La luce oscura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il castello della Malamorte https://www.carmillaonline.com/2017/11/22/castello-della-malamorte/ Wed, 22 Nov 2017 02:14:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41823 di Danilo Arona

Non molto distante da Alessandria, lungo la strada che porta a Isola d’Asti e a Mombercelli, ci s’imbatte nel bel castello di Belveglio, posto sulla cima del colle che sovrasta il paese. Come quasi tutti gli altri castelli d’Italia, Piemonte incluso, la sua storia è collegata a una serie di truci quanto tipici avvenimenti, blandamente divulgati in un dimenticato libro del ’68, Italia a mezzanotte, di Giorgio Batini: un presunto tesoro di sette tonnellate d’oro celato nelle gallerie scavate sotto il secolare edificio, un assedio sanguinoso, un duca e [...]]]> di Danilo Arona

Non molto distante da Alessandria, lungo la strada che porta a Isola d’Asti e a Mombercelli, ci s’imbatte nel bel castello di Belveglio, posto sulla cima del colle che sovrasta il paese. Come quasi tutti gli altri castelli d’Italia, Piemonte incluso, la sua storia è collegata a una serie di truci quanto tipici avvenimenti, blandamente divulgati in un dimenticato libro del ’68, Italia a mezzanotte, di Giorgio Batini: un presunto tesoro di sette tonnellate d’oro celato nelle gallerie scavate sotto il secolare edificio, un assedio sanguinoso, un duca e una duchessa che si uccidono per non cadere in mano ai loro nemici, i fantasmi di due armigeri medioevali che compaiono in sogno a un uomo chiaramente sensitivo. Ma andiamo per ordine.

Il castello d’oggi, ennesimo rifacimento, è in realtà la restaurata cornice di un antichissimo fortilizio sovrastante una collina tufacea all’interno della quale è tutto un intersecarsi di gallerie e locali, adibiti agli usi più disparati (prigioni, vie di camminamento, depositi per viveri, sale di tortura). Come spesso capita, sin dai tempi più antichi, il maniero godette di fama lugubre e leggendaria. Si racconta che i popolani evitassero con cura di passare sotto il colle di Belveglio per timore d’incontrare le migliaia di fantasmi di tutti coloro che erano stati torturati, impiccati o lasciati morire di fame nelle segrete. Questo perché, ma lo si dice di tutti i castelli, si udivano lamenti e rumori strani, nonché si captavano apparizioni sinistre accompagnate dal consueto repertorio di luci e fiammelle vaganti. La storia del castello è peraltro ricca di episodi in tema.

Al sedicesimo secolo, infatti, risale l’evento che regalò alla magione il soprannome di “Malamorte”. Un arciere della guarnigione, bel pivello ma piuttosto spiantato, s’innamorò perdutamente di Eleonora, figlia del ricco e potente proprietario e riuscì, complice il suo indubitabile fascino, a farsi ricambiare appieno dalla giovane nobildonna. Comprendendo ambedue che mai avrebbero potuto coronare la loro storia alla luce del sole, decisero allora di fuggire dal castello e architettarono un piano con l’aiuto di altri commilitoni del ragazzo. I due, in una notte senza luna, si calarono con una fune dalle mura della fortezza. Ma il solito, sordido delatore aveva preavvertito il padre della ragazza che si fece trovare ai piedi del castello, circondato da una schiera di armigeri. Così Eleonora fu allontanata ed esiliata in un’altra regione, mentre i complici della fuga subito impiccati ed esposti ai torrioni. In quanto al focoso arciere, la sua sorte fu orribile perché scaraventato in un profondo sotterraneo e lasciato senz’acqua e cibo sino alla morte.

Un altro, significativo episodio in grado di “segnare” l’aura del castello di Belveglio fa riferimento alla brutalità di un militare spagnolo, Alonzo Arana, che per un certo periodo comandò una guarnigione di soldati di ventura, quelli che il Manzoni definiva “bravi” e che di solito erano tutt’altro che bravi. Un giorno Alonzo scorse una bella ragazza dei dintorni, sposa recente, e decise di puntimbianco di farla sua. Così, senza tanti complimenti, come si usava allora attraverso l’usanza dello ius primae noctis, fece rapire la bella dai suoi bravi e la fece depositare direttamente in camera da letto, opportunamente impacchettata come un salame. Quando il legittimo marito si presentò alla porta del castello per protestare la restituzione del maltolto, Alonzo intimò ai suoi sgherri di catturarlo e, davanti a lui, si esibì in tutte le prodezze amorose che riuscì a concepire sulla poveretta che giaceva incatenata al letto. Quindi impiccò il poveraccio a una trave. Dopo l’infame violenza, la ragazza venne gettata fuori del castello, ma, ormai del tutto priva di senno, iniziò a vagare inebetita per le campagne sotto l’occhio pietoso dei suoi compaesani. Ciononostante giunse il giorno del “redde rationem”. Un pomeriggio, infatti, la povera vittima incontrò casualmente in un bosco il feroce Alonzo e, unicamente sostenuta dalla forza della disperazione, lo aggredì per strangolarlo. Lo spagnolo sguainò un lungo pugnale per difendersi dalla furia della creatura cui aveva carpito la virtù e la ragione. Ma, nella colluttazione susseguente, sia la vittima sia l’aguzzino perirono nello stesso istante. Qualche anno dopo, in seguito a una parziale distruzione, il castello fu utilizzato soltanto come prigione e altri terribili episodi andarono ad arricchire il già notevole repertorio di orrori concreti e presunti quando non soprannaturali.

A Torino, la notte del 3 novembre 1953, un certo Carlo Barberis, personaggio in odor d’essere considerato un “settimino” per aver fatto nel corso della sua vita diagnosi spontanee e operato guarigioni su parenti e amici con la sola imposizione delle mani, ebbe un sogno premonitore. Un’esperienza per lui certamente non nuova.

“Sognai due armigeri in tenuta medioevale” raccontò il Barberis al giornalista Giorgio Batini. “Uno era piuttosto piccolo e grasso, mentre il suo compagno appariva più alto e più magro. Rivestivano armature medioevali, anzi ricordo che a quello più alto l’armatura andava piuttosto stretta e corta. A un certo punto costoro iniziarono a ripetermi con voce ferma e autoritaria, ‘Cerca il castello della Malamorte nel Monferrato’”. E, per evitare che il Barberis potesse sbagliare indirizzo, data la quantità d’antichi manieri in Piemonte, gli fecero pure da guida, sempre naturalmente in sogno, nella visita al castello di Belveglio. Infatti, all’onirico seguito della strana coppia, il Barberis visitò un turrito edificio che mai aveva visto in vita sua, transitando attraverso ampi saloni e lunghi corridoi. Gli armigeri, durante la visita, si comportarono da perfetti ciceroni, pur potendosi definire fantasmi a pieno titolo. Infatti gli comunicarono che in una certa zona dei sotterranei giacevano occultati diversi barili colmi di antiche monete preziose e altri oggetti auriferi accanto alle mummie di un principe e una principessa. Come supplemento finale, una visita accurata anche sulle mura esterne. Al punto che, al risveglio, il Barberis conosceva, di sopra e di sotto, di fuori e di dentro, un castello di cui aveva sempre ignorato l’esistenza.

Chiunque si sarebbe fatto una risata senza prendere sul serio il sogno. Il Barberis, avvezzo a esperienze similari, partì subito alla volta del Monferrato, trovò abbastanza rapidamente il paese di Belveglio e il suo castello e restò di stucco quando poté costatare a pochi metri di distanza che la costruzione risultava identica a quella vista in sogno. Le ciliegine sulla torta apparirono quando gli abitanti del paese lo informarono che da sempre quello era il “castello della Malamorte”, e quando scoprì ai piedi dell’edificio un cunicolo scavato nel tufo e protetto da un rugginoso cancello. Infatti, proprio da quell’apertura, le sue guide in armi lo avevano fatto uscire dalle segrete per fargli esplorare le parti esterne.

Due ore dopo il suo arrivo in Belveglio, il signor Barberis già stava trattando l’acquisto del castello con il nobile che ne era proprietario. Anche costui sapeva delle voci a proposito di un tesoro nascosto nei sotterranei, e cioè di un forziere che, secondo la leggenda, avrebbe dovuto contenere cinquantamila gioielli già appartenuti a Giacomo del Verme. Il nobile che adesso passava di mano aveva già espletato ogni tipo d’indagine, ma senza alcuna fortuna. Firmò l’atto di vendita, un po’ per stanchezza e un po’ perché travolto dall’entusiastica decisione del Barberis.

Il nuovo proprietario, una volta insediatosi, iniziò subito le ricerche, partendo dalla collina e dal terreno circostante. Non l’ambiente vero e proprio del castello, perché l’edificio è, come abbiamo già scritto, un rifacimento postumo che conserva poco o nulla dei precedenti fortilizi. Ma le sacche e le segrete sotterranee, laddove lo avevano condotto gli armigeri del sogno.

Barberis si servì di chiunque potesse essergli d’aiuto: rabdomanti, spiritisti, medium, radioestesisti, sminatori e artificieri. Vi fu, ad esempio, un rabdomante che indicò una zona abbastanza lontana dal castello, che Barberis acquistò per scoprire in seguito che il sensitivo era stato attirato in quel posto dalle “vibrazioni” di una pozza di metano e non da quelle del suo tesoro.

Dopo diversi tentativi tutti quanti a vuoto, Barberi fu informato da qualcuno che a Milano viveva un famoso specialista di ricerche, l’ingegner Alessandro Porro, che era riuscito a perfezionare in tanti anni di studio uno speciale apparecchio d’indagine spettroscopica da lui stesso impiegato con grande successo in ricerche minerarie e archeologiche. In provincia di Crema, ad esempio, per conto della Sovrintendenza alle antichità di Milano, l’ingegner Porro era riuscito a individuare e a descrivere una tomba dell’epoca longobarda, in seguito riportata alla luce.

Lo strumento del Porro, basato su un sistema di radio-onde proiettate nel sottosuolo, fu impiegato nella ricerca del fantomatico tesoro e ottenne risultati sbalorditivi, tali che l’ingegnere fu in grado di compilare una dettagliata mappa dei sotterranei del maniero, accertando la presenza di ciò che restava di due cadaveri – un uomo e una donna – adagiati in un sepolcro e, soprattutto, confermando che in una sala sotterranea si trovavano numerosi recipienti colmi di oggetti preziosi e di monete d’oro.

Come riportò il giornalista Giorgio Batini nel libro Italia a mezzanotte, all’esistenza di tanta ricchezza venne data una spiegazione storica, che la stampa nazionale di allora non si lasciò sfuggire: “Bisogna tornare indietro di secoli e fermarsi alla metà del XVI secolo, quando era in atto, con Carlo V e il futuro Filippo II, la dominazione spagnola del Ducato di Milano. In quel tempo il duca Carlo Maria Matteo Farnese, probabile figlio bastardo di Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza, e quindi nipote di papa Paolo III (che in gioventù aveva avuto non poche avventure galanti, con relativa figliolanza), era fuggito da Piacenza dopo che la congiura ordita da Ferrante Gonzaga aveva spodestato suo padre Pier Luigi e aveva dato la città in mano alle truppe spagnole. Il duca fuggiasco si era arroccato nel castello di Belveglio, insieme alla moglie Zeusa Ellenica, a un forte gruppo d’armati, e una considerevole fortuna in oro e gioielli, riuscendo a resistere vittoriosamente all’assedio degli spagnoli per lungo tempo”.“Il castello – continua il Batini – era praticamente imprendibile per la sua posizione, per le sue mura possenti, per i pozzi che garantivano l’acqua, per i camminamenti segreti che consentivano sortite e rifornimenti di viveri e anche per le virtù militari del Farnese. Nelle file degli avversari combatteva però la tenacia. Gli Spagnoli non se ne andarono mai. Sembra che assediassero Belveglio per ben tre anni. Alla fine, il duca Matteo Farnese comprese che era giunta l’ora di dover capitolare. Non concependo di darsi prigioniero, di far subire oltraggi alla moglie e meno che mai di consegnare il tesoro ai nemici, il duca preferì la morte. Discese nei sotterranei con la moglie, riunì intorno a sé tutte le ricchezze della famiglia, fece crollare le gallerie di accesso, e infine si avvelenò con la bellissima Zeusa Ellenica. Si dice che anche alcuni fedeli soldati della guarnigione si avvelenassero per seguire la stessa sorte dell’eroico capitano. Gli spagnoli presero dunque il castello, ma restarono con un palmo di naso. Dell’oro, degli zecchini, dei gioielli, del favoloso patrimonio dei Farnese, non trovarono alcuna traccia”.

Torniamo allora all’inizio degli anni Sessanta e alla caccia di Barberis. La stupefacente rivelazione consisteva nel fatto che la strumentazione di Porro aveva confermato in pieno quanto il  torinese aveva appreso in sogno da due fantasmi in armatura. E nella cripta segreta di Matteo Farnese, così asserì il Porro, i due sposi suicidi giacevano imbalsamati, tenendosi per mano all’interno di un sarcofago istoriato. Lui con una spada d’oro, un elmo da parata e anelli con diamanti e smeraldi, lei uno splendido diadema con rubini, collana di zaffiri, bracciali, anelli e orecchini in quantità. Poi, accanto al sarcofago, scrigni, mobili antichi, barili forse pieni d’oro e opere d’arte. Un tesoro all’apparenza inestimabile. Messosi perciò in contatto con la Sovrintendenza alle Antichità del Piemonte, Barberis ottenne nell’aprile del 1965 i permessi necessari e diede ordine che s’iniziassero i lavori di ricerca nel sottosuolo. Inizialmente si scavò una galleria e fu anche svuotato un profondo pozzo ricolmo di terra. In seguito i sondaggi furono più volte interrotti per infiltrazioni d’acqua e infine sospesi anche a causa di una vicenda giudiziaria sui diritti di proprietà degli eventuali beni celati nelle segrete. Da allora il silenzio è caduto sulla vicenda, e il castello di Belveglio è tornato all’attualità per essere divenuto, negli ultimi anni, al pari di tanti altri castelli piemontesi, il magnifico contenitore di eventi artistici e musicali.

Però si racconta di un inquietante prolungamento spiritico… Tra i vari tentativi messi in atto per giungere a un risultato concreto va segnalata la pratica medianica. Abbiamo già sottolineato come Carlo Barberis fosse all’epoca individuo assai noto a Torino per le sue spiccate versatilità parapsicologiche, espresse con il potere di effettuare diagnosi al solo contatto delle mani e con un magnetismo curativo, che oggi definiremmo tipico della pranoterapia, allora invece considerata oggetto quanto meno misterioso. Di sicuro la preveggenza del Barberis era stata clamorosamente confermata dal sogno che gli permise di entrare in possesso del castello di Belveglio. Ma, non potendo il nostro mettere concretamente le mani sul favoloso tesoro celato sotto tonnellate di terra nei sotterranei del maniero, allora l’uomo pensò di ricorrere all’aiuto del mondo invisibile. Non era stato forse per il messaggio onirico di due spettri che la sua vita era cambiata in modo tanto radicale?

Peraltro il Barberis pescava in un alveo che ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, non cessa di mandarci segnali: la maggior parte dei castelli piemontesi hanno il loro bravo fantasma – molti più di uno – e le loro cupe storie di sangue, di sesso e di tragedia. Veri e propri noir medioevali, che ben meriterebbero una riduzione cinematografica. Da Camino a Piovera, dalla Riotta a Tagliolo, da Roppolo a Masino, le segnalazioni – certo più sussurri che grida perché in Piemonte si è dell’idea che i fantasmi possano far scappare i turisti, a differenza di quanto accade invece in Inghilterra – non mancano di certo.

