libertà totale del mercato e dell’assenza di diritti sociali del tutto mercificati e privatizzati. Una configurazione economica e sociale passata anche nei paesi a capitalismo avanzato per la reaganomic e il tatcherismo e che da decenni conosciamo bene anche noi, trasfigurando in modo osceno anche quelle che erano le sinistre storiche, socialdemocratiche e post-comuniste e che oggi sono partiti neoliberisti o euroliberisti come il PD.

Ma il Cile di oggi, che quasi ad avverare le ultime parole di riscatto popolare del Presidente Allende da Radio Magallanes(2), con l’avvio delle lotte sociali del 2019-20 e con le ultime due tornate elettorali, sembra quasi dare un segnale di chiusura dell’intangibilità dell’era liberista, come a dirci che la resa dei conti internazionale con il neoliberismo macellaio è iniziata proprio dove quest’ultimo è iniziato .

Dunque questo silenzio o sotto tono della sinistra nostrana, e mi riferisco a quella di classe, rivela l’incapacità di cogliere un processo sociale antagonista al capitalismo neoliberale molto più vasto, che attraversa i diversi continenti.

Le elezioni cilene del 15 e 16 giugno scorso rappresentano dunque una svolta fondamentale per quel paese. In verità per le elezioni regionali, vi sono numerosi ballottaggi, ma su chi abbia effettivamente vinto questa tornata elettorale è cosa certa. O per lo meno, si sa per sicuro chi ha perso: la destra.

Nonostante si sia presentata a lista unica, Vamos por Chile, dai settori più moderati fino all’estrema destra fascista e nostalgica della dittatura pinochettista, la destra non ottiene il terzo necessario per ostacolare la nuova Costituzione che verrà realizzata, arrivando addirittura a meno d’un quarto.

E non è andata bene neppure al centrosinistra: democrazia cristiana, socialisti, liberali, ecc. che sono stati protagonisti di governo in gran parte degli anni post-dittatura (cinque su sette governi).

Coma già accennato, certamente a questa debacle delle destre e delle forze centriste ha influito l’inasprirsi della lotta di classe contro il governo Piñera dell’ultimo anno e mezzo e nonostante che le liste di sinistra fossero più diversificate. Un successo di vaste proporzioni per le sinistre che non si vedeva dai tempi di Unidad Popular.

Sembrava scontato che il tavolo del processo costituente andasse alle solite forze tradizionali che dagli anni ’80 in poi hanno gestito malamente e nel segno della continuità la difficoltosa fase post-dittatura, ma non è stato così. Si tratta di un ribaltamento verso forze rinnovatrici e di sinistra che peserà e non poco, non solo sul governo Piñera, ma sul corso politico più generale del Cile, segnando una svolta radicale. Un vero problema di governabilità per l’oligarchia neoliberista al potere. Ma anche riguardo al nuovo contesto costituzionale col quale le classi dominanti si troveranno ad avere a che fare.

È dunque risultata vincente la coalizione Apruebo Dignidad della sinistra tra PC Cileno e il Frente Amplio, sorto proprio con l’estallido social: le lotte sociali anti-Piñera.

Ma oltre a questa sinistra, si è registrato il successo travolgente dei candidati indipendenti. Una parte di questi ha come riferimento il Socialismo del XXI secolo e vede di buon occhio il Venezuela bolivariano e socialista. Ma i ben 48 seggi sui 155 di questi candidati scontano un’eterogeneità per diverse sensibilità politiche e sociali e differenti appartenenze e provenienze, che va a costituire una variabile nelle future dinamiche assembleari. 

Non tutti questi candidati infatti si collocano a sinistra. Ci sono liste in competizione tra loro. La Lista del Pueblo per esempio, è in linea di massima collocata a sinistra, ma la Lista de Independientes No Neutrales è costituita da liberali progressisti, i quali potrebbero essere attratti da scambi di favori e proposte provenienti dalla destra. Inoltre gran parte dei candidati indipendenti sono portatori di istanze regionali ed espressione di istanze particolari come il diritto all’acqua come bene comune, istanze ambientali, delle donne e così via.

C’è da dire che la frammentazione a sinistra è dovuta non solo alla provenienza e all’appartenenza di esperienze diverse. È un fatto che nella costituzione delle liste la componente storica anti-dittatura della sinistra, ossia il Frente Amplio e il PCC (Apruebo Dignidad) non siano stati permeabili alle nuove soggettività provenienti dall’antagonismo spontaneista e sociale delle lotte dell’ultimo anno e mezzo. Il fonte comune anti-Piñera e antiliberista, non è stato in grado di tradursi in una coesione più organica sul terreno elettorale. E questo è un antico problema della sinistra, un retaggio che si trascina anche nel nuovo millennio un po’ ovunque, spesso con partiti comunisti o marxisti ortodossi incapaci di cogliere il nuovo se non in parte, con un ancoraggio a formule politico-organizzative stantie, poco adatte ai nuovi movimenti e a un consiliarismo dirompente. Per non parlare della complessità dei contenuti, spesso incomunicanti anche se di segno antiliberista, come tutta la questione dei popoli originari, scarsamente rappresentati anche in questo frangente elettorale, ai quali oltre tutto sono stati riservati pochi seggi in proporzione alla loro consistenza elettorale.

In questa eterogeneità vanno menzionate anche le più diverse sensibilità politiche e realtà di lotta tra cui spicca un movimento femminista piuttosto maturo e conflittuale. Femministe cilene piuttosto combattive che ricordiamo come iniziatrici di un flash mob contro la violenza di genere e di Stato che ha fatto il giro del mondo, propagandosi come pratica di protesta in tantissimi paesi. E questa Costituzione, vedrà per la parità di genere nell’Assemblea il protagonismo delle donne. Anche se va detto che questa spinta sociale non è riuscita a trovare in pieno una corrispondenza nelle liste di lotta. E l’8M Coordinamento femminista non ha ottenuto risultati apprezzabili.

Tuttavia, al netto di future incognite dovute a differenze, istanze particolari e regionaliste, possiamo dire che la vittoria schiacciante delle sinistre nel loro complesso, sia tradizionali e storiche come il PCC, che quelle dei nuovi soggetti, sono il prodotto politico, la sintesi del forte conflitto sociale nel paese. E la nuova carta costituzionale del cambio, sarà il prodotto storico-politico di questo processo sociale, sia per un superamento della Costituzione del 1980 verso il ridimensionamento delle libertà di mercato e una centratura sui diritti sociali e civili, ma anche verso un decentramento dei poteri legislativi e amministrativi, dando più peso ai governatorati regionali e superando le prefetture che erano emanazioni del potere centrale.

Ciò sarà possibile soprattutto perché la maggioranza assembleare così come uscita dalle urne farà sì che la Convenzione Costituzionale potrà dotarsi di un proprio regolamento, contrariamente al ruolino di marcia che le forze conservatrici di destra e centrosinistra si erano date con l’accordo del 14 novembre 2019(3). Regolamento che la renderà autenticamente sovrana nel redigere la carta costituzionale, facendo dell’Assemblea una reale costituente.

Ma oltre a questo, ciò che più conta è la spinta popolare dal basso, l’onda lunga delle lotte sociali come fattore piuttosto influente per la redazione della futura Costituzione, considerando che la gran parte delle forze di maggioranza hanno per vocazione la massima apertura alle istanze sociali provenienti dalle realtà di lotta, che, rappresentanti o meno, all’Assemblea faranno sentire la loro voce.

Il Cile quindi, dopo essere stato laboratorio storico delle destre reazionarie e del capitale neoliberista, si appresta a divenire di nuovo un importante laboratorio per la sinistra mondiale sia sul piano costituente che su quello sociale, delle profonde trasformazioni: se non direttamente sul piano del socialismo, quanto meno su quello dei diritti e di una governance popolare decentrata sui territori.

Ovviamente se non si ripeterà lo schema della CIA andato in scena nel 1973, magari riattualizzato. Tanto per capirci: senza “incidenti di percorso” alla boliviana e tragici ritorni orchestrati da destre e intelligence occidentali.

Lo potrà essere grazie alle sensibilità e realtà di base sopra citate, che però dovranno trovare una sintesi politica cogliendo un’opportunità storica per il paese e una sperimentazione utile per le forze del socialismo su scala internazionale.

Sul piano latinoamericano, non v’è dubbio che dopo il ritorno della Bolivia nella casa di Nuestra America bolivariana, e il successo in Argentina del peronismo progressista sempre sotto il cappello dei Kirchner, si va con questo successo delle masse popolari e lavoratrici cilene a rafforzare l’autonomia politica da Washington di una serie di paesi, e con buone probabilità potrà esserci maggiore agibilità politica per i paesi dell’ALBA. Ciò dunque corrisponde a un indebolimento del controllo imperialista USA, aprendo nuove prospettive nel mutamento dei rapporti di forza geopolitici.

In generale siamo ancora ben lungi da una situazione consolidata per i governi popolari e democratici dell’America Latina e tante sono le contraddizioni che attraversano i vari paesi, tra burocrazia, corruzione, estrattivismo, conflitti per le terre con le popolazioni indigene (come i Mapuche). Ma certamente questo è un importante passo in avanti.

Nell’orizzonte piatto col quale le destre italiane, da quelle tradizionali a quelle di falsa sinistra come il PD, cercano di descriverci e di imporci il mondo del capitalismo globale come unica realtà possibile, l’America Latina ci sta dando essenziali elementi d’analisi riguardo le dinamiche antiliberiste delle masse in lotta e il lavoro politico conseguente per le avanguardie di classe, con le sue contraddizioni sociali più avanzate e dirompenti, con le sue poderose lotte sociali, le sue vittorie popolari e le sue esperienze di governi bolivariani e delle sinistre.

È a queste esperienze che dobbiamo guardare, più che alle degenerazioni di un socialismo burocratico e classista (a rovescio però: di nuova borghesia) come quello cinese, che attualmente ha come unica valenza positiva il contrasto di fatto oggettivo: geo-economico e geopolitico, all’imperialismo, ma che non brilla certo per la democrazia popolare, come invece talune esperienze di democrazia dal basso e di protagonismo consiliare delle masse popolari di Nuestra America, camere di compensazione del comune tra settori popolari come forme di soviettismo contemporaneo in sperimentazione.

 

NOTE:

1) È la terza “riforma economica” del governo di Iván Duque Márquez, un fantoccio come Alvaro Uribe Vélez al servizio degli USA, delle loro multinazionali e un uomo dello stesso ex premier Uribe: aumento dell’IVA e delle accise sul carburante, estensione della tassa sul reddito anche alle classi più basse e ai pensionati (che precedentemente ne erano esclusi). Misure che penalizzano gli strati più deboli e indigenti della popolazione colombiana.

2) Le ultime parole del presidente Allende:  “Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.” 48 anni per la storia sono un soffio.

3) “Acuerdo por la Paz Social y la Nueva Constitución, dal quale rimasero fuori le sinistre come il PCC e che fu fortemente criticato da queste.

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Sprinters, una storia di Colonia Dignitad, di Lola Larra https://www.carmillaonline.com/2021/04/18/sprinters-una-storia-di-colonia-dignitad-di-lola-larra/ Sun, 18 Apr 2021 20:30:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65898 Edicola Edizioni, Ortona 2021 pagg. 272 € 18.90

(Nel 1961 si stabilì in Cile una colonia nazista. Colonia Dignidad, oggi Villa Baviera, era una comunità di fatto impenetrabile, raccolta attorno allo Zio Paul, leader carismatico che amava circondarsi di una corte di bambini e adolescenti chiamati “sprinters”. Solo con l’apertura dei primi casi giudiziari, molti anni più tardi, si iniziò a portare alla luce gli inquietanti segreti della colonia: collaborazionismo con il regime di Pinochet, un modello di setta, pedofilia, somministrazione di droghe, tratta di persone, traffico di armi. [...]]]> Edicola Edizioni, Ortona 2021 pagg. 272 € 18.90

(Nel 1961 si stabilì in Cile una colonia nazista. Colonia Dignidad, oggi Villa Baviera, era una comunità di fatto impenetrabile, raccolta attorno allo Zio Paul, leader carismatico che amava circondarsi di una corte di bambini e adolescenti chiamati “sprinters”. Solo con l’apertura dei primi casi giudiziari, molti anni più tardi, si iniziò a portare alla luce gli inquietanti segreti della colonia: collaborazionismo con il regime di Pinochet, un modello di setta, pedofilia, somministrazione di droghe, tratta di persone, traffico di armi.
Una sceneggiatrice interessata al caso e una colona che non ha mai lasciato Villa Baviera si trovano a incrociare le loro ricerche. L’incontro fra le donne, che sembrano cresciute in due mondi paralleli, innescherà un progressivo svelamento della verità, unica possibilità di senso e di guarigione. Il testo ha una forma ibrida, l’autrice usa il romanzo, il reportage, il resoconto storico, la graphic novel coi disegni di Rodrigo Elgueta. Di seguito pubblichiamo un estratto. MB)

Nel caso di Dignidad, c’erano tanti mostri in circolazione, ed erano in vista, in superficie. Su questo aveva ragione il mio amico produttore, quando diceva che la storia della colonia aveva tutti gli ingredienti per diventare un film. Per identificarli bastava leggere i titoli delle (poche) notizie uscite in Spagna sulla questione: legami con il nazismo, collaborazionismo con la dittatura di Pinochet, un confuso e ignoto modello di setta, tratta di persone, oscure reti internazionali legate al traffico di armi e un ultimo, e se possibile ancora più scabroso, elemento: la pedofilia.

Anche se non avevo mai scritto una sceneggiatura in vita mia, avevo accettato la proposta. “Ce la farai benissimo: se hai scritto dei libri, una sceneggiatura sarà un gioco da ragazzi,” mi aveva detto il mio amico produttore. I due libri che avevo scritto erano, in realtà, una guida su commissione su come guadagnarsi da vivere scrivendo in cento modi diversi, e qualche voce di un’enciclopedia del rock latinoamericano.

Le notizie che avevo raccolto nel corso dei miei primi anni di ricerca, uscite su alcuni giornali stranieri all’inizio del 1999, parlavano della scoperta di un sotterraneo che confermava ciò che già in molti sapevano: la colonia era stata un centro di tortura e prigionia durante la dittatura. In quel periodo il leader della setta, lo Zio Paul, era latitante, accusato di abusi sui minori, un eufemismo per dire che aveva violentato i figli dei coloni tedeschi e anche i bambini cileni che aveva sequestrato. Quanto a Pinochet, si trovava agli arresti domiciliari a Londra, in attesa della sentenza sulla sua possibile estradizione in Spagna o sul suo rientro in terra cilena.

La scoperta di quella sala delle torture da cui erano passati, e in cui erano stati assassinati, almeno trentotto oppositori del la dittatura aveva segnato l’inizio di una ricerca d’informazioni più sistematica, che mi aveva portata indietro nel tempo, fino alla fondazione della colonia nel 1961 e alle prime fughe di coloni, che avevano denunciato, senza che nessuno li degnasse di attenzione, le atrocità che avvenivano lì dentro. La matassa aveva decine di fili, sempre più intricati e deliranti.

Pochi anni dopo la sua fondazione, Colonia Dignidad aveva chiuso le frontiere al mondo, trasformandosi in uno Stato dentro lo Stato. Governati da un sistema quasi feudale, i suoi abitanti vivevano di agricoltura e allevamento, lavorando in condizioni disumane (e gratuitamente) per il loro padrone, lo Zio Paul. All’interno della colonia, il padrone era onnipotente e decideva il destino di tutti i suoi servitori. Uomini e donne non potevano vivere insieme; non si celebrava nessun matrimonio senza il consenso del leader, e i figli erano separati dai genitori. Nessuno poteva circolare liberamente fuori dai confini della colonia. Gli abitanti non avevano alcun documento d’identità. E nemmeno accesso a televisione, radio o giornali. Molti dei coloni venivano trattati con farmaci, percossi, castigati, e persino sottoposti a esperimenti nell’ospedale del villaggio. Ogni giorno, tutti loro dovevano confessarsi con lo Zio Paul e denunciare i loro compagni.

Gli unici a godere di qualche privilegio erano i gerarchi, una corte costituita da sei o sette famiglie che portavano avanti le attività economiche della colonia. Oltre all’agricoltura (coltivazione di frumento, principalmente, ma anche di frutta e ortaggi di ogni tipo) e all’allevamento, gestivano due ristoranti fuori dalla colonia, uno sulla strada di Chillán e uno a Bulnes. Per un periodo sfruttarono persino le miniere di titanio e uranio che si trovavano all’interno della proprietà. Durante la dittatura si dedicarono al traffico di armi (nel 2005 nella colonia è stato ritrovato il più grande arsenale d’armi privato mai confiscato in Sudamerica). In aggiunta ai terreni e alle case, poi, è probabile che avessero diversi conti bancari in paradisi fiscali, su cui tuttora nessuno ha indagato.

Colonia Dignidad era, fino a pochissimo tempo fa, un recinto con cancelli d’accesso sorvegliati e una rete di tunnel e nascondigli sotterranei stipati di esplosivi e armi. I suoi aerei volavano senza chiedere il permesso alle autorità cilene. Le sue guardie inseguivano con cani addestrati chiunque cercasse di fuggire, e il loro terrorismo si estendeva anche fuori dalle proprie frontiere: alcuni fuggitivi vennero inseguiti fino alla capitale cilena. Fino al 1997, e nonostante le numerose denunce, né la polizia né i giornalisti erano mai riusciti a entrarvi.

Il 10 marzo del 2005, dopo una persecuzione mediatica intrapresa dalla giornalista Carola Fuentes, la polizia scovò in una casa a Tortuguitas, un paese a circa sessanta chilometri da Buenos Aires, il latitante più ricercato di tutto il Cile: il leader di Colonia Dignidad, lo Zio Paul, lo Zio Permanente, come lo chiamavano alcuni.

Avevo consegnato al mio produttore un rapporto dettagliato su tutti questi avvenimenti: date, fatti, protagonisti. Un rapporto sintetico e preciso, che non lo annoiasse. E gli avevo specificato che non volevo scrivere la storia del “caso”, o dei molti casi, di Colonia Dignidad. C’erano già diversi libri e una decina di documentari – oltre a qualche film di fantasia – pieni di dati fedeli, cronologie meticolose, inchieste dettagliate. Non volevo riportare informazioni che erano già state trasmesse in televisione, al cinema, nei giornali e nei libri. Mi interessavano di più le storie intime dei coloni, un punto di vista quotidiano, una vicenda piccola che portasse alla luce la loro vita di tutti i giorni lì dentro. Al di là della terribile realtà in cui erano rimasti immersi, al di là delle torture a cui erano stati sottomessi, dei lavori forzati, delle droghe con cui venivano ammansiti, io volevo sapere (e raccontare) come avevano vissuto e che cosa aveva comportato per loro crescere del tutto isolati: come pensa e come vede il mondo una persona cresciuta senza televisione, senza giornali, senza notizie, senza poter camminare per strada; una persona che non è mai andata a un concerto o al cinema o a una festa o a un museo, qualcuno che non ha mai avuto soldi suoi né ha mai aperto un conto in banca, che non ha mai comprato un libro, mai affittato una casa; gente che ha solo una vaga idea del colpo di stato, che probabilmente non sa che c’è stata una guerra in Bosnia; qualcuno a cui non dicano niente le sigle OAS, ONU, FMI, il salario minimo, internet, la posta elettronica; persone senza esperienze di vita come i fidanzamenti, la scuola, i matrimoni, la famiglia, i compleanni; persone che non si sono mai godute un viaggio o un giorno libero. E soprattutto, mi interessava sapere come gli ex-coloni avessero affrontato il processo di reinserimento in una società “normale”. Come si era sentito chi era riuscito a fuggire e aveva visto il mondo quasi per la prima volta, e come vivevano quell’esistenza senza la “sicurezza” e l’“ordine” promessi dalla colonia. Di questo, nessuno parlava mai.

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Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi https://www.carmillaonline.com/2020/12/11/mujeres-frammenti-di-vita-dal-cuore-dei-caraibi/ Thu, 10 Dec 2020 23:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63588

di Raúl Zecca Castel

Zecca Castel, Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi, Edizioni Arcoiris, Salerno 2020, pp. 212, 14.00 €. Postfazione di Annalisa Melandri. Quadro in copertina e illustrazioni di Magda Castel.