Comunque pare accertato che il Barberis organizzò due sedute spiritiche, convinto com’era che nelle mura si aggirassero non soltanto gli armigeri del sogno, ma la coppia dei coniugi suicidi. A entrambe partecipò un numero dispari di persone, o tre o cinque, non c’è dato di saperlo con esattezza. Di sicuro, durante la prima, come si verificò l’aggancio” con l’entità, il gatto del castello – un simpatico e pacifico soriano grigio che avrebbe sicuramente preferito continuare a dormire sul divano piuttosto che restare coinvolto nel soprannaturale – fu visto dagli astanti letteralmente proiettato per aria, a qualche metro d’altezza, quindi sbatacchiato a destra e a sinistra contro tutte le pareti della stanza. Come gli astanti staccarono le mani dal rituale tavolino a tre gambe, il gatto lanciò un miagolio disperato e se la diede a zampe levate, non facendosi più vedere dal Barberis per diversi giorni. Nel secondo tentativo di contatto con l’aldilà, avvenuto una settimana più tardi all’incirca, la seduta si protrasse molto faticosamente per circa un’ora, tra spifferi gelidi sulle mani dei partecipanti e strani quanto inopportuni rumori provenienti da direzioni indecifrabili. Il tutto cessò di colpo, quando la pregiata sedia di legno antico sulla quale stava assiso il padrone di casa si sfasciò di colpo, quasi sgretolandosi e facendo precipitare rovinosamente sul pavimento il malcapitato Barberis.

Come commentò a suo tempo il giornalista Giorgio Batini, nella storia del tesoro di Belveglio si trova la conferma di come si sia sempre un “qualcosa” che contende, tenacemente, ai vivi, l’oro dei morti: “Noi uomini moderni non ricorriamo più alle formule magiche per convincere i custodi dei tesori a mollare il forziere sepolto. Magari preferiamo impiegare un rabdomante elettronico, ma il fenomeno dell’opposizione perdura nel nostro tempi. Ostacoli, sempre ostacoli: scariche di fulmini, ombre di frati, caproni, serpenti, apparizioni demoniache, e magari pure carta bollata e permessi burocratici”.

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L’ascella di Metatron https://www.carmillaonline.com/2017/10/25/lascella-di-metatron/ Wed, 25 Oct 2017 01:18:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41312 di Danilo Arona

Spesso i miei saggi più significativi si autoproducono durante le interviste che generosi amici affezionati al mio lavoro di ricerca – sparso qua e là, in rete o in cartaceo, su Carmilla e altrove – ritengono di chiedermi. E la presunta bontà delle risposte dipende quasi sempre dall’intelligenza delle domande. Oggi quindi vi propongo il sunto, ridotto a saggio autonomo con l’elisione delle domande, di un’intervista fattami da Vincent Spasaro nel 2014, dove circolano un paio di considerazioni che, con il senno del poi, mi fanno un po’ tremare i [...]]]> di Danilo Arona

Spesso i miei saggi più significativi si autoproducono durante le interviste che generosi amici affezionati al mio lavoro di ricerca – sparso qua e là, in rete o in cartaceo, su Carmilla e altrove – ritengono di chiedermi. E la presunta bontà delle risposte dipende quasi sempre dall’intelligenza delle domande. Oggi quindi vi propongo il sunto, ridotto a saggio autonomo con l’elisione delle domande, di un’intervista fattami da Vincent Spasaro nel 2014, dove circolano un paio di considerazioni che, con il senno del poi, mi fanno un po’ tremare i polsi. Ma che siano pure i posteri a giudicare…

Citando uno dei miei inconsapevoli maestri, Quirino Principe, eccelso musicologo ed esoterista solitario, qui confesso che l’avere costanti rapporti con il Mistero (quello autentico e per questo passatemi la maiuscola) mi procura un esaltante piacere paragonabile soltanto a quello sessuale. Ciò affermato con il minimo sindacale di autoironia, temo di essere un uomo agnostico che vive uno stato di perenne contraddittorietà perché, pur non credendo nell’aldilà cattolico, credo nei fantasmi, non per convinzione, ma per averli “visti” e “sentiti” all’opera in parecchie circostanze in una certa mia fase di vita, anni ’90 soprattutto, dedicata al giornalismo investigativo sul paranormale e sulle storie “di confine”. Case infestate, streghe moderne, storie misteriose di provincia, soprattutto provenienti dal mio Piemonte più oscuro e sconosciuto.

Di questa attività di giornalismo investigativo, su cui ho tenuto una rubrica settimanale sul giornale di Alessandria “Il Piccolo”, si occuparono parecchi fogli di informazione, da “L’Espresso” a “Sette” del Corriere, da “Repubblica” alla RAI che una volta in seguito a un mio articolo sulle sette di Acqui Terme spedì Alda D’Eusanio con la troupe de “La vita in diretta” nella cittadina termale. Lì mi si definiva sempre, saccheggiando Bonelli e Sclavi, “indagatore dell’incubo del Monferrato” o “Dylan Dog delle Langhe”, senza ovviamente la mia approvazione peraltro mai richiesta (e ci mancherebbe…). Non è che mi ci ritrovi, ma le cose sono andate così. Insomma se lo potevi definire un lavoro, per i miei gusti era un lavoro divertente. Questo mio approccio al mistero è senza dubbio iniziato all’inizio degli anni ’80, quando, divenuto giornalista pubblicista e comunque già vecchio per pensare a un percorso professionale normale, ho deciso di ritagliarmi uno spazio di specializzazione in territori poco battuti dai colleghi sui quali mi sentivo ferrato per tutto quanto avevo letto e sperimentato in precedenza, per il mio percorso di studi (mi sono laureato in filosofia a Genova nel ’74) e per un humus cinematografico “misterioso” che mi accompagna, com’è noto a qualcuno, sin dalla prima adolescenza.

La ricerca sul campo mi ha poi insegnato a impostare e a gestire una narrativa ai confini del fantastico proprio di taglio giornalistico, una tecnica in grado di offrire verosimiglianza alle storie più strampalate e che si ritrova ben applicata, credo, in libri come Black Magic Woman, Cronache di Bassavilla e Santanta, dove i protagonisti Io narranti sono esattamente indagatori dell’incubo, atei e non credenti (mie personali proiezioni) alle prese con demoni ed eteriche creature di dimensioni parallele. Quel periodo di giornalismo investigativo è finito per un insieme di ragioni che fanno parte anche della mia vita e che qui non avrebbe senso riportare. Però le storie più incredibili continuano a farmi visita e a surrogare, in modo quasi esclusivo, il mio immaginario… che nel frattempo si è evoluto, o involuto (ai lettori l’ardua sentenza), in una narrativa diversa, più apocalittica, planetaria e meno provinciale.

A questo cambiamento non so dare una vera spiegazione. Avverto soltanto la sensazione che i “piccoli” fantasmi di provincia si sono uniti con tutti gli altri del pianeta per dar vita a un’entità cosmica, maligna, che non ci vuole affatto bene e che tutti i giorni – basta leggere i giornali – offre a chi sa vedere e leggere tra le righe della cronaca la ragione della sua esistenza. Credo di averne già scritto, senza la consapevolezza di oggi, anni fa, nel 2006, in Cronache di Bassavilla, laddove una protagonista che si chiama Lucia, per spiegare i molti misteri del libro, lancia – a pagina196 – l’ipotesi del SuperSpettro. In questo modo: Temo che non esistano i fantasmi. Magari ne esiste uno solo. Lo nutriamo noi con le nostre paure e le nostre speranze. E possiede, perciò, milioni di facce e di forme. Tutti i mostri e tutti i terrori del mondo. Un’unica, immensa entità, grande come la Terra… perché, forse, è la Terra stessa».

Come di sicuro annoterebbe Quirino Principe, questa è un’immagine che può far sorridere. Ma io non ci giurerei. E non sorrido affatto. Quel che sta accadendo – con la Terra, in rivolta letterale contro di noi – mi pare possa interpretarsi come prova a favore di una tesi all’apparenza bislacca. Ma non voglio perdermi in fumose elucubrazioni fra il mistico e il metafisico, visto poi che mi sono dato poco fa dell’agnostico. Tentando di completare la risposta, non so affatto dove mi porterà questa “passione”. Posso dire che di sicuro continuerò a indagare con gli strumenti della fiction supportati dall’approccio giornalistico che non ho mai abbandonato. Invitando quindi chi mi segue a leggere i miei lavori non soltanto come parti (dal verbo “partorire”) di una fantasia più o meno bacata, ma come frammenti di verità sconosciute che non possono che essere trasmesse al pubblico per via romanzata. E non è il caso di sottolineare che in parte ci credo.

Ci starebbe bene a questo punto un aneddoto di un certo spessore.  Forse l’ho già menzionato in  passato, ma val la pena di raccontare la parte più rabbrividente del mio primo incontro con Quirino Principe. Alla domanda su quale fosse stata la sua esperienza demoniaca più “pesante”, questa fu la risposta:

Una persona che conosco bene e di cui non posso fornire generalità mi confidò di avere avuto contatti con un padre gesuita, Cipriano Casella, che lo avviò a una conoscenza di assoluta profondità delle cose occulte. Quest’uomo si dedicò per almeno vent’anni allo studio e alla decifrazione di testi fondamentali e originali, quali la Clavicula Salomonis. Io lo seguii per un po’ aggiungendo alle letture comuni un testo prediletto e terrificante, Turba Philosophorum. Al principio degli anni ’70, per motivi diversi, ci trasferimmo entrambi a Milano dove scoprimmo, nella biblioteca Trivulziana, altri testi ancora più occulti, la trascrizione di uno dei quali può dare, secondo tradizione, possibilità di diretto approccio alle entità infernali. Tale trascrizione è infatti “condicio sine qua non” perché possa stringersi un patto di vario grado, anche revocabile. Quando il mio conoscente decise di adire a un simile contratto, ci perdemmo di vista per circostanze indifferenti, ma so per certo tuttavia che egli, accedendo a un ulteriore passaggio rituale, si fabbricò una “imago” di creta secondo le prescrizioni di un libro-guida e che la notte fra il 31 ottobre e il primo di novembre del 1971, dinanzi alla suddetta “imago”, professò soggezione al demone Metatron e adorazione di lui. All’alba la mensola su cui era posata l’imago era cosparsa abbondantemente di sangue, uscita dall’ascella sinistra della statuetta, il che significava accettazione del patto da parte dell’entità. In cambio egli ottenne per dieci anni doti di memoria e di potenza intellettuale del tutto prodigiose e inspiegabili con criteri naturali. Posso ancora dire che, a una verifica effettuata subito dopo, il sangue si rivelò identico nella composizione e nel gruppo a quello della persona che aveva stretto il patto.

Quando Quirino mi raccontava queste cose correva l’anno 1994 e allora come oggi non è che mi bevessi proprio tutto. Perciò, percependo il mio scetticismo, Quirino si alzò e uscì dalla stanza per tornarne poco dopo con in mano un oggetto avvolto in un panno scarlatto che depose con delicatezza su un tavolino vicino. Lo svolse lentamente e apparve una statuetta di circa 15 cm, dipinta a colori divenuti sbiaditi. Raffigurava un piccolo demone, con le corna, il viso ossuto, le mani adunche e unghiute. Con sul petto un quadrato dipinto, sulla tempera ocra, con una vernice bruna. E Quirino mi disse: Osserva questa striscia, questa macchia sotto l’ascella. Ti posso assicurare che è assolutamente indelebile. Ma adesso non chiedermi come mai sono in possesso di questa statuetta.

Bene, forse potrebbe bastare questo colpo di teatro per dare senso all’aneddoto, però manca un tassello. Ho ritrovato Quirino tre anni dopo, al terzo convegno sulla stregoneria di Triora, nell’ottobre del ’97, ambedue relatori. Ci siamo salutati con affabilità e lui, prima di salire sul palco a esporre la sua relazione “In armonia con Satana” (questo era il titolo…) mi ha confidato in un soffio: Mio buon amico, l’ascella è tornata a sanguinare. I patti estinti si stanno rinnovando in automatico e stanno giungendo per noi, noi occidentali, tempi orribili. Cadranno torri che si pensano incrollabili e scorrerà il sangue dalla terra e sulla terra. Riguardati e misura sempre le parole quando scrivi. Si è alzato, ha raggiunto il podio e ha poi scandalizzato, da par suo, il pubblico. Concludendo con questa frase: L’universo è Satana. Noi camminiamo sulla pelle di Satana, sulle sue ali di pipistrello. Satana è questo pavimento, questa tavola, questo pubblico che mi ascolta paziente. È l’unica realtà esistente perché l’altra è perduta, divenuta mitica. Noi dobbiamo servire questa realtà ed essere molto cauti nel parlare dell’altra. Sguardi sconcertati e qualche fischio di dissenso però, ripensandoci con il senno del poi, mancavano quattro anni al crollo delle Torri Gemelle e quelle parole, trasmesse a me in via puramente privata, risuonano dopo l’11 settembre del 2001 di tanto in tanto nella mia mente. Così come torna la fase cupamente profetica “scorrerà il sangue sulla terra” a ogni strage di massa ormai troppo ricorrente.

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Il cielo si avventò sulla terra https://www.carmillaonline.com/2017/09/30/cielo-si-avvento-sulla-terra/ Sat, 30 Sep 2017 00:47:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40894 di Danilo Arona

Come purtroppo dimostrano le cronache planetarie degli ultimi mesi, l’Apocalisse – circoscritta, individuale o ad amplissimo raggio – giunge sempre più dal cielo. Ne abbiamo più volte parlato su Carmilla citando quel che in codice metaforico in armonia con il titolo della rubrica abbiamo battezzato “Clima Oscuro”. Ma la realtà e la cronaca viaggiano più velocemente delle nostre flemmatiche elucubrazioni: vedere le Keys in TV (un bellissimo e doloroso servizio di Manuela Moreno per RAI2) distrutte e irriconoscibili, quelle Keys che sono in prima istanza un luogo del mito e dell’immaginario per merito di Hemingway e “L’isola [...]]]> di Danilo Arona

Come purtroppo dimostrano le cronache planetarie degli ultimi mesi, l’Apocalisse – circoscritta, individuale o ad amplissimo raggio – giunge sempre più dal cielo. Ne abbiamo più volte parlato su Carmilla citando quel che in codice metaforico in armonia con il titolo della rubrica abbiamo battezzato “Clima Oscuro”. Ma la realtà e la cronaca viaggiano più velocemente delle nostre flemmatiche elucubrazioni: vedere le Keys in TV (un bellissimo e doloroso servizio di Manuela Moreno per RAI2) distrutte e irriconoscibili, quelle Keys che sono in prima istanza un luogo del mito e dell’immaginario per merito di Hemingway e “L’isola di corallo”, suona come una pesante incursione dell’irrazionale in una realtà sempre più frantumata e non riconoscibile come tale. Non si tratta solo di un drastico cambiamento climatico, fenomeno che la coscienza collettiva sembra capire poco o non voler affatto capire. Si tratta di rendersi conto che quanto ci sta arrivando “dal cielo” è ormai fuori scala e, a meno di una inversione di tendenza da tutte le nazioni fortemente condivisa per quel che riguarda le emissioni di gas serra, lo sarà sempre più.

Siccome non sono un climatologo, qui la smetto. Mi occupo in realtà, come posso, degli aspetti “sottili” e metafisici della realtà percepita, per capirci, e quella meno percepita di confine. E, se quanto ci arriva dal cielo è fuori scala anche se si chiama banalmente Irma, ci muoviamo anche su detto confine. Che poi è quella demarcazione che fa esclamare a certi novantenni che sono passati indenni tra le maglie della catastrofe: «Non ho mai visto nulla del genere in novant’anni!» Dobbiamo credere a queste persone, sono nostri padri e nonni.

Il fatto è che, in un grottesco e paradossale rovesciamento culturale, il cielo da molti anni a questa parte si è esteticamente trasformato in un luogo infernale. Prima nelle arti, nella fotografia, poi al cinema e in contemporanea nella realtà. Peraltro non potrebbe essere altrimenti. Ogni biblica apocalisse racconta di fuoco e fiamme provenienti dall’alto come dall’alto sono giunti i fulmini che hanno colpito a Roma la cupola di San Pietro dopo l’annuncio delle dimissioni di Papa Ratzinger nel febbraio 2013 e la statua di Cristo Redentore a Rio De Janeiro nel gennaio 2014, generando l’attesa pletora di interpretazioni dei segni infausti. Ed è nel cielo che l’umanità da decenni vede UFO in mille varianti (comprese quelle legate ai mutamenti estetici delle varie epoche), nubi minacciose mai viste prima, supercelle, occhi di Dio o del Diavolo. Dal cielo cascano asteroidi o frammenti stellari (ancora famosa la meteora del febbraio 2013 caduta in Russia che provocò mille feriti e ripresa da più di un cellulare) e dal Grande Sopra sono giunti, inattesi, gli aerei kamikaze dell’11 settembre 2001. Watch the Skies!,  ammoniva un personaggio al telefono nella scena finale de La cosa da un altro mondo e l’esortazione che è pure anche un saggio consiglio dovrebbe funzionare ancora a distanza di 66 anni dal film di Hawks. Sono troppo alti, fuori scala appunto, i conti delle vittime – in Italia ma non solo – ogni volta che piove. Ormai le perturbazioni atlantiche, soprattutto quelle che annunciano i cambiamenti stagionali, sono cataclismi, di solito provocati dallo scontro dell’aria fresca proveniente da nord con quella calda di provenienza africana. Gli effetti sono quasi sempre nocivi tra alluvioni, corsi d’acqua che fuoriescono, trombe d’aria, grandinate e fulmini, il tutto di violenza inaudita com’è successo di recente a Livorno.

Al di là di tutte le considerazioni che qui non competono, ivi compresa l’incuria del territorio e la mano colpevole dell’uomo, è l’aspetto del cielo che si è modificato nel tempo. Un solo esempio perché recente e perché visionato dal sottoscritto che, oltre ad avere 67 anni, è sempre stato sin da piccolo col naso all’insù. Mi riferisco a una gigantesca “nuvola fungo” – la cui foto fa da corollario alla rubrica – apparsa nel cielo sopra Genova il 19 settembre scorso intorno alle 17 e visibile anche nel basso Piemonte dalle 19 in poi. Una visione inconsueta, a suo modo apocalittica e inquietante: oltre le dimensioni assolutamente inusuali della nube, peraltro in contrasto con il cielo sereno che la contornava fatto salvo per una “filiazione” lunga e scura in basso sulla sinistra, colpiva il fatto che all’interno si manifestavano bagliori rossastri, frutto di lampi e fulmini ad alta quota.

Come ha ben raccontato Genova Today, questa la spiegazione rilasciata da Arpal: «La forma, osservata da tutta la costa ligure, ricorda quella di una supercella, ossia la nuvola temporalesca più potente; e anche la durata del fenomeno, che si è sviluppato indicativamente dalle 17 alle 22, è compatibile con tale struttura». Ma la definizione di “supercella” non sembra però essere del tutto adeguata per il curioso e spettacolare fenomeno. Mancano, infatti, quelli che Arpal definisce «ingredienti fondamentali per classificarla al 100% come tale: la rotazione dei venti al suo interno (il cosiddetto mesociclone), la dimensione “contenuta” ad alcuni kmq (più simili a un “embrione” di supercella), l’overshooting top molto limitato (è il risultato della forte corrente ascensionale, il cuore della supercella, la cui spinta è capace di sfondare la barriera della troposfera, ieri intorno agli 8 km di altezza), il calo di pressione al suolo molto limitato (iniziato già in mattinata), l’eco a uncino del radar solo abbozzato (la forma tipica dovuta alla rotazione interna dei venti)». La definizione più calzante, per Arpal, sembra essere dunque “supercella acerba”, e cioè una agglomerato di nubi “acceso” dalle condizioni atmosferiche di contorno, che non è però riuscito a maturare a vera e propria supercella. Dimostrazione, secondo Arpal, dell’estrema difficoltà di previsione della reale portata dei temporali.

Sia come sia, l’impatto visivo di questa strana e suggestiva nube distesa sopra l’Appennino Ligure è stato notevole e, a suo modo, minaccioso. Perché “pulsava” dei colori che sono tipici del fuoco e delle manifestazioni estreme: la foto non rende che una minima giustizia al sinistro e primitivo fascino dell’evento.

Per concludere, limitandoci alla sola cronaca, occorre accennare a chi all’interno del cosiddetto e inverificabile Progetto Blue Beam penserebbe di fare del cielo terrestre una sorta di schermo per supposte manipolazioni e condizionamenti di massa. L’ipotesi viene rilanciata nel dicembre 2009 quando nel cielo notturno della Norvegia compare una grande spirale bluastra che ne precede una analoga che appare in Cina due giorni dopo. La spiegazione ufficiale riportata dai media per la prima e quella di essere stata generata da una serie d test militari di lanci missilistici falliti, il che non con convince affatto l’opinione pubblica. Ovviamente si diffondono le più disparate teorie: UFO, Stargate o varchi dimensionali,  apparizioni mistiche e divine. E riprende quota pure la supposta tecnologia del  Project Blue Beam, in grado di proiettare immagini olografiche nel cielo, che sarebbe un piano ideato e creato dal Governo Ombra americano (detto la Cabala) con fini e scopi ben precisi sul genere umano. Secondo il convintissimo ufologo Richard Boylan la spirale norvegese altro non è che un ologramma 3-D generato dalla Cabala per un’esercitazione di immissione di false luci nel cielo, in preparazione di una successiva proiezione di immagini di guerra psicologica, come “l’arrivo degli invasori alieni”.

Secondo il giornalista investigativo canadese, Serge Monast “si sarebbe autorizzato il Project Blue Beam come tecnologia olografica usata insieme con altre tecnologie, armi di controllo della mente che utilizzano gli effetti delle onde di radiofrequenza sul cervello. L’insieme di queste tecniche sarebbe capace di proiettare delle immagini nel cielo e di indurre il pensiero collettivo a convincere la gente che stanno vedendo un’invasione aliena o la seconda venuta di Cristo. Il progetto Blue Beam fingerà di essere l’adempimento universale delle vecchie profezie. In linea di principio, userà il cielo come uno schermo, generando le immagini simultanee di un progetto dai satelliti ad ogni parte del pianeta, in ogni lingua, in ogni dialetto, per ogni religione. Nessuna zona sarà esclusa Con l’animazione e gli effetti che sembrano venire dalle profondità dello spazio, i seguaci stupiti di varie dottrine religiose testimonieranno il loro messia, realistico e molto convincente. I vari “salvatori” allora si fonderanno in uno dopo aver chiarito le spiegazioni dei misteri, delle profezie e delle rivelazioni.”

Personalmente non credo a una sola parola del signor Monast, ma non si può negare che il cielo, a qualsiasi latitudine, da molti anni in qua stia facendo vedere “cose” mai viste. Perciò, Watch the Skies!

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Privilege https://www.carmillaonline.com/2017/09/12/privilege/ Tue, 12 Sep 2017 01:13:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40589 di Danilo Arona

Il passato è come una tigre – recitava un vecchio film che si intitolava La bambola di cera – e prima o poi ti salta addosso. È verissimo e può farti male e graffiarti, ma in certi casi la tigre in realtà è un tenero gattino. Soprattutto se riguarda i Privilege, un gruppo rock di cui sono transitato negli anni ’70 e la cui storia è divenuta negli anni una proiezione distorta a uso e consumo di un mio romanzo che s’intitola Rock.

È interessante a mio parere rievocare per sommi capi la storia dei veri Privilege per [...]]]> di Danilo Arona

Il passato è come una tigre – recitava un vecchio film che si intitolava La bambola di cera – e prima o poi ti salta addosso. È verissimo e può farti male e graffiarti, ma in certi casi la tigre in realtà è un tenero gattino. Soprattutto se riguarda i Privilege, un gruppo rock di cui sono transitato negli anni ’70 e la cui storia è divenuta negli anni una proiezione distorta a uso e consumo di un mio romanzo che s’intitola Rock.

È interessante a mio parere rievocare per sommi capi la storia dei veri Privilege per capire, qualora fosse necessario, il meccanismo creativo che sta alla base di una certa categoria di “fantastico possibile”, in questo caso derivante da una rielaborazione mnemonica di vicende oggettivamente accadute. Un esempio già transitato per La Luce Oscura sta qui: /www.carmillaonline.com/2016/04/22/la-luce-oscura-del-rock-qualcosa sinistro-accadde-12-dicembre-del-69/, ed è sufficientemente emblematico per quel che voglio enunciare, ovvero è tutto vero ciò che rievoco ma la mia mente lo trasforma in una sorta di magica manipolazione di eventi e atmosfere. In verità il passato di troppe decadi fa ben si presta a un processo del genere.

Abbandonando quindi i pistolotti teorici, cominciamo col dire che i Privilege reali nacquero nel magico anno, il 1968, e rubarono il nome a un film di Peter Watkins dell’anno prima, un’opera che mi aveva molto impressionato e molto ci azzeccava con la musica. Così lo racconta il sacro Morandini:

Un giovane divo della canzone pop, che manda in delirio il pubblico dei suoi coetanei fans con esibizioni canore impregnate di violenza masochistica, viene sfruttato da un governo di destra come parafulmine della protesta giovanile e poi trasformato in un pentito profeta religioso, adatto a spingere la gioventù verso un rientro nei ranghi di una normalità dove fede religiosa e obbedienza ai poteri costituiti sono tutt’uno. Sensibilizzato da una pittrice che l’ama, cerca di ribellarsi, ma è stritolato. Film di anticipazione politica di un regista (1935) della BBC che aveva acquisito fama internazionale con Culloden (La battaglia di Culloden- L’ultimo degli Stuart, 1964) e The War Game (Il gioco della guerra, 1966), premio Oscar per il documentario e mai messo in onda alla TV britannica, è un apologo didascalico e piuttosto isterico che come mostrano gli allucinanti riti di massa palesemente ispirati nello stile alle adunate naziste sostiene l’opinabile teoria di una contiguità e continuità tra fanatismo musicale e misticismo religioso.

Di sicuro il rivederlo oggi offre ampia sponda al giudizio di Morandini, ma per me il vederlo a 17 anni, in un mattiniero cineforum domenicale, si era rivelata un’esperienza assoluta, una sintesi quasi perfetta tra forma (le straordinarie sequenze di massa dove la musica dimostrava tutta la sua potenza manipolatrice) e sostanza (il niente affatto banale messaggio politico che ben si sposava con l’aria che tirava per merito dell’incalzante ’68). Insomma, mentre lo guardavo, già mi convincevo che il prossimo gruppo che mi avrebbe ospitato avrebbe dovuto avere quel nome per comprensibili motivi. E così avvenne.

Suonammo parecchio in giro dall’ottobre del 1968 sino a novembre dell’anno successivo finché il 14 dicembre non trovammo un TIR sul nostro cammino (per fortuna il TIR se ne andava di schiena, e per forza dovemmo interrompere di botto, è il caso di dirlo, l’attività.
Fu quella la prima fase. Il cantante e l’organista, forse scioccati dall’incidente (io, a parte i lineamenti modificati in stile mostro di Frankenstein, non ero per niente traumatizzato), se ne andarono in soccorso arrivarono altri due grandi amici, di cui uno, Rudi Bargioni, è da allora uno degli amici più fraterni, e il batterista Gian Maria Bolognini. Da lì a poco si unì per un po’ il cantante-dee jay di Radio Montecarlo Max Onorari con il quale lavorammo parecchio sul confine tra Italia e Svizzera, un po’ di qua e un po’ di là, e parte di quelle esperienze le trovate trasfigurate e reinventate ancora in Rock, soprattutto nella prima parte intitolata Gli Anni del Serpente.

Infine, come tutte le storie pure belle, anche quella dei Privilege finì. Per la precisione, nel gennaio del ’73. Un po’ per stanca un po’ per una reale mancanza di prospettive. Avevamo inciso un disco, okay, ma la Cobra Record era una piccola etichetta “indie” la cui breve vicenda terrena così è riassunta nella scheda di Wikipedia:

La Cobra Record venne fondata dal barone Enrico Carrà nel 1970; la sede era a Parma. Oltre a Carrà, facevano parte dello staff dell’etichetta Giorgio Termignoni e Rita Gioia, responsabile dell’Ufficio Stampa e Pubblicità. La Cobra Record si affidava per la distribuzione alla Saint Martin Record. Per l’etichetta pubblicarono tra gli altri l’ex componente dell’ Equipe 84 Romano Morandi (con lo pseudonimo Romano VIII), i Tombstones, Vasso Ovale, l’attrice e cantante Giulia Shell, Don Miko e il gruppo di rock progressivo Rocky’s Filj (il cui 45 giri di debutto venne pubblicato con la denominazione Roky’s Fily). A metà del decennio la Cobra Record cessò l’attività.

Non prima di avere stampato dei bootleg, che oggi sarebbero rarissimi, di Jimi Hendrix – questo su Wikipedia non lo trovate – ma potete fidarvi perché li vidi con i miei occhi in un negozio di Alessandria.

Questa è la storia, nuda e cruda e un po’ didascalica, dei Privilege. E per forza sintetizzata. In realtà vi furono mille straordinari episodi vissuti “ai confini della realtà”. In parte me ne sono servito durante la stesura di Rock, altri si possono rievocare tra nostalgia e sorrisi sulle labbra. Uno fra i tanti riguarda un bizzarro e tenero locale che dovrebbe esistere ancora e, con le inevitabili modificazioni dovute al tempo, chiamarsi Sala Venezia, come leggiamo su Facebook, detta da tutti i milanesi “la balera di Porta Venezia”: « …si mangia, si beve e si balla pure spendendo poco: liscio, mazurke, ballo del mattone e balli di gruppo, tutto suonato sempre live dalle orchestrine che si alternano ogni settimana.». Allora, nell’autunno del ’70 ci capitammo e per un po’ di tempo ci fermammo.  Era una balera ricavata da un cinema che avrebbe mandato in solluchero l‘Ettore Scola di Ballando ballando. Il gruppo musicale di turno si posizionava nello spazio della galleria, privo di poltrone, e sovrastava dall’alto la platea trasformata in pista da ballo. Dalla galleria partivano a destra e a sinistra due palchi laterali zeppi di tavolini intimi per 2 o 4 persone. Di solito i posti più ambiti, pure loro incombenti sulle teste dei ballerini più sotto.

Nel ’70 l’alternanza delle “orchestrine” che si avvicendavano lassù era un grottesco paradosso. Quando esordimmo, dopo una serata di audizione condotta a sala rigorosamente vuota e con i soli gestori molto attenti a quel che usciva dagli amplificatori e dalle casse, ci venne detto: «L’ultimo complesso è stato con noi 25 anni. Dei grandi amici. Purtroppo due di loro sono morti il mese scorso.»

La situazione non era esattamente la nostra. I Privilege  un po’ se la tiravano da gruppo pop all’avanguardia con un 45 giri all’attivo in stile prog, il mitico California Joe. In quella balera avremmo dovuto suonare invece un po’ di tutto con una notevole limitazione per la nostra vera musica e un’inquietante apertura nei confronti dell’allora detto “liscio internazionale”. Ma tant’era perché l’audizione aveva funzionato alla grande e i gestori ci avevano offerto un “piccolo” periodo in prova di sei mesi. Non era il caso di fare gli schizzinosi: lì si suonava il giovedì sera, il sabato sera e la domenica pomeriggio e sera. Pagati a forfait piuttosto bene. Insomma, se non si vedevano prospettive di respiro nazionale, quanto meno si accantonava qualche liretta. Non male per chi come me frequentava l’università.
Già, ma ancora non vi ho ancora detto il nome della balera.