[Estratto dell’introduzione]

Questo libro raccoglie le testimonianze di Célestine, Flor, Yvette, Anabel, Nora, Arielle e Liliane, sette donne conosciute durante un lavoro di ricerca antropologica condotto in Repubblica Dominicana presso il batey Ciguapa, insediamento rurale le cui origini storiche risalgono al sistema di piantagioni e al regime schiavista coloniale che governarono l’intera isola di Hispaniola dal [...]]]>

di Raúl Zecca Castel

Zecca Castel, Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi, Edizioni Arcoiris, Salerno 2020, pp. 212, 14.00 €. Postfazione di Annalisa Melandri. Quadro in copertina e illustrazioni di Magda Castel.

[Estratto dell’introduzione]

Questo libro raccoglie le testimonianze di Célestine, Flor, Yvette, Anabel, Nora, Arielle e Liliane, sette donne conosciute durante un lavoro di ricerca antropologica condotto in Repubblica Dominicana presso il batey Ciguapa, insediamento rurale le cui origini storiche risalgono al sistema di piantagioni e al regime schiavista coloniale che governarono l’intera isola di Hispaniola dal 1492 fino a parte del XIX secolo.

Come tutti i bateyes del paese, Ciguapa è una comunità che si caratterizza per la particolare composizione etnica e socio-culturale della sua popolazione, quasi interamente di origine haitiana, nera e di classe bassa. Perlopiù, si tratta di persone migranti e loro discendenti giunte o trafficate in Repubblica Dominicana per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dove da generazioni vivono in baracche di legno e lamiera, spesso senza accesso a servizi fondamentali come l’energia elettrica e l’acqua corrente.

Se la maggior parte degli uomini che popola i bateyes dominicani è ancora oggi sfruttata dalle grandi imprese saccarifere come bracciantato agricolo – in condizioni di lavoro più volte definite in termini di schiavitù moderna -, la situazione che vivono donne e bambini, per certi versi, è ancora più difficile. Senza possibilità di accedere a fonti di reddito che permettano loro di garantirsi la sussistenza, infatti, molte donne instaurano rapporti di convenienza più o meno espliciti con gli uomini della comunità, esponendo sé stesse e i loro figli al rischio di gravi violenze fisiche e psicologiche.

Da questo punto di vista, le storie qui raccolte di Célestine, Flor, Yvette, Anabel, Nora, Arielle e Liliane non costituiscono percorsi di vita eccezionali, selezionati tra i casi più estremi di esistenze marginali. Al contrario, sono fortemente rappresentative di esperienze assai diffuse e ricorrenti tra le donne che abitano il batey Ciguapa. Subire abusi infantili, essere impiegate in lavori domestici o agricoli sin dalla tenera età, affrontare gravidanze precoci, stabilire relazioni precarie con uomini generalmente attempati e spesso violenti, generare numerosi figli da molteplici partner, soffrire ripetuti abbandoni, intraprendere la strada della prostituzione e farsi carico unilateralmente della crescita e dell’educazione dei propri figli sono costanti trasversali nelle traiettorie di vita delle donne di questa comunità e dei bateyes in generale.

Lungi da queste biografie, tuttavia, è la pretesa di voler parlare a nome di tutte le donne che in ogni angolo del mondo sperimentano condizioni di vita simili. Nessuna velleità universalistica né tantomeno moralista è chiamata in causa. Le storie qui raccolte non intendono corroborare l’idea fortemente essenzialista di quella che la sociologa indiana Chandra Talpade Mohanty ha criticamente definito come “la donna del terzo mondo”, categoria ideologica costruita sulla base del semplice connubio tra classe e genere, quasi che l’universo femminile potesse ridursi a un’unica natura uguale per tutte le donne marginalizzate. Il tentativo, al contrario, è quello di decolonizzare l’immagine astratta della donna, a favore del suo riconoscimento come soggetto concreto e reale, dunque nella sua infinita molteplicità. Le voci di questo libro, perciò, raccontano e rappresentano unicamente se stesse. E non è poco.

Per lungo tempo – per troppo tempo -, infatti, le parole delle donne e di tutti quei soggetti che la Storia occidentale (e non solo) ha relegato a una posizione di marginalità subalterna, sono rimaste inascoltate, rimosse o negate dal discorso pubblico. Nel migliore dei casi, altre voci hanno talvolta pensato di potersi arrogare il diritto di parlare in loro nome, dimenticandosi o ignorando il fatto che quei soggetti non fossero – non sono! -muti, e che le loro parole hanno il potere di risuonare come tutte le altre. Semplicemente, andrebbero ascoltate. Così, nonostante le buone intenzioni, non si è fatto altro che perpetuare quella stessa violenza simbolica contro cui, paradossalmente, ci si ergeva a paladini.

L’antropologia è stata spesso complice e protagonista più o meno consapevole di questa perversione. L’ideale fondativo della disciplina, basato sul proposito di “cogliere il punto di vista del nativo” si è più volte infranto in connivenze neo-coloniali e paternalistiche che hanno proiettato sui nativi, qui intesi come l’Altro da sé, il punto di vista unico dell’osservatore. Quando ciò non è accaduto, il rischio del fraintendimento e della mistificazione – in buona o cattiva fede – ha fatto il resto. Non è un caso, dunque, se proprio un’antropologa come Laura Nader, già agli inizi degli anni ’70 del Novecento, sentì il bisogno di invitare i ricercatori a non occuparsi più, o almeno non solo, di soggetti marginali, poiché – come avrebbe ben sintetizzato Philippe Bourgois – “tutto ciò che direte sarà usato contro di loro”.

Ecco allora che questo libro, nell’offrire al lettore le testimonianze dirette di queste sette donne, a tutti gli effetti le vere autrici del volume che avete tra le mani, non intende occuparsi di loro né intende coglierne il loro presunto punto di vista e, soprattutto, non intende proporre alcuna interpretazione né alcun giudizio morale sulle loro scelte di vita. Più semplicemente, lascia che sia ciascuna di loro a esprimersi, a parlare, a raccontarsi, ciascuna con la sua voce, ciascuna con le sue parole. In qualche modo, avete tra le mani quella che Clifford Geertz, con irridente sarcasmo, avrebbe liquidato come “un’etnografia sulla stregoneria scritta da una strega”, ovvero un’auto-etnografia.

Le pagine che seguono, dunque, lasciano la parola alle protagoniste delle vicende che loro stesse raccontano, nel tentativo di rompere quel silenzio etnografico che gli Ardener, una celebre coppia di antropologi, aveva individuato come uno specifico “problema delle donne” all’interno dell’antropologia. Restituire la voce silenziata, qui, si traduce nel ricorso all’oralità biografica quale fonte diretta di uno specifico racconto di vita, pur nella consapevolezza che rendere pubbliche le storie intime e private di soggetti marginalizzati può costituire un’arma a doppio taglio, poiché espone quelle stesse vite al pericolo di letture stigmatizzanti, dove la responsabilità degli eventi fallimentari che inevitabilmente caratterizzano ogni esistenza viene imputata a condotte esclusivamente individuali. Lettura, questa, che si fonda su – ed è complice di – una concezione specificatamente neoliberista e imprenditoriale di agency perfettamente funzionale all’ideologia della vittima colpevole. Si tratta di una concezione, per dirla ancora una volta con le parole di Bourgois, che “trascura l’influsso esercitato dalla storia, dalla cultura e dalle strutture politico-economiche sulle biografie individuali” e che sorvola dunque su fattori estremamente significativi come l’accesso alle risorse o le discriminazioni di genere: violenze strutturali che si muovono, molto spesso, lungo direttrici di classe e razza.

Nelle storie che le protagoniste di questo libro raccontano, la linea di frontiera tra libera scelta e necessità appare il più delle volte assai sottile, confusa e mutevole. Forse, irrilevante. In questo senso non ci sono eroine o vittime: nessuno da acclamare e nessuno da salvare. Quale ruolo e quale definizione di agency, intesa come la facoltà di esprimere ed esercitare liberamente la propria personalità, possa ricondursi a ciascuna di loro resta una domanda aperta che interroga le nostre stesse esistenze, invitandoci a riflettere anche sulla nostra capacità di scelta quotidiana. Resta valido, dunque, l’appello dell’antropologa femminista Saba Mahmood a esplorare le diverse declinazioni culturali che il concetto di agency può assumere di volta in volta nei diversi contesti locali e nelle singole traiettorie di vita, così da riuscire a scoprirne accezioni forse per noi inconsuete o perfino paradossali. Di qui, secondo Mahmood, “potremmo pensare all’agency non solo come la capacità di attuare un cambiamento progressivo ma anche, soprattutto, come la capacità di sopportare, soffrire e resistere”.

Senza ombra di dubbio, Célestine, Flor, Yvette, Anabel, Nora, Arielle e Liliane sopportano, soffrono e resistono: “masticano e ingoiano”, per dirla con le parole di Liliane. Allo stesso tempo, però, sognano, desiderano, amano e lottano per rivendicare spazi di libertà, autonomia e dignità, per loro stesse e per i loro figli. Inoltre, lavorano, cantano, pregano e ballano. Ma soprattutto, di nuovo: parlano. E mentre parlano, piangono e ridono, mio malgrado, anche di me.

Le loro parole sembrano moltiplicarsi e riprodursi in ogni direzione, facendosi eco e intrecciandosi con le parole sospese di infinite altre storie rimaste inascoltate. Parole – e corpi! – cariche di senso, pregne di esistenza, che rivelano sacrifici, ferite e cicatrici. Ma anche orgoglio, conquiste e gioia. Parole solidali e liberatrici. Parole consapevoli e, per questo, rivoluzionarie.

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“Ci unisce lo stesso dolore”. Memoria e ricerca di vita nel collettivo Madri di Iguala in Cerca dei Desaparecidos https://www.carmillaonline.com/2020/08/25/ci-unisce-lo-stesso-dolore-memoria-e-ricerca-di-vita-nel-collettivo-madri-di-iguala-in-cerca-dei-desaparecidos/ Mon, 24 Aug 2020 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62394 di Fabrizio Lorusso, traduzione di Manuela Loi

[Pubblicato originariamente il 24 gennaio 2019 in spagnolo sui siti A dónde van los desaparecidos, l‘America Latina e Desinformémonos; testimonianze audiovisuali alla fine del testo]

Al 22 agosto 2020 i dati ufficiali del governo messicano mostravano la cifra di 74, 914 persone scomparse, vittime di sparizioni forzate commesse da autorità statali o da gruppi della criminalità organizzata. Negli ultimi dieci anni il Messico ha sperimentato una grave crisi di violenza e scomposizione del tessuto sociale nel contesto di una “guerra al [...]]]> di Fabrizio Lorusso, traduzione di Manuela Loi

[Pubblicato originariamente il 24 gennaio 2019 in spagnolo sui siti A dónde van los desaparecidos, l‘America Latina e Desinformémonos; testimonianze audiovisuali alla fine del testo]

Al 22 agosto 2020 i dati ufficiali del governo messicano mostravano la cifra di 74, 914 persone scomparse, vittime di sparizioni forzate commesse da autorità statali o da gruppi della criminalità organizzata. Negli ultimi dieci anni il Messico ha sperimentato una grave crisi di violenza e scomposizione del tessuto sociale nel contesto di una “guerra al narcotraffico” che dal 2006 in realtà rappresenta una forma di conflitto armato interno e di militarizzazione della sicurezza pubblica per favorire l’estrazione di risorse e il modello economico neoliberale e non una lotta del governo contro “i cartelli della droga”. Decine di collettivi di resistenza e lotta per la verità, la giustizia e la ricerca dei desaparecidos sono sorti in tutto il paese, soprattutto per iniziativa delle donne, madri, mogli, sorelle e solidali unite dallo stesso dolore e dalla ricerca in vita di persone scomparse, ma anche, in molti casi, semplicemente dei loro corpi o le loro ossa, e delle fosse clandestine in cui potrebbero trovarli. In questa realtà distopica, nell’inerzia delle autorità e di parte della società, pochi frammenti ossei e resti umani diventano tesori d’inestimabile valore per le famiglie distrutte dall’assenza. Questa è la storia di uno di loro.

Il collettivo Madres igualtecas en Busca de sus Desaparecidos (Madri di Iguala alla ricerca dei desaparecidos) è un gruppo formato nell’aprile 2018 a Iguala, Guerrero, composto da novantanove donne e quattro uomini che cercano i propri cari scomparsi. 

Il testo consiste in brevi interviste ai membri del gruppo su questioni come la ricerca e il ritrovamento, la memoria, un pensiero che è loro desiderio condividere, e il collettivo. Per questo reportage, concepito nell’ambito di un progetto di ricerca di storia orale patrocinato dalla Universidad Iberoamericana León (Messico), sedici persone hanno scavato nella loro memoria e portato la loro testimonianza. Piano piano, la loro lotta è riuscita a trasformare un dolore comune in un anelito collettivo di ricerca e in coscienza dei diritti che sono stati loro negati. Il dolore e la ricerca delle madri di Iguala e del Messico irrompono nello spazio pubblico e così facendo trascendono, vanno oltre il caso individuale, le cifre ufficiali e la solitudine, per diventare un patrimonio morale di tutta la società contro la paura e l’ingiustizia.

Ispirazioni

Questo lavoro si ispira a due progetti artistici e letterari che recentemente hanno contribuito a rendere visibili le storie delle vittime del conflitto armato in Messico, dando voce e parola a quelli/quelle senza voce in questo momento di nebbie e notti terribili.

Il primo è una mostra di scarpe sulle cui suole vengono incisi messaggi sui temi della “ricerca e il ritrovamento” e che diventano veicoli del pensiero e la memoria dei familiari che cercano i e le desaparecidas. Sono le loro scarpe che recano frasi di dolore, speranza e ricerca, consumate dai chilometri percorsi in manifestazioni, proteste, uffici, strade, deserti e infiniti corridoi burocratici. Ogni testo è riprodotto anche su un foglio con sfondo verde speranza e rappresenta senza mediazioni la volontà dei familiari. Si tratta di un progetto itinerante e collettivo chiamata Huellas de la memoria (Orme della memoria) e che, nelle sue vicissitudini attraverso vari continenti per tre anni, è diventato megafono e cassa di risonanza della lotta all’interno della una Campaña Internacional contra la Desaparición Forzada (Campagna Internazionale contro la Sparizione Forzata).

L’altra fonte d’ispirazione è il progetto Memorias de un Corazón Ausente (Memorie di un cuore assente), un libro di storie di vita dove alcune donne costruiscono la memoria dell’assenza dei propri cari di cui sono alla ricerca. Al di là della sparizione e del loro caso specifico, intessono narrazioni sulla vita, le passioni, i gusti, i ricordi e, infine, la presenza dei propri familiari. Nell’introduzione, Jorge Verástegui González, uno dei fondatori di Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Cohauila (Forze Unite per le Nostre Persone Scompare in Cohauila), descrive un concetto importante: quello della ricerca di vita, che aiuta a capire la comunità del dolore e della speranza che spinge alla lotta molti collettivi. Chi non c’è più ed è cercato, cioè, potrebbe essere o non essere in vita, ma in fin dei conti quello che motiva la ricerca è la vita in sé, sia nel suo significato materiale che spirituale. Ciò che si cerca è la vita e il ricongiungimento, in qualunque modo avvenga, per chiudere un “lutto sospeso”, un ciclo di dolore che ferisce profondamente non solo le vittime, ma tutta la società. La costruzione di narrazioni e significati alternativi da quelli generati dalle strutture dello Stato e dai mezzi di comunicazione di consumo immediato, con la loro inclinazione ufficialista, sensazionalista e spesso rivittimizzante, è uno dei compiti chiave del giornalismo di inchiesta, della storia orale e della storia del presente, approcci che guidano queste interviste.

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Testimonianze

Sandra

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Sandra Luz Román Jaimes ha 55 anni ed è di Iguala. Lotta contro un cancro e per ritrovare la figlia Ivette Melissa Flores Román, che ha oggi 25 anni ed è scomparsa il 24 ottobre 2012. Sandra accompagna nel cammino il nuovo collettivo costituito a Iguala lo scorso 15 aprile e che si chiama “Madres Igualtecas en Busca de sus Desaparecidos”.

Ricerca. Per me significa soddisfazione, lotta, ricerca della giustizia e della verità. Quando la cerco, per esempio nelle carovane di ricerca in vita, mi sento bene con me stessa perché non smetto mai di cercarla. Per me è un privilegio avere un’associazione che mi invita a cercare i desaparecidos. Non solamente cerco mia figlia ma anche altri mille desaparecidos perché posso ritrovare lei così come i figli delle mie compagne. Se non la cercassi, mi sentirei incompleta, come se non stessi facendo niente per scoprire la verità.

Quando usciamo a fare le ricerche per i campi o nelle fosse o nelle cliniche o all’ospedale o al Semefo (Servizio medico forense), uno sente il timore, la paura che dentro quelle fosse possa esserci lei. O che si trovi in qualche manicomio o che stia vagando per le strade di qualche città. Sì, sentiamo una tristezza infinita. Non solo io ma tutti quanti ci sentiamo tristi e incompleti, però allo stesso tempo sentiamo soddisfazione pensando che in futuro i nostri nipoti o i figli dei nostri cari desaparecidos potranno dire: “Quando qui nessuno cercava i desaparecidos  ed è scomparsa  mia mamma o una zia, la mia nonnina ha fatto parte di quel periodo nel quale hanno fondato il primo gruppo di “Los otros desaparecidos” e da lì, dalla sparizione forzata dei 43 studenti, la gente ha iniziato a cercare i proprio figli”.

Diventerà quasi una leggenda e rimarrà impressa per molti anni. Probabilmente io non sarò qui per vederlo ma diventerà qualcosa di molto simbolico. Simbolico persino in un senso “cattivo”, perché “chi avrebbe voluto che in quel periodo tutti i nostri figli sparissero?

E così nel 2012 sono state fatte sparire solo donne, mia figlia è di quel periodo nel quale si portavano via solo le ragazzine. O trovavano i ragazzi per strada per portarseli via senza meta. Adesso siamo nel 2018 e ancora non so dove si trovi mia figlia. Rimarrà impresso quel 26 settembre 2014, storico. Si sono formati molti collettivi. È la data chiave in cui la gente “ha perso la paura”. Per modo di dire, perché continua a esserci gente che ha paura, ma mi piace pensare che è stato allora che abbiamo perso la paura e abbiamo pensato che se i genitori dei 43 stavano portando avanti la loro lotta, allora anche noi dovevamo intraprendere la lotta e cercare i nostri figli.

Memoria. Mi ricordo di lei che mi diceva sempre: “Io non mi sposerò, sarò sempre single, e non ti mancherà mai niente, ti darò tutto io e non ti succederà niente”. Era mia figlia ad aiutarmi, mi ha incoraggiata ad andare avanti insieme, lavoravamo tutte e tre ecco. Ha preso il tesserino per studiare criminalistica, voleva diventare dottoressa in criminalistica. E manteneva sua figlia perché ha una bambina che adesso ha otto anni, ha un carattere forte. Vivo con lei. A causa della scomparsa di mia figlia mi sono ammalata di cancro al seno, è stato ormonale e benigno, anche se la Commissione Esecutiva per l’Attenzione alle Vittime dice che non esiste relazione con il fatto vittimizzante, in realtà lo è perché sei anni fa il cancro non ce l’avevo. Mi è toccato passare per la fase delle chemio e credo che la cosa sia arrivata alle orecchie del suocero di mia figlia e la bambina è venuta a cercarmi. Adesso è appena da settembre che convivo con la bambina e ho sempre paura perché la porto, la accompagno, e può darsi che stia rischiando molto, perché potrei anche non ritornare.

Pensiero. Dico a mia figlia che, ovunque sia, la ricorderò sempre con tanto affetto e, se è viva, le dico di andare avanti per la sua strada, di studiare, di non rovinarsi la vita facendo stupidaggini e di percorrere la strada del bene. Di chiedere aiuto a qualche associazione civile per poter uscire da dove si trova. E se non vive più, allora la porterò sempre nei miei ricordi, la sua vita e la sua immagine. E chiederò sempre giustizia per ciò che è successo.