Il fatto era che il locale non aveva un nome specifico. Perché semplicemente era la Sala ANCR. ANCR, acronimo per Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. Qualche problema di immagine stava per piombarci sul groppone. Come potevamo presentarci a casa (Alessandria) a sbandierare ai quattro venti che suonavamo a Milano – che raccontata così in modo generico ci rendeva molto fighi – nella sala dei Combattenti e Reduci?

Sì, insomma, a suo modo era un problema. Poi qualcuno trovò la soluzione: «Basta dire che suoniamo all’ANCR. Non mentiamo se qualcuno viene a controllare le nostre affermazioni e lasci andare la parola così… come se fosse L’ancora in francese. L’Ancre, il locale meneghino più alla moda del momento. Ci sta!»

Come questa buffonata potesse stare in piedi e resistere indomita per circa tre mesi, sino a quando non firmammo un nuovo contratto per un posto molto più di tendenza e assai chic sul lago di Lugano defilandoci così dal periodo “di prova”, è un mistero che ancora oggi perdura. Le nostre risposte alla domanda dei nostri supporter localie: Dove suonate in questo periodo, ragazzi? erano sempre inossidabili e strascicate con accento francese: «A Milano, all’Ancre, posto fighissimo con manze di prima classe», sperando che a nessuno venisse in mente di venirci a sentire, perché in quel caso erano pronte delle contromisure del tipo: «L’Ancre è carissima, amici, e bisogna prenotare con mesi e mesi di anticipo.»

Comunque in quei tre mesi ci divertimmo alla grande perché lo spazio per il rock era alla fine generoso e perché, lo affermo con assoluta nostalgia, un posto così non l’avevamo mai visto. Ai tavoli dei palchetti laterali, vogliate credermi, vedemmo sempre – tanto al giovedì che nel week-end – le stesse persone compiere quel rituale di frequentazione per quattro volte la settimana (appunto, ci stava il matinée la domenica pomeriggio). Chi mi colpì di più, soprattutto perché si sedevano sempre al tavolo alla mia immediata sinistra, fu una coppia di madre e figlia, due femmine che dalle mie parti si sarebbero guadagnate l’appellativo di “quadri antichi”, pettinate e agghindate in modo quasi conforme che tra loro non parlavano mai e ogni tanto lanciavano lo sguardo in basso oltre la balaustra. Perché laggiù in platea circolavano i gadani, ballerini, che bazzicavano il posto anche per rimorchiare. Solo che per farlo dovevano alzare lo sguardo, accontentarsi di una visione men che parziale della vittima prescelta e dal basso rivolgere l’invito che poteva essere espresso soltanto a gesti un po’ scimmieschi. La giovane, un po’ me la ricordo, per quanto “antica” era proprio bella e dalla platea le giungevano parecchi inviti quando attaccavamo la quartina dei “lenti”. Lei però non rispondeva mai. Se ne occupava la madre che con sguardo severo giudicava il postulante, quasi sempre mandandolo a stendere. Solo una volta acconsentì. Il tipo pareva Clark Gable, impomatato con chili di Linetti, baffetti alla Modugno e completo a righe stile mammasantissima. E alla madre guardiana piacque. La figlia si alzò, percorse tutto il palco e per la durata di quattro canzoni piroettò con il vetusto uomo della notte. Quattro canzoni, ovvero Let it Be, Symphaty dei Rare Bird, Summertime e I Want Togheter, una hit del nostro solista Max. Alla fine la ragazza torno su, sguardo liquido e malinconico. La scintilla non era scattata. Quei meravigliosi, complicati anni ’70 stavano iniziando e ben presto avrebbero perduto la loro magia…

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Alien https://www.carmillaonline.com/2017/08/01/alien/ Tue, 01 Aug 2017 01:11:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39747 di Danilo Arona

Alien di Ridley Scott uscì in Italia a fine ottobre del 1979. Pochi giorni dopo nelle edicole dello stivale usciva la rivista di Armenia Aliens che a suo modo intendeva capitalizzare sul presumibile successo del film. La redazione era un bel remake dei sette samurai: Curtoni, Lippi, Pagan, Nicolazzini, Caimmi, Alessandri e io che mi occupavo di cinema. Quando andai a vedere il film (che visionai due volte piuttosto entusiasta) ne scrissi ovviamente per la rubrica da me curata su Aliens che si chiamava Fantascope. La recensione, con la massima velocità consentita dai tempi per un mensile, uscì l’anno [...]]]> di Danilo Arona

Alien di Ridley Scott uscì in Italia a fine ottobre del 1979. Pochi giorni dopo nelle edicole dello stivale usciva la rivista di Armenia Aliens che a suo modo intendeva capitalizzare sul presumibile successo del film. La redazione era un bel remake dei sette samurai: Curtoni, Lippi, Pagan, Nicolazzini, Caimmi, Alessandri e io che mi occupavo di cinema. Quando andai a vedere il film (che visionai due volte piuttosto entusiasta) ne scrissi ovviamente per la rubrica da me curata su Aliens che si chiamava Fantascope. La recensione, con la massima velocità consentita dai tempi per un mensile, uscì l’anno successivo sul n° 4 nel mese di febbraio, con un bel supporto grafico da me fornito e proveniente dal Necronomicon di Giger.

Reduce qualche giorno fa dalla visione di Alien Covenant mi sono messo alla ricerca di quel numero di Aliens per leggere che scrivevo nel 1979. Lo ricordavo proprio vagamente, ma ero certo che il mio commento sarebbe stato una buona base di partenza per un giudizio contemporaneo. Non vi stupisca se uso il termine “ricerca”. Possiedo la biblioteca ideale del fanatico fantahorrorista, ma sono disordinato, nevrotico e per nulla archivista. Insomma, ci ho messo del mio ma la fortuna in questo caso mi ha assistito. Premesso allora che, quando leggi all’età di 67 anni quel che scrivevi a 29 un po’ ti senti sprofondare (vergogna, tenerezza, senso dell’indecenza…), ci sarebbe un generoso frammento che vorrei riportare qui, oggi, anno di grazia 2017:

«… di sesso neanche a parlarne. Ma tutto sommato l’assenza insospettisce. E basta un rapido colpo d’occhio alle scenografie e alla stessa figura del mostro per capire che tale assenza ha una sua cospicua controparte. Come Scott ha detto più volte, le opere di H.R. Giger – autore del disegno di Alien, del paesaggio del pianeta, dell’interno dell’astronave aliena e dell’uovo – sono al tempo stesso eleganti e oscene e il risultato è una strana sensualità. Giger ha dichiarato che Alien è la risultante di suoi precedenti lavori, in modo particolare le illustrazioni per il Necronomicon lovecraftiano, all’interno del quale si può constatare che il mostro era già stato creato nel ’76, ma si può soprattutto verificare che cosa intende Scott quando usa il termine “osceno”: nei mostri di Giger gli attributi sessuali sono talmente evidenti ed evidenziati che è impossibile pensare alla casualità. Rambaldi, nel costruire la testa del mostro, ne ha conservato integralmente la forma fallica, mentre per motivi squisitamente tecnici ha sostituito con la micidiale lingua dentata l’ulteriore pene in erezione che fuoriusciva dalla graziosa bocca della creatura. Nella stessa astronave aliena ci sono evidenze sessuali per non dire della forma dell’ingresso al suo interno, opportunamente ambigua: la sommità dell’uovo non lascia comunque dubbi, dal momento che sia prima che dopo la sua apertura la forma è senza equivoci quella di una vagina.»

Sul seguito si può soprassedere, ma, se si può affermare che riletto oggi il tutto suona come la scoperta dell’acqua calda, nel ’79 la faccenda non era così scontata. Trentotto anni dopo Giorgio Longhi sul sito Vulcanostatale.it così scrive:

«Una particolarità dello Xenomorfo risiede nella profonda connessione tra sesso ed orrore, che caratterizza il ciclo vitale di questa creatura malefica… Ogni aspetto del ciclo vitale del mostro può richiamare in qualche maniera la sessualità, a cominciare dal modo in cui viene iniettato l’embrione in corpo. Inserito tramite una specie di tubo vagamente fallico, questa fase di inoculazione richiama molto esplicitamente la fellatio e rende la donna una mera incubatrice del feto alieno (il facehugger deposita un embrione detto Chestburster nella gola dell’ospite che, dopo un breve periodo, emerge violentemente dal torace dell’ospite. Vista in questo modo sembra un circolo di una gravidanza dell’orrore. Questo aspetto della gravidanza che evoca terrore è un topos che ricorre in vari film ispirati alla saga di Alien. Proprio recentemente il film Alien: Prometheus, di cui è regista lo stesso Ridley Scott, rende palese quest’aspetto della gestazione di un mostro extraterrestre con il personaggio di Elizabeth Shaw che, dopo un rapporto sessuale con il suo partner, infettato da un agente alieno aggressivo, diventerà a sua insaputa un recipiente passivo di una creatura. Dopo una serie di strane contrazioni, la donna scoprirà con sgomento di portare in grembo un feto misterioso che si sta agitando più del dovuto. Presa dal panico, Elizabeth si precipita in infermeria per rimuovere l’embrione e riuscirà ad estrarlo solo dopo un’angosciante scena dove la protagonista si fa tagliare, dilatare e ricucire il ventre da una “cabina chirurgica”. Il fatto che sullo schermo sia mostrata una donna incinta che abortisce supporta un’interpretazione dello Xenomorfo come creatura sessuale.»

Bene, benissimo Longhi. Nel ’79 avevo quindi ragione. E fui troppo timido nel non voler proseguire in modo più hard l’analisi sulla capacità perturbante della creatura – peraltro ci avrebbero ovviamente pensato i vari sceneggiatori che si sarebbero cimentati con i vari sequel della saga. Perché, con buona pace del Ridley Scott del ’79 – poco più che quarantenne mentre oggi a 80 ancora segna l’immaginario planetario – che dichiarava che “Alien non ha particolari messaggi da trasmettere in quanto si tratta di un film di puro intrattenimento”, pochi altri film sono stati in grado di solleticare in tanta profondità l’inconscio planetario con l’equazione terrore / sesso. Tutti quelli che si sono succeduti sino a oggi, frutto di singolari coalizioni di cervelli come peraltro fu lo stesso capostipite, altro non hanno fatto che capitalizzare sugli incubi visualizzati da Giger che, come recita il mito, provenivano dalla zona nera del pavor nocturnus di cui soffriva l’artista svizzero. Giganteschi e mortali falli xenomorfici dal potere smembrante e ingravidante al contempo. Timothy Leary al tempo dichiarò che secondo lui Alien era una donna che trasmetteva ai maschi il potere del parto… ma, insomma, sulla piattaforma del Perturbante l’Inconscio è in grado di proporre i più arditi percorsi interpretativi.

Devo confessare che in Alien Covenant, al di là delle incongruenze con il resto della saga, il potere perturbante delle creature mi sembra venuto meno. Di sicuro il tempo è passato, per tutti e anche per Scott, ma questo mi è parso soltanto un onesto e piacevole “film di mostri” privo di quella “penetrante” carica rivoluzionaria di allora. Comunque notevole, e in qualche modo alludente al dramma attuale della pollution contemporanea, che gli ingravidamenti oggi avvengano attraverso i primi orifizi a disposizione, come naso e orecchie. Un invito a non restare distratti e inerti in un mondo dove i pericoli arrivano sempre più spesso dall’infinitamente piccolo.

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George https://www.carmillaonline.com/2017/07/19/george/ Wed, 19 Jul 2017 01:24:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39554 di Danilo Arona

(A George Romero, straordinario profeta dell’Apocalisse che sta per giungere.)

Nell’estate del 1969 si restava in città. All’epoca reputato troppo giovane per andarmene via da solo, ma già troppo in là con l’età per accompagnare i miei in vacanza sulla riviera ligure, preferivo la città vuota alla folla di spiaggia.

Si restava in città con altri propri simili e si andava al cinema, a vedersi qualsiasi cosa. Allora i cinema non chiudevano per l’estate e al massimo si concedevano una striminzita pausa ferragostiana. C’era un sacco di materiale filmico da visionare: horror di Corman mai passati negli [...]]]> di Danilo Arona

(A George Romero, straordinario profeta dell’Apocalisse che sta per giungere.)

Nell’estate del 1969 si restava in città. All’epoca reputato troppo giovane per andarmene via da solo, ma già troppo in là con l’età per accompagnare i miei in vacanza sulla riviera ligure, preferivo la città vuota alla folla di spiaggia.

Si restava in città con altri propri simili e si andava al cinema, a vedersi qualsiasi cosa. Allora i cinema non chiudevano per l’estate e al massimo si concedevano una striminzita pausa ferragostiana. C’era un sacco di materiale filmico da visionare: horror di Corman mai passati negli anni addietro e reintitolati secondo un discutibile principio estivo delle distributrici regionali, sconosciuti B movie e altrettanto ignoti capolavori da cogliere al volo. L’estate, alla fine degli anni Sessanta, era manna per il cinefilo e peraltro quelli era un periodo di opere straordinarie e seminali (Easy Rider, Il mucchio selvaggio, La notte dell’agguato e molto altro ancora).

Credo fosse luglio quando vedemmo la locandina, io e miei analoghi cinemaniaci, de La notte dei morti viventi, a firma di un oscuro George A. Kramer: pensammo subito a un film tappabuchi, “povero” e dimenticabile. Ma comunque da vedere. Perché io e i miei analoghi non ci facevamo mancare nulla di quel che usciva in provincia soprattutto se apparteneva al nostro genere preferito. E dato quel che si leggeva nella locandina (“Escono la notte dalle loro tombe per divorare gli esseri che vivono”), con un bel teschione in primo piano sulla sinistra accanto al titolo, una mano che sgusciava fuori dalla terra, la luna piena oscurata da una nuvola e tre figure deambulanti tra le croci, non nutrimmo dubbi neppure per un attimo.

Ci fiondammo, credo di pomeriggio, e nei primi secondi di proiezione, nella sala quasi deserta prevalse lo scoramento collettivo. Il film iniziava direttamente, ovvero orbo di qualsiasi sigla di una qualche distributrice importante, con un campo lungo di una strada di campagna, quanto mai squallida e secondaria, e si mostrava in bianco e nero. Da supremi ignoranti quali eravamo, nutrivamo pregiudizi assurdi nei confronti della “assenza” del colore. Ci sentivamo felicemente abituati alla poetica sgargiante della Hammer e avevamo archiviato i più recenti successi horror del tempo come (anche) notevoli esempi di technicolor (dal ciclo Corman/ Poe a Rosemary’s Baby, uscito pochi mesi prima, ivi conteggiando anche l’elegante trittico tratto dai racconti di Poe, Tre passi nel delirio, e persino un tradizionale “Quatermass” convertitosi al colore – e alla barba post beat generation -, L’astronave degli esseri perduti, di Roy Ward Baker). Bastò pochissimo tempo per mettere in fuga lo stolto pregiudizio. Perché quel film, diretto da uno che aveva lo stesso cognome di un  simpatico maestro di musica italico (Gorni), ti prendeva subito alla gola per quel faceva vedere e per come lo faceva vedere.