Collettivo: Ci unisce lo stesso dolore, perché tutte andiamo nella stessa direzione, qui nessuno può camminare in un sentiero d’argento, una in quello d’oro e l’atra in quello di rame, cioè tutte seguiamo la stessa direzione e il dolore ci tiene unite. Adesso abbiamo un nuovo collettivo, trovo unione tra tutti i compagni e come collettivo l’idea è cercare verità e giustizia. Se tu cammini solo, non le troverai mai, invece come collettivo abbiamo il vantaggio di potere fare richieste al governo, perfino di chiudere un’istituzione o protestare quando non siamo d’accordo con iniziative che hanno preso per noi.

Trovo che le strade e gli ostacoli che ho incontrato sono serviti perché adesso gli altri del collettivo non devono passare per le stesse cose. Si impara gli uni dagli altri. Nel mio caso, ho imparato da sola prima della sparizione dei 43 studenti. Quando per esempio le istituzioni sono arrivate alla chiesa di San Gerardo, che è dove è stato fondato “Los otros desaparecidos de Iguala” (gli altri desaparecidos di Iguala”), io le conoscevo già e sapevo quali proposte avrebbero fatto come PGR (Procura Generale della Repubblica) o CEAV (Commissione Esecutiva di Assistenza alle Vittime), per esempio. Grazie alle operazioni con CEAV sono appena riuscita ad ottenere un appello a livello nazionale per negligenza del governo, perché non hanno mai cercato mia figlia né lo faranno, e allora saremo noi a doverli trovare.  La Commissione con il suo sostegno economico permette che continuiamo a muoverci in carovane, e anche grazie a questo ho potuto ottenere l’appello e il caso di mia figlia guadagna un gradino in più verso le istanze internazionali. Abbiamo vinto perché il giudice fa indagini nella delegazione Guerrero e controlla su quante persone ha fatto ricerche e quanti procedimenti ha aperto su di me: il risultato è che non ce n’é nessuno.  Neanche presso la Fiscalia de Busqueda de Desaparecidos (Procura per la Ricerca dei desaparecidos) della PGR di Città del Messico hanno trovato procedimenti.

Hanno trovato qualcosina, molto poco, alla SEIDO (Procura Specializzata in Delinquenza Organizzata). Allora, visto che non hanno indagato su nessuno e non mi hanno mandata a chiamare, le ho provate tutte in Messico e adesso mi rivolgo a istanze internazionali come l’ONU, che ha dichiarato il caso di mia figlia come “molto delicato”. E qui hanno ignorato la cosa, non mi hanno dato nemmeno un pulsante antipanico o protezione nel caso qualcuno volesse farmi del male. É molto delicato perché qualche tempo fa, lo scorso 31 ottobre, c’è stato uno scontro tra alcune persone ed è stata uccisa una persona che ha privato mio figlio della sua libertà. Dopo si sono sfogati e sono andati a uccidere un’intera famiglia e con questo spiego perché il caso di mia figlia non è un caso qualunque. All’inizio eravamo 15 e adesso ci sono 103 persone che fanno parte di “Los otros desaparecidos de Iguala”. Inoltre ci sono cinque nuove compagne che stanno per entrare ma ancora non hanno ancora fatto denunce. Per la maggior parte sono donne, è composto da 99 donne e 4 uomini: don Norberto, don Sirenio, don Rogelio e don Margarito. Lo scopo del gruppo è continuare la ricerca principalmente nelle fosse comuni. Però certo, anche la ricerca di persone in vita.

Tutte hanno una denuncia federale, dato che quando abbiamo fondato “Los otros desaparecidos” c’è stato molto lavoro in quelle denunce. Stiamo chiedendo al governatore che ci aiuti con l’affitto, mobilio o che trovi uno spazio per avere una sede, perché riunirsi nelle case o per strada non è l’ideale. Sembra che ci aiutino. Presto chiederemo una riunione per vedere i progressi. Abbiamo chiesto anche alla CEAV. Dovremo vedere anche con il Municipio. Abbiamo appena iniziato, siamo come bambini, un passo alla volta! Stiamo pensando di iniziare le ricerche, avevamo fissato una data per il 30 novembre, ma la PGR non l’ha confermata, forse perché finisce il sessennio e ci saranno cambiamenti. Dal 19 gennaio al primo febbraio parteciperemo alla IV Brigada Nacional de Busqueda de Personas Desaparecidas (Brigata Nazionale per la Ricerca di Persone Scomparse), come quelle che hanno fatto negli ultimi due anni in Veracruz o in Sinaloa. Noi Madri Igualteche parteciperemo, e questo serve per fare pressione e per dimostrare l’urgenza delle ricerche.  É uno sforzo congiunto di vari collettivi dello stato e del paese. Inizieremo a Huitzuco con Mario Vergara e il suo gruppo “Los otros buscadores”, dopodiché andremo a Taxco, Cocula, Chilpancingo, Teloloapan e altri paesi di tutto lo stato di Guerrero.

Prisca

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Prisca Arellano Rocha ha 63 anni, è originaria di Iguala e cerca i suoi nipoti, figli di una delle sorelle. Si tratta di Omar Basilio Arellano e Isidro Vázquez Arellano, scomparsi il 6 gennaio 2013 e il 16 febbraio 2013.

Ricerca. Per me significa una cosa molto importante perché sono i miei nipoti, ma è come se fossero i miei figli, ed è molto importante per me partecipare alle ricerche perché voglio avere loro notizie. Fino ad ora non ho saputo niente e vorrei che qualcosa succedesse al più presto, che li troviamo, comunque vada vogliamo loro notizie. Per noi è molto doloroso non sapere niente, viviamo ancora pensando a loro.

Memoria. Ciò che ricordo di più è che durante i giorni di dicembre, capodanno, passavamo molto tempo insieme e adesso non sono più con noi e ci fa tanto male. Come vorremmo che tornassero per stare insieme come facevamo prima! Erano brave persone, gente buona, molto intelligenti e grandi lavoratori, perché non vivevano con i soldi di altri, lavoravano molto bene e vivevano di questo.

Pensiero. Vorrei dire loro che gli voglio molto bene e che mi mancano tanto. Chiedo a Dio che possiamo di nuovo vederci presto, se Dio vuole. Speriamo in Dio che presto ci sia un ritrovamento, in qualunque modo, perché è ciò che speriamo.

Incontro. Sarebbe molto bello. Allo stesso tempo bello e triste perché se li ritroviamo vivi, bene! Magari Dio volesse così. Ma se le incontriamo senza vita, allora sarà triste per noi e il dolore non ci lascerà mai, il dolore resterà lì per sempre.

Collettivo. Per me è come una famiglia, perché sentiamo lo stesso dolore.

Margarito

Margarito Soriano Esusebio ha 81 anni, è di Atenango del Rio e risiede a Iguala da 60 anni. Cercava suo figlio, Mario Soriano Giles, da quando è stato vittima di sparizione forzata nel 2010. Lo ha trovato senza vita e il corpo gli è stato restituito nel luglio 2018 a Taxco, ma don Margarito continua le ricerche accompagnando il collettivo delle madri igualteche.

Ricerca.  Mi sentivo afflitto, triste, non ero contento. Mi preoccupavo molto. Mi ha addolorato molto la faccenda di mio figlio. L’ho cercato tanto. Camminavo per i monti. Sono andato nei campi per due anni, un po’ più di due anni. Ho smesso di andarci quando l’abbiamo trovato. Adesso faccio parte di un altro collettivo, mi invitano ad unirmi alle ricerche, sempre le stesse cose. Di defunti che non sono stati trovati, di desaparecidos, per vedere se si ottiene qualcosa.

Memoria. Lavorava con me, tutti e due facevamo i falegnami. Quando è scomparso, sono stato male, mi sono un po’ ammalato. Poi sono guarito. Mio figlio era un falegname come me. Parlavamo dei lavori che dovevamo fare, ci dicevamo prima come si doveva fare e lo realizzavamo solo quando lo avevamo bene in mente. Mio figlio era molto portato, forse più di me perché lui era giovane, era pieno di entusiasmo e riusciva a fare bene qualsiasi lavoro. Addirittura alcuni mi dicevano: “lo mandi a Città del Messico così impara di più”. Aveva 36 anni.

Pensiero. Allora, voglio solo dire che Dio lo abbia in gloria e a me conceda la rassegnazione per andare avanti con la mia vita.

Ritrovamento. A dire il vero ho sentito qualcosa che mi calmava perché ritrovarlo così non è lo stesso, certamente fa piacere, uno si sente contento, ma non è la stessa cosa, non è un vero e proprio piacere. Perché io l’avrei voluto vivo e non morto.

Collettivo. Allora, così come io sento io o sentivo che mio figlio non sarebbe tornato, così credo che anche gli altri si sentano allo stesso modo. É questo che mi unisce a loro, alla gente, così posso continuare a cercare insieme a loro, in loro compagnia.

Antonia

Antonia Torres Ortiz ha 53 anni e viene da Teloloapan. Cerca suo figlio Francesco Ocampo Torres. Erano tre le persone che cercava, ma due gliele hanno restituite morte: suo marito Francisco Ocampo Figueroa e Eric Ocampo Torres. Adesso chiedo che mi aiutino a ritrovare mio figlio Francisco.

Ricerca. Partecipare alle ricerche è qualcosa che mi nasce spontaneo. Se non mi muovo sento che non sto facendo niente per mio figlio. Così sto bene, anche se a volte sono triste, ma vi chiedo di aiutarmi trovarlo perché ha lasciato le sue tre bimbe. Ve lo chiedo perché mi avevano detto di averlo visto dalle parti di Cuernavaca. L’ho riferito al dott. Rivero della PGR, ha detto che sarebbe venuto da me ma non mi ha chiamata. Credo che ormai si sia dimenticato.

Memoria. Ricordo tante cose belle di mio figlio, così belle che se gliele racconto mi metto a piangere. Era un figlio molto bravo con me. Anche se si è sposato non si è mai allontanato da me. Ogni volta che andava a lavorare, anche quella mattina, è passato da me e mi ha detto: “Mamma esco, vado a lavorare”. Ed è stato l’ultimo giorno in cui l’ho visto perché nel pomeriggio sono venuti a Iguala e lui non è mai tornato. Vi chiedo di aiutarmi perché mi ha fatto molto male la perdita dei miei figli e di mio marito. Sono scomparsi insieme. Tornavano da Teloloapan a Iguala alle sette e mezza di sera. Mio figlio era ferito. Non abbiamo mai saputo chi è stato o cosa è successo.

Pensiero. Voglio dire che se mio figlio è vivo, che ritorni da me. Non gli chiederò niente di ciò che è successo. Se mi vedesse un giorno, che ritorni da me. Non gli chiederò mai niente, se è stato male per ciò che è successo a suo padre e a suo fratello. Ciò che voglio è che torni.

Collettivo. Ci unisce il fatto che qui tra tutte riusciamo a scacciare la tristezza, e così si superano poco a poco le cose. Ho dovuto abbandonare un altro collettivo e mi sono sentita triste, e avevo la speranza che un giorno ne nascesse un altro e così è stato. Sono tornata e adesso sto bene. Vengo anche se devo fare i salti mortali, a volte non ho neanche i soldi per l’autobus, io lavoro per il mio bambino e la mia bambina, perché ho anche un figlio di 15 anni e una figlia di 12. Quando mi chiamano qui, esserci è una necessità perché sento che avrò notizie di mio figlio.

Esperanza

Esperanza Rosales Segura ha 53 anni, è di Iguala e cerca suo figlio, Alejandro Moreno Rosales, e suo cugino, Marco Antonio Rosales Castrejón, dal 13 novembre 2009.

RicercaPer me vuol dire trovare mio figlio. Vorrei trovarlo, come si dice, “come Dio vuole”, cioè vivi o morti. Non sappiamo se sono morti, sono passati 9 anni e non sappiamo niente di loro. É la stessa cosa per il figlio di doña Tere, erano insieme. Sono scomparsi tutti e tre, erano amici.

Memoria. Andavano d’accordo, lavoravano, uscivano. Di mio figlio sinceramente ricordo quanto bene voleva a me e ai suoi fratelli. Era il sostegno della casa. Mio marito non c’è più perché è scappato con un’altra donna e siamo rimasti soli. Ho un bel ricordo perché voleva che non mancasse niente ai sui fratelli.

Pensiero. Vorrei dirgli che lo voglio trovare, che deve venire a trovarmi dovunque sia, ho bisogno di vederlo.

Ritrovamento. Sarebbe una grande gioia, poterlo rivedere.

Collettivo. Ci unisce il dolore. Siamo la stessa cosa. Ciò che io sento lo sentono le mie compagne. Ciò che fa male a me, fa male a loro. É questo ciò che ci unisce. Continuerò a cercare.

Teresa

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Teresa Rendón González,45 anni, è di Chilapa, risede a Iguala da 30 anni e cerca suo figlio, Pedro Chavarrieta, scomparso il 13 novembre 2009.

Ricerca. È fede, la speranza di ritrovarlo, come Dio me lo restituirà. Sua sarà l’ultima parola su come lo ritroverò. Voglio continuare a cercare finché avrò forza. Lo hanno portato via dal quartiere dove vivo e non ho più saputo niente, nessuno mi ha detto niente.

Memoria. Andavamo al lavoro assieme, lavoravamo nei campi, stava sempre con me. Non si era mai allontanato da me. Quando usciva e poi tornava a casa, mi abbracciava e mi dava un bacio. Diceva sempre che io ero la sua capa. Mi diceva:” capa ti voglio molto bene”, e che non mi avrebbe mai lasciata. Era molto legato a me, è cresciuto solo con me. Aveva 19 anni.

Pensiero. Gli voglio molto bene e continuerò a cercarlo. Tutta la famiglia lo aspetta a braccia aperte. Se Dio vuole che torni sulle sue gambe perché ormai è passato molto tempo.

Collettivo. Più che altro il dolore che tutte sentiamo, tutti siamo coinvolti nella ricerca. E a volte ci diciamo delle cose tra di noi perché ci fidiamo le une delle altre. Siamo unite, viviamo le stesse cose. Lo cercherò fino ad incontrarlo, che Dio mi dia la forza.

Sirenio e Ernestina

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Sirenio Ocampo de Jesus, di 68 anni, ed Ernestina Marino Luciano, 67, sono originari di Ocosingo e Copalillo, risiedono a Iguala e cercano il loro figlio Adelfo Ocampo Marino dal 13 luglio 2014

Ricerca
Ernestina. È perché gli voglio bene, non voglio fermarmi. Se lo vedeste da qualche parte, vi sarei molto grata se me lo diceste. Ho bisogno di rivederlo perché c’è qui sua moglie e le sue figlie che ormai sono delle signorine.

Sirenio. Significa trovarlo, sapere dove si trova. Vogliamo sapere dove l’hanno lasciato, se l’hanno sepolto. Non cerchiamo i “cattivi”, cerchiamo mio figlio. Dov’è? Ci pensiamo giorno e notte, preoccupati, al fatto che lo vogliamo trovare. Se qualcuno dovesse vederlo, ce lo faccia sapere.

Memoria.
Sirenio. Quando lavoravo con lui a volte mi diceva: “Vecchio, dai vieni, non vuoi qualcosa da bere?” Ricordo i momenti in cui chiacchieravo con lui, quando si sentiva triste e gli chiedevo perché. Gli dicevo: “Non ti preoccupare, è normale, non bisogna tenersi dentro cose passate”. Mi rendo conto che adesso non ho nessuno con cui vado d’accordo, qualcuno a cui raccontare la mia storia, che mi dica ciò che sente. Siamo diventati amici quando è cresciuto. Lavorava ed è triste pensarci adesso. A volte dormo un po’, mi sveglio e, ecco, vorrei vederlo. Quando era qui, andavamo a trovarlo a casa sua, se non venivano lui e mia nuora. Dopo tutto ciò che è successo quelle visite sono finite. Mia nuora non viene più. Invece di parlarne con noi, si è arrabbiata. Anche le mie nipotine. Però niente, gli voglio bene perché sono le mie nipoti.

Ernestina. Mi diceva:” A Natale vengo a prenderti”, e ci mandava a prendere. “voglio che passiamo il Natale qui, voglio che stiate con me”, diceva. Mi siedo qui fuori e penso che vorrei vederlo arrivare per passare un altro Natale insieme.

Pensiero

Ernestina. Ti voglio bene figlio mio, nessuno mi capisce, solo tu mi capivi, ti voglio molto bene. Come ti comportavi con me, mi abbracciavi, nessuno mi abbracciava come te, figlio mio. Ti voglio bene.
Sirenio. Se lui si trova lì fuori, e ci sta ascoltando. Vorrei che ci dicesse che sta bene. Vogliamo solo sapere, io vorrei che stesse bene, felice. Se è vivo, che ci chiami. Se è vivo o no lo sa solo lui. Se è lì fuori, che si metta in contatto con noi. Questo è tutto ciò che voglio dire.

Sofía y Evarista

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Sofia Sanchez Salgado, 51 anni, e Evarista Salgado Olivares, sua madre di 73, sono di Iguala e cercano un fratello e un figlio di Sofia, dal 25 gennaio 2010. Suo fratello si chiama Luis Fidel Sanchez Salgado e suo figlio Santiago Velázquez Sanchez. Sono andati a fare benzina qui a Iguala, vicino alla scuola, all’Istituto Tecnico, e lì sono scomparsi.

Ricerca

Evarista. Che mio figlio torni e rimanga con me. Se sta lavorando, se c’è qulacuno che lo conosce, allora che me lo dica, che si mettano in contatto con noi, anche per mezzo della televisione. Voglio che torni. Io non posso vivere senza di lui ed è per questo che lo cerco. É già passato molto tempo, sono molti anni che non vedo né lui né mio nipote. Non mi dimentico di mio figlio. Quando uscivo a cercarlo sentivo che lo avrei trovato lì, o che mi avrebbero detto “Guardi, qui c’è suo figlio”.

Sofia. Che il governo ci aiuti a trovarli, ovunque si trovino. Perché veda quanti corpi hanno già trovato e di loro non si sa niente. A cosa serve fare la prova del DNA alle famiglie? Qualsiasi informazione abbiano, ce la diano. Abbiamo cercato molto in gruppo, percorrendo monti, nonostante la paura e la tristezza che sentiamo.

Memoria

Evarista.  A mio figlio piacevano molto i chilaquiles, con una salsina di peperoncino e uova. E i fagioli. A mio nipote piacevano le enchiladas, le chalupitas, tutte queste cose qua, le tortillas fatte a mano.

Sofia. Mio figlio era tranquillo, gli piaceva giocare a calcio. Lavorava sodo. L’ultima volta, quando è scomparso mi ha chiesto di preparargli delle enchiladas e di aspettarlo, mi ha detto che andava a fare benzina con lo zio. Gliele ho preparate, ma non è più tornato. Mio fratello lavorava, era appena stato dalla sua fidanzata, poi sono andati via e non sono più tornati.

Pensiero

Evarista. Direi loro di tornare, che li stiamo cercando. A volte non riesco a dormire perché penso a come stanno, dove sono, se hanno mangiato o no. É ciò che vorrei dirgli.

Sofia. Che tornino, che ci dicano che stanno bene. Noi continuiamo ad aspettarli, ci mancate. Tornate a casa.

Ritrovamento

Evarista. Ho la sensazione che mi diranno che hanno trovato mio figlio. Che lo riporteranno. A volte ho la sensazione che potrò riposare, ma dopo un po’ questa sensazione non c’è più.

Collettivo

Sofia. Ci si sente più tranquille con il sostegno di tutte le compagne.

Leonor

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Leonor Contreras. Ha 39 anni, è di Iguala ed è alla ricerca di Antonio Ivan Contreras, suo fratello, vittima di sparizione forzata il 13 ottobre 2012, quando aveva 28 anni.

Ricerca. Bè, riuscire a trovarlo un giorno, almeno avere un posto dove portargli i fiori, o almeno sapere dove si trova.  Sono stati mio padre, Guadalupe, e i miei fratelli che lo hanno cercato. Mio padre è andato a Veracruz ad aiutare il collettivo Solecito. Io mi sono unita alle Madres Igualtecas. Mia cognata, moglie di mio fratello, è rimasta nel collettivo Los otros desaparecidos.

Memoria. Sono molti i ricordi e i dettagli. Lui con me era molto affettuoso, perché comunque io sono la sorella maggiore, mi prendevo cura di loro da quando erano piccoli. Quando tornava a casa si sedeva sempre sulle mie gambe, mi parlava come se fossi la mamma, mi diceva sempre che mi voleva molto bene. Mi dimostrava il suo affetto, sempre sempre.