Il sonoro sembrava quello tradizionale dell’epoca per film del genere: effetti un po’ psichedelici, su tappeti di archi e oboe, con dissonanze crescenti[1]. E mentre quella strada piuttosto malmessa, con l’asfalto vistosamente crepato in più punti (forse persino allora la mafia italiana gestiva le gittate del cemento anche in America…), si animava della presenza di un’unica macchina, partivano i titoli: pochi, essenziali, ridotti al minimo indispensabile, a conferma che di produzione povera, appunto, si trattava. E il cacciatore pignolo che in me non sonnecchiava captò subito l’anomalia con il cognome registico denunciato sulle locandine: il tipo non si chiamava Kramer, ma Romero. Argh, non ci spacceranno per americano un film iberico?

Certo, eravamo dentro, nel buio amniotico di una sala estiva priva di aria condizionata nella quale i pochi spettatori fumavano per mille. Sospendemmo trancianti e prematuri giudizi. Quella lunga macchina chiara, dopo la fine dei titoli, entrava in un cimitero di campagna. A bordo due fratelli, lui e lei, poco conformi ai canoni estetici dell’epoca. Biondi, con gli occhiali lui e non bella, ossuta, lei. Insomma, tipi normali, con tranci di dialogo all’apparenza senza importanza sull’ora legale, una stazione radio che non funzionava, la lunghissima strada percorsa per portare dei fiori sulla tomba della madre. Si capiva, ovvio, che il “levare” stava ingranando le marce. E già s’intuiva che quel che si vedeva sullo schermo non lo si era mai visto sino ad allora.

Gli horror “di prima”, chi più chi meno (fatte alcune debite eccezioni, frutto però di incursioni “esterne” come, appunto, il capostipite demoniaco di Polanski) erano sostanziosamente “finti”, artificiosi, con una quasi sempre involontaria nota grottesca al loro interno che ne minava in modo irrimediabile il vitale presupposto della verosimiglianza. Questo aspetto, ben percepito e tutt’altro che subliminale, era una delle regole del gioco e in quel decennio che si avviava alla conclusione pochi e fondamentali titoli vi si erano sottratti (ne possiamo citare due, guarda caso, in bianco e nero: Psycho di Hitch e The innocents di Jack Clayton, conosciuto nel bel paese come Suspense… mah).

In quel primo assaggio di pellicola no. La location era autentica, anche perché “Kramer” aveva fatto di necessità virtù, girando in luoghi esistenti (avremmo avuto tutto il tempo per scoprirlo). I due, Johnny e Barbara, ingaggiavano fra loro una strumentale quanto autoironica discussione con lui, recante una croce floreale sottobraccio, che diceva alla sorella: “Non c’è anima viva” e lei che replicava: “Perché è tardi”, e subito dopo lo rimproverava per avere dormito un po’ troppo. Se la memoria non m’inganna, qualcuno accanto a me gracchiò ad alta voce, subito zittito da chi non gradisce interazioni tra il pubblico e lo schermo durante un horror: “Ma è scemo o lo fa? In un cimitero non c’è anima viva? Ma chi le scrive, ‘ste cazzate!”

Lo spiritoso fu costretto a ricredersi da lì a qualche secondo. Deposta la croce, Barbara s’inginocchiava davanti alla tomba della madre, mentre la colonna sonora musicale cedeva il suo posto al fischio incessante del vento. Il tempo peggiorava e infatti un lampo con relativo tuono illuminò la scena. Fu in quel frangente, dopo che Johnny aveva sollecitato la sorella a sbrigarsi e dopo averlo visto rimettersi i guanti neri per tornare a guidare, che gli autori decisero di far apparire per la prima volta il “mostro”. Appariva dentro una soggettiva di Johnny, quanto mai distratta: un tipo vestito di nero in fondo campo che camminava tra le tombe – non proprio normalmente, diciamo che… arrancava. Come se fosse stato oppresso da un’invincibile stanchezza che lo costringeva a strascicare i piedi.

A distanza di oltre quarant’anni, questo assaggio – un po’ più che subliminale – si riconferma come il parto di una mente geniale. Perché la sua percezione si situa proprio sul confine dell’esitazione. Se non fossimo già indirizzati alla vera identità del disturbatore dallo stesso titolo del film, quello potrebbe essere chiunque, dal custode del cimitero a un altro visitatore che si sta attardando. Infatti Johnny non gli dava alcun peso e anzi, quasi come ispirato dalla sua presenza sullo sfondo della scena, si metteva a canzonare la sorella, a imitazione di certi, privatissimi scherzi infantili.

“I morti ti prenderanno, Barbara!”, cantilenava lui alle spalle di lei, mentre comunque i due fratelli si ponevano in direzione di ritorno verso l’uscita. E poi, visto che il tipo di prima si stava approssimando dal fianco destro: “Guarda, eccone uno che arriva!”

Si capiva al volo, anche se era il ’69, che lo scherzo non era tale. Infatti, come il fratello finse di darsela a gambe, il tipo caracollante e con la giacca sporca e stazzonata (a indizio di qualcosa che stonava), ormai giunto in prossimità di Barbara, le volò addosso piantandole le mani al collo.

“E’ quello il morto vivente?”, pensai, “sì, ma chi mi ricorda?”.

Anche con il giusto senno del poi, in quella faccia si agitava un piccolo mix di reminiscenze. Intanto rammentava Boris Karloff, grande icona storica del cinema horror. Ma non solo. Peccato che allora non ci arrivai subito. Avevo 19 anni, che pretendete? A quell’età lì, per quanto fanatici si possa essere di mostri e affini, la gnocca – allora disponibile e rivoluzionaria – scalpitava in pole position. Anni successivi e più meditativi mi ci avrebbero poi fatto ragionare: più che Boris Karloff, il primo Living Dead in azione dell’era Romero era quasi tal e quale il professor Karol Noymann, personaggio di un oscuro – ma importante – film di fantascienza degli anni Cinquanta, Assalto dallo spazio (Invisibile Invaders, 1957) di Edward L. Cahn. Suggestione tutt’altro che casuale, perché in primo luogo Noymann era stato interpretato da John Carradine, straordinario e allampanato attore pure lui icona dell’horror e capostipite dell’omonimia dinastia che annovera al suo seguito Keith e David, incredibilmente assomigliante a Bill Heinzman, l’attore che interpretava lo zombie e che era pure uno dei tanti produttori anonimi del film. Ma soprattutto perché Invisibile Invaders resta forse, assieme a La lunga notte dell’orrore di John Gilling, il precedente più significativo de La notte dei morti viventi: un film d’invasione aliena nel quale extraterrestri invisibili provenienti dalla Luna si trasferiscono nei cadaveri delle persone defunte di recente, producendo una mini-invasione di Living Dead (in bianco e nero, con gli zombie che si muovono da veri zombie, catatonici e lo sguardo fisso, deambulazione meccanica) che verrà poi, secondo i parametri del genere, vanificata dallo scienziato buono di turno.[2]

Insomma, piacevole déjà vu (peraltro anima del genere), ma quel che succedeva subito dopo faceva capire la “diversità” di quella notte che si apprestava a calare. L’aggressione era vera, violentissima e il clone misto di Karloff/ Carradine tentava a più riprese di infilare i denti tra il collo e la spalla del malcapitato Johnny, purtroppo destinato a sfracellarsi la zucca contro lo spigolo di una tomba. Tra l’altro, come spesso capitava “prima” di quel film, ora la macchina da presa non puntava il suo sguardo in altro loco, ma ci vedeva proprio vedere quel che accadeva. E ci faceva pure “sentire”… rumori, digrignare dei denti, le urla animalesche del Living Dead.

Appunto, dicevamo del “come”. Uno stile grezzo, documentaristico, realistico: niente nebbioline da notti gotiche in cimiteri di cartapesta. Qui, come già detto, le location erano autentiche. Poi, sullo schermo accadde tutto quello che è già stato consegnato al mito: Barbara che fuggiva inseguita dal mostro e che capitava in una fattoria all’apparenza isolata; l’incontro con Ben, l’uomo di colore, che per un po’ si comportava come il Mitch Brenner de Gli uccelli, asserragliandosi all’interno e sbarrando le finestre con assi di legno (e sottolineando una precisa linea di continuità tra il capolavoro di Hitchcock del ’63 e questo film); poi la scoperta di altri superstiti dentro la casa, la formazione del manipolo – espediente tipico dei film-diligenza o “d’assedio”: gli zombie assedianti che all’esterno si moltiplicavano; lo spot drammaturgico-mediatico della radio e della televisione, come elemento dirompente e comunicativo all’interno della fattoria, che a voler fare i pignoli, proviene dal grandissimo racconto di Daphne du Maurier da cui Hitch trasse – buttandolo via – il suo film Gli uccelli; la dissoluzione psicologica del gruppo; l’assedio, la lotta, l’orrido banchetto degli zombie con gli umani alla griglia, l’indifferente cinismo con cui i “volontari” sparano sugli zombie senza porsi domande… Un cinismo sul punto di trasformarsi in autentico piacere. Ne avremmo avuto conferma nei decenni successivi.

Il film ci sconvolse e, ovvio, ci piacque immensamente. Va da sé: era l’estate del ’69 e avevamo visto un horror che rompeva tabù (concettuali e visivi) e convenzioni. Fosse stato solo per noi, si era già guadagnato il titolo nobiliare di “manifesto”. Con la bambina che prima si mangiava il padre e poi uccideva la madre. Un genere considerato un sottoprodotto che su guadagnava persino una dignità politica. E il finale? Degno dei finali “a schiaffo” dell’epoca. Straordinario: l’unico “eroe”, nero, che si salvava ma che veniva ucciso dai bravi restauratori dell’ordine perché scambiato per un mostro… Entusiasmo alle stelle.

All’uscita dal cinema l’imperativo di gruppo era uno solo: diffondere il verbo. Invitare più gente possibile, – a metà Luglio! -, a vedere quel film. George Romero-Kramer sarà il nostro Vietnam… Impresa tutt’altro che facile. Perché?, vi chiederete.

Sì, ho una certa età, ma pure una memoria da elefante. Ricordo bene come in quegli anni, dominati da un certo cinema di tendenza che voltava pagina tra avanguardie, sperimentalismi e abbattimento delle poetiche dei generi, proprio questi ultimi divenissero di colpo gli oggetti preferiti di letture critiche smaccatamente ideologiche. L’unzione e la gogna di “pellicola fascista, reazionaria e potenzialmente pericolosa” venivano distribuite con somma e sospetta generosità senza distinguere il buono dal cattivo: grandi generi popolari come il western (quello americano in quel momento più crepuscolare che mai, quello italiano no…) e il poliziesco-poliziottesco non potevano che essere strutturalmente “di destra”.

Di tanto sospetto godevano anche l’horror e il fantastico in genere (e sì che solo nel ’67 erano uscite pellicole a loro modo innovative come Per favore non mordermi sul collo di Polanski, Il giardino delle torture di Freddie Francis, Privilege di Peter Watkins, Assassinio al terzo piano di Curtis Harrington e I nervi a pezzi di Roy Boulting), al punto tale che la critica “impegnata”, che tirava tutta a sinistra e che peraltro era l’unica da potersi leggere, proprio non se li filava. Però, se Kubrick nell’anno fatidico della rivoluzione planetaria, sdoganava la fantascienza con 2001 Odissea nello spazio, in modo tutt’altro che kubrickiano qualcosa del genere riusciva a fare l’oscuro Kramer- Romero.

Eh, già, perché quell’horror – unico caso al mondo per l’epoca – era, quanto meno sembrava, “di sinistra”. Attaccava la famiglia, la società, denunciava il Vietnam, l’anima bellica dell’America e il razzismo. Il cannibalismo era soprattutto culturale. E poi quant’era bello, espressionista, claustrofobico, a suo modo hitchockien con quella casa assediata in mezzo al nulla che un po’ (troppo) ricordava, come già scritto, la Brenner House de Gli uccelli. Mentre con noi altre migliaia di pard diffondevano il verbo per l’Italia e nel  mondo, non  ci volle molto a saperne di più su George A. Kramer-Romero. Intanto, che, per quanto nato a New York, veniva da Pittsburgh, laddove il film era stato girato in economia con l’aiuto fisico della gente del luogo che aveva fornito comparse (se stessi) e pure dollari per la modesta produzione. Scoprimmo (non ci volle molto) che in Italia, la FIDA, casa distributrice del film, aveva pensato male che George per il suo film d’esordio doveva evitare  di presentarsi con il suo autentico cognome di lontane provenienze ispaniche: io avevo ipotizzato che non tutto il male vien per nuocere perché George avrebbe potuto essere confuso con Eddie Romero, il prolificissimo regista filippino classe 1924 che nello stesso periodo affliggeva i fan con i suoi orrendi “Beach Parties Horror”, uno visto anche in Italia e non mancante nella nostra collezione, Terrore sull’isola dell’amore, ovvero Brides of Blood del ’68.

Al di là di ogni altra considerazione a latere, La notte dei morti viventi era un grande film. Grande soprattutto perché non allineato. Perché faceva sul serio paura e non stimolava grottesche risate come tanti horror del periodo. E si sposava, come accennato, al clima politico di rivolta del periodo.

1969, un anno dopo il ’68 (ma il film negli USA uscì proprio nel ’68 ed era per forza stato girato prima). Dice qualcosa? Dice qualcosa il Vietnam?

Dice qualcosa il nome di Tom Savini?

Savini non frequentava ancora l’universo romeriano. Ma, da lì a qualche anno, lo avrebbe fatto. Era il suo destino, il suo karma. Lo era a tal punto che già Romero lo aveva interpellato nel ’67, ma Tom aveva dovuto partire per il Vietnam.

Ebbene, la vicenda prima umana e poi artistica di Savini potrebbe suggerire qualche considerazione anche sull’esordio di George.

Premesso che all’inizio della sua carriera artistica l’uomo non rilasciava dichiarazioni sulla valenza politica della sua opera (l’avrebbe fatto con una certa generosità negli anni successivi), resto però convinto che immagini, fatti, stimoli etc. riescano a “entrare dentro” quasi sempre a dispetto della coscienza dell’interessato. Allora, parliamo di guerra del Vietnam, iniziata formalmente per gli Stati Uniti nel 1964, ma forse già in atto sin dal ’62: una guerra fantasma per molto tempo, di cui si leggeva solo in Occidente la versione – appunto – “occidentale” delle fasi belliche. Ma già sin dal 1966 qualcosa inizia a rompersi in questo rapporto fiabesco tra notizia e percezione della medesima: accade quando le prime immagini della vera guerra del Vietnam, non più una favola addomesticata senza morti, entrano nelle case degli americani, creando una nuova, inedita “soglia” della sopportazione visiva. Qualcuno dichiarerà saggiamente: “Vinciamo sul campo ma perdiamo nei salotti”, e che certe tremende immagini diano la stura alla contestazione globale del conflitto vietnamita non ci piove. Come scrissero anche, molti anni dopo, Skipp & Spector[3], gli americani furono costretti a forza a ingurgitare a colazione cadaveri e napalm. E soprattutto a prendere coscienza di uno sterminio gratuito da una parte e dall’altra. Di più: costretti a guardare corpi orrendamente violati, dalle quali escono frattaglie, cervelli e sangue. Insomma, gli americani scoprono che la guerra non solo è un genere cinematografico, ma piuttosto una realtà che fa schifo.

Protagonisti di questa stagione – che fu l’autentico preambolo sociale del linguaggio splatter nelle arti visive – erano i reporter dal fronte che smontarono anche, con le loro testimonianze e spesso a prezzo della vita, il castello propagandistico costruito per l’opinione pubblica interna. Tom Savini stava fra costoro e, come ricorda Luca Farulli[4], “sarà questa l’esperienza che lo segnerà profondamente a livello professionale: il contatto con la morte, con i cadaveri dilaniati, il sangue, l’orrore della sofferenza, la scoperta della carne fragile e vulnerabile. La guerra non lo purga della fantasia e della sua attrazione per l’orrore, ma si rende scuola per la sua inclinazione artistica. Matura in lui la necessità dell’iperrealismo, la consapevolezza e il ridimensionamento della sua visionarietà a una definizione fondamentale: nulla è più crudo e sconvolgente della pura, semplice realtà.”