Pensiero. Voglio che sappia che gli voglio molto bene. Sarà nel mio cuore per sempre e spero di trovarlo un giorno, comunque sia. Continuerò a cercarlo.

Collettivo. Il dolore è ciò che ci unisce. Il dolore. Ma anche sapere che come collettivo possiamo continuare le ricerche e magari non troveremo il nostro familiare ma possiamo trovarne altri che non hanno ancora trovato. É solidarietà

Alfonsa

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Alfonsa Cecilio Agapito 63 anni, originaria di San Miguel Tecuisiapan, risiede a Iguala e cerca suo figlio, Alfonso Cardoso Cecilio, 31 anni, scomparso il 30 aprile 2013.

Ricerca. Partecipo alle ricerche perché non sono soddisfatta, perché per me è molto stressante non sapere in quale posto sia finito. É molto importante perché si tratta di mio figlio. Sono andata a fare molte ricerche per i monti. Quando partecipo alle ricerche ho la speranza di ritrovare il suo corpo, di potergli dare una sepoltura come si deve. Mi sento bene quando lo cerco perché c’è una speranza, magari è sepolto lì da qualche parte. Le autorità ci ignorano. Sono già andata alla PGR di Città del Messico e ho riferito qualcosa più o meno, gli ho detto di contattarmi e gli ho dato degli indizi. Loro pretendono che uno si metta a indagare e questo non va bene perché ci si espone al pericolo. Allora ho chiesto di fare delle indagini, ma niente. Vado lì un’altra volta e mi dicono che non hanno indagato che però lo faranno, Si immagini, sono già cinque anni che non so nulla di mio figlio. Nessun risultato per me.

Memoria. Voglio far sapere che mio figlio, che era il più piccolo, era molto buono e affettuoso. Passavo molto tempo con lui. Ci sentivamo bene quando andavo a trovarlo o lui veniva da me. La verità è che mi fa molto male non sapere che ne è stato di lui. Vorrei che qualcuno mi dicesse come è successo. Anche se io ho detto al Dott. Rivera della PGR chi è stato a portarlo via, continuano a dire no, no, no”. Non so se sono in combutta con loro, chi lo sa. Mio figlio era una persona molto bella quando passavamo del tempo insieme, mi conforta ricordarmene.

Pensiero. Gli voglio dire che lo aspetto con ansia, se Dio vuole. Io l’ho messo nelle mani di Dio e lui saprà cosa fare. Speriamo. Se è vivo, benissimo, per sarà una gioia infinita. Perché mio figlio ha lasciato una bimba, aveva 6 anni quando me l’ha lasciata e adesso ne ha 12. Gli vogliamo molto bene, lo aspettiamo. Se torna saremo felici. E se no, che Dio me lo riporti così com’è ma ciò che più gli chiedo è che me lo riporti vivo.

Collettivo. Ho fatto parte di un gruppo da quando sono nati “Los otros desaparecidos”, in seguito alla scomparsa dei 43, quando ci riunivamo nella chiesa di San Gerardo. Ci unisce il fatto che sentiamo lo stesso dolore, noi che siamo qui come “Madres Igualtecas” siamo parte della stessa “sorellanza” per il dolore che sentiamo per la scomparsa dei nostri figli. Sento che ci aiutiamo come una famiglia, perché così come io soffro, soffrono anche loro.

Cleotilde

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Cleotilde Juarez Adame, 53 anni, originaria di Paraíso, nello stato di Guerrero, vive a Iguala da 35 anni e cerca suo figlio, Julio Alberto Salgado Juarez, dal 2011, scomparso quando aveva 26 anni.

Ricerca. Significa molto. Troverò mio figlio. Mi fa stare bene cercarlo, è un modo per sentirmi vicina a lui.

Memoria. Ricordo quando mi invitava a pranzo fuori, andavamo ad Acapulco. Ci portava lui. Tante cose, ho molti ricordi. A volte andavamo anche alle feste.

Pensiero. Voglio dirgli che gli voglio molto bene, lo amo e mi auguro di cuore di ritrovarlo, baciarlo e dirgli che lo aspettiamo a braccia aperte.

Collettivo. Trovo che noi madri e mogli siamo unite dallo stesso dolore. Siamo unite, ci incoraggiamo a vicenda e continuiamo a cercare i nostri familiari. Non ci sentiamo più così sole, così abbandonate.

Berta

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Berta Moreno Garcia ha 51 anni, è di Iguala e cerca José Manuel Cruz Moreno, suo figlio, scomparso il 2 gennaio 2009, all’età di 22 anni.

Ricerca. Significa tanto perché lo stiamo cercando, lo cerchiamo per i monti, o dove ci dicono di andare, con l’illusione di trovarlo dovunque si trovi. Il mio figlio più piccolo adesso ha 12 anni, ma quando abbiamo partecipato alle altre ricerche ne aveva 8 e veniva sempre con noi.

Memoria. Ricordo tutto. Quanto amava stare con la sua bambina e con tutti noi, ma poi non è più stato possibile. La bimba adesso ha 8 anni. Mio figlio ha un carattere calmo, non si arrabbia facilmente, è affettuoso ed è una brava persona. Gli piace quando ci abbracciamo, giocare a calcio con i suoi fratelli.

Pensiero. Voglio dirgli che lo aspettiamo. Che lo stiamo cercando e che la sua famiglia ha bisogno di lui. Vogliamo che torni a casa, vogliamo trovarlo. Finché avremo vita continueremo a cercarlo e se dovessi venire a mancare io, allora continueranno i miei figli.

Collettivo. Sentiamo lo stesso dolore, siamo uguali, e siamo in poche che facciamo le ricerche sul campo. Mi sembra che siamo più unite perché andiamo a fare le ricerche, attraversiamo monti o e altri posti. E non temiamo nessun pericolo, nessuno, non ci importa più niente, perché ci accompagna la speranza che forse possiamo trovarlo dentro qualche grotta, no? Non importa se non è mio figlio, se è il figlio di un’altra compagna è lo stesso, noi saremo lì.

Rogelio

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Rogelio Mastache Villalobos, 60 anni, è di Iguala e cercava suo figlio, Aldo Mastache Gonzaga, che aveva 28 anni quando è stato vittima di sparizione forzata, il 23 settembre2014. É stato trovato e sepolto il 3 agosto 2001. Rogelio parla e al suo fianco c’è un bambino, l’altro figlio. É entrato a far parte del collettivo Los otros desaparecidos de Iguala all’inizio del dicembre 2014., quando si era appena formato, e adesso fa parte del gruppo Madres Igualtecas en busca de sus Desaparecidos.

Ricerca. Partecipavospesso alle ricerche con gli altri compagni, ci riunivamo, pianificavamo le ricerche e andavamo verso i campi. Significava molto, significava cercare mio figlio e trovarlo. Lo abbiamo trovato qui a Iguala in un terreno pianeggiante di 10 ettari coltivato, nella parte bassa della montagna chiamata Cerro Gordo. In questo terreno ci sono appezzamenti con diversi nomi, in quello che si chiama “La Parota” abbiamo trovato mio figlio. Aveva 18 anni quando è scomparso.

Ritrovamento. Ho provato una brutta sensazione perché io lo volevo trovare vivo, volevo che riapparisse vivo. Ad ogni modo ringrazio Dio che me lo ha riportato, anche se è morto. Per me significa comunque tanto avere il suo corpo e potergli dare sepoltura, riaverlo qui con me. Anche se è sepolto in un cimitero, ma so che è lì e posso portargli fiori quando voglio perché so dove si trova. Posso riposare mentalmente perché è una vera angoscia pensare continuamente se tuo figlio è vivo o morto. Ritrovarlo ha significato tanto per me.

Pensiero. Gli direi “Figlio mio, mi dispiace tanto per ciò che ti è successo, non so cosa tu abbia fatto, ma spero che adesso tu sia con Dio”. Mio figlio non ha mai avuto cattive frequentazioni, è stata una vittima tra le tante, esseri innocenti che sono stati uccisi.  Mi sono fatto un’idea, dopo alcune ricerche, di quello che è successo. Se abbiamo capito come sono andate le cose, lo hanno portato via con la forza. Sono state tre o quattro persone a portarlo via con violenza. Molta gente lo ha visto e ci sono molti testimoni che hanno visto quando lo hanno caricato e portato via in un furgone. È stata la mafia, in quel momento governava quel disgraziato di Jose Luis Abarca. Era la mafia che operava in quel momento e aveva il patrocinio, il sostegno del governo municipale.

Memoria. Era un ragazzo responsabile con la sua fidanzata, per me era un bravo figlio che cercava di farsi strada nella vita con il suo lavoro. Aveva un bambino e un’altra bambina, i suoi figli. Uno, da padre, cerca di aiutare i figli. Gli piaceva molto giocare a biliardo. È uno sport sano, sempre che non si beva, e anche a me piace molto. I nostri gusti erano simili e anche io ero mentalmente simile a lui.

Collettivo. La cosa più importante che ci unisce è andare alla ricerca dei nostri cari. Soprattutto ci sono molti compagni che ancora non hanno trovato il loro familiare. Allora l’obiettivo è continuare a cercare. Io l’ho trovato ma ci sono ancora tutti gli altri. Un’ altra cosa importante è lottare per i nostri diritti. Grazie a Dio il governo ha emanato varie leggi che ci proteggono come vittime, come la General de Victimas (Legge Generale delle Vittime, in vigore dal 2013) e quella di Desaparición Forzada y por Particulares (Sparizione Forzata e Commessa da Privati, previste dalla Legge Generale messicana sulla materia)e in questo senso il governo ci sta dando una mano. Abbiamo perso un familiare e perciò la sua famiglia, sua moglie e le sue figlie, si ritrova senza il suo aiuto. Grazie a queste leggi riceviamo un aiuto alimentare o per l’affitto, questi sono i nostri diritti.

Norberto

Madres Igualtecas Messico desaparecidos

Norberto Jimenez Roman, 58 anni, fa il contadino ed è originario di Tlaltizapan, Morelos, residente a Mezcala, nello stato di Guerrero, da quando aveva un anno, ed è alla ricerca di suo figlio, Norberto Jiminez Heredia, vittima di sparizione forzata il 13 gennaio 2010, quando aveva 20 anni.

Ricerca. L’ho sempre cercato per tutto questo tempo. La ricerca è qualcosa che ti dà coraggio, sul serio. Perché al contempo stai lottando e puoi trovare il tesoro che più cerchi, ecco. Per me significa tanto.

Memoria. Ricordo quando studiava a Cuernavca ed è venuto a trovarmi a Mezcala, per una festa. Veniva ogni anno, ma quella volta erano già due anni che non riusciva a venire e poi è arrivato. Io ero nel recinto dei tori a abbiamo cenato assieme.  É rimasto tutto il giorno, un lunedì mi sembra. Il giorno dopo è andato a fare un giro a Chilpancingo e dopo è tornato qui a Iguala e gliene sono capitate di brutte. Possiamo dire che è venuto proprio per farsi portare via, non era neppure a Mezcala. Studiava meccanica, doveva farsi 3 anni di studio. Non era una testa calda, più o meno tranquillo il mio ragazzo. Non andava in giro a cercare guai. Gli ho sempre detto che uno deve essere sempre tranquillo e rispettare gli alti se vuole essere rispettato.

Pensiero. Se sta bene, ovunque lo tengano, se ha commesso qualche errore o lo hanno messo a lavorare, voglio solo che si prendano cura di lui. Cos’altro posso dirgli? Che si ricordino che hanno anche loro una famiglia e se un giorno toccherà a loro, credo che sentiranno le stesse cose. Se Dio vuole, finché avrò vita e forze continuerò a cercarlo.

Collettivo. Sono l’amicizia e il dolore che tutti sentiamo. La mia vita è cambiata. Per me è come se qui avessi trovato dei fratelli perché ci unisce lo stesso dolore.

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Testimonianze audiovisuali:

Video con alcune testimonianze dei familiari di Madres Igualtecas:

Video con interviste e documentazione di una ricerca in fosse clandestine del collettivo Madres Igualtecas della regione di Guerrero, città di Huitzuco

 
Leggi anche: Fabrizio Lorusso, “Nos une el mismo dolor.” Narrative, lutto e ricerca di vita nel collettivo de “Los otros desaparecidos de Iguala”, Letterature d’America (La Sapienza, Università di Roma), n. 173, anno XXXIX, 2019 (Bulzoni Editore, ISSN 1125-1743), pp. 85-103 (volume della rivista dedicato a «La Morte nella letteratura e cultura in Messico» link
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Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino di Osvaldo Bayer https://www.carmillaonline.com/2020/08/08/futbol-una-storia-sociale-del-calcio-argentino-di-osvaldo-bayer/ Fri, 07 Aug 2020 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61549 [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai [...]]]> [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai tempi delle ricerche di Adolfo Saldías nessun altro ha saputo far vibrare corde così profonde come Bayer con le sue ricerche storiche dedicate agli episodi più dolorosi e nascosti del ventesimo secolo. I suoi quattro volumi sul movimento libertario della Patagonia, soffocato nel sangue nel 1921, hanno scosso la timida storiografia ar-gentina e costituiscono uno dei pochi classici degli studi storici del nostro paese. La Patagonia rebelde (Elèuthera, 2009) è l’opera più popolare mai pubblicata sul movimento operaio argentino. Un libro che gli è valso la persecuzione, l’esilio, l’isolamento e difficoltà giudiziarie. Eppure gli ha anche dato una soddisfazione: quella di aver messo davanti agli occhi di tutti la verità sulla feroce repressione patita dai lavoratori rurali che cercavano di organizzarsi per resistere allo sfruttamento feudale nei grandi latifondi del sud.

Bayer ha poi pubblicato decine di testi rimasti quasi segreti. Ma il suo minuzioso lavoro su Severino Di Giovanni, l’anarchico fucilato nel 1931, ha segnato un’epoca, sollevando il dilemma del periodo precedente agli anni Trenta, ossia il Decennio infame: è lecita la violenza individuale di fronte all’ingiustizia sociale? È possibile che oggi, alla luce di tanti drammi e sconfitte, si risponda di no, o perlomeno che il risultato di quella violenza sia discutibile. Eppure la storia di Di Giovanni illumina un momento cruciale di questo paese, quello della nascita e dello sviluppo della classe operaia internazionalista assieme alla sua prima grande sconfitta in Argentina.

Per quanto possa sembrare strano le preoccupazioni sociali sono presenti anche nel libro di Bayer dedicato al calcio, questa passione all’apparenza innocente. La storia dei club dei quartieri periferici, tipicamente rioplatense, va oltre i grandi episodi del calcio. Come sono nate queste associazioni «atletiche e sportive», che oggi solo a sentirle nominare non evocano nient’altro che un tuffo al cuore per questioni di tifo? Da dove viene il nome di squadre come Independiente, San Lorenzo, Argentinos Juniors, Chacarita, Boca, El Porvenir e River? Perché hanno scelto proprio certi colori, di cui oggi non comprendiamo il significato, o che ormai sono devastati dalle etichette degli sponsor? E ancora: le loro tifoserie riflettono differenti strati sociali? Le figure più importanti di quei club da dove venivano? E che traiettoria hanno compiuto?

Qui c’è tutto quel che sappiamo sul calcio argentino e sui suoi momenti indimenticabili. Lo storico della Patagonia rebelde entra in campo e gioca con i vecchi campioni, rivive la propria infanzia, le passeggiate della domenica, la rivista Alumni e il sapore della frutta secca caramellata. Prima della pubblicazione, questo manoscritto è stato la base per un documentario dal titolo omonimo, Fútbol argentino, arrivato sugli schermi nell’aprile del 1990. Ma il testo – impegnato, appassionato come tutte le opere di Bayer – si spinge più in avanti del film nell’analisi dei fatti che hanno marcato per sempre questo povero paese: colpi di stato, rivolte, scioperi – anche dei calciatori –, una guerra con la Gran Bretagna… tutto questo si riflette nel calcio e i suoi protagonisti più lucidi lo dicono chiaramente analizzando quegli eventi.

Serviva un bel libro sul calcio argentino e finalmente ce l’abbiamo. Osvaldo Bayer conosce la mia passione, nient’affatto segreta, per i campi di calcio, soprattutto per uno che purtroppo non esiste più, quello del Gasometro di Boedo. E tra di noi abbiamo parlato molto di fútbol, un argomento che in genere non interessa molto ai letterati (anche se ci sono alcuni trasgressori, da Roberto Arlt a Santoro, fino a Fontanarrosa e Carlos Ares).

Questo libro non è solo per gli appassionati di calcio, ma anche per chi studia i movimenti sociali nati in Argentina negli anni delle “vacche grasse”. Non è un altro Bayer quello che scrive di calcio. È lo stesso che si è impegnato, con la vita e con le opere, affinché gli argentini conoscano la verità storica, che spesso è stata deformata e decontestualizzata. Non mi sorprende che nel suo lavoro storico Bayer si occupi di Varallo, Di Stéfano, Sívori, Pipo Rossi, Sanfilippo e Maradona. Albert Camus, l’autore de La peste e de Lo straniero, era stato il portiere dell’Algeri. Diceva che il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita. È possibile. Per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita. Bayer ci parla di questo. E di alcune cose in piú.

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Estrattivismo pandemico/2 https://www.carmillaonline.com/2020/07/30/estrattivismo-pandemico-2/ Thu, 30 Jul 2020 03:25:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61808 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

“Il massacro al villaggio ikoots di San Mateo del Mar non è il risultato di un conflitto interno o post elettorale, così come lo considera il presidente Andrés Manuel López Obrador, ma ha alla sua origine il rifiuto da parte delle assemblee comunitarie dei megaprogetti connessi al canale interoceanico, e mette in evidenza gli interessi di persone e gruppi che aspirano a convertirsi nei capataz locali  prima di questa nuova conquista” (Preparatoria Comunitaria José Martì).

La strage [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

“Il massacro al villaggio ikoots di San Mateo del Mar non è il risultato di un conflitto interno o post elettorale, così come lo considera il presidente Andrés Manuel López Obrador, ma ha alla sua origine il rifiuto da parte delle assemblee comunitarie dei megaprogetti connessi al canale interoceanico, e mette in evidenza gli interessi di persone e gruppi che aspirano a convertirsi nei capataz locali  prima di questa nuova conquista” (Preparatoria Comunitaria José Martì).

La strage di San Mateo de Mar mette a nudo la vacuità delle retoriche sulla ‘quarta trasformazione’, il cambiamento radicale proclamato da López Obrador che tanto entusiasmo aveva generato nella sinistra messicana e internazionale, e che prometteva di farla finita con la corruzione e l’impunità, oltre che di attuare una politica di lotta alle disuguaglianze attraverso il ripristino del ruolo interventista e redistributivo dello Stato, in discontinuità con le politiche neoliberiste dei predecessori.
Una discontinuità promessa nel nome di un nazionalismo interclassista che pretende di coniugare la lotta alla povertà con l’aumento dei profitti e degli investimenti, secondo una narrazione che identifica la causa della miseria nella ‘assenza di sviluppo’ e la soluzione nel più classico ‘desarrollismo’.
E’ in nome dello sviluppo, della creazione di posti di lavoro, della redistribuzione della ricchezza, e addirittura del ‘rispetto del medio-ambiente’ (!)1, che il governo messicano si appresta alla distruzione delle condizioni di riproduzione economica, sociale e culturale delle comunità investite dai megaprogetti del Tren Maya e del Corridoio Transistmico, prefigurando per loro un futuro di marginalità e sfruttamento salariato nelle maquiladoras e nel turismo di massa, e riproducendo, fra l’altro, le condizioni per il dilagare di quella corruzione, impunità e violenza che la retorica moralizzatrice della ‘quarta trasformazione’ si proponeva di combattere.

A proposito di impunità, attualmente, a un mese dell’eccidio di San Mateo del Mar, i funzionari e i dipendenti pubblici ritenuti responsabili della strage non sono stati nemmeno sollevati dall’incarico, e i familiari delle vittime hanno richiesto l’apertura di un’inchiesta da parte della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH), mostrando evidentemente poca fiducia nella giustizia messicana.