Sembra iperbolica l’illuminazione “dal futuro” da parte di Savini dell’opera prima di Romero? Penso di no, dato che i due sono destinati a incontrarsi e a stabilire un sodalizio importante a tal punto che sarà proprio Savini a firmare l’autentico remake de La notte dei morti viventi. Ma restiamo, se possibile, ancora per qualche secondo in quella sala buia nel luglio del ’69.

Perché? Perché noi il Vietnam ce lo vedemmo, e come, in quell’horror girato con pochi quattrini in quel di Pittsburgh? Sbagliavamo?

Penso di no. Anche perché stiamo in buona compagnia:

“La vacillante massa dei morti che escono dalle loro tombe diventa una vero e proprio moto rivoluzionario contro la società moderna” (Alex Visani[5])

“Il film non è ambientato in Transilvania bensì in Pennsylvania. E’ il centro degli Stati Uniti a essere in guerra e gli zombie sono un grottesco riferimento all’allora violento conflitto in Vietnam” (Elliot Stein[6])

La notte dei morti viventi è un film horror sugli orrori del Vietnam. Anche se non sono presenti vietnamiti nel film, essi costituiscono una presenza assente che può essere compresa analizzando l’intera trama. Cinegiornali, operazioni di rastrellamento, elicotteri, la carneficina finale: tutto richiama il Vietnam.” (Sumiko Higashi[7])

E come non citare il sempre acutissimo Steve Della Casa?[8]

La notte dei morti viventi è il primo film di guerriglia metropolitana (anche se è ambientato in campagna. I protagonisti sono tre gruppi di individui: gli assediati, i volontari dello sceriffo, gli zombie. Esprime una società in cui si sono disgregati i valori positivi e di progresso, una società che produce al suo interno una vera e propria mutazione genetica che non è più in grado di controllare e che la distruggerà dalle fondamenta. La legge e l’ordine sono ormai istinto di sopravvivenza e di sopraffazione, aggressività meccanica non dissimile da quella che spinge persone morte a cercare cibo. La notte dei morti viventi è il film che maggiormente visualizza la fine del mito americano, la dichiarata impossibilità a ricercarne la fondazione. Sappiamo che questo dato allora sembrava scontato e irreversibile, mentre oggi l’America ha ritrovato fiducia in se stessa e l’aggressività verso gli altri,[9] al punto da riscrivere proprio attraverso il cinema la storia della sua più grande sconfitta politica e militare, il Vietnam. Ma i morti viventi, e con essi Romero, non hanno cambiato idea: anzi, sono sempre più corrosivi e sempre più irriducibili.”

 

[1] La particolare colonna sonora che caratterizza l’angoscioso soundtrack de La notte dei morti viventi  non fu composta per il film bensì fu creata attingendo alla grande discoteca della Hardman Associates. Molto deriva dall’archivio della Capitol Records e dall’assemblamento in seguito si decise di produrre anche un album. Tra gli autori scelti troviamo Ib Glindemann, Philip Green, Geordie Hormel, William Loose, Jack Meakin e Spencer Moore. Alcuni brani erano già stati utilizzati in lavori cinematografici e televisivi precedenti, come nel B-movie di fantascienza Teenagers from Outer Space (1959). Nelle scena in cui Ben trova il fucile e in quella dove la radio riporta del disastro che si sta verificando si può sentire un pezzo musicale che può essere ascoltato in versione più estesa all’inizio del film La messaggera del diavolo (1961) nel quale recitava Lon Chaney Jr.; un altro pezzo è preso dall’ultimo episodio della serie TV Il fuggiasco, che era stata trasmessa l’anno precedente. Hardman, che lavorò alla colonna sonora insieme a Marilyn Eastman, disse di aver effettuato una scelta delle canzoni per ogni scena e Romero fece la selezione finale, dopodiché le intensificò elettronicamente.

[2]Sulla nostra stessa linea d’interpretazione troviamo il grande Joe Dante: “Invisible Invaders è un film molto simile a Night, anche nella trama… La gente dimentica spesso che anche la premessa di Night è basata su una trama con riferimenti allo spazio. Infatti sono film così simili che io non posso credere che George non abbia visto Invisible Invaders.” da “Joe Dante su Night of the Living Dead”, intervista di Bill Krohn, in George A. Romero di Giulia D’Agnolo Vallan, op. cit.

[3]John Skipp e Graig Spector, Sullo spingersi troppo oltre o la narrativa dei divoratori di carne umana: nuove speranze per il futuro, introduzione a Il libro dei morti viventi, Bompiani, Milano, 1995.

[4]Luca Farulli, Tom Savini stregone, Acme, Milano, 1990.

[5] http://www.alexvisani.com

[6]Elliot Stein, The Dead Zones, http://www.villagevoice.com

[7] Sumiko Higashi, Night of the Living Dead, in “American Horrors: Essays on the Modern American Horror Film”, Ed. Gregory A. Waller – Urbana, University of Illinois Press, 1987.

[8]Stefano Della Casa, Su George A. Romero regista morale (e, incidentalmente, su Charles Manson), in Incubi americani 68-86, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Daniela Giuffrida, Giuseppe Salza, Roberto Turigliatto, Movie Club, Assessorato per la Cultura – Città di Torino, 1986.

[9]Pezzo scritto a metà degli anni Ottanta e che ci fa riflettere su come la figura dello zombie romeriano sia intimamente legata ai mutamenti della società, americana e non. Non è un caso che l’ultimo film della serie abbia dentro il titolo la parola “survival”.

 

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Il penultimo spettacolo https://www.carmillaonline.com/2017/06/07/il-penultimo-spettacolo/ Wed, 07 Jun 2017 01:27:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38723 di Danilo Arona

Pochi giorni fa, ad Alessandria, è stata tirata a terra l’insegna dell’ex cinema Moderno in Piazzetta della Lega. Evento prepotentemente simbolico che conclude una falcidia iniziata con il cinema Corso, proseguita con l’Ambra e il Galleria.

E il Moderno che diverrà un centro commerciale di specialità alimentari di alto livello.

Erano i cinema tradizionali, uccisi in parte dalla crisi e dalla trionfale e cinica avanzata della tecnologia immateriale che ha mandato a morire un sacco di onesti mestieri. Ah, già, dimenticavo la digitalizzazione. Ovvero, se il proprietario del cinema non possiede i fondi per passare dalla pellicola al [...]]]> di Danilo Arona

Pochi giorni fa, ad Alessandria, è stata tirata a terra l’insegna dell’ex cinema Moderno in Piazzetta della Lega. Evento prepotentemente simbolico che conclude una falcidia iniziata con il cinema Corso, proseguita con l’Ambra e il Galleria.

E il Moderno che diverrà un centro commerciale di specialità alimentari di alto livello.

Erano i cinema tradizionali, uccisi in parte dalla crisi e dalla trionfale e cinica avanzata della tecnologia immateriale che ha mandato a morire un sacco di onesti mestieri. Ah, già, dimenticavo la digitalizzazione. Ovvero, se il proprietario del cinema non possiede i fondi per passare dalla pellicola al digitale, non esistono proprio alternative: si chiude.

I cinema storici della mia vita (senza elencare le cosiddette “arene estive”, già defunte da eoni), quelli in cui assistetti, stretto fra paura e senso della trasgressione, alle proiezioni di Suspense, Psyco e Gli uccelli. Quando decisi, inconsapevolmente, che il cinema sarebbe stato per sempre la mia passione maniacale,  associando immagini e divieti (ai minori di 14 anni) a pulsioni interne difficili da definire, ma troppo piacevoli.

Chiusero: un percorso senza ritorno. E divennero qualcos’altro. Ma una parola composta li definisce tutti: non-luoghi. Contenitori che sono anche monumenti alla stupidità di massa. Perché contengono il vuoto. E nel vuoto si materializzano i fantasmi. Non importa creati da Chi o da Che Cosa.

Il più esemplare – perché soprattutto non è diventato ancora Altro, né un piccolo centro commerciale, né un posteggio, né un condominium alla James Ballard (manca poco però) – è proprio il Moderno. Esemplare anche perché sta nel cuore della città, in Piazzetta, e perché – pochi ne sono a conoscenza – esiste un piccolo, nascosto passaggio per entrarci.

Io non vi dirò dov’è.

Posso solo svelare, ma non svelo niente, che l’ingresso è lì, visibilissimo sotto gli occhi di tutti, e per la nota legge degli estremi coincidenti (una volta in politichese “opposti estremismi”) del tutto invisibile. Ma percorribile per chi sa vedere.

Oh, Alessandria, giova ricordarlo, è stata un’avanguardia cinematografica. Patria di Adelio Ferrero e di Nuccio Lodato, dell’Azienda Teatrale Alessandrina, del Festival Ring e della casa editrice Falsopiano. Ovvero, rigurgitava – rigurgita – di gente che andava al cinema. Ogni volta che ci andava, che entrava, quella gente lasciava parti del sé a vagare in quegli spazi. Emozioni, lacrime, spaventi, stati d’animo e della psiche. Tracce. Quelle che poteva captare il piccolo Danny Torrance, armato dello Shining, all’Overlook Hotel.

Al Moderno le tracce abbondano.

Dentro ci stanno ancora le sedie. Lo schermo e un sacco di ragnatele. La polvere. Non è agevole respirare.

Quando entriamo – non ci vado mai da solo -, aspettiamo che si attivi un meccanismo di reazione che abbiamo imparato a conoscere. Perché noi, quelli che entriamo mai visti da nessuno, sappiamo che il Cinema, per quanto morto e abbandonato, sta dichiarando guerra a quel Blob che da troppo tempo sta fuoriuscendo dai tubi catodici e imprigionando la gente tra le mura domestiche: un Blob che assomiglia alle gibbose mostruosità di Richard Matheson (Su dai canali), che scaturisce Videodromicamente dagli schermi TV, che attraversa e contagia l’Infosfera e invade la psiche collettiva. La gente non esce quasi più dai manicomi di acciaio di pietra, i condominia, appunto, di Ballard; al massimo può accadere che decine di abitanti di un qualsiasi quartiere periferico si sporgano dalla finestra per osservare nei minimi dettagli un lunghissimo e terribile omicidio perpetrato da un serial killer del rione, e poi tornino subito a prostrarsi davanti allo schermo tv, rapiti dall’ultimo Grande Fratello. Negli appartamenti, chiusi dall’interno a doppia mandata, dove c’è Sky, il lettore dvd o Blue-Ray, uno schermo sempre acceso e “dalla bocca sempre aperta”.

Ma, come dicevo, il Cinema sta reagendo.

Bastano tre persone. Ben coese e motivate.

Che entrano di soppiatto.

Si siedono.

Ci sediamo.

E poi, nella penombra (il buio, dopo che ti ci abitui), ci guardiamo. E ce lo chiediamo.

Cosa vogliamo vedere?

Oggi come allora.

Sempre quello.

Allora, d’incanto, la polvere scompare. Parte il caratteristico, gracidante rumore della macchina coi rulli.

E sullo schermo appare il leone ruggente dentro la cornice. In bianco e nero. Metro Goldwin Mayer. E ci guardiamo attorno e… C’è gente, cazzo, c’è gente. Altri che hanno trovato il passaggio. Dopo il leone e i suoi ruggiti, ecco davanti e sopra di noi (stiamo in terza fila) un gregge di pecore scampanellanti. Quindi: un contadino a bordo di un trattore, un cane che sonnecchia accanto a un camino e un tipo che telefona.

«Accidenti, non ci sono neppure i titoli», commenta un pirla dietro di noi.

«Zitto, scemo», protesto vivacemente, «siamo ad Alessandria, capitale della critica!», e imitando Sgarbi: «Capra!»

Il pirla si è spaventato e non reagisce. E intanto sullo schermo il tizio che stava telefonando, un profilo aquilino e importante, interrompe di colpo la comunicazione e, come colpito da un infarto, si accascia  a terra. Sorpresa, uguale sorte tocca al suo cane, peraltro già ampiamente appisolato. Al contadino sul trattore che inizia a girare in tondo fino a travolgere un albero. Alle pecore transitate dopo il leone ruggente. A un vecchio accasciato sul marciapiede con espressione sbigottita. A una donna intenta a stirare la camicia di un congiunto. In sostanza, a ogni abitante del villaggio inglese di Midwich.

Esaurito il prologo, la camera inquadra l’orologio di un campanile ed ecco i titoli.

Il villaggio dei dannati.

Sempre quello vogliamo vedere.

Perché Lui è il Grande Fantasma. Che ci racconta un’eterna verità. Ovvero, le donne possono rimanere incinte senza rapporti sessuali. Riuscendo a partorire bambini dai capelli biondo platino che sono proprio bastardi dentro. Né musica, né colore, né dischi volanti, ma tutte le volte ci caghiamo sotto.

Perché la prima volta che lo vidi qui nel ’61 mi cagai così tanto addosso che la metaforica merda a forma di fantasma ancora circola qui e ancora posso percepirla dato che un po’ di Shining lo possiedo anch’io.

E continuiamo ad avere paura. Io. E i miei genitori. Adesso abbiamo quasi la stessa età perché i fantasmi (loro) non invecchiano.

E Il villaggio continua a farci piacevolmente paura. Midwich che, totalmente addormentata, viene dichiarata zona infetta. Midwich che si risveglia e s’interroga. Le donne che si ritrovano incinte. I bambini che nascono e da subito appaiono strani, tutti biondi, tutti telepatici, con gli stessi occhi giallastri.

Adesso potreste ribattere che Il villaggio dei dannati lo si potrebbe anche vedere a casa. In TV. Senza rischiare di essere beccati qua dentro da qualche forza dell’ordine e venire denunciati per violazione di domicilio.

Naaaa. Non lo programmano mai. Né lui, né La stirpe e neppure il remake di Carpenter. Quelle bocche catodiche sempre aperte vogliono che stiamo – che stiate – buoni e che non ci vengano strane idee per la testa.

E poi preferiamo così. Perché questi non-luoghi – i cinema chiusi e non utilizzati – esprimono questo straordinario potere (che potremmo chiamare autoinfestazione) anche per una sola persona. Ed è un segreto che non vogliamo dividere con qualche pirla che al cinema parla a sproposito e disturba la visione con i suoi commenti da imbecille. Giusto?

Peraltro noi domani sera torniamo.

Finché c’è vita non è mai l’Ultimo Spettacolo.

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Le radici del Necronomicon https://www.carmillaonline.com/2017/05/09/le-radici-del-necronomicon/ Tue, 09 May 2017 01:16:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38142 di Danilo Arona

Nyarlathotep(Un sunto della prefazione al libro di Angelo Cerchi Le radici del Necronomicon, edizioni Lanterna Magica, Palermo 2017)

La discussione è annosa. Ed è ripartita implacabile all’uscita del primo libro di Angelo Cerchi (H.P. Lovecraft – Il culto segreto). In una potente quanto inadeguata sintesi, da un lato i difensori del dogma lovecraftiano che attestano l’estraneità del mondo dello scrittore di Providence allo sterminato magma esoterico/religioso nato a ridosso della sua opera, grazie soprattutto alla creazione letteraria del Necronomicon (nei cui meandri interpretativi non intendo perdermi), e dall’altro un movimento in espansione che reputa possibile la complicità, più [...]]]> di Danilo Arona

Nyarlathotep(Un sunto della prefazione al libro di Angelo Cerchi Le radici del Necronomicon, edizioni Lanterna Magica, Palermo 2017)

La discussione è annosa. Ed è ripartita implacabile all’uscita del primo libro di Angelo Cerchi (H.P. Lovecraft – Il culto segreto). In una potente quanto inadeguata sintesi, da un lato i difensori del dogma lovecraftiano che attestano l’estraneità del mondo dello scrittore di Providence allo sterminato magma esoterico/religioso nato a ridosso della sua opera, grazie soprattutto alla creazione letteraria del Necronomicon (nei cui meandri interpretativi non intendo perdermi), e dall’altro un movimento in espansione che reputa possibile la complicità, più o meno consapevole, di HPL ad alcuni temi vincolanti della sua opera, primo fra tutti l’occultismo praticato – tanto ai tempi dello scrittore quanto oggi – da quelli che Kenneth Grant ha felicemente battezzato i Culti dell’Ombra[1].

In questa seconda corrente, “eretica” per capirci, ha trovato spazio l’interessante e succitato saggio di Cerchi, contro il quale non pochi si sono scagliati, senza forse neppure averlo letto, magari accontentandosi di un mio divertito commento apparso su Carmilla On Line nell’aprile del 2015[2]. Con buona probabilità succederà ancora con questo, nuovo Le radici del Necronomicon, nel quale Cerchi prosegue la sua indagine con inediti, niente affatto banali spunti che qui non voglio svelare, ma su cui mi preme richiamare l’attenzione attorno all’umile consapevolezza, esibita con prudenza a ogni passo dallo studioso, sulla “possibilità” di un’altra storia dietro alle mitologie del cosiddetto “solitario” di Providence.

Per rinfrescare le memorie, Cerchi nel suo primo libro s’interrogava sulla provenienza dei materiali magico-rituali che abbondano nella narrativa di Lovecraft, adombrando l’ipotesi che il medesimo, durante le sue tante peregrinazioni nel New England, entrasse in contatto con uno o più culti di quell’America rurale spesso immortalata nei racconti, in grado di trasmettergli occulte conoscenze a proposito degli Old Ones. Una condivisione di cui far buon uso in tante, immortali opere e, se Cerchi in questa nuova esplorazione sulle radici del sapere di HPL affonda ancor più il bisturi nel reame della Realtà Fantastica (ma pur sempre Realtà…), vorrei fiancheggiare il suo lavoro partendo da presupposti ancora differenti dai suoi. Al Cerchi saggista vorrei affiancare il tortuoso tragitto dello scrittore Arona. Ok, partiamo.

Per quanto catalogato tra i minori, esiste un breve racconto di HPL, The Lurking Fear, ben noto per alcune sue ricadute cinematografiche. Tradotto coerentemente come La paura in agguato, l’opera tratta, citando lo scrittore medesimo, di “mostri nati da creature viventi, che si moltiplicano di nascosto sottoterra,e formano una razza di demoni di cui nessuno sa nulla”. Con queste esatte parole, nel 1919, HPL annotava su uno dei suoi numerosi fogli di minuta, divenuti noti in seguito come Commonplace Book, uno spunto storico risalente alla Scozia del diciassettesimo secolo rievocante le “gesta”, si fa per dire, di una famiglia di degenerati comandata dal feroce Sawney Bean, un clan incestuoso di donne e uomini che si dedicavano al cannibalismo ai danni di sfortunati viaggiatori che capitavano dalle parti della loro caverna.

Se il tutto vi ricorda i  due film di Wes Craven, Le colline hanno gli occhi 1 e 2 e altrettanti remake, non è che Craven si sia ispirato a Lovecraft come spesso abbiamo letto, ma perché tanto Craven quanto HPL attinsero a quella storia, sulla quale va ricordata l’esistenza di una scuola di pensiero che la relega ai ranghi del cupo folklore scozzese. Su questo non abbiamo dubbi, perché, oltre alla fonte lovecraftiana del Commonplace Book, Craven lo dichiarò ampiamente nel 1977, come da me riportato nel libro del ’99 dedicato a Wes[3]. Peraltro, giusto per cronaca, in modo strisciante il film di Craven rilanciò, vero o falso che fosse, il mito dei Bean, in più di un caso usato come citazione significante e/o soggetto  in film e libri[4]. E, per un evidente gioco di specchi, ripropose all’attenzione il racconto di HPL, The Lurking Fear, la cui autentica versione cinematografica resta quella, omonima, del ’94 di  C. Courtney Joyner, prodotta dalla Fool Moon di Charles Band.

Al di là della filologia, qualche volta necessaria, va da sé che il film di Craven, per quanto attualizzato, e The Lurking Fear raccontino all’incirca la stessa storia. Però quella di HPL la faccio raccontare da Filippo Melani[5], con tanto di suo commento finale, perché è un approccio di assoluto interesse in questo contesto:

Il racconto dello scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft intitolato La paura in agguato e composto nel novembre 1922, quindi nel primo periodo della sua attività, mi ha colpito molto. Infatti, al di là della sua ispirazione a un fatto realmente accaduto, il caso della famiglia Bean in Scozia nel diciassettesimo secolo, esso mostra una trattazione molto interessante del tema del potere oltre a quello già inscritto nel titolo del terrore. In breve intorno alla Montagna della Tempesta (Tempest Mountain) sulla quale troneggia la villa disabitata dell’antica famiglia dei Martense cominciano ad accadere misteriose sparizioni di un numero considerevole di esseri umani. Allo scopo di far luce sull’accaduto il protagonista, memore della misteriosa scomparsa dell’antica famiglia olandese, s’inerpica quindi svariate volte sulle pendici della montagna tempestosa. Dopo numerosi tentativi arriva l’incredibile soluzione: i Martense hanno vissuto per secoli come cannibali nei molteplici cunicoli della montagna incrociandosi tra consanguinei per degenerare in una specie di ominide sottosviluppato. Posso a questo punto far notare alcune caratteristiche interessanti di questa breve narrazione. Innanzi tutto la nobile famiglia olandese ha nascosto la sua presenza sparendo sotto terra per poter perpetrare meglio i suoi macabri scopi. In secondo luogo i Martense hanno praticato l’unione fra consanguinei e il cannibalismo quindi dei sacrifici umani. In terzo luogo il potere della famiglia olandese è proseguito nell’oscurità tramite le sembianze rappresentative di una struttura vuota, ovvero una casa abbandonata, e una rete di gallerie sotterranee. Dunque i Martense sono sopravvissuti grazie all’anonimato, al parassitismo e alla loro rete di passaggi segreti. A ben vedere quindi Lovecraft in questo racconto non ha voluto solo dare una rappresentazione del terrore ma anche un disvelamento di quel meccanismo che in genere chiamiamo Potere. E questo racconto, assieme ad altre opere dell’artista di Providence, avrebbe più tardi ispirato un altro “Re del brivido” come Stephen King per la composizione di It un altro capolavoro sui temi del terrore, del potere e della possessione.

Apprezzo certo la sinossi, ma ancor di più l’approccio interpretativo, secondo me perfetto. E, se mi è permessa l’integrazione, il potere sotterraneo rimanda in primo luogo alle autentiche finalità delle Congreghe, ai luoghi particolari guarda caso esotericamente nominati come “Zone di Potere” e ai cerimoniali segreti che molti gruppi , a ragione o a torto ispirati al mondo di Lovecraft, celebrano a parecchi metri sotto terra – e di luoghi sotterranei abbonda anche in modo coincidente Le radici del Necromicon. Spingendomi ancora più in là, lo ammetto per puro divertissement, si può ricordare la tesi di Kenneth Grant a proposito della convinzione di August Derleth, padre della Arkham House cui dobbiamo la continuazione dei miti di Cthulhu dopo la morte del loro creatore, sulla presenza in Wisconsin di certe “Zone di Potere” la più potente delle quali al fine di favorire l’evocazione dei “Profondi” si troverebbe sotto un lago deserto, luogo frequentato dagli adepti del Culto del Serpente Nero di Michael Bertiaux, da sempre pubblicamente convinto che gli Antichi di Lovecraft sono la dimostrazione che lo scrittore avrebbe avuto relazioni tenaci con i movimenti magici del suo tempo. Poi, se suona come un’ovvia battuta il ricordare che i “Profondi” stanno per definizione sotto terra, è invece statisticamente conclamato che il Wisconsin è la regione americana a più alto numero di sette, congreghe e gruppi magici in genere, tra le quali almeno una loggia simil-massonica dell’Esoteric Order of Dagon, che combina elementi desunti da Aleister Crowley ad altri di provenienza lovecraftiana. Sarà puramente casuale, ma tant’è.

Ma allora chi sono gli abitatori dei cunicoli? I veri detentori di un sapere iniziatico per il quale sono giustificate l’esistenza e la pratica delle congreghe?

Mille mitologie e altrettante metafore si affacciano dietro la storia dei Martense come attorno all’esigenza di riesumare i Profondi da parte dei gruppi esoterici che citano HPL a loro uso e consumo, convinti peraltro che lo scrittore avesse conosciuto, se non frequentato, in vita i loro antenati più o meno legittimi. Inconscio collettivo, l’inferno come spettacolo che potrebbe riemergere (e magari è già accaduto e non ce ne rendiamo conto…), la Terra Cava, il mito dei Nephilim, il mondo ctonio e il potere, appunto, “sotterraneo” delle lobby per non citare il tormentone dei vari bunker dell’Apocalisse. Un congerie nella quale è troppo rischioso perdersi, sintomo di un’archeologia della mente che identifica la sede del vero potere – vero perché occulto – nel mondo di sotto. In questa sconcertante coincidenza s’intravede però la sostanziale differenza tra HPL e i suoi presunti adepti: mentre questi ultimi vorrebbero forse (sempre d’obbligo…) ribaltare il luogo comune e fare della sotterraneità un ambiente per capirci rassicurante (perché a loro i Profondi sono congeniali…), lo scrittore in verità ha sempre ampiamente dimostrato di averne autentico terrore. Nel suo distacco dal mondo a lui contemporaneo HPL cantava, pur temendolo, l’avvento di un’Apocalisse in parte multidimensionale e in parte scaturente dal profondo, dal basso. Questo racconta al protagonista dell’immenso racconto Il richiamo di Cthulhu un adepto del culto:

«… Mi ha rivelato che adorano i Grandi Antichi, i quali vissero molti secoli prima della comparsa degli uomini, e che giunsero dal cielo ai primordi del mondo. Tali Antichi oggi sono sprofondati dentro la terra e sotto il mare, ma i loro corpi morti comunicarono i loro segreti al primo uomo, il quale fu incaricato di fondare un culto che non morisse mai. Il nostro è quel culto. Esso è sempre esistito e sempre esisterà, nascosto nelle lande lontane e nei luoghi oscuri del mondo fino al momento in cui il Grande Sacerdote Cthulhu, dalla sua casa buia nella potente città inabissata di R’lyeh, risorgerà a dominare la Terra. Un giorno Esso chiamerà, quando le stelle saranno pronte, e il culto sarà pronto a liberarlo. Nel frattempo, niente altro deve essere detto. Esiste un segreto che nemmeno la peggiore tortura sarebbe in grado di estorcere. L’umanità non è del tutto sola tra le cose coscienti della Terra; qualcosa è uscita dal buio per visitare i pochi fedeli. Ma non si tratta dei Grandi Antichi. Nessun uomo ha mai veduto gli Antichi. Il simbolo intagliato raffigurava il grande Cthulhu, ma nessuno sa se gli altri Antichi siano fatti nello stesso modo. Nessuno è in grado di decifrare la antica incisione, tuttavia le cose sono state tramandate oralmente. Il rituale cantato non era il segreto, il quale non fu mai affermato, ma solo bisbigliato. Il rituale cantato diceva quanto segue:
“Nella sua casa di R’lyeh, il defunto Cthulhu attende sognando”».

Basterebbe questo passaggio per capire come tanti occultisti di ieri e di oggi si affannano a far proprio Lovecraft. La maggior parte di quelli che ho avvicinato negli anni Novanta quando scrissi con Gian Maria Panizza un libro sui moderni riti occulti[6] non parlavano d’altro: risveglio, riemersione (da un mondo di sotto…), il sogno come comunicazione tra entità ed esseri umani, soglie e mondi infradimensionali. Satana quasi mai citato, perlopiù si preoccupavano a definire il concetto di Male.

Lovecraft era di casa.

[1]   Kenneth Grant, I Culti dell’Ombra, Astrolabio, Roma, 2005.

[2]   D. Arona, L’Antico, gli Antichi e il culto segreto http://www.carmillaonline.com/2015/04/23/… Divertito perché amo l’approccio intelligente e possibilista alla Colin Wilson. Che era uno che sapeva divertirsi anche maneggiando argomenti pesanti.

 

 

[3]          “Avevo fatto delle ricerche alla Biblioteca pubblica di New York sul crimine e gli stupri nella storia. E avevo trovato la storia di una famiglia mostruosa vissuta nella Scozia del diciassettesimo secolo, l’infame clan comandato da Sawney Bean. Costoro erano dei cannibali che vivevano in una grotta a strapiombo sull’oceano e che attiravano in imboscate i viaggiatori che passavano da quelle parti. Tutta quella zona aveva una sinistra reputazione perché la maggior parte di quelli che vi transitavano poi sparivano letteralmente dalla circolazione. Alla fine, un uomo e sua moglie furono aggrediti, e la donna catturata mentre il marito riusciva a fuggire. Costui aveva però visto i suoi aggressori e, trovati dei rinforzi, tornò sul posto dove scoprì la grotta abitata da questa famiglia di venticinque persone con delle cavità che contenevano corpi umani conservati nell’acqua di mare. La famiglia folle e selvaggia fu catturata e condotta a Londra dove tutti furono giustiziati. È a questa storia che mi sono ispirato per descrivere la famiglia de Le colline hanno gli occhi, un clan primitivo che vive in una zona desertica del Nevada dove l’esercito compie esercitazioni e forse anche strani esperimenti. Nella concezione originale, si trattava di un futuristico deserto del ventunesimo secolo, dove due famiglie di superstiti si specchiavano l’una nell’altra, il lato oscuro e il lato illuminato della famiglia americana, senza dimenticare che i cannibali sono anche una delle espressioni del terzo mondo”.

 

[4]   Brad Strickland ne Le ombre, S.K. Tremayne ne La gemella silenziosa, Jack Ketchum in Offspring e nei film Hillside Cannibals di Leigh Scott e Sawney, Flesh of Man di Ricky Wood. Ispiratissimi, poi, al clan dei Bean sono i cannibali della lunga saga di Wrong Turn, forte a oggi di sei titoli.

[5]   http://www.novostilos.it/il-potere-in-agguato/

[6]   Satana ti vuole, Corbaccio, Milano, 1995.