Oltre all’uccisione dei quindici militanti Ikoots nell’Oaxaca, la quarantena ha favorito in tutto il Messico gli assassini di altri attivisti per la difesa ambientale, come quello di Isaac Medardo Herrera, storico difensore delle riserve naturali contro la speculazione edilizia, ucciso da un gruppo armato in casa sua, nello stato di Morelos, seguito da Juan Zamarrón, militante contro la deforestazione nella municipalità di Bocoyna (Chihuahua), ammazzato a domicilio assieme a due suoi familiari.
L’otto aprile è stato il turno di Adán Vez Lira, creatore di un importante progetto di ecoturismo comunitario nel villaggio di  La Mancha (Actopan , Veracruz), su una laguna che rappresenta uno dei luoghi di sosta degli uccelli migratori più importanti del mondo. Assieme alla sua gente si era opposto all’assedio delle imprese minerarie, che premono per l’introduzione ad Actopan dell’estrazione  a cielo aperto.
I sicari non si sono fermati nemmeno di fronte ai ragazzini, con l’omicidio a San Agustin Loxicha (Oaxaca) di Eugui Roy, 21 anni, studente di biologia, divulgatore scientifico e militante ambientalista.
Nomi di compagni che quasi si perdono nel conto complessivo dei morti ammazzati  nel paese che hanno raggiunto il record di quota 17.982 solo nei primi sei mesi di quest’anno.

Scendendo dal Messico al Cono Sur, è la Colombia a detenere il primato delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali, in un contesto dove gli accordi di pace fra il governo colombiano e le FARC, ratificati all’Avana il 23 giugno 2016, non hanno affatto rimosso le ragioni sociali che avevano dato origine alla guerriglia.
La smobilitazione delle FARC dai territori sotto il loro controllo lascia il campo libero alla penetrazione di interessi estrattivi, alla crescita di egemonia dei cartelli, all’imperversare di gruppi paramilitari di ultradestra (che a differenza delle FARC non hanno smobilitato) e di bande criminali di ogni tipo, esercito compreso.
Per quanto spesso in violenta frizione con le popolazioni locali, le FARC avevano perlomeno avuto, in questo senso, una funzione deterrente.
Dal 2016, la ‘pace’ seguita agli accordi ha per ora lasciato in terra circa un migliaio fra ex guerriglieri tornati alla vita civile e leader sociali, abbattuti con omicidi selettivi.
Nel 2020 sono stati assassinati, oltre a 36 ex guerriglieri, 179 fra militanti indigeni, contadini, sindacalisti e ambientalisti e loro familiari.
Succede in un paese dove non basta nemmeno la copertura come collaboratore ONU a salvarti la vita, come dimostra l’uccisione del cooperante italiano Mario Paciolla del 15 luglio scorso, per le autorità colombiane ufficialmente vittima di un suicidio a cui nessuno crede2.

Quest’anno gli omicidi mirati dei militanti in Colombia sono cresciuti a un ritmo quasi doppio rispetto agli anni scorsi3, e 108 sono stati portati a termine dall’inizio della quarantena.
Per Carlos Medina Gallego, docente della Universidad Nacional de Colombia, in questa escalation è palese la connivenza dello Stato con i gruppi paramilitari, la partecipazione frequente alle violenze di membri delle forze armate, le azioni e le omissioni di alti funzionari, e la responsabilità del governo di ultradestra di Iván Duque4.

Carlos Medina segnala come circa il 70% degli omicidi dei leader sociali siano connessi ai conflitti agrari o ambientali, e circa il 10% alle eradicazione forzate da parte della forza pubblica delle coltivazioni di coca delle comunità indigene e contadine.
Eradicazioni attuate in violazione degli accordi di pace del 2016, che prevedevano il sostegno ad un processo di sostituzione volontaria delle colture, fonte di sostentamento di migliaia di persone nelle campagne.
L’ultimo caduto in questo tipo di conflitto è stato il contadino quindicenne José Oliver Maya Goyes, appartenente al popolo Awà, ucciso il 20 luglio dalla Policía Nacional Antinarcóticos durante un’eradicazione forzata a Putumayo.
Non pago dell’omicidio di minorenni e in spregio agli accordi di pace, il governo Duque sta lavorando per riattivare le fumigazioni aeree di glifosato sulle coltivazioni di coca, vietate dal 2015 per le conseguenze devastanti sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni rurali, dimostrate dagli studi dell’OMS.

Sul fronte antiminerario, va ricordata la morte violenta del sociólogo colombiano Jorge Enrique Oramas, ucciso il 16 maggio scorso, conosciuto per la sua instancabile attività nella difesa dell’agricoltura contadina e contro l’agrochimica.
Difensore della biodiversità è stato un irriducibile oppositore dei tentativi di sfruttamento minerario del Parco nazionale dei Farallones di Cali.

Se l’attacco ai difensori della terra in Colombia si articola in centinaia di singoli agguati, Jair Bolsonaro in Brasile ha deciso di fare molto di più.
Non perché in Brasile si disdegnino gli assassini mirati, anzi.
Il 31 marzo nello stato amazzonico del Maranhão è stato ammazzato Zezico Rodrigues Guajajara, coordinatore della Commissione dei capi indigeni e promotore dei Guardiani della Foresta, un gruppo di 120 volontari a protezione del territorio di Araribóia dal disboscamento e dal commercio illegale di legname.
Negli ultimi due mesi del 2019 erano già caduti Paulo Paulino Guajajara, precedente portavoce dei Guardiani della Foresta, ed altri tre indigeni Guajajara, due capivillaggio e un ragazzino (squartato), uccisi in uno stato, il Maranhão, dove la copertura forestale è stata più che dimezzata negli ultimi quattro anni5.
A livello complessivo la situazione non va meglio: tra gennaio e giugno 2020 sono stati perduti oltre tremila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, con un incremento del 25% rispetto al già disastroso 2019.

In maggio Bolsonaro ha deciso di fermare gli incendi schierando l’esercito nelle foreste, e destinandogli un budget 10 volte superiore a quello dell’Ibama, l’Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais deputato a questo tipo di lavoro6.
I risultati della militarizzazione “ambientalista” si vedono: nel solo mese di giugno 2020 nella foresta amazzonica sono stati registrati oltre 2.248 incendi, il 19,5% in più rispetto allo stesso mese dell’anno scorso7.

Le esecuzioni, la deforestazione e gli incendi sono la cifra della pressione esercitata sull’Amazzonia per trasformarla in una distesa per le coltivazioni intensive della soia, pascoli per la produzione di carne, campi di estrazione mineraria e petrolifera, e per imporre megaprogetti idroelettrici ai suoi grandi fiumi.
E’ il sogno di Bolsonaro e del blocco di potere da lui rappresentato, che trova ostacolo nella resistenza delle popolazioni indigene, già accusate dal presidente di voler impedire il progresso e di rappresentare una minaccia per la sovranità nazionale.
Un ostacolo da abbattere non più solo tramite la condiscendenza verso le uccisioni mirate, ma direttamente con il genocidio, usando il coronavirus.

In una recente lettera aperta, il teologo Frei Betto ha identificato nella determinazione di Bolsonaro nel sabotare l’attuazione delle misure per l’emergenza covid la volontà criminale di decimare la popolazione brasiliana anziana, malata e povera per risparmiare su pensioni, assistenza e sanità8. Una politica genocida che ha dedicato particolare attenzione agli indigeni e agli afrodiscendenti.
L’8 luglio il presidente, invocando ‘l’interesse pubblico’, ha posto infatti il veto ad una legge che intendeva garantire il diritto all’acqua potabile e all’assistenza ospedaliera per le popolazioni indigene e quilombo in tempi di pandemia, ed obbligare il governo a fornire materiali per l’igiene e la pulizia, l’installazione di Internet e la distribuzione di cibo, semi e strumenti agricoli ai loro villaggi.
Ai primi di luglio, secondo l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (APIB) il coronavirus colpiva già 122 gruppi etnici indigeni brasiliani, con 12 mila contagi e 445 morti tra le comunità originarie del paese, fra le più povere ed escluse dall’accesso all’assistenza sanitaria.

Fra i morti di covid anche Paulinho Paiakan, capo del popolo indigeno Kayap, difensore delle foreste dai tempi della lotta contro la costruzione dell’autostrada Transamazzonica, nei primi anni ’70.
Fu sempre in prima fila contro lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia, contro il mercato illegale del legname, e contro la diga di Belo Monte sul fiume Xingu, la seconda centrale idroelettrica del Brasile, voluta da Lula e ultimata da Dilma Rousseff, che comportò all’epoca l’espulsione di 20.000 persone dalle zone allagate, ed ha stravolto per sempre l’ecosistema e la vita degli abitanti del corso del fiume. (Continua)


  1. Que es el Tren Maya ?, pamphlet propagandistico. 

  2. Mario Paciolla  era volontario nella Missione di Verifica delle Nazioni Unite sull’applicazione degli accordi di pace, e si occupava del reinserimento sociale degli ex combattenti delle Farc nella zona di San Vicente del Caguán. Si era impegnato in prima persona nella difesa delle famiglie di otto adolescenti uccisi nel novembre scorso da un bombardamento dell’aviazione militare Colombiana contro un accampamento dell’ala dissidente delle FARC. 

  3. Nel 2016 ne sono stati conteggiati da Indepaz 132, 208 nel 2017, 282 nel 2018, 250 nel 2019 

  4. Va rilevata la piena continuità di Iván Duque con la linea di Alvaro Uribe, suo padrino politico, veterano della guerra sporca contro la guerriglia e i movimenti sociali, condotta con ampio uso della tortura, esecuzioni extragiudiziali, ‘falsi positivi’, massacri e sparizioni.  Durante la sua presidenza (2002/2010) non si curò di celare la sua vicinanza ai paramilitari. 

  5. Celso H.L.Silva Junior, Danielle Celentano, Guillaume X.Rousseau, Emanoel Gomesde Moura, István van Deursen Varga, Carlos Martinez, Marlúcia B.Martins, Amazon forest on the edge of collapse in the Maranhão State, Brazil, Land Use Policy, Volume 97, 2020. 

  6. Hyury Potter, Forças Armadas recebem orçamento 10 vezes maior que Ibama para não fiscalizar Amazônia, The Intercepter, 9 luglio 2020. 

  7. André Shalders, Brasil entrará em temporada de queimadas sem plano para a Amazônia, BBC Brasil, 2 luglio 2020. 

  8. Frei Betto, La politica necrofila di Bolsonaro sta compiendo un genocidio, Il Manifesto, 18 luglio 2020. 

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Il Messico sfida la morte: Vergine di Guadalupe, tempra nazionale, o necessaria illusione? https://www.carmillaonline.com/2020/05/31/il-messico-sfida-la-morte-vergine-di-guadalupe-tempra-nazionale-o-necessaria-illusione/ Sat, 30 May 2020 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60556 di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel [...]]]> di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel bene e nel male, un enorme laboratorio politico e sociale. Un laboratorio in cui, al netto di elementi tipicamente e irripetibilmente e messicani, si sono tentati esperimenti, e si sono osservati fenomeni destinati a ritrovarsi anche in forma dilagante nel resto del mondo. Tanto per citarne alcuni: l’opposizione tra una dimensione indigena e rurale e quella globalizzata e urbana, la contraddizione tra rivendicazione culturale autoctona e anelito alla way of life statunitense, il neoliberismo portato alle estreme conseguenze, l’affermazione delle chiese evangeliche, la migrazione di massa e clandestina verso il vicino più ricco, la militarizzazione del Paese in risposta alla criminalità organizzata. Ci è sembrato dunque importante rivolgere lo sguardo al Messico, e per farlo ci siamo affidati alla competenza di Fabrizio Lorusso. In Messico da vent’anni, di cui una quindicina trascorsi nella capitale, attualmente professore-ricercatore presso l’Università Iberoamericana di León, giornalista freelance, Lorusso annovera tra le sue numerosissime pubblicazioni il libro Santa Muerte. Patrona dell’umanità (Stampa Alternativa, 2013), e Narcoguerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga (Odoya, 2015). 

Stefano Bigliardi (SB). “Cominciamo, Fabrizio, con qualche dato. Com’è la situazione attuale in Messico? Quali sono le previsioni?”

Fabrizio Lorusso (FL). “I numeri ovviamente cambieranno e i lettori potranno trovarli facilmente, ma nel momento in cui ti parlo ci sono 174 morti accertati e oltre 3500 contagi. Ma c’è una stima che va dai 26.000 ai 30.000 possibili casi, che il Ministero della Salute ha divulgato proprio ieri [7 aprile, NdR]. Occorre tenere conto che, in proporzione al territorio nazionale, il numero dei test effettuati è scarso. Morti e contagi sono concentrati a Città del Messico [8,85 milioni di abitanti, NdR] e nel suo hinterland, che è lo Stato del Messico [16,20 milioni di abitanti, NdR]. Per ora sembra che la ‘curva’ proceda abbastanza lentamente rispetto ad altri Paesi, e che il picco sia previsto verso la fine del periodo di quarantena attualmente decretato, il 30 aprile, anche se la stima dei contagi è basata su cifre imprecise, quindi ci si aspetta che le misure di distanziamento sociale siano prolungate oltre la fine del mese”.

(SB). “Che decisioni sono state prese dalla politica, e sulla base di quali idee (o ideologie)? Hanno interferito motivi religiosi? Si sono registrati slittamenti di posizione nel tempo?”

(FL). “Nelle decisioni prese dalla politica abbiamo riscontrato un pragmatismo caratterizzato anche da un certo anticipo rispetto ad altri Paesi. La cosiddetta ‘Fase 1’ è durata fino a fine/metà marzo e però già durante quella, quando ancora i decessi erano pochissimi, si erano prese misure da ‘Fase 2’; in altre parole, tra il 17 e il 20 del mese sono state chiuse le scuole e sono stati proibiti gli assembramenti. Per contestualizzare ulteriormente bisogna ricordare che il sistema sanitario messicano è carente, a causa di trent’anni di crisi e di tagli. C’è un settore pubblico, frammentato e corporativo, che non ha copertura universale; la spesa sanitaria è circa il 3% del PIL, dato da paragonare al 6-8% dell’Italia, e a spese superiori all’8% in altri Paesi dell’OCSE. Il settore privato è analogamente frammentato, con sotto-settori che servono gli strati medio-bassi della società, e altri per i ricchi o comunque per chi ha un lavoro fisso e un’assicurazione privata. In questo quadro sono state prese misure anche prima che lo facesse il Ministero, e pare che abbiano rallentato la ‘curva’, grazie all’esperienza maturata durante l’epidemia di H1N1 del 2009. Alla fine di marzo si sono prese le decisioni più dolorose per l’economia, vale a dire, la dichiarazione di emergenza sanitaria e la chiusura di tutte le attività non essenziali, quindi anche i piccoli negozi, fabbriche, servizi. Misure peraltro non del tutto rispettate, anzi. Ricordiamo che quasi il 58% dell’economia messicana è informale, il 45% della popolazione è considerata sotto la soglia della povertà e quindi vive alla giornata. Comunque è da circa un mese che la popolazione è bombardata dagli spot pedagogici sulla sana distancia, una misura che non rappresenta uno stato d’eccezione, come in altri paesi latinoamericani, e che sta risultando più o meno efficace a seconda delle diverse zone del Paese. In tutto questo, ripeto, si vede un pragmatismo da parte del governo, che ha seguito un percorso tecnico, se non proprio tecnocratico, e che d’altro canto scontenta le imprese, per le quali si prevede un altissimo numero di fallimenti che poi avranno costi a carico dello Stato.

Ma attenzione, come sempre in Messico, la situazione è complessa e non sempre coerente. Ci sono attualmente due piani della politica, rappresentati da due diverse istituzioni che comunicano al pubblico con modalità diverse e che sono sfasate temporalmente nell’arco di una stessa giornata. Uno è appunto il Ministero della Salute. L’altro piano è rappresentato dal presidente Andrés Manuel López Obrador, noto con l’acronimo AMLO, classe 1953, in carica dal 1° dicembre 2018, e alla guida del Movimiento Regeneración Nacional. Si tratta di una figura carismatica dalle notevoli doti oratorie. Tiene una conferenza stampa tutte le mattine (peraltro divagando anche su altri temi rispetto al virus), mentre il Ministero della Salute si fa sentire alla sera attraverso il sottosegretario ed epidemiologo Hugo López-Gatell.

Il presidente ha suscitato polemiche, non solo con le dichiarazioni, ma anche con il comportamento, Specialmente in marzo, all’inizio della crisi. I discorsi di López Obrador hanno incluso elementi folkloristici e messianici, per esempio quando si è presentato con un’immaginetta della Vergine di Guadalupe asserendo che fosse la sua protezione [sarebbe apparsa nel 1531 ed è una vera e propria icona nazionale, NdR]. Anche prima della crisi AMLO non ha mai nascosto le sue credenze religiose nei discorsi ufficiali e ha sempre usato un linguaggio vicino a una parte del popolo e basato sulla superstizione. Ricordiamo anche che aveva stretto un’alleanza elettorale con il PES, Partido Encuentro Social, legato alle chiese evangeliche. Il presidente si è quindi sempre mosso tra cattolicesimo tradizionale e ‘nuovo cristianesimo’, che rappresenta un certo potere, in crescita. Certo, non parliamo di un messianismo ai livelli di Trump o di Bolsonaro, ma per esserci c’è, ed è mescolato alla volontà di non far cadere a picco l’economia. A questo, in tempi di COVID-9, il presidente ha aggiunto un altro elemento, il richiamo alla resistenza stoica e storica del popolo messicano.

La ‘sfida’ del presidente non si è limitata alle parole, ma si è notata anche nelle azioni: infatti ha tenuto comizi, ha inaugurato autostrade, si è trovato in mezzo ad assembramenti, e fino a qualche giorno fa toccava e baciava le persone. È persino sceso dalla pur austera macchina presidenziale per salutare la madre del Chapo Guzmán, donna di novantadue anni che gli aveva scritto esprimendo il desiderio di visitare il figlio in carcere negli USA prima di morire. Il presidente, il mattino dopo, si è dovuto giustificare in conferenza stampa, ed è ricorso a dei giri di parole sulla figura della madre, che culturalmente fa presa, anche se in questo caso si tratta della madre di uno dei più grandi trafficanti della storia, con decine e decine di omicidi a suo carico. Con quell’atto si è determinata, in piena crisi da COVID-19, una doppia crisi di legittimità. Ricordo poi che in altre conferenze ha sostituito i santini con dei quadrifogli portafortuna come elemento di protezione, ma la sostanza, ecco, è quella”.

(SB). “Al di là della politica, che reazioni popolari si notano? Le religioni hanno giocato un ruolo degno di nota?”

Foto: a San Miguel de Allende, statunitense con mascherina della Madonna di Guadalupe (Notimex, Paola Hidalgo)

(FL). “Per quanto riguarda la popolazione, che è parte del mio vissuto oltre che di quello che leggo, ci sono da registrare altre reazioni, con sicuramente delle intersezioni rispetto a religione e religiosità. Ancora in marzo, dei preti anche molto in vista, per esempio nello Stato di Guerrero, hanno dichiarato che a loro il virus non interessava e che avrebbero continuato a celebrare cerimonie e messe. Questa ‘sfida’ si è poi ridimensionata in aprile. Tuttavia, nonostante le proibizioni, le chiese, come del resto certi negozi e certe imprese, sono sempre aperte. Non ho visto manifestazioni di massa, ma piccoli assembramenti di persone sì: e pensiamo che ne è delle misure sanitarie quando si usa l’acqua santa, quando ci si siede sulle panche e c’è un viavai di fedeli senza mascherina. Tanto nella religione quanto nella piccola economia si riscontra quindi una volontà piuttosto ‘tiepida’ di mettere in atto le misure, e spero non costi contagi e vite. Dipende poi molto dalle regioni messicane e dallo zelo dei governi locali nell’implementare le misure di sana distancia, per cui in alcuni casi, compresa la capitale, ci sono state riduzioni nei trasporti e movimenti del 70-80%, mentre in altre zone solo del 30%.

Io vivo a León, nello Stato del Guanajuato, profondamente conservatore e cattolico, e ho notato altri fenomeni degni di nota. Il discorso del presidente sulle protezioni divine, anche legate a veri e propri amuleti (López Obrador ha mostrato lo scapolare in TV), che pure nel corso del tempo è andato diminuendo, è in accordo con reazioni popolari, o le suscita. Si vedono tutto d’un tratto effigi di Cristo attaccate alle porte, le persone fanno discorsi sulla protezione divina (peraltro sta per arrivare la Semana Santa della Pasqua), il tutto in una zona grigia tra superstizione e fede. Da aprile, comunque, non si registrano dichiarazioni di sacerdoti volte a sminuire la pericolosità del contagio o, al contrario, a creare una ‘comunità del dolore’. Ho visto però delle piccole processioni, non legate alla Semana Santa ma all’epidemia, con fedeli muniti di megafono che andavano per le strade invocando protezione dalla malattia e richiamando alla fede”.

(SB). “Qual è la concezione della morte in Messico?”

(FL). “Sulla concezione della morte in Messico sono state scritte biblioteche, perché è parte del patrimonio tradizionale nazionale, ed è stata anche esportata, commercialmente e culturalmente. In realtà questa concezione è formata da diversi ingredienti che possono mescolarsi, ma non sempre lo fanno, e che non hanno necessariamente un’origine comune. Ci sono le celebrazioni dell’1 e 2 novembre, per il Día de muertos, che sono patrimonio dell’UNESCO e sono molto apprezzate tanto dai messicani quanto dai turisti. In quei giorni si crea una “vicinanza” tra vivi e morti, si costruiscono altari multicolori con tutte le cose che piacevano ai defunti, e la celebrazione collettiva crea un legame tra ambiente domestico, piazze pubbliche e cimiteri. C’è il culto per la Santa Muerte, devozione popolare nata decenni fa, in clandestinità, che in seguito è stata trasposta in film e serie TV che la associano, con una certa semplificazione, ai narcos. Ci sono le Catrinas, statue e illustrazioni che rappresentano scheletri vestiti in abiti da dama dei primi anni del XX secolo, creati come satira dell’incisore José Guadalupe Posada [1851-1913] che si burlava con la sue opere dell’élite filo-francese all’epoca del presidente-generale Porfirio Díaz [1830-1915]. La morte, in particolare quella di Cristo, è rappresentata all’interno dell’iconografia cattolica popolare, e a tinte forti, sottolineando la sofferenza fisica; sempre la chiesa cattolica, però, respinge ufficialmente la devozione per la Santa Muerte. In parte, tutto questo ha risonanze culturali con una tradizione indigena antichissima, il culto per Mictecacíhuatl e Mictlantecuhtli, coppia di divinità mesoamericane della morte, e la credenza negli inferi. Queste risalgono all’epoca precolombiana e ai culti delle popolazioni autoctone mesoamericane, annichilite dalla conquista e da tre secoli di dominio coloniale iberico, e ricostituitesi in seguito intorno a certi nuclei linguistico-culturali, rifluendo infine nella cultura nazionale messicana del secolo XX. Questo accadde dopo la Rivoluzione [1910-1917] quando nella nazione furono incorporati i popoli originari, o comunque una versione ricostruita della loro eredità culturale, e gli antichi messicani furono oggetto di una “re-invenzione romantica”. In tutte queste forme la morte, nella società attuale, è onnipresente. A questo si aggiunge la morte violenta, truculenta, riflessa nei media, e sistematicamente causata dalla cosiddetta guerra al narcotraffico, che altro non è se non un conflitto armato interno, per una serie di risorse, tra attori statali, parastatali e delinquenziali, spesso confusi tra loro. Anche questa morte è stata esportata, sia dai canali dell’informazione che dell’intrattenimento, specie attraverso la mediazione statunitense, suggerendo superficialmente che l’intero fenomeno narcos fosse caratterizzato da un ‘culto deviante’ della morte”.

(SB).  “Tutto questo come si amalgama, e come potrebbe portare i messicani a filtrare gli eventi attuali e a scegliere un corso di azione rispetto ad un altro?”

(FL). “In generale, l’atteggiamento popolare messicano rispetto alla morte si potrebbe chiamare, semplificando un po’, ‘nichilista’, ‘fatalista’, o forse persino ‘menefreghista’, e potrebbe indurre a ignorare i rischi. Questo atteggiamento si fonde con la religiosità popolare, della quale ho già detto, e che potrebbe avere gli stessi effetti. In altre parole, si potrebbe essere portati o a minimizzare il rischio di morte con atteggiamento di ‘sfida’, o a pensare di godere di una protezione divina, andando in ogni caso contro le misure igieniche. Questa è una congettura, e potrebbe anche rivelarsi infondata. In giro, però, come dicevo in precedenza, ci sono segni di un comportamento di questo tipo.

Un’altra idea diffusa è che la morte sia ‘democratica’ (infatti tocca a tutti, e i fedeli della Santa Muerte la vedono come icona di giustizia proprio per questo). Sempre a livello popolare, allora, si potrebbe essere tentati di estendere questa concezione anche al virus, con il risultato di ignorare il fatto che, se è vero che nessuno è completamente al riparo dal contagio, il COVID-19 può falcidiare e far soffrire soprattutto le comunità più deboli (come già si è notato negli Stati Uniti), attuando una vera e propria pulizia etnica e sociale. C’è da temere per le comunità indigene, anche tenendo conto che i materiali informativi sulle pratiche di prevenzione non sono stati tradotti nelle lingue locali, per non parlare degli strumenti sanitari concreti, che scarseggiano persino negli ospedali di Città del Messico, quindi figuriamoci in Chiapas, nel Guerrero o nelle comunità rurali in cui gli ospedali nemmeno ci sono.

Tornando al presidente, López Obrador [nella foto, cortesia di Gob.Mx] conosce il ‘Messico profondo’: non solo quello indigeno ma soprattutto quello delle comunità rurali, che lui ha sempre visitato, e ha saputo captare tutti gli elementi che ho discusso. Se si tiene conto di tutto il contesto, si chiarisce senza giustificarlo, cioè si comprende in tutta la sua ambiguità, il discorso del presidente. Il richiamo al ‘resistere uniti’, se da un lato può suonare come un invito ragionevole, dall’altro, a uno sguardo approfondito, risulta essere una mistificazione della realtà, che è quella di un Paese non omogeneamente preparato e protetto rispetto al contagio e alle sue conseguenze, specie in considerazione del fatto che si è pragmaticamente scelto di non bloccare totalmente l’economia o tollerare la violazione delle misure d’isolamento, anche per non annullare l’economia popolare e “di strada”. C’è almeno un 50% di popolazione, su circa 125 milioni totali, in povertà. Chiudere tutto anche solo per una settimana significa rischiare di ridurre alla fame quell’immenso numero di messicani che lavorano senza contratti e garanzie, guadagnandosi il pane letteralmente giorno dopo giorno. Inoltre il 66% dei messicani, quindi anche chi non si trova in condizioni di povertà, presenta una qualche vulnerabilità sociale rilevante. Mancano, in particolare, di copertura assicurativa e il sistema sanitario è come l’ho descritto in precedenza. Se anche non si chiude tutto pur di salvare l’economia, nel caso in cui il virus dovesse infuriare, soffrirà molto chi è vulnerabile in termini di copertura sanitaria, o chi ha sì accesso a strutture ospedaliere, ma mal equipaggiate. Si capisce allora che tutti i discorsi sulla ‘protezione speciale’, sulla ‘sfida alla morte’, evangelici, cattolici o anche laici che siano, altro non rappresentano che un ‘far di necessità virtù’, che li si ritrovi in bocca al presidente o a un comune cittadino. Le famiglie svantaggiate non hanno scelta rispetto al resistere con pochi mezzi o al non prendere misure straordinarie, e, da qualunque parte la si guardi, la situazione è inquietante.

Tanto per farti un esempio aneddotico, la signora da cui compro abitualmente le verdure mi ha chiesto, un paio di settimane fa, se il virus è reale. Chissà se la domanda era spontanea, o se era influenzata da qualche discorso negazionista, veicolato da radio e TV. Il linguaggio del corpo, devo dire, non era quello di chi nega la malattia. Questo riesce difficile, ai messicani, vista la presenza di gravi malattie stagionali e tropicali su cui, a ogni ondata, si concentrano i discorsi. Eppure, paradossalmente, anche alla luce di questo fatto molto concreto (l’ortolana di cui ti parlo e suo marito novantenne, l’anno scorso, hanno avuto il dengue) può scattare un meccanismo volto a esorcizzare il COVID-19, se si arriva cioè a sostenere che malattie come il dengue e lo zika sono appunto reali e tipiche del Paese, mentre il coronavirus sarebbe proprio dei Paesi più freddi e quindi tutto sommato meno preoccupante. Questo è un discorso ‘eccezionalista’ che, non a caso, sempre López Obrador ha fatto suo e diffuso, almeno in una prima fase, peraltro senza precisare alcun dato scientifico sulla temperatura esatta che avrebbe fatto la differenza. Certo, nei deserti messicani c’è una notevolissima escursione termica, ma non ci sono le persone, il che rende ogni discorso al proposito, quand’anche fosse scientifico, non applicabile alle città, in cui al momento c’è un clima simile a quello del mese di maggio in Italia.

La signora ortolana, insomma, cerca di afferrarsi a questo o a quell’altro motivo come meccanismo di auto-rassicurazione per poter andare avanti. È vero che vende un bene essenziale, ma è anche vero che la natura del suo commercio, le condizioni igieniche dello stesso, e la sua età, la espongono al contagio, e comunque, finanziariamente, lei non può permettersi di chiudere così come non potrebbe permettersi cure adeguate. Purtroppo, in quella signora, si ritrova rappresentato, se non tutto il Messico, una sua grande parte”.

* L’intervista si è svolta attraverso WhatsApp tra il 7 e l’8 aprile 2020. Il presente adattamento è stato approvato da Fabrizio Lorusso, che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

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Il coronavirus ai tempi dell’Ecuador/2 https://www.carmillaonline.com/2020/05/30/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador-2/ Sat, 30 May 2020 02:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60456 di Alberto Acosta (*)

[A questo link il capitolo precedente. Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale ed alle tutele del lavoro. Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con [...]]]> di Alberto Acosta (*)

[A questo link il capitolo precedente.
Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale ed alle tutele del lavoro.
Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con l’FMI.
Il 26 maggio viene firmato dal Ministro della Difesa Oswaldo Jarrín l’Acuerdo Ministerial 179, che permette alla forze armate di utilizzare armi da fuoco contro i manifestanti per disperdere le proteste sociali.
Nel frattempo la popolazione e la natura subiscono l’attacco delle attività estrattive. Foto dal satellite mostrano l’avvenuta costruzione, in pieno coprifuoco da pandemia, di una strada nella selva della riserva naturale di Yasuni, funzionale ai progetti di sfruttamento petrolifero. Poco più a nord la rottura di due oleodotti sta provocando uno dei peggiori disastri ambientali della regione. Alexik]

Guayaquil tra neoliberismo e filantropia

Guayaquil, Isla Trinitaria

Se il problema dell’inadeguatezza delle abitazioni caratterizza tutto l’Ecuador, a Guayaquil  si presenta in maniera ancora più accentuato.
È una città “escludente e neoliberista” a causa del suo tipo di rigenerazione a favore del capitale, con una grande quantità di carenze denunciate già da prima della pandemia, e ostinatamente negate dalle autorità e dalle élites cittadine, che anche in questo momento stanno cercando di minimizzare le loro responsabilità additando come causa dei problemi il  centralismo della capitale.
In realtà, come succede da molte altre parti, queste città si trasformano in una macchina che genera sempre più  disuguaglianze. La avvocatessa guayaquileña Adriana Rodriguez così sintetizza la questione:

Non c’è da sorprendersi che Guayaquil, la città  dell’Ecuador dove è maggiore la disuguaglianza sociale, sia al primo posto per il numero di contagi e di morti per Covid 19. La città, governata dal partito Social Cristiano da più di 20 anni, è  l’evidente dimostrazione del fallimento del “vittorioso modello” neoliberista, tanto celebrato dalle élites al potere.
E’ che si intrecciano grandi imprese commerciali ed una opulenta ricchezza  in una città con il maggior numero di poveri del paese, che rappresentano quasi il 17% della sua popolazione se si sommano gli indicatori di povertà a quelli della povertà estrema1.

In questa città portuale, contrassegnata da differenze sociali estreme,  il coronavirus è arrivato ovunque.
Per quel che ci è dato sapere, è giunto  dall’Europa  portato tanto da  gente benestante, che tornava da viaggi di studio o di turismo,  che da  persone che lavoravano in Spagna e in Italia.
È evidente che chi ha più possibilità economiche affronta meglio il coronavirus negli ospedali privati, mentre  coloro  che non hanno questa fortuna,  includendo settori di classe media duramente colpiti, hanno dovuto rivolgersi al sistema pubblico causando la sua saturazione.

Guayaquil, in attesa di sepoltura.

E tra l’altro, portando al collasso l’intero sistema di registrazione dei decessi e sepoltura dei cadaveri.
COVID-19 ha messo a nudo queste e molte altre aberrazioni in una città dove anche a livello municipale si  lavora attraverso una serie di alleanze fra pubblico e privato.
Il suo sistema sanitario negli ultimi anni ha oscillato tra gli sforzi progressisti per modernizzarlo e l’esistenza di sistemi di assistenza sanitaria e sociale provenienti da una curiosa logica filantropico-neoliberista, che ha caratterizzato le strutture di potere della città.
Le amministrazioni comunali  cristiano sociali – al potere ininterrottamente da oltre 20 anni –  spinte dai populismi e dai sogni di modernizzazione e lungi dall’occuparsi di problemi strutturali come salute, cibo, occupazione e abitazioni, hanno cercato soprattutto di ripulire la “facciata” della città, migliorando ad esempio piazze e parchi con l’intervento di fondazioni in partenariato pubblico-privato.

La questione è più complessa se si considera che questa città –  la quale,  oltre ad essere la più popolosa dell’Ecuador,  è stata anche il  suo motore commerciale – continua ad attrarre  molte persone che arrivano da altre regioni impoverite  alla ricerca di un lavoro.
Proprio per  questo il lavoro informale è una delle sue caratteristiche  principali  e i quartieri  marginali –  spesso privi  di pavimentazione, acqua potabile e fognature — crescono inarrestabilmente in assenza di piani di urbanizzazione  adeguati e di risposte che risolvano strutturalmente le disuguaglianze e le esclusioni.

Guayaquil, barrio Guasmo Sur.

Secondo i dati del 2016 sulle abitazioni, il 20% delle case ha carenze di spazio, acqua potabile e fognature. Il 17% della popolazione locale vive in sovraffollamento.
C’è da considerare che questo non è l’unico problema, poiché i servizi sanitari ed educativi sono estremamente precari.
Come osserva l’architetto di Guayaquil Patricia Sánchez, profonda conoscitrice dei problemi della sua città:

L’emergere del settore informale nella città è legato alla logica della concentrazione della proprietà  dei terreni in mani private nonché  alle rigide normative sul  territorio urbano,  vere e proprie barriere istituzionali  quando si tratta il tema degli alloggi popolari.
Il carattere elitario e tecnocratico di pianificazione urbana finisce per escludere in questo modo gran parte della popolazione , riservando ai poveri le terre  di nessun interesse per il mercato immobiliare2.

Di fatto, in questa città portuale vibrante per il commercio e le migrazioni ma caratterizzata da profonde disuguaglianze, mancano le strategie abitative per creare le condizioni materiali che consentano di articolare modalità più favorevoli per la riproduzione della vita.
Si è trascurato l’habitat popolare, spazio privilegiato per l’autogestione collettiva delle condizioni di produzione e riproduzione di un’economia basata sul lavoro, totalmente contrapposta alla logica del capitalismo immobiliare che concepisce gli alloggi e gli habitat semplicemente come merce.
E certamente non si è fatto nulla per provare almeno a stabilire relazioni di armonia con il contesto naturale.
Riflessioni valide per l’intero paese, di cui resta tanto da conoscere, comprendere e migliorare.

Il rischio di abbandono delle campagne

Ecuador, piantagione di cacao.

L’altro pilastro della salute, l’alimentazione, è sempre più dominata dall’agroindustria, ed il controllo dei mercati è nelle mani di pochi gruppi commerciali.
Per citare solo un aspetto, tre catene controllano il 91% del mercato dei prodotti alimentari che necessitano qualche tipo di lavorazione.
La maggior parte delle terre migliori e delle forniture di acqua sono destinate sempre più alle colture rivolte all’agro-esportazione.
Nel frattempo  il settore dei lavoratori agricoli sopravvive  ad un’emarginazione di lunghissima data.

Contrariamente a quanto si possa immaginare dall’esterno, sono molteplici nelle campagne gli effetti della crisi economica e della pandemia.
Tanto per cominciare i livelli di povertà e marginalità sono più alti che nelle città, elemento ancora più lacerante se rapportato ai  gruppi indigeni.
Poi  c’è anche da tenere presente la minaccia che può rappresentare il contagio di coronavirus in comunità  distanti da infrastrutture sanitarie, già colpite da  varie penurie, come già accade in alcune aree amazzoniche.
Secondo i dati del Instituto Nacional de Estadística y Censos (INEC) la povertà è sempre stata molto superiore nelle aree rurali che nel mondo urbano.
Ad esempio il tasso della povertà multidimensionale arrivava al 38,1% a livello nazionale, al 22,7% nei centri urbani ed al 71,1% nelle campagne: in pratica sette abitanti su dieci del settore rurale vivono in condizioni di povertà.
Una realtà che contrasta con la capacità dei contadini e delle contadine di alimentare la società ecuadoriana.

Le piccole unità produttive inferiori a cinque ettari, per lo più gestite da donne, soddisfano il 65% dei generi di consumo alimentare del paniere  dei beni nazionale.
Tuttavia, in campagna la malnutrizione infantile è maggiore che in città: il 38% dei bambini da zero a cinque anni soffre di malnutrizione nelle zone rurali, e il 40% nei territori indigeni (rispetto al 26% della media nazionale).
Questa è un infamia per un paese così orientato alla biodiversità  e così pieno di  potenzialità in tal senso.

Ecuador, raccolta dei frutti della palma da olio.

In Ecuador persiste una spiccata disuguaglianza nella distribuzione della proprietà in generale, e della terra in particolare, che non è stata  in nessuna maniera affrontata  dal precedente governo e meno che mai da quello attuale.
Alcune stime basate sui dati dell’INEC indicano che, nel 2017, il coefficiente di Gini3 sulla distribuzione della Terra ha superato 0,8 punti.
In pratica il 2,3% delle unità produttive possiede il 42% della terra coltivabile, con proprietà superiori a 100 ettari prevalentemente orientate alla produzione per l’esportazione.
Mentre il 63% delle unità di produzione agricola, soprattutto condotte da indigeni e contadini, possiede il 6% della superficie coltivabile, e la stragrande maggioranza ne ha meno di un ettaro.
Se questa è la situazione della concentrazione della terra, per l’acqua risulta ancora più iniqua.

Tutto ciò  pone una questione  assai problematica.
Un tempo, gran parte dei contadini, in particolare quelli appartenenti alle popolazioni indigene, potevano badare a loro stessi e raggiungere, in qualche modo, un livello di maggiore autosufficienza, così da distanziarsi da questo mondo reso folle dall’accumulazione di capitale, che è poi il mondo dove si sta sviluppando il coronavirus.
Ora invece  i contadini e gli indigeni sono sempre più legati alla logica del mercato e nonostante producano cibo, soffrono la fame.

Ecuador, abitazioni rurali.

E questo si spiega perché  traggono i loro prodotti sempre più attraverso  monoculture: hanno perso gran parte della capacità di gestire il loro orto,  la loro chacra (fattoria), con prodotti diversificati, con i quali potrebbero soddisfare i loro bisogni alimentari e persino medicinali.
In ogni caso, nonostante si trovi ai margini di molti servizi sociali, come ad esempio quelli sanitari, la campagna sembra  comunque maggiormente in grado di affrontare la pandemia rispetto alle grandi città.

Un’economia in asfissia come un paziente con coronavirus

Lo scenario è complesso e, senza peccare di pessimismo, le prospettive sono sempre  più oscure.
Come già segnalato, questa conclusione è stata ipotizzata  da vari organismi internazionali, e anche il governo dà segnali in questo senso. Per esempio, il vice presidente Otto Sonnenholzner stima che il costo della pandemia raggiungerà il 10-12% del PIL.
Come un paziente con coronavirus, l’economia sta letteralmente asfissiando.
Un soffocamento aggravato dalla mancanza di apparato respiratorio, visto che, trattandosi di una economia dollarizzata4, non ha la possibilità di gestire una propria politica monetaria.
È un’economia che non ha una bombola di ossigeno perché non ha risparmi.
È un’economia gravata da enormi oneri come il debito estero, irresponsabile e molto oneroso, e da molti altri e gravi problemi, sia congiunturali, come un calo a picco del prezzo del petrolio, che strutturali, come l’assenza di reali trasformazioni produttive.
L’analisi  si complica  con le misure recessive del FMI e con l’ostinazione di un governo che non accetta misure creative, straordinarie, e soprattutto  sostenute da un modello che riesca ad unire la solidarietà alla giustizia sociale ed ambientale.