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Citazionismo https://www.carmillaonline.com/2017/05/02/citazionismo/ Tue, 02 May 2017 01:11:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38039 di Danilo Arona

ItArriva il momento in cui occorre affrontare certe tematiche di forma e struttura narrativa. Perché sono affascinanti, coinvolgono la dinamica e l’evoluzione dei generi e soprattutto ti riguardano come autore. Bisogna farlo perché in quel poco mondo che ancora legge qualcuno magari non capisce e altri riescono persino ad accusarti di penuria ideativa. C’è anche per fortuna chi capisce e bene, e lo ringrazio. Uno per tutti, Lorenzo Coppolino di mangialibri.com che, scrivendo su Land’s End – Il teorema della distruzione, dice così:

«… un mix di generi, citazioni e suggestioni da cui viene fuori un prodotto altamente [...]]]> di Danilo Arona

ItArriva il momento in cui occorre affrontare certe tematiche di forma e struttura narrativa. Perché sono affascinanti, coinvolgono la dinamica e l’evoluzione dei generi e soprattutto ti riguardano come autore. Bisogna farlo perché in quel poco mondo che ancora legge qualcuno magari non capisce e altri riescono persino ad accusarti di penuria ideativa. C’è anche per fortuna chi capisce e bene, e lo ringrazio. Uno per tutti, Lorenzo Coppolino di mangialibri.com che, scrivendo su Land’s End – Il teorema della distruzione, dice così:

«… un mix di generi, citazioni e suggestioni da cui viene fuori un prodotto altamente originale e coinvolgente pur nel suo essere smaccatamente e impunemente derivativo. Già mi sembra di sentire i soliti rompiscatole che gridano al plagio ma, detto tra noi, penso che trascurino l’aspetto della passione viscerale per una o più cose e il desiderio di volerle omaggiare e rielaborare con la propria qualità e con gli occhi, inarrivabili, dell’estimatore sfegatato. E qui si intravedono tantissime passioni, soprattutto cinematografiche e letterarie che vanno da David Lynch a John Carpenter, da Alfred Hitchcock a Kevin Billington, passando per Daphne Du Maurier e Bram Stoker, Henry James e Ray Bradbury. »

È perfetto e anche lusinghiero. Ma il punto è un altro: ovvero, non ci si può dimenticare che oggi il citazionismo, tanto al cinema che in letteratura, è una delle anime, forse la più importante, del genere (poi, ci starebbe bene una disamina sulla definizione del genere che al momento rimandiamo…). Perché, appunto, qualcuno, liberissimo di farlo, potrebbe urlare al plagio.

Certo, pensare che chiunque possa plagiare mostri sacri e immortali quali Carpenter o la somma Daphne e farla franca è idea di clamorosa ingenuità. La sola scelta di una location nota come Cornovaglia con il suo problematico carico avicolo e climatico è una dichiarazione di intenti che non può che suonare come omaggio, sincero e doveroso, alla regina di tutte le scogliere, la suprema Du Maurier, mai troppo celebrata e mi pare negletta senza giustizia dalle più giovani generazioni. Su quest’aspetto non dovrebbero sussistere dubbi pena la mia sospetta infermità di mente. Ma, se posso insistere ancora per poche righe sul personale, la mia narrativa è quasi tutta citazionistica, intenzionalmente, e credo che l’apice di tanta metodica sia un romanzo di qualche anno fa che s’intitola Io sono le voci (un lavoro che spero presto di restituire alla sua forma originaria), dove alcuni serial killer praticano la bella arte dell’omicidio ispirandosi a  famosi film “gialli” e non solo, ripetendo nella realtà le movenze cinematografiche di alcuni efferati delitti lì messi in scena. Faccenda, va ricordato, tutt’altro che inventata. La psichiatria classifica questi particolari assassini, diffusi soltanto in America, come Copycat Movie Killer e la sindrome che li accompagna Copycat Effect. Uno dei più clamorosi esempi di Copycat Murder è la strage di Aurora del 2012 avvenuta in concomitanza con la prima di The Dark Knight Rises

Come dire: il citazionismo, da ossessione patologica reale, diventa tema portante di un romanzo. Ma, come accennavo più sopra, il mio insignificante caso è tutt’altro che isolato. Al cinema, i più grandi maestri del thriller e del fantastico degli ultimi anni – da Carpenter a De Palma, da Craven e da Tarantino – hanno citato con consapevolezza e a piene mani da grandi autori e reciproci film del passato. La filmografia di John è esemplare al proposito: da un Distretto 13 che aggiorna e ingloba Un dollaro d’onore di Howard Hawks, transitando per Fog ossequiante La nave maledetta di Armando de Ossorio, per giungere a Il seme della follia dove lo stesso citazionismo è un lovecraftiano virus della mente, il percorso del nostro include pure preziose variazioni sul tema come Pericolo in agguato, La cosa, Fuga da Los Angeles che sono “doppi” di altri film, l’ultimo addirittura proprio, 1997 Fuga da New York.

Senza perderci nelle derive hitchockiane di De Palma o nel gioco perverso dei rimandi dei vari Scream di Craven, va da sé che il già detto, il già scritto e il già visto siano sì ammissioni autoriali sullo scarso assortimento di archetipi narrativi da sfruttare, ma soprattutto omaggi, spesso anche comode poltrone, all’interno di un genere fortemente autoreferenziale. Nei serial TV poi la tendenza addirittura si accentua; Stranger Things, gli American Horror Story, The Walking Dead, The Strain, per limitarci ai titoli più conosciuti, pescano a piene mani da un passato, lontano e/o vicino, che ha segnato l’immaginario di generazioni di autori.

Transitando in letteratura, il Re in persona non fa mistero di “citare”. Tutti i suoi Uomini Neri – peraltro Forme diverse di un’unica Cosa – sono macrocitazioni che provengono da un vissuto assimilato soprattutto sugli schermi, al cinema e in TV. Randall Flagg (L’ombra dello scorpione), Colui che Cammina Dietro i Filari (I figli del granturco), il Grande e Terribile Oz (Pet Sematary), il Babbo Traditore Jack Torrance (The Shining). Frank Dodd, il poliziotto killer seriale de La zona morta, ma è anche nello stesso libro Gregg Stillson, il mancato presidente degli USA. Rainbird ne L’incendiaria, Norman – il marito maniaco di Rose Madder nel romanzo omonimo -, lo Stark de La metà oscura, l’assassino delle due sorelline ne Il miglio verde, il “Babauone” di Desperation e l’essere misterioso fatto di buio che spia Jessie incatenata alla spalliera del letto ne Il gioco di Gerald. Si potrebbe ancora andare avanti per molte righe, ma per sintetizzare ha ragione Roberto Pugliese[1] quando scrive che lo spauracchio nei lavori del nostro si può definire come un’escrescenza fantastica coltivata nei più diversi terreni. In quest’ottica a volte si presenta persino come un meta-testo come lo sgabuzzino in cui Carrie viene rinchiusa per punizione dalla madre Donna Nera e dentro il quale il piccolo Tad Trenton (Cujo) vede “una cosa che veglia con occhi come tizzoni”.

It, autentica summa di citazioni elevata all’infinito, irrompe come Super-Spauracchio di più generazioni in una cittadina chiamata Derry. Pure lui una Cosa carpenteriana la cui Forma si ridefinisce in base alla prospettiva di visione: cangiante e multiforme, con il potere di incarnare metalinguisticamente le paure cinematografiche dell’infanzia in solitudine (la pinna dello squalo di Spielberg, l’Occhio che Cammina del film I mostri delle rocce atomiche, uno zombie, un vampiro, il Mostro della Laguna Nera, l’Uomo Lupo, la forma primordiale e sessuale del ragno), It sceglie come maschera dominante e ingannatrice quella di Pennywise, il pagliaccio, ennesimo impostore al pari del Babbo Cattivo e falso amico dei bambini. Ed è su questo livello di falsità che l’escrescenza fantastica al crocevia tra Immaginario e Mondo Reale (John Wayne Gacy) va a materiarsi in un orco solido e freudianamente perturbante.

King quindi come grande magazzino mnemonico (e magazziniere) di decadi di mostri che altro non attendono di essere richiamati nel mondo reale attraverso un Buco nella Realtà. King e ovviamente i suoi epigoni che testimoniano quanto l’horror e il fantastico siano portatori di un metalinguaggio che può apparire spregiudicato, ma che in verità riflette sull’evoluzione dei temi peculiari, non di rado modificandoli con grande intelligenza. Ad esempio, un film come It Follows di David Robert Mitchell, zeppo di citazioni quasi subliminali, lo fa con notevole intelligenza. Proprio perché il citazionismo scorre sotterraneo, per nulla esibito a tutto schermo. Ma esiste, funziona e fa paura.

[1]       . Roberto Pugliese, A uso e consumo di King, La cosa vista n° 13, Centro Universitario Cinematografico, Trieste, 1990.

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Guardarsi alle spalle (del cielo) https://www.carmillaonline.com/2017/04/11/guardarsi-alle-spalle-del-cielo/ Tue, 11 Apr 2017 01:02:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37572 di Danilo Arona

AllespalleIl mio conterraneo Angelo Marenzana è narratore di razza. Che da anni ha scelto di raccontare il lato oscuro della città in cui vive, nel bene e nel male pure lei città di razza. Per caso quella in cui vivo anch’io.

Alessandria è un contenitore perfetto per storie noir, poliziesche e persino horror. Ne ho parlato più volte e Ciò che la nebbia nasconde, oltre che titolo di una recente antologia di contributi di vecchie e nuove leve intente a declinare il grigio alessandrino, è ottimo viatico per capirne. Tornando ad Angelo, i suoi tre splendidi noir con [...]]]> di Danilo Arona

AllespalleIl mio conterraneo Angelo Marenzana è narratore di razza. Che da anni ha scelto di raccontare il lato oscuro della città in cui vive, nel bene e nel male pure lei città di razza. Per caso quella in cui vivo anch’io.

Alessandria è un contenitore perfetto per storie noir, poliziesche e persino horror. Ne ho parlato più volte e Ciò che la nebbia nasconde, oltre che titolo di una recente antologia di contributi di vecchie e nuove leve intente a declinare il grigio alessandrino, è ottimo viatico per capirne. Tornando ad Angelo, i suoi tre splendidi noir con il commissario Augusto Bendicò come protagonista (Legami di morte, Ora segnata, L’uomo dei temporali) hanno percorso quasi un quinquennio di indagini su fatti di cronaca all’apparenza “minore” consumate nel pieno, ben più criminale, del regime fascista. Ipocrisie, paranoie, doppiogiochismi, paure ancestrali e giornaliere sono la nebbia metaforica che fa da contrappunto a quella scaturente dai due fiumi attraversanti la città e che accompagnano le indagini del triste e cinico suo malgrado Bendicò, alle prese sempre con l’omertà di una provincia pavida e inquieta.

Adesso, con Alle spalle del cielo (Baldini & Castoldi), l’archetipico Bendicò cede il passo al meno conforme Lorenzo Maida, che di mestiere fa il commerciante di tessuti ma nel DNA è un investigatore chandleriano con un fiuto alla Conan Doyle. Ma non ci troviamo – e meno male – all’interno del genere classicamente inteso. Se con L’uomo dei temporali la protagonista, al di là dei crimini, era la mitologica Grey City, culla della panspermia dalla quale nacque la mia generazione, accompagnata da tutte le sue nefandezze (le squadracce, gli equilibrismi, i voltafaccia), con Alle spalle del cielo il bisturi è ancora più affilato e penetra in maggior profondità. Se là L’Uomo dei Temporali era, alla Bradbury, quel  Qualcosa di Sinistro che sta per arrivare, un fantasma della mente che come il volatore notturno Pippo tiene sveglia una città e una nazione diventando l’incubo che non fa dormire, qui il Something Wicked è un quasi intollerabile, sul piano della suspense, conteggio alla rovescia verso la finale catastrofe del primo bombardamento su Alessandria.

Siamo nel 1944, molto tempo dopo le indagini di Bendicò, dentro un respiro temporale scandito in quattro lunghi e travolgenti paragrafi, nell’Alessandria turbata dai presagi dell’imminente rovina del fascismo, da una corte dei miracoli di personaggi di inarrivabile squallore morale e dall’aria plumbea, irrespirabile, di tragedia imminente in procinto di arrivare dal cielo nella domenica dell’Ascensione (il 30 aprile). Personaggi oltre gli stereotipi:  il venditore di tessuti eroe indagatore (che è stato poliziotto e pure killer a pagamento), una medium che non è tale, carnefici e vittime dallo status sempre meno definibile man mano si procede nella lettura, industriali  corrotti e poliziotti che dovrebbero scaraventare le loro divise nelle fogne. Ma l’intrigo, per quanto ben costruito e ineccepibile focus del libro di Marenzana, è la superficie di accesso a un mondo ctonio di straordinario fascino: l’inconscio collettivo di una città. Ovvero, come nella migliore tradizione (anche se la definizione di noir va proprio stretta a questo libro), il genere nasconde altro. Un mucchio d’altro.

Se L’uomo dei temporali ci svelava le dinamiche consapevoli e sotterranee dell’inizio della guerra, Alle spalle del cielo ci fa scivolare con premeditata e diabolica cadenza dentro il collo di un imbuto e farci rovinare nei meandri di una cittadina soffocata dalla nebbia e dai danni, ideologici e reali, provocati dalla collisione fatale di coscienze e di cervelli, nefasto effetto della piovra del fascismo. Mentre Lorenzo Maida conduce la sua investigazione non ufficiale, mutuando tecniche rudi oltre i confini del lecito dal suo passato a dir poco crudele, si delinea con chirurgica precisione – quasi una fotografia color ocra in diretta dal passato – l’obiettivo primario dello scrittore: raccontarci ancora una città, Alessandria (e con lei decine di altre città), dall’anima dilaniata dalla guerra solo all’apparenza lontana, dall’angoscia e da un futuro indecifrabile. Il linguaggio diventa così presagio di inascoltata Cassandra, i pensieri bombardano, le parole sono schegge del passato, in un crescendo emotivo che mi ha personalmente riportato alla mente il sublime Giorno della locusta di Nathanael West, laddove la catastrofe finale è la catarsi universale oltre la quale, forse, poter ripartire.

Angelo ha scritto un libro magnifico, che va oltre gli stilemi del genere. Un’opera importante in grado di appagare, per meccanismi e logiche, i cultori della detection, e soprattutto gli psicanalisti mancati come me che cercano l’anima delle parole a ogni riga.

Qui l’anima abbonda, dietro dialoghi stringenti degni del miglior Chandler e squarci di un’Alessandria – non più fisica come ne L’uomo dei temporali, ma cellulare – che val la pena di riportare minimamente:

«… la nebbia saliva dal basso, creando l’effetto da girone infernale, e la città aveva assunto una dimensione impalpabile. Prigioniera, oltre la barriera dei due fiumi, il Tanaro e la Bormida, che delimitavano quel mondo come fossati a difesa dell’invasore. Un mondo dove il silenzio regna perché i rumori non hanno la forza di propagarsi e cadono a terra sconfitti…»

E più in là:

«… però in giro, tra la gente, non si respirava aria di panico. L’attesa ingannava la paura nascondendosi dietro un’affilata lama di ironia. Una risorsa pungente. Quella che spesso aveva salvato gli alessandrini nei momenti bui della storia…»

E ancora:

«… con il suo passato di poliziotto, (Maida) aveva capito che l’apparenza in provincia inganna come un velo di polvere sotto la quale cova il germoglio della verità. E ad Alessandria la polvere si chiamava nebbia…»

Flash straordinari sull’essenza di una città che forse può essere preservata solo attraverso la (buona) letteratura che la pratica, dato che la distruzione della memoria è stata per anni la scellerata attività di presunti cultori del novum palazzinaro. Ai quali abbiniamo, non solo per strappare un sorriso di complicità ma perché il constatarlo diventa funzionale alla disamina  sull’archetipo alessandrino, la profonda conoscenza dei vizi e delle virtù del femminino locale: le donne che si succedono nelle pagine (giovani, anziane, calde amanti o simulatrici medium) sono ben riconoscibili come carne nostra, frammenti di quelle “oscure madri splendenti” con cui abbiamo diviso – fino a quando almeno l’identità di Alessandria è rimasta un unicum – vita, emozioni e progetti. Un formidabile flash, l’ultimo che cito, a imprigionarne il senso e l’idea:

«… lane autarchiche, tela vaticana e scampoli di cotone per soddisfare le esigenze di eleganza delle belle donne alessandrine che non si negavano un abito di buona fattura nemmeno in un momento di guerra…». Quando da lì a poco nella domenica dell’Ascensione grappoli di bombe sarebbero caduti sulla nostra città, provocando 239 vittime.

Resistere con un sorriso cinico di sfida alle avversità, uomini e donne alle spalle del cielo:  questa è l’Alessandria che conosco, indifferente e sprezzante (anche), ma umanissima (se è il caso). Profondamente nera e fantasmatica.

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