Ecuador, maggio 2020.

Un simile caos genera  lugubri prospettive.
Il governo di Lenín Moreno – insensibile ed estremamente disorientato – ha risposto presentando in modo frammentario diverse misure economiche, tra cui la rinegoziazione del debito estero e la richiesta di nuovi prestiti, l’introduzione  di nuove imposte sui redditi dei lavoratori del settore pubblico e privato, una tassa del 5% sugli utili delle grandi società, garanzie pubbliche per i crediti alle imprese private, bonus di protezione sociale (60$ per le famiglie più povere), nuove forme di flessibilità del lavoro, la preminenza della contrattazione privata sulle norme in materia di affitti e di lavoro, insieme a misure varie di ampliamento dell’assistenza sociale e sanitaria.
Allo studio anche la riduzione permanente dello stipendio del 10% di tutti i dipendenti pubblici.

Sulla rinegoziazione del debito estero, considerando le esperienze precedenti, non si prevedono miglioramenti sostanziali se le regole dei creditori internazionali continueranno ad essere accettate passivamente dal nostro paese.
In questo scenario si potrà ottenere giusto un sollievo passeggero, un po’ di liquidità per qualche mese, ma l’Ecuador manterrà comunque il percorso di adeguamento preteso dal Fondo Monetario, che comporta un’integrazione sempre più profonda nel mercato mondiale come paese esportatore di materie prime, in particolare petrolio.
Prospettiva estremamente preoccupante in un mondo sempre più incerto, e con il mercato del petrolio prossimo al collasso.

Quito: la polizia sbarra il passo e spara lacrimogeni sui manifestanti del 25 maggio.

Per quanto riguarda l’aumento delle tasse per le aziende, il contributo del 5% degli utili non è un importo compatibile con i profitti accumulati negli ultimi anni, soprattutto dalle imprese più grandi del paese.
Gran parte delle imprese appartiene ad importanti gruppi economici dai quali si potrebbe esigere un contributo maggiore, senza considerare aziende come le compagnie telefoniche (Claro o Telefónica) che hanno registrato profitti superiori al 90%.
Si potrebbe richiedere un contributo più alto al settore bancario, ricordando come tra il 2007 e il 2016 abbia accumulato profitti per 2.820 milioni di dollari.
Come se non bastasse, negli ultimi anni le attività bancarie hanno continuato a guadagnare come mai prima d’ora nel bel mezzo di un’economia in crisi, al punto di ottenere profitti  per 1.566 milioni tra il 2017 e il 2019.
A fronte di questa ‘età dell’oro’ del settore bancario un contributo del 5% sugli utili non è sufficiente.
Il governo punta ad ottenere maggiori risorse dalla tassazione delle persone fisiche che dalle società, quando sarebbe più comprensibile il contrario, soprattutto ricordando come una manciata di aziende e di banche hanno realizzato profitti milionari durante il boom dei prezzi di petrolio, ai tempi del governo di Correa, ed anche in seguito, in piena crisi, con il presidente Moreno.

Lo scenario si complica ancora di più con le crescenti pressioni estrattiviste sui territori.
Assieme alla flessibilizzazione del lavoro,  anche la flessibilizzazione ambientale dovrà servire – ci diranno – a riattivare l’economia e tornare a rendere competitivo l’apparato produttivo.
In un’intervista televisiva all’inizio di aprile il Ministro delle Risorse Naturali dell’Ecuador, parlando delle attività petrolifere, dell’estrazione mineraria e delle risorse energetiche, ha sintetizzato la sua posizione senza peli sulla lingua:

Lavoreremo più velocemente … il mondo non si è fermato, è in mezzo a questa crisi ma non si ferma, e noi trarremo da questa crisi l’opportunità di monetizzare [“privatizzare”, nota dell’autore] tutto ciò che è rimasto in sospeso“.

Ecuador 2019, lotta antimineraria a El Goaltal, ai confini con la Colombia.

Il messaggio è chiaro. Per superare la crisi pandemica e la recessione globale si annuncia di voler spingere l’acceleratore sul neoliberismo e sull’estrattivismo.
Tutto questo lavorio per riavviare prima possibile l’apparato produttivo si svolge in assenza di considerazioni o analisi su quali siano i problemi di fondo, e in un contesto di crescente confusione politica.

Mentre la situazione diventa sempre più critica in termini economici e soprattutto in termini umanitari, molte forze politiche sono impegnate a pescare nel torbido.
Potenziali candidati per le elezioni parlamentari del 2021 muovono le loro fiches provando ad ottenere benefici elettorali, senza assumersi reali responsabilità neanche in questi momenti critici, incoraggiando ulteriormente il caos.
Il governo, nonostante la sua manifesta debolezza, preme sull’Assemblea Nazionale, che sta elaborando due grandi pacchetti di riforme.
Voci dal regime parlano apertamente di un possibile scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni generali per designare nuove autorità fino al completamento della legislatura, a maggio 2021. Ciò costituirebbe uno scenario molto complesso, tenendo conto della pandemia e della recessione, che potrebbe portare a qualche avventura dittatoriale palese o occulta.

Per ora non appare alcuna forza politica capace di dare una svolta basata su principi di autentica solidarietà, che imponga l’onere di un contributo superiore a chi più possiede e più guadagna.
Vale a dire introdurre tasse e contributi con criteri di equità, riscuotere le tasse non  pagate, sospendere il pagamento del debito estero da cui dipende la privatizzazione della sanità, procedere verso la socializzazione del sistema bancario, porre sotto il controllo dello Stato le transazioni in moneta elettronica per dare ossigeno all’economia, sostenere una profonda trasformazione agraria improntata al principio della sovranità alimentare, trasformare il bonus di solidarietà in un reddito minimo vitale …
E tutto questo nel senso di una necessaria transizione post-estrattivista, che consenta al paese di superare la dipendenza perversa, la volatilità e l’incertezza di un’accumulazione basata sulle esportazioni di prodotti primari.

Dalla vecchia normalità ad una normalità ancora peggiore

Per concludere, non possiamo che costatare come il vecchio ordine stia cadendo a pezzi.
Il ritmo frenetico dell’economia mondiale si è fermato. Le società si rinchiudono in se stesse e diventano più precarie di fronte alla pandemia. I regimi politici si irrigidiscono.
Se ci fosse la necessaria comprensione di ciò che sta accadendo, il mondo dovrebbe approfittare di questa tregua e promuovere un cambiamento di rotta.

Ma non sembra sia così. Man mano che l’esistente viene smantellato, inizia a organizzarsi un nuovo regime che, per il momento, sembra recuperare il peggio del vecchio. Vi sono alcune indicazioni che consentono di giungere a questa conclusione scoraggiante.
Lungi dal trarre lezioni adeguate, in molti paesi si riprende a sostenere la vecchia economia, sperando in un rapido ritorno alla normalità.
Affrontano questa sfida per la salute globale proprio come farebbero con un dosso sulla strada.
Ma non si tratta solo di questo.
Ignorando la gravità del momento e le cause profonde che hanno provocato questa grande crisi, non mancano le voci che invocano il recupero della vecchia strada della prosperità.

In altre parole, l’economia deve crescere, aprirsi ancora di più al mercato internazionale, spingendo sulla competitività.
Così, nel mondo impoverito, si propone di accelerare l’inutile crociata per raggiungere lo sviluppo: un fantasma devastante.
Si cercano spiegazioni cospirative per non affrontare il collasso del clima, provocato dalla brutale velocità di accumulazione del capitale, che soffoca la vita degli umani e non umani.
Le ricette imposte dai grandi gruppi di potere, in particolare economici e politici, rimangono invariate. Cercano di approfittare del momento per accelerare l’estrattivismo attraverso una maggiore flessibilità delle normative ambientali, con il pretesto di affrontare la crisi e migliorare la “competitività” dell’apparato produttivo, sfruttando anche nuove forme di precarizzazione del lavoro.
Il risultato di questa evoluzione provocherà senza dubbio frustrazione e disperazione crescente, in particolare tra i settori popolari sempre più abbandonati nell’incertezza.
Per questo non bisognerà sorprendersi se nuove ribellioni sorgeranno dietro l’angolo.

Senza minimizzare la complessità del momento e le minacce incombenti, c’è però anche spazio per l’ottimismo.
Basta guardare le risposte di solidarietà delle comunità indigene e reti di vicinato, di molti gruppi della società tradizionalmente emarginati, e soprattutto delle donne, che attraverso il loro parlamento popolare sono consapevoli della necessità di un impegno collettivo per riorganizzare la speranza e per trasformare tutto, perché “esigono la cura delle persone, cura della vita, salute e dignità“, perchè “nel suono dei  cacerolazos di questi giorni, si sente un’eco che dice … solo el pueblo salva al pueblo“.

(*) Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.
L’immagine di apertura è del 25 maggio scorso. Il cartello si riferisce alla ripresa delle lotte di massa in Ecuador, come nell’ottobre 2019.


  1. Rodríguez Adriana, Guayaquil, el coronavirus y la barbarie de la desigualdad, Línea de Fuego, 25/03/2020. 

  2. Bertha Patricia Sánchez Gallegos, Mercado de suelo informal y políticas de hábitat urbano en la ciudad de Guayaquil, FLACSO, 2013. 

  3. Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza nella distribuzione. 

  4. Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense. 

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Il coronavirus ai tempi dell’Ecuador https://www.carmillaonline.com/2020/05/02/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador/ Sat, 02 May 2020 02:15:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59772 di Alberto Acosta

La gente non sta morendo di coronavirus. La gente in Ecuador sta morendo di capitalismo.  Di pessimi servizi pubblici e privati, non solo sanitari. Di mancanza di democrazia e assenza di giustizia. Di corruzione e incapacità di dialogo”. (Santiago Roldós, 2020)

La crisi del coronavirus è gigantesca. Rappresenta, senza alcun dubbio, la più grande prova per la società umana globalizzata. E per l’Ecuador, un piccolo paese arrampicato sulla cordigliera andina, la sfida risulta enorme. La pandemia mette a nudo situazioni laceranti di ogni tipo. Il [...]]]> di Alberto Acosta

La gente non sta morendo di coronavirus. La gente in Ecuador sta morendo di capitalismo.  Di pessimi servizi pubblici e privati, non solo sanitari. Di mancanza di democrazia e assenza di giustizia.
Di corruzione e incapacità di dialogo”.
(Santiago Roldós, 2020)

La crisi del coronavirus è gigantesca.
Rappresenta, senza alcun dubbio, la più grande prova per la società umana globalizzata.
E per l’Ecuador, un piccolo paese arrampicato sulla cordigliera andina, la sfida risulta enorme.
La pandemia mette a nudo situazioni laceranti di ogni tipo.
Il dramma umano che si sta vivendo ha per ora il suo massimo punto di espressione in Guayaquil. La barbarie sembra essersi instaurata in questa città portuale con l’arrivo del coronavirus (COVID-19): centinaia di famiglie devastate per la morte dei loro congiunti, cadaveri ovunque, cadaveri perduti, centinaia di operatori sanitari contagiati, e migliaia di persone costrette a scegliere se morire di fame cercando il sostentamento quotidiano nelle strade, o morire di coronavirus.
Questa situazione è già riscontrabile in diverse provincie della costa: Santa Elena, Los Ríos, El Oro … e anche – con meno rudezza – nel resto del paese, in un contesto duramente colpito da una grave crisi economica che, data l’incapacità del governo, sta causando licenziamenti di massa e ha portato sempre di più aziende sull’orlo della bancarotta, mentre affondano nella debacle migliaia di attività informali.

Come capita in tutte le crisi i più colpiti sono i più poveri.
Oggi la loro esistenza è sospesa letteralmente a un filo, sia per la malattia che per la fame.
Indubbiamente la pandemia mette a nudo con forza le diseguaglianze.
Inoltre la crisi sanitaria e la contemporanea recessione globale evidenziano come la normalità, così come la conosciamo, avrà un tragico destino se non si farà qualcosa, poiché di certo a tale anormalità non è possibile tornare.

L’Ecuador, già prima del coronavirus, stava affrontando una congiuntura economica densa di criticità fiscali, in un contesto internazionale molto difficile che teneva soffocati i suoi conti con l’estero.
La dimensione sociale, esasperata da una politica economica recessiva e da una gestione governativa caratterizzata dall’improvvisazione, è andata caricandosi di frustrazione e di proteste, come quelle a cui si è assistito lo scorso ottobre.
La domanda interna e la produzione erano in stagnazione dal 2015.

Malgrado ciò, non tutto ha un’origine congiunturale o internazionale. Nel paese tali emergenze esprimono una crisi economica strutturale, profonda e di lunga durata.
Una crisi dove si coniugano la crescente dipendenza dalle attività estrattive e il conseguente peso di una matrice produttiva basata sulle esportazioni di prodotti primari, livelli elevati di concentrazione dei mercati, delle finanze e della ricchezza, l’aumento della disoccupazione e della povertà (soprattutto nelle zone rurali e contadine), un indebitamento estero aggressivo a sostegno della liquidità interna, la mancanza di una moneta propria1 che non permette di disporre di uno strumento dinamico come la politica monetaria o cambiaria, e ovviamente la mancanza di una politica economica coerente e integrale.

Questa crisi nelle attuali circostanze diventa sempre più grave.
Con il brusco calo del prezzo del petrolio si sono praticamente dissolte le entrate petrolifere previste per quest’anno, una questione resa più complessa se si tiene conto che per vari giacimenti i costi di estrazione superano  di gran lunga il prezzo del greggio sul mercato internazionale, a cui c’è da aggiungere la rottura di due oleodotti a causa di una frana alle pendici amazzoniche delle Ande.
Inoltre questa economia dollarizzata soffre gli effetti dell’aumento della valutazione del dollaro, con la conseguente crescita dei prezzi delle esportazioni ecuadoriane.
A peggiorare le cose, la congiuntura internazionale coincide con un momento in cui per il paese, gravato dai problemi finora esposti, è diventato estremamente costoso il collocamento del debito estero, con un indice del ‘rischio paese’ che è scattato verso l’alto.
Tutto ciò mette fine a quell’indebitamento aggressivo e irresponsabile che ha sostenuto l’economia dal 2014.

Il momento è estremamente complesso.
Le logiche di apertura ai mercati internazionali si sono ulteriormente approfondite con la firma di un accordo di libero scambio con l’Unione europea (UE) nel 2016, che riafferma la fisionomia di economia esportatrice di risorse primarie,  cioè la causa di molte delle difficoltà menzionate.
Le misure recessive che il governo ecuadoriano ha imposto, soprattutto dal 2019, come conseguenza dell’accordo firmato con il Fondo monetario internazionale (FMI), approfondiscono la crisi.
Una questione ancora più perversa, dal momento che questo accordo fa acqua da tutte le parti, proprio perché l’FMI stesso ha ritardato – quando la pandemia era già una realtà – erogazioni di credito originariamente programmate per il mese di marzo 2020.
Risulta tra l’altro evidente che, se la maggior parte del finanziamento degli investimenti e dei programmi sanitari dipende dalle entrate delle attività estrattive, come i prodotti petroliferi, la caduta di queste entrate complica ancora di più la situazione sanitaria.
Di fronte ad una crisi strutturale così complessa e a congiunture così difficili, è  desolante constatare come il governo stia cercando di mantenere l’impostazione aperturista [verso i mercati esteri, NdT] e della flessibilità, con lievi adattamenti al copione neoliberista, tema che analizzeremo in un apposito paragrafo.

Come sempre accade, sulle urgenze della vita prevalgono le urgenze fiscali e il dogmatismo del libero scambio, così come il pagamento del marzo 2020 di $ 325 milioni per le obbligazioni firmate dal precedente governo a condizioni molto onerose.
C’è da tenere ben presente che questo esborso è avvenuto nonostante gli appelli contrari, provenienti persino dalla Asamblea Nacional [il Parlamento NdT], perché proprio in quel momento non c’erano soldi per soddisfare le richieste del settore sanitario sopraffatte dalla pandemia, come denunciato dal Ministro della Salute nella sua lettera di dimissioni, presentate quasi nello stesso momento in cui veniva pagato quel debito.

E tutto questo pandemonio viene esacerbato da un contesto politico sempre più estraniato, in cui emergono piccoli interessi di vari politici impegnati a pescare nel torbido, in uno scenario di crescenti disuguaglianze acutizzate dalla stessa pandemia.
In questo contesto si avvertono ancor più le carenze strutturali e congiunturali del sistema sanitario, che aggravano ulteriormente le suddette diseguaglianze.

Come il neoliberismo ha portato al collasso il fragile sistema sanitario progressista

A prima vista, la gravità della crisi sanitaria in Ecuador si spiega con i tagli brutali e irresponsabili degli investimenti sulla salute pubblica da parte del governo del presidente Lenín Moreno.
Dai 353 milioni di $ previsti nel Piano sanitario 2017 si è passati ai 302 milioni del 2018 ed ai 186 milioni del 2019, una riduzione aggravata dall’incapacità di stanziare effettivamente l’importo assegnato in bilancio — anche a causa delle pressioni derivate dall’austerità fiscale — che si è conclusa con un investimento reale di 241 milioni nel 2017, 175 milioni nel 2018 e 110 milioni nel 2019.
Questa riduzione, nel quadro dell’austerità imposta dal FMI, ha gravemente compromesso la disponibilità di forniture sanitarie, la costruzione di infrastrutture ospedaliere e persino l’esistenza di personale medico, che è stato licenziato in massa nel 2019 (si stima siano state licenziate circa 3.000 persone).

Anche il personale degli ospedali pubblici ha subito una riduzione dei salari di quasi il 30% (da $ 591 a $ 394), con un impatto immediatamente avvertito dai settori più poveri e vulnerabili del paese, che sono quelli che si rivolgono maggiormente ai servizi sanitari pubblici2.
L’insieme di queste politiche fiscali recessive ha comportato un grave impatto sulla capacità di assistenza in caso di emergenza.
Ma senza voler minimizzare la fallimentare decisione di ridurre gli investimenti nella salute, il problema è più complesso.

Arteaga Cruz, un’esperta in materia, segnala come lo stanziamento pubblico destinato al settore della salute – non solo per affrontare queste emergenze, ma per sostenere un sistema sanitario prevalentemente curativo e, in buona parte, di mercato – cada in “un pozzo senza fondo”3.
La tragedia sanitaria non è semplicemente una questione di risorse o capacità di risposta in situazioni di emergenza, ma è anche il risultato di un sistema pieno di carenze.
È opportuno approfondire rapidamente questa realtà.

Dopo la promulgazione della Costituzione di Montecristi nel 20084 era stato proposto un cambiamento sostanziale nella gestione dei servizi della sanità pubblica.
Per concretizzarlo si era stabilito che, oltre a considerare la salute come un diritto, le risorse per occuparsene dovevano essere aumentate in modo sostanziale: il 4% del PIL era l’obiettivo minimo fissato.
Secondo la narrazione ufficiale del governo di Rafael Correa (2007-2017) i risultati materiali risultavano evidenti: 13 nuovi ospedali e altri 8 in via di costruzione; 61 nuovi centri sanitari grandi e piccoli ed altri 34 in costruzione.
La vaccinazione era passata da 11 a 20 vaccini specifici somministrati dal sistema pubblico, con un investimento di 60 milioni di dollari.
Il numero di operatori sanitari era aumentato da 9 a 20 per 1.000 abitanti e la media giornaliera delle ore lavorate di questi professionisti  era raddoppiata. Nel 2016 erano state effettuate 41 milioni di prestazioni sanitarie.
L’investimento totale in 10 anni di governo Correa era ammontato a 16.188 milioni di $, e in termini di sicurezza sociale c’erano stati anche alcuni ampliamenti significativi.

Sebbene sia innegabile che tra il 2006 e il 2017 la copertura dei servizi sanitari sia stata modernizzata e ampliata, al di là della propaganda ufficiale i problemi sono molti.
Non solo perchè gli investimenti nella salute nei dieci anni della “revolución ciudadana” non hanno raggiunto l’obiettivo costituzionale del 4% del PIL, superando di poco il 2%, anche se  in crescita rispetto ai governi precedenti.
Ma, come osserva Arteaga Cruz, perché hanno promosso l’accumulazione di capitale nelle industrie di produzione dei beni, infrastrutture e servizi sanitari, prodotti farmaceutici e assicurazioni private, dando impulso allo smantellamento relativo della sicurezza sociale attraverso il trasferimento di fondi pubblici alle cliniche private.
Non sono serviti a fare in modo che le famiglie ecuadoriane spendessero meno per curarsi, visto che il 45% della spesa familiare è ancora destinata alla salute.

L’obiettivo era quello di realizzare un sistema sanitario che integrasse la sicurezza sociale e il sistema di salute pubblico e che fornisse una copertura universale.
Tuttavia, gli indicatori della salute pubblica che rivelano gli impatti delle politiche sanitarie del decennio correista non sono incoraggianti.
La propaganda glissa sullo smantellamento della sicurezza sociale a causa, tra l’altro, dell’eliminazione del contributo del 40% alle pensioni di anzianità da parte dello Stato, spiegabile con l’inadeguata e persino corrotta gestione dell’Istituto per la Sicurezza Sociale Ecuadoriana (IESS).
Non si dice nulla sui sovrapprezzi delle opere e degli acquisti delle forniture effettuate.

Si parla dell’aumento del numero di vaccini specifici, ma non si forniscono i dettagli sulla riduzione della copertura vaccinale nello stesso periodo.
La mortalità materna ha continuato ad essere una fra le più alte nella regione delle Americhe, con enormi diseguaglianze sociali. Un’adeguata copertura del controllo prenatale è stata assicurata solo per il 24,6%.
Arteaga Cruz ci ricorda come siano riapparse malattie come la malaria, che erano diminuite significativamente nei decenni precedenti.
La copertura universale del diritto alla salute – un obiettivo lodevole – è rimasta un sogno irrealizzabile nel momento in cui si è mantenuta una visione curativa propria del paradigma clinico, sanitario e commerciale, basato su soluzioni standardizzate.

Un’altra lacuna significativa è stata quella di trascurare l’enorme potenziale della prevenzione e, tra l’altro, le conoscenze ancestrali delle culture e dei popoli indigeni, che possono diventare un pilastro di un sistema sanitario forte, basato su pratiche comunitarie e partecipative.
In sintesi, ciò che si è ottenuto attraverso un processo di privatizzazione, come notò opportunamente Pablo Iturralde, è accumulare capitali nelle tasche del complesso medico industriale, emarginando altre potenti opzioni per costruire un sistema sanitario diversificato, forte ed efficace, focalizzando effettivamente la salute come diritto5.

Il settore sanitario, nel mezzo di questo “silenzioso” processo di privatizzazione (Arteaga Cruz dixit), è stato integrato all’interno del modello di amministrazione statale imposto dal Correismo, con il quale si pretendeva di modernizzare il capitalismo.
E che ha permesso ai più potenti gruppi economici di disputarsi le risorse pubbliche, rendendo possibile ai grandi beneficiari del governo Correa di inserirsi in tutti i settori.
La salute non ha fatto eccezione.
Arteaga Cruz è risoluta quando afferma:

L’investimento sulla salute nella decade di Rafael Correa è stato sperperato in grandi opere che hanno generato potere politico e ideologico, ma non sono riuscite a trasformare o costruire un sistema basato sulla promozione della salute. Al contrario, con la centralizzazione delle decisioni nello stato-nazione e con l’adozione di un modello medico curativo, si sono sciolte diverse organizzazioni di promozione di salute autonome, e il ruolo delle ostetriche è stato separato dalle comunità.
Non si è compreso che la salute non si riduce alla fornitura di servizi sanitari scadenti per i poveri (coloro che nel lungo periodo sono e saranno i più colpiti dalle attività estrattive e dalle modalità di produzione malsane)
.”

Ed è questo sistema sanitario, con alcune caratteristiche proprie della città di Guayaquil, quello che fallisce davanti al coronavirus, come vedremo più avanti.

Il privilegio di classe della quarantena

Tenendo conto che il coronavirus ha sorpreso i sistemi sanitari di tutto il pianeta, la decisione di stabilire una quarantena per tentare di rallentare la sua avanzata è ragionevole, specialmente nelle città più grandi.
“Restare a casa”, sì, ma la domanda è: chi può rimanere a casa e sopravvivere?
È già difficile restarsene in quarantena a casa per chi dispone di alcuni comfort e non subisce pressioni economiche.
La questione è molto più complessa per quei gruppi strutturalmente privi di protezione che non hanno alloggi adeguati, reddito stabile o risparmi e che vivono in condizioni subumane, nelle baracche o dormendo per strada.
Fino al 2016, secondo il Programma Nazionale per l’Edilizia Sociale, il 45% dei 3,8 milioni di famiglie ecuadoriane viveva in abitazioni precarie. Vi sono 1,37 milioni di famiglie che abitano case costruite con materiali inadeguati, prive di servizi sanitari di base e / o con problemi di sovraffollamento.
E questa situazione non è cambiata, anzi, con le politiche recessive che durano dal 2015, deve essere peggiorata.

Immaginiamo, allora, come può essere la vita di centinaia di migliaia di persone che non hanno una casa, una situazione ancora più complessa in una città di milioni di abitanti come Guayaquil, caratterizzata da enormi disuguaglianze.
Una città dove il tempo in questo periodo dell’anno è particolarmente duro a causa delle alte temperature e di altri disagi tipici di questa epoca.
Come richiedere adeguati comportamenti sanitari quando non c’è acqua potabile; come aspettarsi che l’istruzione o il lavoro a distanza funzionino se il 60% della popolazione del paese non ha accesso a Internet e non ha nemmeno un computer, come esigere che le persone anziane che vivono sole e in un’enorme precarietà rimangano a casa.
Teniamo presente queste realtà.
E poi, quante persone in Ecuador hanno un reddito stabile? Sappiamo che oltre il 60% della popolazione economicamente attiva, circa 5 milioni di persone, non ha un’occupazione adeguata.
Ciò significa che la maggior parte di queste persone vive alla giornata.

Sono venditori ambulanti, muratori, sarti, cucitrici, autisti, persone che forniscono assistenza in diverse aree e servizi. Ad esempio, le persone che vivono servendo pranzi in piccoli ristoranti sono totalmente prive di protezione.
L’infezione, mentre si diffonde, dimostra anche tassi di mortalità e contagio in termini di classe, approfondendo le differenze tra la città costruita (quella dei gruppi benestanti) e la città dei costruttori, che è spesso quella dei quartieri marginali o delle baraccopoli.

La pandemia, quindi, da un lato disvela brutalmente la realtà dell’ingiustizia sociale, della iniquità e delle disuguaglianze e, dall’altro conduce ad un aumento della povertà.
La Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL) prevede già – in base alle stime preliminari – che l’impatto del coronavirus potrà causare un aumento di 35 milioni di poveri in America Latina, senza considerare l’impatto della grave recessione economica mondiale che era già in corso prima della comparsa dell’epidemia6.
E l’Ecuador, negli scenari delle organizzazioni multilaterali, come la CEPAL stessa o il FMI, appare come il paese che soffrirà il maggiore impatto in questa crisi congiunta di pandemia e recessione.  (Continua)

(*) L’economista Alberto Acosta Espinosa è fra i padri della Costituzione dell’Ecuador.
Sostenitore della prima ora della Revolución Ciudadana, ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo di Rafael Correa, prima di maturare la rottura con il Correismo su posizioni antiestrattiviste ed antiautoritarie.
Attualmente è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, e pienamente interno al dibattito dei movimenti sociali latinoamericani.
Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.


  1. Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense. 

  2. Arteaga Cruz, E., Cuvi, J., Maldonado, X. , ¿Salud en tiempo de austeridad?, Ecuador Today, febbrio 2019. 

  3. Arteaga Cruz, E., El legado de la ‘Revolución Ciudadana en salud’: La historia de una ‘década ganada’ ¿para quién?, in AA. VV., El Gran Fraude ¿Del correísmo al morenismo?, Quito. 

  4. La Costituzione di Montecristi del 2008 è l’attuale costituzione dell’Ecuador. E’ una delle più avanzate del mondo sia perché sorta da un ampio processo partecipativo, sia per il riconoscimento della natura plurinazionale e interculturale dell’Ecuador, sia per il riconoscimento della Natura come soggetto di diritto. 

  5. Iturralde, P., Privatización de la salud en el Ecuador. Estudio de la interacción pública entre hospitales y clínicas privadas, Quito, Fundación Donum, 2015. 

  6. CEPAL, América Latina y el Caribe ante la pandemia del COVID-19. Efectos económicos y sociales”, Santiago, 2020. 

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“Disarmare la guerra e il capitalismo estrattivista”. Interviste boliviane (2/2) https://www.carmillaonline.com/2020/02/16/disarmare-la-guerra-e-il-capitalismo-estrattivista-interviste-boliviane-2-2/ Sat, 15 Feb 2020 23:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58077 di Alessandro Peregalli

[Mar è mediattivista del giornale multimediale indipendente chiamato Chaski Clandestina, con cui ha documentato importanti lotte avvenute in Bolivia negli ultimi anni, da quelle portate avanti dal sindacato CSUTCB (Confederazione Sindacale Unica di Lavoratori Contadini della Bolivia, NdR) nell’altopiano paceño ai tempi della Guerra del Gas (2003) a quelle, più recenti, in difesa dei territori contro le grandi opere estrattive promosse dal governo di Evo Morales. Fa anche parte di un collettivo femminista chiamato Desarmar la Guerra. Qui l’intervista con l’autore.]

Qual è stata la vostra postura [...]]]> di Alessandro Peregalli

[Mar è mediattivista del giornale multimediale indipendente chiamato Chaski Clandestina, con cui ha documentato importanti lotte avvenute in Bolivia negli ultimi anni, da quelle portate avanti dal sindacato CSUTCB (Confederazione Sindacale Unica di Lavoratori Contadini della Bolivia, NdR) nell’altopiano paceño ai tempi della Guerra del Gas (2003) a quelle, più recenti, in difesa dei territori contro le grandi opere estrattive promosse dal governo di Evo Morales. Fa anche parte di un collettivo femminista chiamato Desarmar la Guerra. Qui l’intervista con l’autore.]

Qual è stata la vostra postura durante i governi di Evo Morales e nella recente crisi politica che ha colpito la Bolivia?

Noi siamo molto critici con il governo di Evo fin dal 2011-12, quando è stata più evidente la politica estrattivista del governo (grandi opere, idroelettriche, trivellazioni), con forti ripercussioni nei territori indigeni. Però durante la crisi di fine 2019 all’interno dei medios libres sono sorte divisioni: molti compagni hanno assunto una posizione di difesa del governo di Evo, rivendicando le conquiste dei primi anni, altri hanno preso una postura così ferocemente avversa al governo che hanno di fatto avallato le posizioni razziste prevalenti nell’opposizione e sono arrivati a difendere l’operato di paramilitari motoqueros e della polizia. Con Desarmar la Guerra abbiamo provato a mantenere una posizione intermedia, che uscisse dalla polarizzazione, che non fosse né un’adesione intransigente al governo di Evo né una difesa di quello di Jeanine Añez.

Quando è degenerato il proceso de cambio?

La proposta politica del MAS, in realtà, è sempre stata un po’ polemica. Per esempio, durante la Guerra del Gas del 2003 il MAS aveva una posizione opportunista, non particolarmente attiva in una lotta dove invece hanno avuto un ruolo centrale le comunità aymara e il sindacato CSUTCB. Dopodiché, non si può negare l’importanza del MAS per le lotte del movimento cocalero del Chapare, nella zona di Cochabamba. Bisogna anche sfatare il mito per cui il MAS sarebbe un movimento indigeno: il Chapare non è un territorio indigeno, ma una terra di coloni immigrati nel tempo da altre zone della Bolivia; solo in un secondo momento, quando si è affermato come forza politica nazionale, il MAS ha cominciato ad adottare un discorso indigeno. Ciò non nega che la vittoria del MAS nel 2005 sia stata un fatto importantissimo, che ha permesso di rompere una lunga storia di razzismo e di costruzione coloniale dello Stato.

In un primo periodo il proceso de cambio è andato avanti in maniera eterogenea, con molto appoggio popolare, tanto che quando ci fu il primo grande conflitto con l’élite di Santa Cruz, tra il 2006 e il 2008, molta gente era disposta ad arrivare alla guerra civile pur di difendere lo Stato Plurinazionale. E in quell’occasione Evo tenne duro. Ciò nonostante, già allora erano emerse le prime crepe: a dispetto della presunta nazionalizzazione degli idrocarburi, che poi era una semplice rinegoziazione dei contratti, il governo concesse alcuni territori indigeni alla Shell mentre derogò parti della Ley de Tierras a favore dei latifondisti cruceñi. Ma la rottura storica è stata nel 2011, quando abbiamo visto le immagini della polizia che reprimeva una manifestazione pacifica di indigeni del TIPNIS che lottavano contro la costruzione di una strada sul loro territorio. Lì ci siamo resi conto che il governo aveva chiuso i margini del dialogo. Anche dopo che la pressione popolare lo aveva costretto a derogare il progetto, ha reiteratamente cercato di riattivarlo, cercando di corrompere alcuni settori indigeni e occupando con la forza le sedi delle organizzazioni CIDOB (Confederazione dei Popoli Indigeni dell’Oriente Boliviano, NdR) e CONAMAQ (Consiglio Nazionale di Ayllus e Markas di Qullasuyu, NdR). E le stesse pratiche le ha messe in atto più tardi per l’idroelettrica di Rositas e quella di Chepete Bala e in altre occasioni. Il processo quindi si è degradato poco a poco col tempo. Un aspetto importante di questa degradazione è stato l’egolatria di Evo, il culto alla personalità, però il vero problema è stato il modello economico.

Tutte queste cose hanno portato gran parte della base a distanziarsi dal processo, e questo è stato evidente lo scorso novembre quando il MAS ha convocato con una grande mobilitazione a La Paz in difesa del governo, ma non è accorso nessuno.

Quali sono state le maggiori conquiste del governo del MAS?

Il fatto stesso che una persona di origini indigene diventasse presidente e che l’apparato dello Stato venisse occupato da gente morena, proveniente dalle organizzazioni popolari, è stato un vero e proprio terremoto politico. Un altro enorme successo è stata la costituzione dello Stato Plurinazionale, il culmine di una lotta centenaria e che stabilisce principi avanzatissimi come l’autonomia e la giustizia indigene. Purtroppo però insieme a queste cose ce ne sono state altre che le depotenziavano: per esempio, il MAS ha approvato una legge che ha messo in deroga aspetti della giustizia indigena, ha limitato di fatto le autonomie per dare più accesso alla terra all’agribusiness, ha limitato il diritto alla consulta indigena per far avanzare le grandi opere.

Il 20 ottobre scorso ci sono stati brogli elettorali?

Sinceramente credo di sì. Inizialmente la cosa che per tutti era sospetta è stata la scelta di sospendere il conteggio rapido del voto per 20 ore, mentre gli exit poll dicevano chiaramente che si sarebbe andati al ballottaggio. Poi sono stati pubblicati vari report, alcun che parlavano di fraude, altri che lo negavano. Tra i primi, il meno attendibile è stato proprio quello dell’OSA (Organizzazione di Stati Americani, la cui presa di posizione il 10 novembre a favore di nuove elezioni ha causato la caduta di Evo, NdR), perché era evidente che rispondesse a logiche politiche. Però il report più convincente è stato quello fatto dall’ingegner Villegas, che aveva trovato 12 prove di brogli (atti che non coincidevano con il conteggio, atti trovati in case private, firme fatte dalle stesse persone…) a cui il governo non ha saputo rispondere.

Com’era composto il movimento che denunciava il fraude?

All’inizio era gente di classe medio-alta, abitanti dei quartieri agiati, studenti delle università private. Dopo qualche giorno hanno iniziato ad aggiungersi gente proveniente da quartieri più popolari. Gli slogan erano razzisti e sessisti, e in generale io, che come giornalista “coprivo” le manifestazioni, mi sono sentita così poco a mio agio che non ho pubblicato nulla, per non essere megafono di una protesta del genere. Ma nella seconda settimana c’è stato un fatto nuovo: è scesa in piazza la FEJUVE (Federación de Juntas Vecinales de El Alto, NdR) Contestataria, ossia la parte dissidente e antimasista di un’organizzazione storica che aveva lottato nella Guerra del Gas. Gridavano contro il “tradimento” di Evo.

Come si è sviluppata la dinamica che ha portato alla caduta di Morales?

C’è stata un’escalation della violenza che ha attraversato tutta la società boliviana e ha imposto il paradigma della guerra civile. Qui nella zona di La Paz ed El Alto ci sono stati molti saccheggi di negozi da parte di gente del MAS. Erano contadini e minatori affluiti a La Paz dalle campagne per contrastare i blocchi, quando Evo era ancora presidente; certamente molti di loro erano in buona fede e lo facevano per difendere il loro governo, ma sta di fatto che vedere minatori e contadini lanciare dinamite contro gli studenti è stato molto forte, una rottura storica. Una volta dimessosi Evo, queste persone, armate dal partito, hanno iniziato a saccheggiare e a diffondere il terrore, portando molta gente dei quartieri a organizzarsi per contrastarli. La cosa assurda della situazione è che a El Alto dopo la caduta di Evo la gente non sapeva se mobilitarsi per contrastare il golpe della Añez, cosa che molti hanno fatto e che è terminata con il massacro di Senkata, o per contrastare i saccheggi realizzati dalle bande masiste.

In altre città la dinamica è stata diversa: Cochabamba è stato il contesto più violento, con forte presenza di un gruppo paramilitare di gente in moto, chiamato Resistencia Juvenil Cochala, che ha letteralmente seminato il terrore, operando in collusione con la polizia. E anche a Santa Cruz era presente un gruppo fascista legato a Camacho, la Unión Juvenil Cruceñista.

La violenza ha avuto quindi diverse fasi: prima la violenza razzista dell’opposizione, culminata con l’ammutinamento della polizia; poi tre giorni di saccheggi da parte del MAS; poi i massacri da parte dell’esercito.

Il governo Añez è realmente un “governo di transizione” oppure c’è stato un colpo di Stato?

Il dibattito del se si è trattato o meno di golpe è problematico, perché per come è posto parlare di golpe significa negare i crimini e le responsabilità del governo di Evo. Però senz’altro non si può definire il governo attuale come “di transizione”: sta portando avanti decisioni politiche di enorme importanza. Diciamo quindi che da un punto di vista tecnico possiamo parlare di golpe, anche se l’esercito che l’ha promosso è stato anch’esso, potremmo dire, una creazione del MAS. Oltretutto, in molti casi, come in politica ambientale, le decisioni di Añez sono in continuità con il governo di Evo: pensiamo ai progetti estrattivi o alle norme pro-agribusiness che autorizzano i disboscamenti nella regione amazzonica.

Cosa pensi della situazione degli ex ministri del MAS, accusati di sedizione e terrorismo, rifugiatisi nell’ambasciata messicana e a cui il governo di Añez sta negando il salvacondotto?

Noi eravamo contro il discorso “antiterrorista” quando lo usava Morales e lo siamo anche ora. E’ una vergogna che gli venga negato il salvacondotto, però non possiamo nemmeno negare che questi ministri quando erano al potere organizzavano le peggiori persecuzioni politiche: ai giornalisti, alle organizzazioni indigene…

Che scenario vedi per la Bolivia nel breve e nel lungo periodo?

Per ora lo scenario è elettorale ed è difficile per tutti, soprattutto per il MAS, perché deve ricostruirsi e senza la figura di Evo sono venute alla luce profonde divisioni interne che prima erano latenti. Anche se il MAS, come probabile, non vincerà, manterrà comunque una forza molto grande. C’è purtroppo la possibilità che vinca Camacho, e questo creerebbe una polarizzazione sociale enorme, perché si tratta di un fascista che oltretutto rappresenta i latifondisti e i settori religiosi più reazionari. La vera sfida sarà però uscire dagli schemi partitici e organizzare una lotta di resistenza più lunga, perché sappiamo che chiunque vada a governare, l’estrattivismo, lo spossessamento delle terre e i massacri contro le donne continueranno.

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